Capitolo 10
“…Trust in me
Trust in me
Put all your trust in me
You're doin' morphine
Go on, baby!
Relax
This won't hurt you
Before I put it in
Close your eyes and count to ten
Don't cry, I won't convert you
There's no need to dismay
Close your eyes and drift away…”
(Morphine)
Nel 1995 conobbi il più grande errore della mia vita, Patrick Clifford.
Era un pezzo grosso della finanza, proprietario di una grande azienda cosmetica londinese che mi venne presentato in occasione di un ricevimento organizzato dall’etichetta discografica di Mike alla luce della campagna promozionale del suo prossimo disco.
Aveva venti anni più di me; era un tipo spigliato, sicuro di sé, sempre con la battuta pronta. Un bell’uomo, di quelli che migliorano con l’età. Mi invaghì del suo fascino maturo, della sua sicurezza, mi trasmetteva protezione. Era quel qualcosa che credevo mi servisse per colmare il vuoto che sentivo dentro.
Il mio ritorno in America fino a quel momento era stato un continuo dare, dare, dare. Una punizione che mi ero inferta per non aver saputo apprezzare al momento opportuno le cose belle che la vita mi aveva regalato, quelle cose che si chiamavano mamma e Mike. Gli sono stata accanto combattendo ogni giorno contro quella maschera che mi era stata imposta di indossare, che Mike mi aveva imposto; quella dell’amica sincera sempre pronta a dargli dei consigli che fossero quanto più possibile disinteressati, pronta ad ascoltare con il sorriso sulle labbra persino i suoi apprezzamenti maschili su qualche donna che gli interessava, quella che in mondovisione aveva dovuto assistere ad un bacio, che per quanto potesse essere stato programmato o quant’altro era sempre un bacio, e quelle labbra di certo non erano più le mie.
Mike era una parte di me, gli avrei dato tutto e gli davo tutto, ma decisi che continuare a rincorrerlo non mi sarebbe servito a niente. Mi voleva bene si, questo me lo ha sempre ripetuto, ma evidentemente non mi amava. Ormai non ero più una ragazzina, dovevo imparare ad accettare la realtà dei fatti, era ora che mi costruissi una vita mia, lontana dal ricordo di quello che eravamo stati.
Patrick Clifford sembrò essere la soluzione ai miei problemi.
Mi aggiravo curiosa in quella enorme sala per ricevimenti. C’era gente famosa, donne bellissime, manager, produttori, star della musica, della moda, del cinema. Erano anni ormai che frequentavo quell’ambiente ma non mi ci ero ancora abituata. Mi sentivo sempre inadatta, fuori luogo, ma non perché fossi insicura di me, ma perché la realtà in cui ero cresciuta era così tanto diversa da quella in cui mi trovavo. Anche se indossavo gioielli, abiti firmati, scarpe costose, dentro rimanevo sempre una ragazzetta di quartiere, e questa cosa non la rinnegavo anzi la adoravo.
Nelle pubbliche relazioni me la cavavo sufficientemente bene, ma di certo non erano il mio pezzo forte. Sono un libro aperto e se qualcuno non mi va a genio me lo si legge in faccia. Per evitare di fare danni, quella sera mi limitai ad osservare gli invitati e a passeggiare solitaria.
-Mi meraviglio che nessuno si sia accorto che una bellissima donna si aggira tutta sola stasera. È senza cavaliere madame?
Una voce profonda mi fece bloccare d’improvviso.
Un uomo alto, di bell’aspetto, sulla cinquantina. Capelli brizzolati, occhi glaciali che facevano quasi paura; era sua quella voce.
-Salve signorina, se non la disturbo mi piacerebbe scambiare qualche parola con lei, mi chiamo Patrick- aggiunse quell’uomo con un sorriso accattivante.
-Diamoci del tu…mi chiamo Susanna…sono un’amica di Michael- sorrisi.
-Piacere di conoscerti Susanna…questo nome mi sa di Italia, ma i tuoi tratti somatici mi dicono invece…
- Eh…diciamo che la storia è complessa- lo interruppi- Mia madre era italiana e mio padre per metà italiano e per metà afro-americano…
- A quanto pare il mix è riuscito alla perfezione direi…sei bellissima, complimenti.
Se solo dieci anni prima qualcuno mi avesse detto quelle stesse cose, con quel tono e con quella sfacciataggine si sarebbe preso un cazzotto in faccia, ma quell’uomo aveva qualcosa di magnetico e i suoi apprezzamenti non mi infastidivano per nulla. Mi lasciai lusingare.
Dopo circa un quarto d’ora di chiacchiere varie fummo interrotti bruscamente.
Tra la folla sbucò Mike, che senza neanche badare al fatto che stessi parlando con quell’uomo entrò nel discorso.
-Ehi Susie allora…? Dimmi un po’…che ne pensi? Come sta andando?...
Gli lanciai uno sguardo perplesso e un po’ infastidito che fece intendere il mio imbarazzo per quell’interruzione fuori luogo.
Per la prima volta quella sera mi stavo divertendo, da sola. Per la prima volta dopo tanto tempo ebbi la sensazione di essere uscita dall’ombra e di essere apprezzata; in quel momento la spavalderia e la sicurezza con cui quell’uomo mi riempiva di complimenti parvero risollevare un po’ la mia autostima, ormai da qualche anno mortificata da un amore non più corrisposto. Insomma sentivo di meritarli quegli apprezzamenti e volevo prendermeli tutti. Poi Mike intervenne, e di nuovo indossai inesorabilmente quell’ombra.
-Allora ti chiami Susie…ma perché questo nomignolo? Non si addice ad una donna elegante come te…Susanna è molto meglio non trovi?
- No…non trova. Susie è stupendo e poi vale solo per gli amici…- ribatté Mike con un tono acido e infantile che mi fece sobbalzare. Insomma, ma che diavolo di risposta era quella.
- Patrick, …ehm… non so se vi conoscete già...comunque ti presento ufficialmente Michael Jackson- dissi cercando di riparare alla sgarberia e alla cafonaggine con cui Mike gli si era rivolto senza nemmeno tendergli la mano per presentarsi.
-Eh si si lo conosco bene, insomma chi non lo conosce ormai, la sua fama lo precede- disse con tono pungente- Sono Patrick Clifford.
-… io invece non ho la più pallida idea di chi lei sia, comunque piacere …
-Converrà con me Mr. Jackson che non è il nome ad essere stupendo bensì colei che lo porta…
Patrick mi sfiorò delicatamente il dorso della mano lasciandovi simbolicamente un bacio galante.
-Si si, convengo, convengo…
Quella situazione stava diventando ridicola e pesante, dovevo fare qualcosa.
-Da oggi chiamami pure Susie, Patrick.- aggiunsi, mentre cercando di non farmi vedere tirai un pizzicotto a Mike dietro il braccio
Rimasi disgustata dalla scortesia con cui si rivolse a quell’uomo. Non si era mai comportato così con nessuno da quando lo conoscevo. Non era quello il suo modo di fare, anzi era sempre stato cordiale e gentile con chiunque. Ma che gli stava succedendo? Ero mortificata ed imbarazzata per la figuraccia pessima che mi aveva fatto fare e a quel punto decisi che bisognava mettere le cose in chiaro.
-Scusa Patrick, ti lascio un secondo. Ci vediamo dopo…
Tagliai a corto per l’urgenza che avevo di dirne quattro ad un certa persona; mi girai verso Mike e gli lanciai un’occhiata che non aveva nulla di amichevole. Lo presi per un braccio trascinandomelo lontano dove non fosse troppo evidente che una tizia sconosciuta stava facendo un cazziatone esagerato a Michael Jackson.
-Ma dico, TI SEI BEVUTO IL CERVELLO!!!??? Ti sei reso conto dell’enorme figura di merda che mi hai fatto fare con quello là?
-Ma chi col nonnetto? Dai…non dirmi che ti piace quello che non ci credo…”Susanna è stupendo, sei stupenda…” ma dai, sembra un damerino -disse ridendo mentre scimmiottava la voce di Patrick.
-Non ci trovo niente da ridere Mike. Scusami se non gironzolo tutto il tempo intorno a te, se c’è qualcuno che mi apprezza e se cerco di farmi una vita mia…
-Ehi, ehi, datti una calmata! Stavo scherzando. Fai quello che ti pare, esci con chi ti pare, sposatelo pure a me non interessa…
-No grazie, non sono come qualcuno di tua conoscenza che si sposa con il primo che trova…E comunque l’ho capito sai che ormai non ti interessa più niente…non c’è bisogno che tu me lo ribadisca…
-Ma perché mi fraintendi sempre… Non intendevo dire che non me ne frega nulla di te…Ormai sei una donna adulta e della tua vita puoi fare quello che vuoi. Questo intendevo. Ma ho capito che non è serata…. Però io ero venuto in pace…Pace?
Pronunciò quelle parole con una dolcezza ed un’innocenza senza fine. Aprì le braccia e mi sorrise. Niente guerra quella sera, non avevo armi a sufficienza per affrontare quell’esercito di abbracci, occhi profondi e sorriso infinito.
-Pace…-gli feci sbuffando, rassegnata ad accettare la mia debolezza dinanzi a lui e a tutto quello che rappresentava per la mia vita.
La sua risata rumorosa destò quel momento di tregua mentre ero ancora circondata dalle sue braccia che avevano sciolto ogni mio intento belligerante. Mi spinsi via scherzosamente da quella morsa affettuosa
-Che ti ridi ancora…stupido…
Mi smosse il naso con la schicchera di due dita.
- Quando ti innervosisci diventi una vipera…
-Appunto attento a te…- gli risposi smagliando un sorriso che dimostrava quanto poco riuscissi a tenergli il broncio.
Stavamo per tornare tra invitati, cocktail e tartine ma prima di allontanarsi, facendomi un cenno ad indicare i suoi occhi da acuto osservatore di umani, mi disse
-Susie…ti tengo d’occhio, quello non mi piace!
Con un gesto svogliato della mano gli lanciai un “ma va!” e lui sottovoce quasi mimando il labiale aggiunse-...Ah…lo so anche io che sei stupenda!...
Iniziai a frequentare Patrick, dopo qualche mese andai a vivere da lui e allora compresi realmente con chi avevo a che fare.
Nella quotidianità non era la persona che mostrava di essere in pubblico; una volta messo piede in casa sua finirono le gentilezze, le galanterie e i complimenti. Mi trattava come una sguattera ed approfittava di me in ogni senso; era violento e collerico, una bestia travestita da signore.
I sospetti di Mike erano fondati, c’aveva visto lungo.
Quell’uomo aveva sviluppato su di me un potere inimmaginabile. Era in grado di plasmarmi a suo piacimento come fossi la sua bambola, il suo giocattolo. Per l’ennesima volta venivo eclissata da una personalità ingombrante.
Mi annullò e io mi feci annullare, ero troppo vulnerabile per reagire. Mi illuse inizialmente con un barlume di considerazione, regali, esagerazioni, ma non era di quello che avevo bisogno per sentirmi viva e apprezzata. Sminuiva il mio lavoro e non venne mai ad uno spettacolo; per lui esistevano solo gli affari, il resto era pura nullità. Io ero quel resto.
Mi stavo spegnendo lentamente, ma il bisogno di avere qualcuno accanto e forse anche l’infantile desiderio di ripicca nei confronti di Mike mi spingevano ad andare avanti.
Lui non approvò mai la nostra relazione e l’ostilità accesa che manifestava nei confronti di Patrick mi rendeva confusa. Inizialmente non comprendevo il perché del suo atteggiamento e prima di imparare a conoscere Patrick per quello che era veramente, lo considerai come una sua presa di posizione, come un tentativo di sabotare i miei sofferti sforzi di vivere un’altra relazione, come un capriccio. Del resto avevo tutto il diritto di ricominciare con un altro uomo vista la sua telenovela sentimentale di quel periodo. Aveva rifiutato ciò che avevamo costruito insieme e allora non poteva pretendere che io rimanessi per sempre la sua dama di compagnia e consulente di vita.
Ma dietro quei residui di orgoglio giovanile risiedeva sempre sommessa ma insistente la speranza che stesse facendo tutto quello solo per amore.
Discussi spesso con lui in quel periodo nel tentativo di strappare dalla sua bocca e dal suo cuore quelle parole che avrei voluto sentire, e che sarebbero bastate a cancellare tutti i dispiaceri e a ricominciare da dove avevamo lasciato. Ma perché si preoccupava della mia vita, delle mie amicizie, si interessava a quello che facevo, a come stava la mia famiglia?
-Solo per affetto… ma anche perché mi sento responsabile delle tue mancanze come figlia quando tua madre si ammalò. E’ colpa mia se quando stava male eri lontana da casa; è colpa del mio lavoro e del fatto che ti ho coinvolta in tutto questo…Se non mi avessi mai conosciuto forse avresti sofferto di meno e per molte meno cose…-mi disse una volta, in una delle nostre lunghe chiacchierate notturne. Quella risposta fu come sale sulle ferite.
Avrei potuto odiarlo, detestarlo o quanto meno allontanarlo definitivamente dalla mia vita. Sarebbe potuto essere un comodo capro espiatorio su cui scaricare tutte le frustrazioni e le colpe che mi perseguitavano in quegli anni.
Era sua la colpa se non ero stata vicina a mia madre.
Era solo sua la colpa se la nostra storia era finita.
Era lui che non andava bene.
Ma poi, passati i momenti di delirio persecutorio, comprendevo la realtà dei fatti ed imparavo ad accettare che per la morte di una madre si soffre sempre e comunque e che se non avessi mai incontrato Mike…beh non sarei diventata la persona che sono oggi.
La dedizione con cui mi stette accanto negli anni che seguirono mi aiutò a capire che per quanto lunatico, imprevedibile, difficile, e destabilizzante quell’uomo potesse essere, era lui il mio angelo custode.
Patrick beveva. E quando beveva picchiava, picchiava duro. Non dimenticherò mai l’umiliazione che provavo dopo ogni schiaffo, la paura di denunciarlo e di morirci sotto quelle botte.
Mike ovviamente fu il primo ad accorgersene.
Aveva assistito ad un mio litigio con Patrick ed era rimasto sconcertato dalla violenza verbale e fisica con cui si scagliava contro di me; dovette far intervenire due sue guardie del corpo per togliermelo di dosso. Da allora mi chiese espressamente di evitare che lo incontrasse a casa mia. Odiava quell’uomo e non accettava che mi trattasse in quel modo, lui che quando stavamo insieme non si era mai nemmeno lontanamente azzardato a mettermi una mano addosso.
Una mattina eravamo in sala prove. Avevo un occhio nero e per nasconderlo tenni su gli occhiali scuri tutto il tempo.
Mike adorava gli occhiali, ne aveva centinaia di modelli diversi. Quella mattina ne portavo un paio uguale agli ultimi che aveva comprato.
-Ma che fai, adesso mi copi?...-mi disse ridendo- fammi vedere un po’ come mi stanno, quasi non me lo ricordo più. Quelli che ho preso io hanno ancora l’etichetta, non li ho mai messi.
Si avvicinò e mentre stava per sfilarmeli dagli occhi gli bloccai i polsi con una stretta violenta.
-Ohi…- mi guardò aggrottando le sopracciglia- …guarda che non me li rubo mica…Nervosetta oggi?
Me li tolse comunque. Anzi glielo feci fare, avevo bisogno che vedesse, che sapesse. Avevo bisogno di aiuto.
-Susie ma che hai fatto?- sbarrò gli occhi-…anzi non lo voglio nemmeno sentire…perché già lo so che è stato lui…Ne ho abbastanza, io chiamo la polizia…
Era partito in quarta. Avevo paura. Cercai di fermarlo.
-Mike ti prego, lascia stare…non…
-Lascia stare!!!???...ma tu sei fuori…Ma che intenzioni hai Susie? Eh? Fammi capire? Ti vuoi fare ammazzare?...Ma dove è andata a finire quella ragazza intraprendente, piena di sogni, che si faceva rispettare? Quella con quel caratterino bello tosto che non aveva peli sulla lingua? Quella che quando aveva vent’anni prese l’iniziativa più bella e che con il sorriso sulle labbra era pronta ad affrontare ogni avventura, anche se questo significava seguire un lunatico come me intorno al mondo. Quella ragazza non la vedo più Susie; quel bastardo me la sta portando via e dal momento che lei è una delle cose più preziose che la vita mi abbia regalato, non glielo posso permettere.
Scoppiai in lacrime, le più amare, le più dolorose. Non potevo, non potevo lasciarlo fare, anche se era per il mio bene.
-Mike ti scongiuro…no…
-Ma perché dannazione!!!!- mi urlò in faccia con una irruenza che non conoscevo
-…non adesso…non in questo momento…Non per i prossimi nove mesi…
Capitolo 11
“You are not alone
I am here with you
Though we're far apart
You're always in my heart
You are not alone
All alone
Why, alone
Just the other night
I thought I heard you cry
Asking me to come
And hold you in my arms
I can hear your prayers
Your burdens I will bear
But first I need your hand
Then forever can begin…”
(You Are Not Alone)
Lessi da qualche parte che non appena una donna scopre la propria gravidanza, inconsciamente si ritira in uno stato di sana e amorevole follia. I suoi interessi, i suoi bisogni, il mondo circostante, tutto si annulla ed ogni minima energia viene investita sulla creatura che porta in grembo.
Anche io mi ammalai della follia amorosa delle madri.
Quel concepimento fuori ogni programma e fuori ogni mia più lontana intenzione si trasformò, non appena ne venni a conoscenza, nel più bello dei regali di Dio. Dentro me non solo sentivo crescere un corpicino indifeso, ma soprattutto cresceva a dismisura il desiderio di volerlo davvero quel tenero scricciolo di umano che avrei messo al mondo, il mio scricciolo.
Sentivo già forte il calore di quel cucciolo dalla pelle morbida e paffuta che si accoccolava al mio seno, fantasticavo i lineamenti del suo volto ma i geni della mia immaginazione non corrispondevano a quelli che in realtà avrebbero determinato i tratti somatici e il colore della pelle del bambino che sarebbe nato. Quello della mia fantasia non era il figlio di Patrick, ma il figlio dell’uomo che mi avrebbe davvero resa felice.
Nonostante tutto, quella gravidanza non fu il frutto di una violenza ma di uno dei pochissimi momenti in cui Patrick vestiva i panni di un uomo togliendosi di dosso quelli della bestia.
Quella sera rincasò prima del previsto.
-Susanna stasera si festeggia!!!…- disse non appena spalancò la porta
Rimasi sorpresa dal sorriso che mi rivolse, non sempre mi rendeva partecipe del suo buon umore; del malumore ero invece sempre il bersaglio e la protagonista indiscussa. Pensai che si fosse ricordato del nostro mesiversario, una ricorrenza stupida forse ma che mi faceva piacere ricordare insieme a lui quando il livello etilico nel suo sangue glielo consentiva; era uno dei miei tentativi disperati di rendere quella relazione un po’ meno amara e un po’ più vivibile.
-…Dai che bello te ne sei ricordato stavolta…- gli risposi accogliendolo con un abbraccio affettuoso
-…Oh…ehm…veramenteee…io…No…non mi dire che è il tuo compleanno e che me ne sono dimenticato...- aggiunse portandosi una mano alla testa
L’espressione delusa e un po’ mortificata del mio viso lasciava trasparire tutti i segni di quell’ingenuo fraintendimento che non mi soffermai a chiarire. Se gli avessi detto che quello era il giorno del nostro mesiversario mi avrebbe riso in faccia facendomi sentire una mocciosa stupida.
-…No Patrick…niente compleanno…
-…Eh va bè dai, che sarà mai…oggi c’è comunque da festeggiare. Ho concluso un affarone da milioni di dollari!
Era straripante di felicità.
-Indossa l’abito che ti rende più bella e ti porto a cena in un posto carino…Anzi, indossa pure un abito qualsiasi tanto sei bella sempre…
A quella frase seguì una leggera carezza che percorse il profilo della mia spalla spostandomi lontano i capelli che la coprivano come un piccolo mantello.
Assaporai quell’invito come un bicchiere d’acqua fresca in una giornata afosa; in quel momento mi parve di rileggere nei suoi occhi glaciali la freschezza delle lusinghe che mi riservò con tanta galanteria la sera che ci conoscemmo. Le sue piccole e rare attenzioni mi facevano dimenticare per un momento l’uomo che era in realtà, facendomi vivere solo la maschera di gentleman che indossava pubblicamente. Non scavavo mai sotto la superficie perché lì sapevo di trovare un marcio doloroso, ma troppo spesso era quel marcio a riemergere prepotentemente distruggendo tutto il mondo di illusioni che mi ero costruita a fatica. In un momento era capace di trasformarmi nella più bella delle principesse, e un secondo dopo farmi sentire la più inutile delle donne con la sua sola indifferenza talvolta più violenta degli schiaffi.
Mi nutrivo dell’apparenza, della finzione, perché da quelle riuscivo a cogliere l’essenziale di cui avevo bisogno: l’attenzione, la cura, l’apprezzamento, la protezione di un uomo che mi volesse bene, un uomo su cui avevo proiettato inconsapevolmente l’affetto che nonostante tutto provavo come destino naturale nei confronti di quel padre fuggitivo che ricordavo appena. Patrick era per me quel padre rifiutante a cui sentivo di essere legata comunque.
Quella sera era raggiante, soddisfatto, appagato e partecipai a quella sua felicità emotivamente e fisicamente nella notte in cui venne concepito quel bambino.
Si, ero incinta, ma dell’uomo più sbagliato che mi potesse capitare.
Prima di comunicargli la notizia volli essere certa che quello non fosse uno dei soliti ritardi dovuto al mio particolarissimo orologio biologico, ma i test e le analisi ebbero un unico esito: positivo!
Positivo? Ma per chi? Evidentemente non per lui.
Quell’annuncio venne accolto con una freddezza senza pari mista a fastidio. Aveva già due figli grandi con la precedente compagna da cui aveva da poco divorziato e il pensiero di un altro moccioso tra i piedi di certo non lo faceva saltare di gioia, queste furono le sue testuali parole. Aggiunse inoltre che se proprio ci tenevo potevo tenerlo, non avrebbe voluto averlo sulla coscienza, già aveva troppi problemi. Il suo era un lavoro di responsabilità, in cui ci rimetteva quotidianamente la reputazione e i soldi, ma erano questi ultimi ad avere la priorità assoluta, anche e soprattutto su di me.
Questo fu il benvenuto alla mia maternità da parte dell’uomo con cui per caso avevo concepito un figlio; le cose andarono ben diversamente quando pronunciai le fatidiche parole “aspetto un bambino” all’uomo con cui quel figlio lo avrei concepito per amore.
Ero imbarazzata ed afflitta perché non mi andava di parlare a Mike della mia gravidanza in un momento come quello, mentre sul mio viso portavo ancora i segni della violenza domestica che ero costretta a subire e sul suo leggevo quelli della rabbia, dell’insensatezza, del dolore e della voglia di fare qualcosa per aiutarmi. La sua voce divenne dura e graffiata da una irruenza e una decisione che non credevo gli appartenesse e che mi fece trasalire. Ma ormai non potevo continuare a nascondere la vita che mi cresceva dentro, doveva sapere.
Il linguaggio non verbale è un prodigio della comunicazione umana, alle volte può essere il veicolo più diretto al cuore meglio ancora della parola proferita, e così dinanzi allo svelamento di quella verità il volto di Mike si fece teatro delle emozioni più varie che si impossessarono della mimica del suo viso. Le ali dello sguardo distesero il solco interrogativo e corrucciato che in un moto di rabbia gli aveva segnato la fronte, aprendosi nel volo di un sorriso infinito di occhi e di labbra.. Mi strinse forte a sé in un contatto che eloquentemente mi dimostrava quanto mi fosse vicino in quel momento, nell’anima e nel corpo. Mi sollevò letteralmente da terra facendomi volteggiare in quella sala come in un giro di valzer e in quel breve momento, mentre aggrappata al suo collo come ad una boa di salvataggio mi lasciavo trasportare in quell’abbraccio centrifugo, chiusi gli occhi ed una dolce fantasia mi rigò il viso in un rivolo di lacrima…Era quella la felicità di un papà.
Concluse quella danza prendendomi il viso tra le mani, e con una coccola protettiva e fraterna mi accarezzò i capelli
-… La mia piccola Susie…-disse felice ed incredulo scuotendo la testa-…e pensare che quando ti conobbi eri poco più che una ragazzina…e adesso tra queste mani ho il volto di una donna che sta per diventare mamma…Non vedo l’ora Susie, non vedo l’ora che il tuo bambino nasca…
Nessuna diga di razionalità avrebbe potuto contenere la piena di quel fiume di lacrime ed emozioni, ogni battito delle mi palpebre si fece pianto di gioia.
Mi stropicciò le guance di baci rumorosi e poi con la sua solita premura e quel pizzico di ingenuità che lo contraddistingueva si fermò
-…oddio ma oggi ti sei stancata troppo però…mica ti senti male?...non so…hai la nausea?...le doglie…?
Mi tasto la fronte e la pancia alla ricerca di qualche sintomo.
-Le doglie???- gli risposi sorridendo- Mike sono incinta solo da due mesi, non sto mica per partorire?
Scoppiai a ridere mentre lui buffamente si tappò la bocca come per evitare che ne uscisse fuori qualche altra cavolata divertente.
-…Ah giusto…le voglie, le voglie intendevo…
Lungo quei primi cinque mesi di gravidanza mi stette vicino con l’affetto che solo un padre, un marito, un fidanzato, un fratello ti sanno trasmettere. In quel momento era tutte queste cose insieme.
Il giorno della prima ecografia, ovviamente, fu lui ad accompagnarmi. Patrick mi disse che aveva da fare e che alla fine era una sciocchezza che non necessitava di “assistenza”. Assistenza, così intendeva lui stare accanto alla propria compagna in un momento così importante per vedere anche solo un puntino di quello che sarebbe stato il figlio che avevano concepito insieme.
Per fare quella ecografia la clinica venne messa letteralmente sotto sequestro, per evitare paparazzate e titoli di giornale grandi come case che urlavano MICHAEL JACKSON: SPOSATO MA FA UN FIGLIO CON UN’ALTRA!!!!
Mentre ero sul lettino mi stringeva la mano fortissimo; era agitato e paradossalmente io cercavo di tranquillizzare lui.
Non appena sul monitor comparve l’immagine di quel minuscolo esserino, Mike scoppiò in lacrime; in quel momento più che mai avrei desiderato che quel figlio fosse stato suo.
Continuai a lavorare intensamente fino al terzo mese aiutando Mike nelle coreografie del tour che avrebbe segnato il suo grande ritorno sulle scene dopo le accuse infamanti di pedofilia, che nel 1993 lo gettarono nel baratro della disperazione, della vergogna e della sfiducia nella bontà degli uomini. Rialzarsi dopo quella mazzata non fu un’impresa semplice e il dolore di quella caduta aimè non lo lascio libero di vivere per molto molto tempo ancora, ma adesso si preparava a riconquistare quello che l’infamia della gente sperava di sottrargli, la stima e l’affetto di coloro che amano la sua musica con un tour “storico” nel vero senso della parola.
Ma al terzo mese nausea e continui mancamenti mi convinsero a staccare la spina per qualche settimana e così mi presi un periodo di riposo.
Una mattina bussarono alla mia porta. Da un camioncino con su la scritta dei grandi magazzini scesero due fattorini con in mano una serie di scatoloni.
-Salve, chi desidera?- chiesi una volta aperta la porta
-Ehm…cerco la signorina…ehm…Susie- mi rispose uno dei due tizi seminascosto dietro lo scatolo che portava in braccio. Riconobbi quella voce all’istante.
-Mike?...ma sei tu?- domandai titubante
-Perché si vede tanto?- rispose il “fattorino” con aria preoccupata
Era lui in uno dei suoi famigerati travestimenti, le uniche alternative che aveva per andare in giro passando inosservato. Era agghindato in maniera impeccabile, la tuta e il berretto erano da manuale, ma quella voce lo tradì, lo avrei riconosciuto anche se avesse parlato come Paperino.
Lo feci subito entrare in casa per timore che qualcuno del vicinato si potesse accorgere della sua presenza, ma prima volle assicurarsi che “quello”, come chiamava Patrick, non fosse in casa perché non aveva piacere ad incontrarlo.
L’altro ragazzo che lo accompagnava provvide a scaricare una decina di pacchi ed aspettò fuori.
-Mike, non mi dire che tutta sta roba è per me?
-Ehm…spiacente, ma non è per te…- mi rispose sorridendo
-Ah…ecco…
-E’ per il mio nipotino che dorme nella tua pancia! Sono o non sono lo zio Mike?
-Certo che lo sei…- gli gettai le braccia al collo stringendolo forte.
Quanto era importante per me quell’uomo? Non avrei avuto parole a sufficienza per esprimere nemmeno la millesima parte del bene immenso che provavo per lui.
Iniziai ad aprire gli scatoloni. Culla, carrozzina, seggiolino per auto, girello, tutine di tutti i tipi e giocattoli a volontà. Ed ero solo al terzo mese.
-Mike ma è un mare di roba! Ma perché ti prendi tutto questo fastidio? Come se poi tu di cose da fare non ne avessi già abbastanza…
-Ma smettila…mi offendi se dici così. Io sono troppo felice, devo pur manifestare questa gioia in qualche modo no?
Aveva gli occhi che gli brillavano. Era tanto che non lo vedevo così. Come è strana la vita, un uomo che fino ad allora non aveva figli li desiderava tanto, e uno che stava per averlo non se ne fregava un cavolo.
-Mike…comunque colgo l’occasione per dirti una cosa importante…
- Dimmi tutto…- rispose senza staccare gli occhi dall’opera di costruzione che gli teneva le mani occupate nel tentativo di assemblare i pezzi di una culla
-Volevo comunicarti che ho deciso quale sarà il nome del mio bambino…
Mollò tutto d’improvviso con l’entusiasmo volubile di un ragazzino a cui si propone un gioco più allettante.
-No no aspetta, non me lo dire…Te ne voglio proporre qualcuno io. Allora…Terence, che ne dici?
-Mhmhmh…nooo
-…Eduard?
-…nooo
-Jason?
-Nooo…
-Gregorio?...E’ italiano come te...che dici? è bello no?
-Mike…ma è terribile Gregorio…- dissi con una smorfia divertita di disapprovazione.
Era un genio dalle mille idee, ma in quanto a nomi stava messo maluccio…
- Ah ecco…ho trovato…senti questo…è una bomba!
- Spara…!- gli dissi, pronta ad accogliere la sua prossima proposta assurda. Volevo divertirmi ancora un po’ a vederlo affannarsi in quella ricerca prima di svelargli il semplice nome che avrei scelto io.
-“Muffin”!!!
-Muffin?- lo guardai perplessa- ma come il dolce?
-Siiii!!!-rispose lui contentissimo
-Ma daaaaiiii…non posso chiamare mio figlio come un dolce…
-Ma perché no? Rifletti, il nome è perfetto. Io già me lo immagino questo bimbo, bello tondo, paffutello, con la carnagione mulatta come la tua, con un sorrisone dolce dolce e con quell’odore buono che solo i bimbi hanno. Tondo, dolce e buono proprio come un muffin!
Quasi mi dispiacque dirgli che in realtà avevo in mente una cosa completamente diversa, era così contento di quel “Muffin” e mi faceva tenerezza dirgli che nella scelta dei nomi aveva un gusto opinabile. Ma ciò che gli proposi io lo fece saltare di gioia.
-Io invece avevo pensato a qualcosa di diverso, però sai…la persona a cui appartiene questo nome non mi convince… E’ un tipo con caratterino un po’ particolare, che fa sempre scherzi, che ha la brutta abitudine di masticare la gomma a bocca aperta e che spesso arriva tardi agli appuntamenti…Però…però vorrei che mio figlio fosse come lui, speciale, sensibile, generoso, complesso, altruista, geniale, divertente, fuori dagli schemi e dalle congetture della gente, con l’anima pulita come quella di questa persona fantastica e che risplende al di là di ogni suo difetto. Una persona che ha saputo regalarmi l’amore in tutte le sue complesse sembianze, quella della passione, dell’amicizia, dell’affetto fraterno e del calore familiare. Mio figlio sarà per me il completamento di un tutto e non potrà che portare il nome di una persona che a quel tutto ha dato inizio…e che in questo momento…è seduto di fronte a me…
Di nuovo l’emozione divenne ladra di parole e generosa di espressioni; con gli occhi lucidi di pianto mi venne incontro e mi strinse forte a se.
-La vuoi smettere di farmi commuovere…
-Vorrei che il mio bambino si chiamasse Michael...
-Grazie Susie…grazie, grazie, grazie… Ma “quello” è d’accordo? Lo sai che non gli sto tanto simpatico…
-Ehm… veramente ancora non glielo ho detto…Comunque nel caso in cui faccia storie ho già in mente una alternativa. Al massimo il bimbo lo chiamo Michele, il tuo nome in italiano. Mi invento la scusa che è il nome di un mio zio speciale e il gioco è fatto, del resto per questo bimbo tu sarai senz’altro uno zio speciale…e poi…lo chiamerò comunque sempre Mike come faccio con te…
Un nome…almeno qualcosa di lui sarebbe rimasto con me in eterno, qualcosa di lui mi stava crescendo dentro nonostante tutto. Sentivo che quel bambino doveva nascere perché qui fuori, oltre a me, c’era qualcun altro pronto ad amarlo oltre ogni legame di sangue.
Squillò il telefono.
Patrick che stava per tornare dall’ufficio per pranzare a casa e voleva trovare sul tavolo il pollo fritto. Il solo pensiero di dover cucinare in quel momento mi fece di nuovo salire la nausea.
-Mike, sta arrivando Patrick…
-Ah…allora vado, voglio evitare brutti incontri. Questa giornata è iniziata bene e non voglio guastarmela…
Prima di andare mi sbaciucchiò un po’ la pancia, come faceva sempre da quando seppe che ero incinta
-Ciao Muffin…zio Mike se ne va…Non mi strapazzare troppo la mamma…
Mi fece un occhiolino e la porta si chiuse alle sue spalle.
Chissà come sarebbe stato il mio piccolo Michael, di che colore avrebbe avuto gli occhi, quale sarebbe stata la sua prima parola, come sarebbe stato il suo primo giorno di scuola o il primo batticuore. Avrebbe avuto tanti amici che gli volevano bene e tante ragazzine che lo corteggiavano; forse avrebbe amato dipingere come mia madre o suonare come mio padre. Sarebbe diventato un uomo in carriera o forse un artista strampalato, uno di quelli che sta avanti anni luce mentre il mondo rimane legato alle catene delle convenzioni sociali. Si sarebbe sposato con una donna che forse mi somigliava, avrebbe avuto dei bambini, sarei diventata nonna…
No, niente di tutto questo.
La violenza di un paio di mai mi impedì anche di diventare madre, le mani di un uomo che di lì a poco sarebbe diventato di nuovo papà
Quella sera rincasai tardissimo. Alle volte rimanevo da Mike a dormire, soprattutto quando Patrick era fuori per lavoro e non mi andava di rimanere da sola in casa in particolare da quando ero in attesa. A casa sua mi sentivo a mio agio; avevo la mia stanza, il mio spazzolino, il mio pigiama rosso a righe…anzi a dire il vero il suo pigiama rosso a righe, ma ormai me ne ero impossessata.
Quella sera tra una chiacchiera e l’altra si fecero le undici.
-Cavolo Mike…è tardissimo…meglio che torni a casa altrimenti chi lo sente quello. Non gli ho lasciato nemmeno niente per cena…
Mi rispose con la sua solita espressione, quell’espressione infastidita e allo stesso tempo preoccupata che faceva ogni volta che parlavo di Patrick.
-Perché non rimani ancora un po’?- chiese
-Lo sai, dipendesse da me…ma vorrei evitare…
-Si si hai ragione, scusa. Allora ti accompagno io a casa…- mi disse con il suo tono premuroso
-Lascia stare, ho la macchina…
Mi seguì fino alla porta.
-Guarda che conosco l’uscita…- sorrisi
Aveva degli occhi strani. Cercò di trattenermi il più possibile con discorsi buttati lì a caso. Voleva che rimanessi.
-Mike che hai?
-No niente…ho una strana sensazione…non so…
- Ma ti senti male?
-No no, sto benone. Volevo solo dirti che io sono qua…quando vuoi…Per te ci sono sempre Susie, ok?
-Lo so, lo so- risposi accarezzandogli il viso.
Stavo per uscire quando lui mi trattenne con la mano.
-Ma tu mi vuoi bene sempre Susie? Anche se noi…insomma…noi non siamo più…non facciamo più quelle cose che…
Quando parlava così sembrava un ragazzino impacciato alle prime armi.
- Che intendi dire, non capisco…
- …Insomma quelle cose che fanno due innamorati. Noi abbiamo…quando eravamo più giovani…abbiamo fatto l’amore e tutto il resto…siamo stati insieme, ci siamo amati intendo…Però anche se adesso non siamo più quelli di prima io ti voglio sempre bene Susie…
-Anche io te ne voglio…
Mi diede un bacio sulla fronte e mi avviai verso la macchina.
-Aspetto fino a quando non esci dal cancello…
Faceva sempre così; rimaneva sulla soglia fin quando il cancello automatico non si chiudeva. Ma quella volta lo fece con sofferenza, quasi straziato.
Gli feci un ciao con la mano e andai.
***
-Ma dove cavolo ti eri cacciata, brutta imbecille!!!
Il solito buonasera di Patrick non si era fatto attendere nemmeno quella volta. Non appena entrai in casa mi si avventò contro come una furia. Era ubriaco fradicio e chi sa cos’altro si era fatto, sentivo la sua puzza dalle scale.
-Invece di stare a perder tempo da quel depresso del tuo amichetto, potresti anche degnarti di prepararmi qualcosa da mangiare visto che torno la sera stanco morto e stressato dal lavoro. Io che lavoro…-mi fece con voce impastata.
A stento si capiva quello che diceva, ma i suoi discorsi li conoscevo a memoria ormai. Sosteneva che io in casa fossi inutile, che quello che si spaccava la schiena a lavoro era lui, che andavo in giro a fare la poco di buono con l’amichetto famoso. Ballare…e che era un mestiere?...
In silenzio incassavo, incassavo, incassavo.
La voce di Mike in un orecchio…denuncialo, denuncialo…
La voce di mia madre nell’altro…non rinunciare mai a te stessa…
-Bastaaaaaaaaa!!!- urlai in lacrime sbattendo per l’aria tutto ciò che avevo davanti- non ne posso più di te, del modo in cui mi tratti, delle tue botte…
Nemmeno il tempo di completare la frase che me ne diede un assaggio.
Mi strattonò tirandomi su per in collo della maglietta e mi strappò via la catenina che portavo al collo , quel regalo che Mike mi fece nel lontano ’88 e con da allora praticamente non tolsi quasi mai. Spezzò via il filo d’oro a cui era legato quel cuore per me tanto prezioso, talvolta più prezioso di quello vero che mi pulsava dentro. Mi colpì con un pugno in pieno viso che mi fece sobbalzare all’indietro per due metri. Caddi pesantemente con il fianco sullo spigolo del tavolo.
Urlai di dolore e mi accasciai a terra sotto gli occhi di quell’animale offuscati da fumi dell’alcool.
Mi trascinai sul pavimento fino al bagno e mi chiusi dentro, avevo paura che ritornasse con altre botte.
Ebbi la lucidità di prendere il telefono.
Ero in un lago di sangue.
Chiamai Mike e gli raccontai quello che era successo, tra lacrime, urla e spasmi di dolore…
Dopo dieci minuti era arrivato a casa mia mobilitando ambulanza e polizia.
Da quel giorno Patrick fu messo dentro e io per alcuni mesi andai a vivere da Mike.
Il mio angelo era venuto a salvarmi.
Capitolo 12
“…It was all for God's sake
For her singing the tune,
For someone to feel her despair.
To be damned to know hoping is dead and you're doomed
Then to scream out
And nobody's there...
She knew no one cared...
Father left home, poor mother died
Leaving Susie alone…
Neglection can kill
Like a knife in your soul,
Oh it will
Little Susie fought so hard to live...
She lie there so tenderly
Fashioned so slenderly
Lift her with care,
So young and so fair.”
(Little Susie)
Un respiro di parole da liberare dopo una apnea di silenzi mortificati, un letto caldo che sciolga la disperazione che ti gela dentro, una risata saporita quando senti di aver perso il gusto della felicità, un affetto incondizionato da stingere al petto quando hai bisogno che qualcuno sostenga il battito del tuo dolore. Mi accudì come fossi la sua bambina, lui, il mio tutto, il mio essenziale, ancora una volta aveva la mia vita accoccolata tra le sue mani grandi.
Come è varia la natura degli uomini…
Uno mi aveva strappato il bene più prezioso che Dio possa regalare ad una donna, diventare madre, ed un altro aveva saputo regalarmi la forza di sopravvivere a quella sofferenza; da genitrice mi trasformai in nascitura e in quel momento ebbe inizio il travaglio e il parto della mia seconda vita.
Quelli che seguirono furono per me anni di intensa sofferenza fisica e psicologica.
L’aborto comportò una serie di complicazioni, interventi, visite continue; Mike si interessò di tutto e fece in modo che potessi essere curata dai migliori medici del mondo, gliene sarò grata per sempre, ma purtroppo nulla si poté fare.
Era con me in clinica quando il ginecologo che mi aveva operata mi disse quella frase, quella frase che per mesi ed anni ha tormentato le mie notti insonni.
-Signorina De Matteo, mi dispiace davvero tanto, ma abbiamo fatto il possibile. L’intervento è stato molto complesso e difficoltoso ma purtroppo i nostri tentativi sono stati vani. Non potrà più avere figli…
I miei occhi non furono sufficienti a piangere l’immensità di quello strazio, e Michael non sottrasse i suoi all’esplosione del mio dolore.
Durante la convalescenza post-operatoria venne a trovarmi in clinica quasi ogni giorno prima di riportarmi a casa. Ogni sua visita dava sollievo ad ogni spasmo sia fisico che mentale.
-Mr. Jackson è lei la vera medicina di questa ragazza…- disse il primario durante una visita di controllo in presenza di Mike.
Si, era lui la mia medicina, era il mio analgesico, il mio calmante, il vaccino protettivo contro lo schifo del mondo che stava fuori, era l’unica cosa di cui avessi veramente bisogno.
Uno di quei giorni mi ero allontanata per fare degli accertamenti al piano inferiore rispetto a quello in cui si trovava il mio reparto; mentre l’infermiera mi riaccompagnava in camera sulla sedia a rotelle, nel corridoio ebbi la sensazione di avvertire il suo profumo intenso, leggermente speziato e molto gradevole.
Entrai nella stanza e la trovai piena zeppa di palloncini ad elio a forma di cuore che pendevano dal soffitto, con su scritto MIKE TI VUOLE BENE!!!. Sul letto c’era poggiato un bellissimo mazzo di gerbere, i miei fiori preferiti, con un bigliettino che diceva:
“Starò via un paio di giorni per lavoro per questo non potrò passare a trovarti, ma ti prometto che non appena i fiori appassiranno e i palloncini cadranno dal soffitto, sarò lì pronto per riportarti a casa. Ti voglio bene “Little Susie”. Con amore, Michael.”
Come promesso, mi venne a prendere il giorno in cui fui dimessa dalla clinica. Mi sarei fermata da lui il tempo necessario per riprendermi e trovare una nuova sistemazione. Lasciai la casa di Patrick e vendetti il mio vecchio appartamento, volevo azzerare tutto, dovevo ricominciare.
Quando arrivammo nella sua tenuta mi aiutò a scendere dalla macchina e non appena poggiai un piede a terra mi ritrovai sollevata dalle sue braccia, sottili ma dalla presa sicura.
-Mike…Grazie ma ce la faccio a camminare…le gambe dovrebbero essere ancora al loro posto…- gli dissi sorridente e sorpresa da quel gesto inaspettato.
-Niente da fare, mi dispiace! Anche il dottore lo ha detto…Io sono la tua medicina…per cui ho il compito di farti guarire e di evitare che ti strapazzi-
Aveva preso proprio alla lettera le parole del primario.
-Mike ma c’è tua moglie!…Dai…lo sai come stanno le cose tra me e lei, e lo sai che non ci becchiamo proprio…non mi far fare discussioni, non ho le forze di schiaffeggiarla oggi, magari poi provvedo nei prossimi giorni…!
Ero infastidita dal solo pensiero di dover convivere con lei sotto lo stesso tetto per più dei miei dieci secondi di autonomia, superato quel tempo limite la sua presenza diventava urticante, ma non mi andava di lamentarmi dato che Mike si era già reso fin troppo disponibile in quel periodo ed io non avevo scelta. Lui era l’unica persona di cui potessi fidarmi e che volevo avere accanto in quel momento.
Scoppiò in una grassa risata.
-Ah…ma allora non stai poi così male, brutta imbrogliona!...Eccola qua…è tornato il mio manesco scaricatore di porto…Comunque stai tranquilla lei non è in casa e non credo proprio che ci vedremo in questo periodo, le cose vanno un po’ così diciamo…tranquilla…
Anche per lui quello era un periodo particolarmente intenso, il disco nuovo stava per uscire, era alle prese con i preparativi del tour e quotidianamente doveva vedersela con gli strascichi di quelle accuse che dal 1993 pendevano sulla sua testa come una spada di Damocle, il tutto mentre il suo matrimonio, come avevo previsto un millennio prima, era instabile peggio di un funambolo alle prime armi, ma non per questo si risparmiò di aiutarmi.
***
Giugno del 1995.
Uscì il suo nuovo disco, l’ esplosivo ritorno dopo le accuse infamanti che gli erano state rivolte. Era ancora nel fiore degli anni e nelle vene gli ribolliva impetuoso quel sangue che si chiama spettacolo, niente poteva fermare la furia del suo genio.
Come da rito comprai subito il cd, odiavo farmelo regalare da lui, e come da rito sulla copertina attendevo dedica ed autografo.
Arrivata a casa dopo l’acquisto mi precipita da Mike.
Bussai alla porta del suo studio nel mio modo riconoscibile, quel “tattaratatta-tattà” che le mie nocche non potevano fare a meno di musicare dinanzi ad un uscio chiuso.
-Entra Susie…
Quella bussata non necessitava di annuncio, sapeva benissimo che ero io.
Spalancai la porta brandendo in mano quel doppio cd come fosse un trofeo di guerra, e lo innalzai a mo di Coppa del Mondo.
-Evvai!!!!! È mioooo!!! Adesso ce l’ho anche io!!!!!!!!!!!!!
Stava seduto dietro la sua scrivania intento a leggere delle carte. Dinanzi a quella mia esclamazione alzò lo sguardo e aggrottando le sopracciglia disse
-Ma sei impazzita?
Non aveva ancora ben identificato l’oggetto che tenevo in mano, né tantomeno immaginava che fossi così stupida da farmi anche un’ora di fila dinanzi ad un negozio di dischi per comprare il suo, il cd di Michael Jackson, lo stesso tizio che conosceva da quasi dieci anni, dieci anni in cui avevano condiviso qualsiasi cosa fosse possibile e che adesso la stava ospitando a casa sua.
-IMPAZZITAAAA….E mica solo io…Ragazzo tu la gente la mandi al manicomio davvero, in giro ci sta il delirio Mike…I negozi di dischi sono pieni zeppi, file fino a fuori la strada, gente che spinge…Uuuu non immagini non immagini…
Ogni cosa in America si manifesta nell’eccesso. L’uscita di un libro tanto atteso, di un videogioco di ultima generazione, l’apertura di una nuova catena di negozi, per tutte queste cose si scatena l’inferno, immaginarsi che cosa potesse essere accaduto quando si seppe che era uscito il nuovo disco di Michael.
Avrei potuto benissimo avere la mia copia a casa, senza tanti problemi; anzi avrei potuto avere Mike a casa senza anti problemi, e invece no.
Lui per me era affetto e famiglia ma ogni tanto mi divertiva pensare che in fondo era anche uno dei miei cantanti preferiti, e quando un cantante ti piace tanto il cd te lo vai a comprare. Era una sorta di retroterra culturale ed educativo che nonostante tutto mi portavo dietro negli anni; mi avevano insegnato che non dovevo aspettare che una cosa mi fosse dovuta, se la volevo e ne avevo le possibilità l’avrei ottenuta da sola con le mie forze. E non nascondo che di forze ce ne vollero abbastanza per sopravvivere al caos in cui mi ero imbattuta per comprare quel disco, ma quando finalmente ne ebbi la mia copia mi sentivo una “ragazzina” soddisfatta!
E con la stessa faccia da ragazzina, un po’ stupida oltre che soddisfatta, entrai nel suo studio pronta per il mio autografo.
-Susie daiii…Uffa, di nuovo! Tu sei proprio scema…te lo volevo regalare io stavolta!...Basta non te lo firmo, mi rifiuto, così impari…Ma poi ne hai tremila di firme mie, ma che ne devi fare?
- Sig. Michael Jackson – risposi parlando un inglese pedestre marcatamente napoletano per prenderlo in giro- ma sono venuta da Napoli fino qui per avere un vostro autografo e voi così mi trattate? Siete proprio uno “scornacchiato”!
- Non cambierai mai…te ne approfitti perché non ho capito niente di quello che hai detto, da qua sto coso che te lo firmo…- rispose sorridente- …e poi dici che il pagliaccio sono io. Tu hai sbagliato mestiere, invece di fare la ballerina dovevi fare l’attrice…
- Ma tu non capisci Mike- gli dissi recuperando un accento decente che avevo conquistato dopo tanti anni americani- tu sei tu, lo so, l’amico di sempre con cui ho dormito, mangiato, litigato, scherzato, che mi ha visto con i capelli arruffati e brutti di prima mattina e anche in tenute casalinghe quasi imbarazzanti, ma comunque sei uno dei miei cantanti preferiti, te ne devi fare una ragione. Io voglio il tuo autografo!
- Ok…allora facciamo un patto. Io ti restituisco il tuo cd con l’autografo se anche tu mi fai un autografo su uno dei miei cd…
- Ma che c’entra…dai…
- Ok allora niente autografo…
- E che devo scrivere?
- Il tuo nome, semplice…
- Va bè dai, scrivo solo Susie…
- No perché, io mica ti scrivo Mike. Devi scrivere Susanna Marie De Matteo!
- Addirittura?!...Se proprio insisti…
- Ecco…prendi questo…ti becchi il più “cattivo”!
Mi diede il cd, proprio quello che cantava i nostri ricordi più belli, e sopra ci scrissi:
“Al mio più fedele compagno di avventura…Con affetto Susanna Marie De Matteo!!!”
Tornai in camera mia pronta ad ascoltare il prodotto di ciò per cui quell’uomo era nato, fare musica.
Mi distesi sul letto, inserì il cd nel lettore e mentre nel giro vorticoso del disco le cuffiette cantarono le prime note diedi un’occhiata ai titoli delle canzoni.
Uno mi saltò agli occhi come se fosse stato scritto a caratteri di grandezza tripla rispetto agli altri. Non poteva essere. Non poteva essere come credevo io, me lo avrebbe detto…
Il mio dito premette freneticamente il pulsante che spingeva in avanti la sequenza dei pezzi fino a quando quella canzone iniziò a raccontare la sua musica.
Un’introduzione solenne, la carica di un carillon, la tenera e lamentosa nenia di bambina interrotta da un’esplosione di archi. E poi lui…Lui, vellutato, trasportato, sommesso e delicato. Lui…lui che aveva rubato la voce degli angeli, suonava i suoi respiri con quella tecnica che nella sua naturalezza si era fatta arte perfetta…E poi…il mio nome, pronunciato come solo lui sapeva fare con quel suono dal sapore di un soffio che spingeva le lacrime lungo il mio viso, cadenzate e regolari come il rintocco delle campane che concludono quella dolorosa poesia.
Era la storia di una bambina uccisa, una bimba sola a cui era stata strappata la vita.
“Little Susie”si intitolava quella canzone, e si srotolava su di una musica delicata e tormentata, colonna sonora cucita ad arte sull’angoscia che avevo vissuto in quel periodo, quando fragile come una bambina mi era stata strappata la vita, anzi la possibilità di dare la vita per sempre.
Non volle mai raccontarmi che cosa davvero l’avesse ispirato, diceva si trattasse di evento di cronaca che aveva letto da qualche parte; sapevo che non era così, ma gli feci credere che me l’ero bevuta. Chissà, forse temeva che potessi prendermela, che mi potessi arrabbiare perché magari aveva parlato “pubblicamente” di un mio dolore, o forse più semplicemente non ero io che lo avevo ispirato. Ma ci volli credere lo stesso, quella canzone fu per me una grandissima dimostrazione del suo affetto e della sua intima condivisione della mia sofferenza.
Per questo non potevo arrabbiarmi, potevo solo volergli più bene.
Dal dolore per aver perso così giovane la gioia di diventare mamma, imparai che il mondo è pieno di bambini bisognosi di affetto. E così che il mio amore materno rimasto sospeso, trovò finalmente il suo senso nell’aiutare i bambini in difficoltà.
Chi più dell’uomo che è entrato nel Guinness dei primati per il numero illimitato di iniziative benefiche portate avanti poteva essermi di aiuto? E così anche per questo, come per tantissime altre cose importanti della mia vita, quell’uomo era Michael Jackson.
Iniziai ad interessarmi alle sue attività umanitarie con un coinvolgimento nuovo. Ho sempre saputo che era un gran benefattore, ma iniziai ad entrare davvero dentro il suo lavoro filantropico. Mi informai nel dettaglio di cosa si occupavano le associazioni umanitarie da lui fondate e in che cosa venivano investiti i soldi che dava in beneficenza. Iniziai a proporgli delle cose, presi delle iniziative e gli chiesi di potermi occupare personalmente di alcune attività svolte a suo nome. Mi diede campo libero e mi lasciò fare, donandomi la possibilità di guardare di nuovo al futuro con occhi speranzosi. Avevo nuovi obiettivi, nuovi progetti, e intanto lo aiutavo, lo incoraggiavo in un dare e ricevere che fu per me come manna dal cielo.
In quegli anni visitai le realtà più povere del mondo, dove la fame, le malattie, le guerre e l’ignoranza sono gli assassini di milioni e milioni di piccoli innocenti. Dinanzi a dolori così grandi imparai a tollerare anche le mie sventure e ad apprezzare davvero ciò che Dio mi ha donato.
Ho visitato villaggi fatiscenti, orfanotrofi abbandonati a se stessi, quartieri malfamati dove poter raggiungere l’adolescenza sani e salvi è quasi un miracolo e dove non c’è spiraglio di futuro, e a partire da quelle esperienze decisi che se non avevo potuto fare nulla per salvare il mio bambino, potevo quantomeno tentare di aiutare i bambini degli altri.
Poi arrivò il famoso “Mal D’Africa”, lì ho lasciato una pezzo del mio cuore e una parte di quel paese e di quel popolo continuerà a seguirmi ovunque io vada, e le iniziative che nel mio piccolo ho intrapreso autonomamente tramite una associazione a tutela delle donne maltrattate.
Di Patrick purtroppo non ne esiste solo uno.
Alla sofferenza legata alle mie sventure seguì la mortificazione di un uomo innocente travolto dalle più false ed infamanti accuse.
Mi stavo appena risollevando dal peso di quel destino che non mi volle vedere madre e avevo letto dinanzi a me la possibilità di rialzarmi di nuovo perché Michael aveva scritto per me quella possibilità.
Ma adesso il pilastro portante della mia vita stava per essere demolito sotto il peso del complotto, dell’ingiustizia e dello squallore massimo che l’umanità è in grado di raggiungere. Lui che mi era stato accanto senza risparmiarsi adesso aveva bisogno di tutto il mio aiuto.
Era sorprendente la capacità che aveva di aiutare gli altri, ma nello stesso tempo era sconvolgente la difficoltà che incontrava ad aiutare se stesso nei momenti di sofferenza.
Anche per questo credo che in lui predominasse quella spiccata sincronia di pensiero con i bambini. Come i bambini sentiva di dover essere sostenuto ed aiutato da parte di chi lo amava; come i bambini si regalava a te solo per il piacere di farlo; come i bambini sapeva essere sadico e spietato scegliendo però se stesso come bersaglio dei suoi impulsi. Non prendeva a fiondate le code di povere lucertole spaurite, ma in un cero senso le sovraumane aspettative che aveva erano la sua fionda e la sua autostima la povera lucertola; e proprio come i bambini era fragile, ancora, a quasi quaranta anni, lui che bambino non era mai stato davvero.
E intanto il mondo intero assisteva come un sadico spettatore a quel gioco di vita, mentre l’avidità degli adulti gli rivoltava contro nel modo più sporco l’infanzia che lui aveva tanto sostenuto e tutelato, per cui si era perennemente prodigato usando il suo nome e le sue possibilità per dare un contributo concreto a quella parte di mondo che soffre.
Intraprese una via crucis giudiziaria che lo vide accusato di aver commesso nefandezze che mai la sua mente sarebbe stata in grado di partorire; una mortificazioni che fu costretto a rivivere dopo le accuse del 1993, che sebbene non ebbero implicazioni penali, lasciarono in lui una ferita ancora sanguinante. Nel 2003 fu costretto a rivivere quel dolore con una intensità ancora più devastante, cronicizzando la sofferenza che con difficoltà aveva cercato di fronteggiare.
Processi, arresti, accuse, e ancora processi. Ciò che accadde in quegli anni, aimè è storia pubblica, ma quello che ci fu realmente dietro il caos mediatico è per me storia di vita.
Gli stetti vicino senza riserve, a differenza di tanti che si predicavano amici e che gli voltarono le spalle, e a differenza di tanti altri feci tutto lontano dai riflettori, dalle interviste, dalla televisione. Lo rispettai, come lui mi aveva sempre rispettata anche quando stavamo insieme, anche quando non ero abbastanza matura per comprendere i suoi bisogni, forse per mio egoismo, o forse perché lo amavo troppo.
Passavamo nottate intere a parlare. Aveva bisogno di sfogarsi, di urlare, di piangere; e quanto ha urlato, quanto ha pianto. Cercai di sostenerlo nel tormento fisico e psicologico di quegli anni, combattendo con tutte le mie forse contro quella sua debolezza che si abbandonava troppo spesso ad un sollievo chimico, beffardo, estraniante e distruttivo.
Volevo dimostrargli che poteva ancora essere felice e che chi lo amava davvero non lo avrebbe mai abbandonato, che per lui ci sarebbero state altre mille occasioni per sorridere e nel giorno del nostro compleanno gli preparai una sorpresa.
Non si sentiva dell’umore adatto per fare festeggiamenti, ma quel giorno non poteva passare inosservato…Era o non era il “Nostro Anniversario Di Vita”?
Avevo le chiavi di casa sua e con la complicità di un suo collaboratore feci in modo che stesse via per un paio d’ore, giusto il tempo di organizzarmi.
Niente mega festa eclatante; niente striscioni, né centinaia di invitati, caviale e champagne.
Il menu della serata prevedeva: trionfo di vecchi ricordi su una cascata di spaghetti al pomodoro fresco con contorno di pigiama e monopoly; per dessert il nostro film, “Neverending story”.
Quando arrivò era tutto pronto.
Fuori la porta di ingresso attaccai un post-it con su scritto a matita
”Per sempre…29 agosto 1987”
Lascia che sia io la tu medicina, te lo devo.
Quella sera ci divertimmo da pazzi, ne avevamo entrambi un grande bisogno.
Il salotto si trasformò nel nostro ring, e come i vecchi tempi demmo inizio alla nostra lotta a colpi di passi di danza. Erano anni ormai che non rispolveravamo questo nostro vecchio gioco; adoravamo fare queste gare ed eravamo capaci di passare delle ore a ballare senza mai fermarci. Ognuno di noi a turno faceva dei passi, i più belli e virtuosistici che riuscisse a danzare, cercando di battere la performance dell’avversario.
Sono sempre stata un tipo ambizioso…sfidare Michael Jackson…beh non è proprio una cosetta semplice semplice.
Ci divertivamo un mondo tra risate, smorfie e movenze assurde, ma poi in realtà ci impegnavamo sul serio. E pensare che da serate come quella in passato sono nati alcuni dei suoi passi più belli, gli stessi che hanno fatto impazzire di gioia intere generazioni e che hanno fatto la storia dell’intrattenimento musicale di tutti i tempi.
Alle volte non potevo trattenermi dal fermarmi a guardarlo. Lui, nello spazio compreso tra due divani, con indosso solo un pigiama ed un paio di calzini rigorosamente bianchi ai piedi, era capace di regalarmi strabilianti momenti di essenziale spettacolo, pura estasi anche con un solo movimento della testa. Quando si accorgeva del mio sguardo insistente e rapito dalla genialità che quel corpo era capace di creare, si fermava.
-Susieee…così no…mi imbarazzi, lo sai- mi diceva con quella voce che mi faceva dimenticare la sua vera età- …riprendo solo se ti muovi anche tu…altrimentiii…niente.
E allora si piantava davanti a me con le braccia conserte in attesa che muovessi un piede o un braccio. Ricominciavo a ballare mentre nella mia mente cercavo di escogitare il modo per poterlo guardare di nuovo senza che se ne accorgesse.
In momenti come quelli ho dubitato che quell’uomo fosse di questo pianeta, che esistesse davvero e che Dio mi avesse fatto il dono di stargli vicino in quel preciso istante.
Facevamo delle specie di “gemellaggi” tra la mia danza e la sua; ognuno doveva insegnare uno dei suoi passi all’altro.
Imparò le posizioni principali della danza classica e addirittura i port de bras. Guardarlo mentre cercava di tenere in piedi in quinta posizione mi fece morire dal ridere per una settimana. Dal canto mio devo riconoscere che per il moonwalk sono sempre stata portata. La prima volta che gli mostrai come lo avevo imparato dopo averglielo visto fare centinaia e centinaia di volte in prova e in scena, mi disse ridendo
-Ragazza non ti azzardare a farlo in pubblico. Vorrai mica rubarmi il mestiere? Io con il moonwalk ci campo…
Quella sera parlammo del passato, delle stupidaggini che facevamo insieme, delle nostre risate, di quando uscimmo entrambi travestiti da clown in giro per Los Angeles.
Lui amava questo tipo di cose sia perché gli permettevano di andare in giro senza essere riconosciuto sia perché in realtà si divertiva come un matto, io un po’ meno ma poi alla fine mi trascinava sempre nell’assurdità delle sue follie.
Spesso lo aiutavo a truccarsi nelle maniere più strane, con ombretti e pennelli sono sempre stata brava ed essendo cresciuta in teatro amavo il trucco di scena e conoscevo le astuzie del mestiere. Di solito lo aiutavo solo a prepararsi ma riuscì più volte anche a convincermi ad accompagnarlo bardata in maniera a dir poco ridicola.
-E dai…ma perché ti devi sempre far pregare….Solo stavolta…su!Ti metti una cosetta semplice non tanto vistosa- mi disse una di quelle volte prendendo in mano con una faccetta ironica un orrendo vestito lungo con pailette fuxia ed un grande fiore arancione al centro.
Mi sono sempre chiesta dove andasse a pescare quei cosi.
-Mike lo sai che non mi va…Ma poi chi cavolo mi deve riconoscere fammi capire?
-Scusa io sono vestito da pagliaccio e tu avresti il coraggio di far uscire il dolce sig. pagliaccio senza la sua bella mogliettina? Sei proprio crudele!
-Ooooooooookkkkkk…Però, abbi pazienza, se devo conciarmi in quel modo lo voglio fare con le mie mani…
-Ma non ci penso nemmeno…!!!Mi vuoi togliere la parte più bella…?Da qua sta roba…me la vedo io- mi rispose ridacchiando.
Mi riempì la testa di codini e fiocchi, mi disegnò con il rossetto due labbroni enormi e sugli occhi si sbizzarrì con i colori più sgargianti. Ah ovviamente non poteva mancare il naso rosso.
Ebbene si abbiamo avuto il coraggio di uscire in quel modo e aimè non fu l’unica volta.
Me ne combinava di tutti i colori, ma le volte peggiori erano quelle in cui dava inizio alla battaglia con l’acqua. Lì non ce ne era per nessuno.
Facevamo delle squadre con amici e parenti che frequentavano casa sua, ovviamente io stavo sempre in quella avversaria e ci scontravamo con pistole, palloncini e secchi. Non di rado capitava che mi accogliesse in casa facendomi dei “gavettoni di benvenuto” come li chiamava lui, e per questo lasciavo spesso da lui un paio di jeans e una t-shirt di ricambio perché sistematicamente mi capitava di trascorrere i miei pomeriggi bagnata fradicia.
Quei ricordi ci ammorbidirono il cuore ma allo stesso tempo lo resero anche più sensibile di fronte alla realtà sporca che stava vivendo. Lui, il mio bambino, non era più quello di una volta, dolorante, deluso e sfiduciato dinanzi al trucido mondo degli adulti a cui sentiva sempre di più di non appartenere. Volevo rivedere quegli occhi illuminarsi di nuovo, di quella stessa luce che aveva fatto mezzogiorno nelle mie nottate più dolorose; lo dovevo fare per lui e lo dovevo fare anche per me, che dall’età di vent’anni non avevo rinunciato mai a rendere quella luce la mia ragione di vita.
Quella sera trascorsi uno dei nostri compleanni più belli e dopo la rispolverata di vecchi ricordi eravamo stremati di chiacchiere. Proprio come i vecchi tempi crollammo tramortiti sul divano e poco prima che il sonno quella notte ci coprisse con la sua coperta mi guardò esausto ma tranquillo e mi disse
- Susie…Dio ha deciso che tu sia il mio angelo…
Almeno per quella volta evitai che prendesse delle porcherie per dormire.