Ho qualcosa da raccontarvi... [Fan Fiction]. Terminata: 33 capitoli + versione aggiornata di 19 capitoli. Rating: arancione

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(martiii)
00domenica 11 luglio 2010 20:21
Sere, noto finalmente che l'hai cominciata a ripostare con le varie modifiche *-*
Non inizio a leggerla, aspetto che la posterai tutta, perchè mi piace leggerla tutta d'un fiato : D
Quindi fai in fretta, ho voglia di leggere ancora di Susie *-*
Scherzo ovviamentee, prenditi tutto il tempo che vuoi :*
Bacio!
Sere-88
00domenica 11 luglio 2010 21:09
anto e martii grazie a voi...un bacio forte
Sere-88
00lunedì 12 luglio 2010 21:29


Capitolo 10




“…Trust in me
Trust in me
Put all your trust in me
You're doin' morphine
Go on, baby!
Relax
This won't hurt you
Before I put it in
Close your eyes and count to ten
Don't cry, I won't convert you
There's no need to dismay
Close your eyes and drift away…”
(Morphine)


Nel 1995 conobbi il più grande errore della mia vita, Patrick Clifford.
Era un pezzo grosso della finanza, proprietario di una grande azienda cosmetica londinese che mi venne presentato in occasione di un ricevimento organizzato dall’etichetta discografica di Mike alla luce della campagna promozionale del suo prossimo disco.
Aveva venti anni più di me; era un tipo spigliato, sicuro di sé, sempre con la battuta pronta. Un bell’uomo, di quelli che migliorano con l’età. Mi invaghì del suo fascino maturo, della sua sicurezza, mi trasmetteva protezione. Era quel qualcosa che credevo mi servisse per colmare il vuoto che sentivo dentro.
Il mio ritorno in America fino a quel momento era stato un continuo dare, dare, dare. Una punizione che mi ero inferta per non aver saputo apprezzare al momento opportuno le cose belle che la vita mi aveva regalato, quelle cose che si chiamavano mamma e Mike. Gli sono stata accanto combattendo ogni giorno contro quella maschera che mi era stata imposta di indossare, che Mike mi aveva imposto; quella dell’amica sincera sempre pronta a dargli dei consigli che fossero quanto più possibile disinteressati, pronta ad ascoltare con il sorriso sulle labbra persino i suoi apprezzamenti maschili su qualche donna che gli interessava, quella che in mondovisione aveva dovuto assistere ad un bacio, che per quanto potesse essere stato programmato o quant’altro era sempre un bacio, e quelle labbra di certo non erano più le mie.
Mike era una parte di me, gli avrei dato tutto e gli davo tutto, ma decisi che continuare a rincorrerlo non mi sarebbe servito a niente. Mi voleva bene si, questo me lo ha sempre ripetuto, ma evidentemente non mi amava. Ormai non ero più una ragazzina, dovevo imparare ad accettare la realtà dei fatti, era ora che mi costruissi una vita mia, lontana dal ricordo di quello che eravamo stati.
Patrick Clifford sembrò essere la soluzione ai miei problemi.
Mi aggiravo curiosa in quella enorme sala per ricevimenti. C’era gente famosa, donne bellissime, manager, produttori, star della musica, della moda, del cinema. Erano anni ormai che frequentavo quell’ambiente ma non mi ci ero ancora abituata. Mi sentivo sempre inadatta, fuori luogo, ma non perché fossi insicura di me, ma perché la realtà in cui ero cresciuta era così tanto diversa da quella in cui mi trovavo. Anche se indossavo gioielli, abiti firmati, scarpe costose, dentro rimanevo sempre una ragazzetta di quartiere, e questa cosa non la rinnegavo anzi la adoravo.
Nelle pubbliche relazioni me la cavavo sufficientemente bene, ma di certo non erano il mio pezzo forte. Sono un libro aperto e se qualcuno non mi va a genio me lo si legge in faccia. Per evitare di fare danni, quella sera mi limitai ad osservare gli invitati e a passeggiare solitaria.

-Mi meraviglio che nessuno si sia accorto che una bellissima donna si aggira tutta sola stasera. È senza cavaliere madame?

Una voce profonda mi fece bloccare d’improvviso.
Un uomo alto, di bell’aspetto, sulla cinquantina. Capelli brizzolati, occhi glaciali che facevano quasi paura; era sua quella voce.

-Salve signorina, se non la disturbo mi piacerebbe scambiare qualche parola con lei, mi chiamo Patrick- aggiunse quell’uomo con un sorriso accattivante.

-Diamoci del tu…mi chiamo Susanna…sono un’amica di Michael- sorrisi.

-Piacere di conoscerti Susanna…questo nome mi sa di Italia, ma i tuoi tratti somatici mi dicono invece…

- Eh…diciamo che la storia è complessa- lo interruppi- Mia madre era italiana e mio padre per metà italiano e per metà afro-americano…

- A quanto pare il mix è riuscito alla perfezione direi…sei bellissima, complimenti.

Se solo dieci anni prima qualcuno mi avesse detto quelle stesse cose, con quel tono e con quella sfacciataggine si sarebbe preso un cazzotto in faccia, ma quell’uomo aveva qualcosa di magnetico e i suoi apprezzamenti non mi infastidivano per nulla. Mi lasciai lusingare.
Dopo circa un quarto d’ora di chiacchiere varie fummo interrotti bruscamente.
Tra la folla sbucò Mike, che senza neanche badare al fatto che stessi parlando con quell’uomo entrò nel discorso.

-Ehi Susie allora…? Dimmi un po’…che ne pensi? Come sta andando?...

Gli lanciai uno sguardo perplesso e un po’ infastidito che fece intendere il mio imbarazzo per quell’interruzione fuori luogo.
Per la prima volta quella sera mi stavo divertendo, da sola. Per la prima volta dopo tanto tempo ebbi la sensazione di essere uscita dall’ombra e di essere apprezzata; in quel momento la spavalderia e la sicurezza con cui quell’uomo mi riempiva di complimenti parvero risollevare un po’ la mia autostima, ormai da qualche anno mortificata da un amore non più corrisposto. Insomma sentivo di meritarli quegli apprezzamenti e volevo prendermeli tutti. Poi Mike intervenne, e di nuovo indossai inesorabilmente quell’ombra.

-Allora ti chiami Susie…ma perché questo nomignolo? Non si addice ad una donna elegante come te…Susanna è molto meglio non trovi?

- No…non trova. Susie è stupendo e poi vale solo per gli amici…- ribatté Mike con un tono acido e infantile che mi fece sobbalzare. Insomma, ma che diavolo di risposta era quella.

- Patrick, …ehm… non so se vi conoscete già...comunque ti presento ufficialmente Michael Jackson- dissi cercando di riparare alla sgarberia e alla cafonaggine con cui Mike gli si era rivolto senza nemmeno tendergli la mano per presentarsi.

-Eh si si lo conosco bene, insomma chi non lo conosce ormai, la sua fama lo precede- disse con tono pungente- Sono Patrick Clifford.

-… io invece non ho la più pallida idea di chi lei sia, comunque piacere …

-Converrà con me Mr. Jackson che non è il nome ad essere stupendo bensì colei che lo porta…

Patrick mi sfiorò delicatamente il dorso della mano lasciandovi simbolicamente un bacio galante.

-Si si, convengo, convengo…

Quella situazione stava diventando ridicola e pesante, dovevo fare qualcosa.

-Da oggi chiamami pure Susie, Patrick.- aggiunsi, mentre cercando di non farmi vedere tirai un pizzicotto a Mike dietro il braccio
Rimasi disgustata dalla scortesia con cui si rivolse a quell’uomo. Non si era mai comportato così con nessuno da quando lo conoscevo. Non era quello il suo modo di fare, anzi era sempre stato cordiale e gentile con chiunque. Ma che gli stava succedendo? Ero mortificata ed imbarazzata per la figuraccia pessima che mi aveva fatto fare e a quel punto decisi che bisognava mettere le cose in chiaro.

-Scusa Patrick, ti lascio un secondo. Ci vediamo dopo…
Tagliai a corto per l’urgenza che avevo di dirne quattro ad un certa persona; mi girai verso Mike e gli lanciai un’occhiata che non aveva nulla di amichevole. Lo presi per un braccio trascinandomelo lontano dove non fosse troppo evidente che una tizia sconosciuta stava facendo un cazziatone esagerato a Michael Jackson.

-Ma dico, TI SEI BEVUTO IL CERVELLO!!!??? Ti sei reso conto dell’enorme figura di merda che mi hai fatto fare con quello là?

-Ma chi col nonnetto? Dai…non dirmi che ti piace quello che non ci credo…”Susanna è stupendo, sei stupenda…” ma dai, sembra un damerino -disse ridendo mentre scimmiottava la voce di Patrick.

-Non ci trovo niente da ridere Mike. Scusami se non gironzolo tutto il tempo intorno a te, se c’è qualcuno che mi apprezza e se cerco di farmi una vita mia…

-Ehi, ehi, datti una calmata! Stavo scherzando. Fai quello che ti pare, esci con chi ti pare, sposatelo pure a me non interessa…

-No grazie, non sono come qualcuno di tua conoscenza che si sposa con il primo che trova…E comunque l’ho capito sai che ormai non ti interessa più niente…non c’è bisogno che tu me lo ribadisca…

-Ma perché mi fraintendi sempre… Non intendevo dire che non me ne frega nulla di te…Ormai sei una donna adulta e della tua vita puoi fare quello che vuoi. Questo intendevo. Ma ho capito che non è serata…. Però io ero venuto in pace…Pace?

Pronunciò quelle parole con una dolcezza ed un’innocenza senza fine. Aprì le braccia e mi sorrise. Niente guerra quella sera, non avevo armi a sufficienza per affrontare quell’esercito di abbracci, occhi profondi e sorriso infinito.

-Pace…-gli feci sbuffando, rassegnata ad accettare la mia debolezza dinanzi a lui e a tutto quello che rappresentava per la mia vita.
La sua risata rumorosa destò quel momento di tregua mentre ero ancora circondata dalle sue braccia che avevano sciolto ogni mio intento belligerante. Mi spinsi via scherzosamente da quella morsa affettuosa

-Che ti ridi ancora…stupido…

Mi smosse il naso con la schicchera di due dita.

- Quando ti innervosisci diventi una vipera…

-Appunto attento a te…- gli risposi smagliando un sorriso che dimostrava quanto poco riuscissi a tenergli il broncio.

Stavamo per tornare tra invitati, cocktail e tartine ma prima di allontanarsi, facendomi un cenno ad indicare i suoi occhi da acuto osservatore di umani, mi disse

-Susie…ti tengo d’occhio, quello non mi piace!

Con un gesto svogliato della mano gli lanciai un “ma va!” e lui sottovoce quasi mimando il labiale aggiunse-...Ah…lo so anche io che sei stupenda!...


Iniziai a frequentare Patrick, dopo qualche mese andai a vivere da lui e allora compresi realmente con chi avevo a che fare.
Nella quotidianità non era la persona che mostrava di essere in pubblico; una volta messo piede in casa sua finirono le gentilezze, le galanterie e i complimenti. Mi trattava come una sguattera ed approfittava di me in ogni senso; era violento e collerico, una bestia travestita da signore.
I sospetti di Mike erano fondati, c’aveva visto lungo.
Quell’uomo aveva sviluppato su di me un potere inimmaginabile. Era in grado di plasmarmi a suo piacimento come fossi la sua bambola, il suo giocattolo. Per l’ennesima volta venivo eclissata da una personalità ingombrante.
Mi annullò e io mi feci annullare, ero troppo vulnerabile per reagire. Mi illuse inizialmente con un barlume di considerazione, regali, esagerazioni, ma non era di quello che avevo bisogno per sentirmi viva e apprezzata. Sminuiva il mio lavoro e non venne mai ad uno spettacolo; per lui esistevano solo gli affari, il resto era pura nullità. Io ero quel resto.
Mi stavo spegnendo lentamente, ma il bisogno di avere qualcuno accanto e forse anche l’infantile desiderio di ripicca nei confronti di Mike mi spingevano ad andare avanti.
Lui non approvò mai la nostra relazione e l’ostilità accesa che manifestava nei confronti di Patrick mi rendeva confusa. Inizialmente non comprendevo il perché del suo atteggiamento e prima di imparare a conoscere Patrick per quello che era veramente, lo considerai come una sua presa di posizione, come un tentativo di sabotare i miei sofferti sforzi di vivere un’altra relazione, come un capriccio. Del resto avevo tutto il diritto di ricominciare con un altro uomo vista la sua telenovela sentimentale di quel periodo. Aveva rifiutato ciò che avevamo costruito insieme e allora non poteva pretendere che io rimanessi per sempre la sua dama di compagnia e consulente di vita.
Ma dietro quei residui di orgoglio giovanile risiedeva sempre sommessa ma insistente la speranza che stesse facendo tutto quello solo per amore.
Discussi spesso con lui in quel periodo nel tentativo di strappare dalla sua bocca e dal suo cuore quelle parole che avrei voluto sentire, e che sarebbero bastate a cancellare tutti i dispiaceri e a ricominciare da dove avevamo lasciato. Ma perché si preoccupava della mia vita, delle mie amicizie, si interessava a quello che facevo, a come stava la mia famiglia?
-Solo per affetto… ma anche perché mi sento responsabile delle tue mancanze come figlia quando tua madre si ammalò. E’ colpa mia se quando stava male eri lontana da casa; è colpa del mio lavoro e del fatto che ti ho coinvolta in tutto questo…Se non mi avessi mai conosciuto forse avresti sofferto di meno e per molte meno cose…-mi disse una volta, in una delle nostre lunghe chiacchierate notturne. Quella risposta fu come sale sulle ferite.
Avrei potuto odiarlo, detestarlo o quanto meno allontanarlo definitivamente dalla mia vita. Sarebbe potuto essere un comodo capro espiatorio su cui scaricare tutte le frustrazioni e le colpe che mi perseguitavano in quegli anni.
Era sua la colpa se non ero stata vicina a mia madre.
Era solo sua la colpa se la nostra storia era finita.
Era lui che non andava bene.
Ma poi, passati i momenti di delirio persecutorio, comprendevo la realtà dei fatti ed imparavo ad accettare che per la morte di una madre si soffre sempre e comunque e che se non avessi mai incontrato Mike…beh non sarei diventata la persona che sono oggi.
La dedizione con cui mi stette accanto negli anni che seguirono mi aiutò a capire che per quanto lunatico, imprevedibile, difficile, e destabilizzante quell’uomo potesse essere, era lui il mio angelo custode.


Patrick beveva. E quando beveva picchiava, picchiava duro. Non dimenticherò mai l’umiliazione che provavo dopo ogni schiaffo, la paura di denunciarlo e di morirci sotto quelle botte.
Mike ovviamente fu il primo ad accorgersene.
Aveva assistito ad un mio litigio con Patrick ed era rimasto sconcertato dalla violenza verbale e fisica con cui si scagliava contro di me; dovette far intervenire due sue guardie del corpo per togliermelo di dosso. Da allora mi chiese espressamente di evitare che lo incontrasse a casa mia. Odiava quell’uomo e non accettava che mi trattasse in quel modo, lui che quando stavamo insieme non si era mai nemmeno lontanamente azzardato a mettermi una mano addosso.
Una mattina eravamo in sala prove. Avevo un occhio nero e per nasconderlo tenni su gli occhiali scuri tutto il tempo.
Mike adorava gli occhiali, ne aveva centinaia di modelli diversi. Quella mattina ne portavo un paio uguale agli ultimi che aveva comprato.

-Ma che fai, adesso mi copi?...-mi disse ridendo- fammi vedere un po’ come mi stanno, quasi non me lo ricordo più. Quelli che ho preso io hanno ancora l’etichetta, non li ho mai messi.

Si avvicinò e mentre stava per sfilarmeli dagli occhi gli bloccai i polsi con una stretta violenta.

-Ohi…- mi guardò aggrottando le sopracciglia- …guarda che non me li rubo mica…Nervosetta oggi?

Me li tolse comunque. Anzi glielo feci fare, avevo bisogno che vedesse, che sapesse. Avevo bisogno di aiuto.

-Susie ma che hai fatto?- sbarrò gli occhi-…anzi non lo voglio nemmeno sentire…perché già lo so che è stato lui…Ne ho abbastanza, io chiamo la polizia…

Era partito in quarta. Avevo paura. Cercai di fermarlo.

-Mike ti prego, lascia stare…non…

-Lascia stare!!!???...ma tu sei fuori…Ma che intenzioni hai Susie? Eh? Fammi capire? Ti vuoi fare ammazzare?...Ma dove è andata a finire quella ragazza intraprendente, piena di sogni, che si faceva rispettare? Quella con quel caratterino bello tosto che non aveva peli sulla lingua? Quella che quando aveva vent’anni prese l’iniziativa più bella e che con il sorriso sulle labbra era pronta ad affrontare ogni avventura, anche se questo significava seguire un lunatico come me intorno al mondo. Quella ragazza non la vedo più Susie; quel bastardo me la sta portando via e dal momento che lei è una delle cose più preziose che la vita mi abbia regalato, non glielo posso permettere.

Scoppiai in lacrime, le più amare, le più dolorose. Non potevo, non potevo lasciarlo fare, anche se era per il mio bene.

-Mike ti scongiuro…no…

-Ma perché dannazione!!!!- mi urlò in faccia con una irruenza che non conoscevo

-…non adesso…non in questo momento…Non per i prossimi nove mesi…


Capitolo 11



“You are not alone
I am here with you
Though we're far apart
You're always in my heart
You are not alone
All alone
Why, alone
Just the other night
I thought I heard you cry
Asking me to come
And hold you in my arms
I can hear your prayers
Your burdens I will bear
But first I need your hand
Then forever can begin…”
(You Are Not Alone)


Lessi da qualche parte che non appena una donna scopre la propria gravidanza, inconsciamente si ritira in uno stato di sana e amorevole follia. I suoi interessi, i suoi bisogni, il mondo circostante, tutto si annulla ed ogni minima energia viene investita sulla creatura che porta in grembo.
Anche io mi ammalai della follia amorosa delle madri.
Quel concepimento fuori ogni programma e fuori ogni mia più lontana intenzione si trasformò, non appena ne venni a conoscenza, nel più bello dei regali di Dio. Dentro me non solo sentivo crescere un corpicino indifeso, ma soprattutto cresceva a dismisura il desiderio di volerlo davvero quel tenero scricciolo di umano che avrei messo al mondo, il mio scricciolo.
Sentivo già forte il calore di quel cucciolo dalla pelle morbida e paffuta che si accoccolava al mio seno, fantasticavo i lineamenti del suo volto ma i geni della mia immaginazione non corrispondevano a quelli che in realtà avrebbero determinato i tratti somatici e il colore della pelle del bambino che sarebbe nato. Quello della mia fantasia non era il figlio di Patrick, ma il figlio dell’uomo che mi avrebbe davvero resa felice.
Nonostante tutto, quella gravidanza non fu il frutto di una violenza ma di uno dei pochissimi momenti in cui Patrick vestiva i panni di un uomo togliendosi di dosso quelli della bestia.
Quella sera rincasò prima del previsto.

-Susanna stasera si festeggia!!!…- disse non appena spalancò la porta
Rimasi sorpresa dal sorriso che mi rivolse, non sempre mi rendeva partecipe del suo buon umore; del malumore ero invece sempre il bersaglio e la protagonista indiscussa. Pensai che si fosse ricordato del nostro mesiversario, una ricorrenza stupida forse ma che mi faceva piacere ricordare insieme a lui quando il livello etilico nel suo sangue glielo consentiva; era uno dei miei tentativi disperati di rendere quella relazione un po’ meno amara e un po’ più vivibile.

-…Dai che bello te ne sei ricordato stavolta…- gli risposi accogliendolo con un abbraccio affettuoso
-…Oh…ehm…veramenteee…io…No…non mi dire che è il tuo compleanno e che me ne sono dimenticato...- aggiunse portandosi una mano alla testa

L’espressione delusa e un po’ mortificata del mio viso lasciava trasparire tutti i segni di quell’ingenuo fraintendimento che non mi soffermai a chiarire. Se gli avessi detto che quello era il giorno del nostro mesiversario mi avrebbe riso in faccia facendomi sentire una mocciosa stupida.

-…No Patrick…niente compleanno…

-…Eh va bè dai, che sarà mai…oggi c’è comunque da festeggiare. Ho concluso un affarone da milioni di dollari!

Era straripante di felicità.

-Indossa l’abito che ti rende più bella e ti porto a cena in un posto carino…Anzi, indossa pure un abito qualsiasi tanto sei bella sempre…

A quella frase seguì una leggera carezza che percorse il profilo della mia spalla spostandomi lontano i capelli che la coprivano come un piccolo mantello.
Assaporai quell’invito come un bicchiere d’acqua fresca in una giornata afosa; in quel momento mi parve di rileggere nei suoi occhi glaciali la freschezza delle lusinghe che mi riservò con tanta galanteria la sera che ci conoscemmo. Le sue piccole e rare attenzioni mi facevano dimenticare per un momento l’uomo che era in realtà, facendomi vivere solo la maschera di gentleman che indossava pubblicamente. Non scavavo mai sotto la superficie perché lì sapevo di trovare un marcio doloroso, ma troppo spesso era quel marcio a riemergere prepotentemente distruggendo tutto il mondo di illusioni che mi ero costruita a fatica. In un momento era capace di trasformarmi nella più bella delle principesse, e un secondo dopo farmi sentire la più inutile delle donne con la sua sola indifferenza talvolta più violenta degli schiaffi.
Mi nutrivo dell’apparenza, della finzione, perché da quelle riuscivo a cogliere l’essenziale di cui avevo bisogno: l’attenzione, la cura, l’apprezzamento, la protezione di un uomo che mi volesse bene, un uomo su cui avevo proiettato inconsapevolmente l’affetto che nonostante tutto provavo come destino naturale nei confronti di quel padre fuggitivo che ricordavo appena. Patrick era per me quel padre rifiutante a cui sentivo di essere legata comunque.
Quella sera era raggiante, soddisfatto, appagato e partecipai a quella sua felicità emotivamente e fisicamente nella notte in cui venne concepito quel bambino.
Si, ero incinta, ma dell’uomo più sbagliato che mi potesse capitare.
Prima di comunicargli la notizia volli essere certa che quello non fosse uno dei soliti ritardi dovuto al mio particolarissimo orologio biologico, ma i test e le analisi ebbero un unico esito: positivo!
Positivo? Ma per chi? Evidentemente non per lui.
Quell’annuncio venne accolto con una freddezza senza pari mista a fastidio. Aveva già due figli grandi con la precedente compagna da cui aveva da poco divorziato e il pensiero di un altro moccioso tra i piedi di certo non lo faceva saltare di gioia, queste furono le sue testuali parole. Aggiunse inoltre che se proprio ci tenevo potevo tenerlo, non avrebbe voluto averlo sulla coscienza, già aveva troppi problemi. Il suo era un lavoro di responsabilità, in cui ci rimetteva quotidianamente la reputazione e i soldi, ma erano questi ultimi ad avere la priorità assoluta, anche e soprattutto su di me.
Questo fu il benvenuto alla mia maternità da parte dell’uomo con cui per caso avevo concepito un figlio; le cose andarono ben diversamente quando pronunciai le fatidiche parole “aspetto un bambino” all’uomo con cui quel figlio lo avrei concepito per amore.
Ero imbarazzata ed afflitta perché non mi andava di parlare a Mike della mia gravidanza in un momento come quello, mentre sul mio viso portavo ancora i segni della violenza domestica che ero costretta a subire e sul suo leggevo quelli della rabbia, dell’insensatezza, del dolore e della voglia di fare qualcosa per aiutarmi. La sua voce divenne dura e graffiata da una irruenza e una decisione che non credevo gli appartenesse e che mi fece trasalire. Ma ormai non potevo continuare a nascondere la vita che mi cresceva dentro, doveva sapere.
Il linguaggio non verbale è un prodigio della comunicazione umana, alle volte può essere il veicolo più diretto al cuore meglio ancora della parola proferita, e così dinanzi allo svelamento di quella verità il volto di Mike si fece teatro delle emozioni più varie che si impossessarono della mimica del suo viso. Le ali dello sguardo distesero il solco interrogativo e corrucciato che in un moto di rabbia gli aveva segnato la fronte, aprendosi nel volo di un sorriso infinito di occhi e di labbra.. Mi strinse forte a sé in un contatto che eloquentemente mi dimostrava quanto mi fosse vicino in quel momento, nell’anima e nel corpo. Mi sollevò letteralmente da terra facendomi volteggiare in quella sala come in un giro di valzer e in quel breve momento, mentre aggrappata al suo collo come ad una boa di salvataggio mi lasciavo trasportare in quell’abbraccio centrifugo, chiusi gli occhi ed una dolce fantasia mi rigò il viso in un rivolo di lacrima…Era quella la felicità di un papà.
Concluse quella danza prendendomi il viso tra le mani, e con una coccola protettiva e fraterna mi accarezzò i capelli

-… La mia piccola Susie…-disse felice ed incredulo scuotendo la testa-…e pensare che quando ti conobbi eri poco più che una ragazzina…e adesso tra queste mani ho il volto di una donna che sta per diventare mamma…Non vedo l’ora Susie, non vedo l’ora che il tuo bambino nasca…

Nessuna diga di razionalità avrebbe potuto contenere la piena di quel fiume di lacrime ed emozioni, ogni battito delle mi palpebre si fece pianto di gioia.
Mi stropicciò le guance di baci rumorosi e poi con la sua solita premura e quel pizzico di ingenuità che lo contraddistingueva si fermò

-…oddio ma oggi ti sei stancata troppo però…mica ti senti male?...non so…hai la nausea?...le doglie…?

Mi tasto la fronte e la pancia alla ricerca di qualche sintomo.

-Le doglie???- gli risposi sorridendo- Mike sono incinta solo da due mesi, non sto mica per partorire?

Scoppiai a ridere mentre lui buffamente si tappò la bocca come per evitare che ne uscisse fuori qualche altra cavolata divertente.

-…Ah giusto…le voglie, le voglie intendevo…

Lungo quei primi cinque mesi di gravidanza mi stette vicino con l’affetto che solo un padre, un marito, un fidanzato, un fratello ti sanno trasmettere. In quel momento era tutte queste cose insieme.
Il giorno della prima ecografia, ovviamente, fu lui ad accompagnarmi. Patrick mi disse che aveva da fare e che alla fine era una sciocchezza che non necessitava di “assistenza”. Assistenza, così intendeva lui stare accanto alla propria compagna in un momento così importante per vedere anche solo un puntino di quello che sarebbe stato il figlio che avevano concepito insieme.
Per fare quella ecografia la clinica venne messa letteralmente sotto sequestro, per evitare paparazzate e titoli di giornale grandi come case che urlavano MICHAEL JACKSON: SPOSATO MA FA UN FIGLIO CON UN’ALTRA!!!!
Mentre ero sul lettino mi stringeva la mano fortissimo; era agitato e paradossalmente io cercavo di tranquillizzare lui.
Non appena sul monitor comparve l’immagine di quel minuscolo esserino, Mike scoppiò in lacrime; in quel momento più che mai avrei desiderato che quel figlio fosse stato suo.
Continuai a lavorare intensamente fino al terzo mese aiutando Mike nelle coreografie del tour che avrebbe segnato il suo grande ritorno sulle scene dopo le accuse infamanti di pedofilia, che nel 1993 lo gettarono nel baratro della disperazione, della vergogna e della sfiducia nella bontà degli uomini. Rialzarsi dopo quella mazzata non fu un’impresa semplice e il dolore di quella caduta aimè non lo lascio libero di vivere per molto molto tempo ancora, ma adesso si preparava a riconquistare quello che l’infamia della gente sperava di sottrargli, la stima e l’affetto di coloro che amano la sua musica con un tour “storico” nel vero senso della parola.
Ma al terzo mese nausea e continui mancamenti mi convinsero a staccare la spina per qualche settimana e così mi presi un periodo di riposo.
Una mattina bussarono alla mia porta. Da un camioncino con su la scritta dei grandi magazzini scesero due fattorini con in mano una serie di scatoloni.

-Salve, chi desidera?- chiesi una volta aperta la porta

-Ehm…cerco la signorina…ehm…Susie- mi rispose uno dei due tizi seminascosto dietro lo scatolo che portava in braccio. Riconobbi quella voce all’istante.

-Mike?...ma sei tu?- domandai titubante

-Perché si vede tanto?- rispose il “fattorino” con aria preoccupata

Era lui in uno dei suoi famigerati travestimenti, le uniche alternative che aveva per andare in giro passando inosservato. Era agghindato in maniera impeccabile, la tuta e il berretto erano da manuale, ma quella voce lo tradì, lo avrei riconosciuto anche se avesse parlato come Paperino.
Lo feci subito entrare in casa per timore che qualcuno del vicinato si potesse accorgere della sua presenza, ma prima volle assicurarsi che “quello”, come chiamava Patrick, non fosse in casa perché non aveva piacere ad incontrarlo.
L’altro ragazzo che lo accompagnava provvide a scaricare una decina di pacchi ed aspettò fuori.

-Mike, non mi dire che tutta sta roba è per me?

-Ehm…spiacente, ma non è per te…- mi rispose sorridendo

-Ah…ecco…

-E’ per il mio nipotino che dorme nella tua pancia! Sono o non sono lo zio Mike?

-Certo che lo sei…- gli gettai le braccia al collo stringendolo forte.

Quanto era importante per me quell’uomo? Non avrei avuto parole a sufficienza per esprimere nemmeno la millesima parte del bene immenso che provavo per lui.
Iniziai ad aprire gli scatoloni. Culla, carrozzina, seggiolino per auto, girello, tutine di tutti i tipi e giocattoli a volontà. Ed ero solo al terzo mese.

-Mike ma è un mare di roba! Ma perché ti prendi tutto questo fastidio? Come se poi tu di cose da fare non ne avessi già abbastanza…

-Ma smettila…mi offendi se dici così. Io sono troppo felice, devo pur manifestare questa gioia in qualche modo no?

Aveva gli occhi che gli brillavano. Era tanto che non lo vedevo così. Come è strana la vita, un uomo che fino ad allora non aveva figli li desiderava tanto, e uno che stava per averlo non se ne fregava un cavolo.

-Mike…comunque colgo l’occasione per dirti una cosa importante…

- Dimmi tutto…- rispose senza staccare gli occhi dall’opera di costruzione che gli teneva le mani occupate nel tentativo di assemblare i pezzi di una culla

-Volevo comunicarti che ho deciso quale sarà il nome del mio bambino…

Mollò tutto d’improvviso con l’entusiasmo volubile di un ragazzino a cui si propone un gioco più allettante.

-No no aspetta, non me lo dire…Te ne voglio proporre qualcuno io. Allora…Terence, che ne dici?

-Mhmhmh…nooo

-…Eduard?

-…nooo

-Jason?

-Nooo…

-Gregorio?...E’ italiano come te...che dici? è bello no?

-Mike…ma è terribile Gregorio…- dissi con una smorfia divertita di disapprovazione.

Era un genio dalle mille idee, ma in quanto a nomi stava messo maluccio…

- Ah ecco…ho trovato…senti questo…è una bomba!

- Spara…!- gli dissi, pronta ad accogliere la sua prossima proposta assurda. Volevo divertirmi ancora un po’ a vederlo affannarsi in quella ricerca prima di svelargli il semplice nome che avrei scelto io.

-“Muffin”!!!

-Muffin?- lo guardai perplessa- ma come il dolce?

-Siiii!!!-rispose lui contentissimo

-Ma daaaaiiii…non posso chiamare mio figlio come un dolce…

-Ma perché no? Rifletti, il nome è perfetto. Io già me lo immagino questo bimbo, bello tondo, paffutello, con la carnagione mulatta come la tua, con un sorrisone dolce dolce e con quell’odore buono che solo i bimbi hanno. Tondo, dolce e buono proprio come un muffin!

Quasi mi dispiacque dirgli che in realtà avevo in mente una cosa completamente diversa, era così contento di quel “Muffin” e mi faceva tenerezza dirgli che nella scelta dei nomi aveva un gusto opinabile. Ma ciò che gli proposi io lo fece saltare di gioia.

-Io invece avevo pensato a qualcosa di diverso, però sai…la persona a cui appartiene questo nome non mi convince… E’ un tipo con caratterino un po’ particolare, che fa sempre scherzi, che ha la brutta abitudine di masticare la gomma a bocca aperta e che spesso arriva tardi agli appuntamenti…Però…però vorrei che mio figlio fosse come lui, speciale, sensibile, generoso, complesso, altruista, geniale, divertente, fuori dagli schemi e dalle congetture della gente, con l’anima pulita come quella di questa persona fantastica e che risplende al di là di ogni suo difetto. Una persona che ha saputo regalarmi l’amore in tutte le sue complesse sembianze, quella della passione, dell’amicizia, dell’affetto fraterno e del calore familiare. Mio figlio sarà per me il completamento di un tutto e non potrà che portare il nome di una persona che a quel tutto ha dato inizio…e che in questo momento…è seduto di fronte a me…
Di nuovo l’emozione divenne ladra di parole e generosa di espressioni; con gli occhi lucidi di pianto mi venne incontro e mi strinse forte a se.

-La vuoi smettere di farmi commuovere…

-Vorrei che il mio bambino si chiamasse Michael...

-Grazie Susie…grazie, grazie, grazie… Ma “quello” è d’accordo? Lo sai che non gli sto tanto simpatico…


-Ehm… veramente ancora non glielo ho detto…Comunque nel caso in cui faccia storie ho già in mente una alternativa. Al massimo il bimbo lo chiamo Michele, il tuo nome in italiano. Mi invento la scusa che è il nome di un mio zio speciale e il gioco è fatto, del resto per questo bimbo tu sarai senz’altro uno zio speciale…e poi…lo chiamerò comunque sempre Mike come faccio con te…

Un nome…almeno qualcosa di lui sarebbe rimasto con me in eterno, qualcosa di lui mi stava crescendo dentro nonostante tutto. Sentivo che quel bambino doveva nascere perché qui fuori, oltre a me, c’era qualcun altro pronto ad amarlo oltre ogni legame di sangue.
Squillò il telefono.
Patrick che stava per tornare dall’ufficio per pranzare a casa e voleva trovare sul tavolo il pollo fritto. Il solo pensiero di dover cucinare in quel momento mi fece di nuovo salire la nausea.

-Mike, sta arrivando Patrick…

-Ah…allora vado, voglio evitare brutti incontri. Questa giornata è iniziata bene e non voglio guastarmela…

Prima di andare mi sbaciucchiò un po’ la pancia, come faceva sempre da quando seppe che ero incinta

-Ciao Muffin…zio Mike se ne va…Non mi strapazzare troppo la mamma…

Mi fece un occhiolino e la porta si chiuse alle sue spalle.

Chissà come sarebbe stato il mio piccolo Michael, di che colore avrebbe avuto gli occhi, quale sarebbe stata la sua prima parola, come sarebbe stato il suo primo giorno di scuola o il primo batticuore. Avrebbe avuto tanti amici che gli volevano bene e tante ragazzine che lo corteggiavano; forse avrebbe amato dipingere come mia madre o suonare come mio padre. Sarebbe diventato un uomo in carriera o forse un artista strampalato, uno di quelli che sta avanti anni luce mentre il mondo rimane legato alle catene delle convenzioni sociali. Si sarebbe sposato con una donna che forse mi somigliava, avrebbe avuto dei bambini, sarei diventata nonna…
No, niente di tutto questo.
La violenza di un paio di mai mi impedì anche di diventare madre, le mani di un uomo che di lì a poco sarebbe diventato di nuovo papà
Quella sera rincasai tardissimo. Alle volte rimanevo da Mike a dormire, soprattutto quando Patrick era fuori per lavoro e non mi andava di rimanere da sola in casa in particolare da quando ero in attesa. A casa sua mi sentivo a mio agio; avevo la mia stanza, il mio spazzolino, il mio pigiama rosso a righe…anzi a dire il vero il suo pigiama rosso a righe, ma ormai me ne ero impossessata.
Quella sera tra una chiacchiera e l’altra si fecero le undici.
-Cavolo Mike…è tardissimo…meglio che torni a casa altrimenti chi lo sente quello. Non gli ho lasciato nemmeno niente per cena…
Mi rispose con la sua solita espressione, quell’espressione infastidita e allo stesso tempo preoccupata che faceva ogni volta che parlavo di Patrick.

-Perché non rimani ancora un po’?- chiese

-Lo sai, dipendesse da me…ma vorrei evitare…

-Si si hai ragione, scusa. Allora ti accompagno io a casa…- mi disse con il suo tono premuroso

-Lascia stare, ho la macchina…

Mi seguì fino alla porta.

-Guarda che conosco l’uscita…- sorrisi

Aveva degli occhi strani. Cercò di trattenermi il più possibile con discorsi buttati lì a caso. Voleva che rimanessi.

-Mike che hai?

-No niente…ho una strana sensazione…non so…

- Ma ti senti male?

-No no, sto benone. Volevo solo dirti che io sono qua…quando vuoi…Per te ci sono sempre Susie, ok?

-Lo so, lo so- risposi accarezzandogli il viso.

Stavo per uscire quando lui mi trattenne con la mano.

-Ma tu mi vuoi bene sempre Susie? Anche se noi…insomma…noi non siamo più…non facciamo più quelle cose che…

Quando parlava così sembrava un ragazzino impacciato alle prime armi.

- Che intendi dire, non capisco…

- …Insomma quelle cose che fanno due innamorati. Noi abbiamo…quando eravamo più giovani…abbiamo fatto l’amore e tutto il resto…siamo stati insieme, ci siamo amati intendo…Però anche se adesso non siamo più quelli di prima io ti voglio sempre bene Susie…

-Anche io te ne voglio…

Mi diede un bacio sulla fronte e mi avviai verso la macchina.


-Aspetto fino a quando non esci dal cancello…
Faceva sempre così; rimaneva sulla soglia fin quando il cancello automatico non si chiudeva. Ma quella volta lo fece con sofferenza, quasi straziato.
Gli feci un ciao con la mano e andai.
***


-Ma dove cavolo ti eri cacciata, brutta imbecille!!!

Il solito buonasera di Patrick non si era fatto attendere nemmeno quella volta. Non appena entrai in casa mi si avventò contro come una furia. Era ubriaco fradicio e chi sa cos’altro si era fatto, sentivo la sua puzza dalle scale.
-Invece di stare a perder tempo da quel depresso del tuo amichetto, potresti anche degnarti di prepararmi qualcosa da mangiare visto che torno la sera stanco morto e stressato dal lavoro. Io che lavoro…-mi fece con voce impastata.
A stento si capiva quello che diceva, ma i suoi discorsi li conoscevo a memoria ormai. Sosteneva che io in casa fossi inutile, che quello che si spaccava la schiena a lavoro era lui, che andavo in giro a fare la poco di buono con l’amichetto famoso. Ballare…e che era un mestiere?...
In silenzio incassavo, incassavo, incassavo.
La voce di Mike in un orecchio…denuncialo, denuncialo…
La voce di mia madre nell’altro…non rinunciare mai a te stessa…

-Bastaaaaaaaaa!!!- urlai in lacrime sbattendo per l’aria tutto ciò che avevo davanti- non ne posso più di te, del modo in cui mi tratti, delle tue botte…

Nemmeno il tempo di completare la frase che me ne diede un assaggio.
Mi strattonò tirandomi su per in collo della maglietta e mi strappò via la catenina che portavo al collo , quel regalo che Mike mi fece nel lontano ’88 e con da allora praticamente non tolsi quasi mai. Spezzò via il filo d’oro a cui era legato quel cuore per me tanto prezioso, talvolta più prezioso di quello vero che mi pulsava dentro. Mi colpì con un pugno in pieno viso che mi fece sobbalzare all’indietro per due metri. Caddi pesantemente con il fianco sullo spigolo del tavolo.
Urlai di dolore e mi accasciai a terra sotto gli occhi di quell’animale offuscati da fumi dell’alcool.
Mi trascinai sul pavimento fino al bagno e mi chiusi dentro, avevo paura che ritornasse con altre botte.
Ebbi la lucidità di prendere il telefono.
Ero in un lago di sangue.
Chiamai Mike e gli raccontai quello che era successo, tra lacrime, urla e spasmi di dolore…
Dopo dieci minuti era arrivato a casa mia mobilitando ambulanza e polizia.
Da quel giorno Patrick fu messo dentro e io per alcuni mesi andai a vivere da Mike.
Il mio angelo era venuto a salvarmi.

Capitolo 12



“…It was all for God's sake
For her singing the tune,
For someone to feel her despair.
To be damned to know hoping is dead and you're doomed
Then to scream out
And nobody's there...
She knew no one cared...
Father left home, poor mother died
Leaving Susie alone…
Neglection can kill
Like a knife in your soul,
Oh it will
Little Susie fought so hard to live...
She lie there so tenderly
Fashioned so slenderly
Lift her with care,
So young and so fair.”
(Little Susie)


Un respiro di parole da liberare dopo una apnea di silenzi mortificati, un letto caldo che sciolga la disperazione che ti gela dentro, una risata saporita quando senti di aver perso il gusto della felicità, un affetto incondizionato da stingere al petto quando hai bisogno che qualcuno sostenga il battito del tuo dolore. Mi accudì come fossi la sua bambina, lui, il mio tutto, il mio essenziale, ancora una volta aveva la mia vita accoccolata tra le sue mani grandi.
Come è varia la natura degli uomini…
Uno mi aveva strappato il bene più prezioso che Dio possa regalare ad una donna, diventare madre, ed un altro aveva saputo regalarmi la forza di sopravvivere a quella sofferenza; da genitrice mi trasformai in nascitura e in quel momento ebbe inizio il travaglio e il parto della mia seconda vita.

Quelli che seguirono furono per me anni di intensa sofferenza fisica e psicologica.
L’aborto comportò una serie di complicazioni, interventi, visite continue; Mike si interessò di tutto e fece in modo che potessi essere curata dai migliori medici del mondo, gliene sarò grata per sempre, ma purtroppo nulla si poté fare.
Era con me in clinica quando il ginecologo che mi aveva operata mi disse quella frase, quella frase che per mesi ed anni ha tormentato le mie notti insonni.

-Signorina De Matteo, mi dispiace davvero tanto, ma abbiamo fatto il possibile. L’intervento è stato molto complesso e difficoltoso ma purtroppo i nostri tentativi sono stati vani. Non potrà più avere figli…

I miei occhi non furono sufficienti a piangere l’immensità di quello strazio, e Michael non sottrasse i suoi all’esplosione del mio dolore.
Durante la convalescenza post-operatoria venne a trovarmi in clinica quasi ogni giorno prima di riportarmi a casa. Ogni sua visita dava sollievo ad ogni spasmo sia fisico che mentale.
-Mr. Jackson è lei la vera medicina di questa ragazza…- disse il primario durante una visita di controllo in presenza di Mike.
Si, era lui la mia medicina, era il mio analgesico, il mio calmante, il vaccino protettivo contro lo schifo del mondo che stava fuori, era l’unica cosa di cui avessi veramente bisogno.

Uno di quei giorni mi ero allontanata per fare degli accertamenti al piano inferiore rispetto a quello in cui si trovava il mio reparto; mentre l’infermiera mi riaccompagnava in camera sulla sedia a rotelle, nel corridoio ebbi la sensazione di avvertire il suo profumo intenso, leggermente speziato e molto gradevole.
Entrai nella stanza e la trovai piena zeppa di palloncini ad elio a forma di cuore che pendevano dal soffitto, con su scritto MIKE TI VUOLE BENE!!!. Sul letto c’era poggiato un bellissimo mazzo di gerbere, i miei fiori preferiti, con un bigliettino che diceva:

“Starò via un paio di giorni per lavoro per questo non potrò passare a trovarti, ma ti prometto che non appena i fiori appassiranno e i palloncini cadranno dal soffitto, sarò lì pronto per riportarti a casa. Ti voglio bene “Little Susie”. Con amore, Michael.”

Come promesso, mi venne a prendere il giorno in cui fui dimessa dalla clinica. Mi sarei fermata da lui il tempo necessario per riprendermi e trovare una nuova sistemazione. Lasciai la casa di Patrick e vendetti il mio vecchio appartamento, volevo azzerare tutto, dovevo ricominciare.
Quando arrivammo nella sua tenuta mi aiutò a scendere dalla macchina e non appena poggiai un piede a terra mi ritrovai sollevata dalle sue braccia, sottili ma dalla presa sicura.

-Mike…Grazie ma ce la faccio a camminare…le gambe dovrebbero essere ancora al loro posto…- gli dissi sorridente e sorpresa da quel gesto inaspettato.
-Niente da fare, mi dispiace! Anche il dottore lo ha detto…Io sono la tua medicina…per cui ho il compito di farti guarire e di evitare che ti strapazzi-

Aveva preso proprio alla lettera le parole del primario.

-Mike ma c’è tua moglie!…Dai…lo sai come stanno le cose tra me e lei, e lo sai che non ci becchiamo proprio…non mi far fare discussioni, non ho le forze di schiaffeggiarla oggi, magari poi provvedo nei prossimi giorni…!

Ero infastidita dal solo pensiero di dover convivere con lei sotto lo stesso tetto per più dei miei dieci secondi di autonomia, superato quel tempo limite la sua presenza diventava urticante, ma non mi andava di lamentarmi dato che Mike si era già reso fin troppo disponibile in quel periodo ed io non avevo scelta. Lui era l’unica persona di cui potessi fidarmi e che volevo avere accanto in quel momento.

Scoppiò in una grassa risata.

-Ah…ma allora non stai poi così male, brutta imbrogliona!...Eccola qua…è tornato il mio manesco scaricatore di porto…Comunque stai tranquilla lei non è in casa e non credo proprio che ci vedremo in questo periodo, le cose vanno un po’ così diciamo…tranquilla…

Anche per lui quello era un periodo particolarmente intenso, il disco nuovo stava per uscire, era alle prese con i preparativi del tour e quotidianamente doveva vedersela con gli strascichi di quelle accuse che dal 1993 pendevano sulla sua testa come una spada di Damocle, il tutto mentre il suo matrimonio, come avevo previsto un millennio prima, era instabile peggio di un funambolo alle prime armi, ma non per questo si risparmiò di aiutarmi.
***
Giugno del 1995.
Uscì il suo nuovo disco, l’ esplosivo ritorno dopo le accuse infamanti che gli erano state rivolte. Era ancora nel fiore degli anni e nelle vene gli ribolliva impetuoso quel sangue che si chiama spettacolo, niente poteva fermare la furia del suo genio.
Come da rito comprai subito il cd, odiavo farmelo regalare da lui, e come da rito sulla copertina attendevo dedica ed autografo.
Arrivata a casa dopo l’acquisto mi precipita da Mike.
Bussai alla porta del suo studio nel mio modo riconoscibile, quel “tattaratatta-tattà” che le mie nocche non potevano fare a meno di musicare dinanzi ad un uscio chiuso.

-Entra Susie…

Quella bussata non necessitava di annuncio, sapeva benissimo che ero io.
Spalancai la porta brandendo in mano quel doppio cd come fosse un trofeo di guerra, e lo innalzai a mo di Coppa del Mondo.

-Evvai!!!!! È mioooo!!! Adesso ce l’ho anche io!!!!!!!!!!!!!

Stava seduto dietro la sua scrivania intento a leggere delle carte. Dinanzi a quella mia esclamazione alzò lo sguardo e aggrottando le sopracciglia disse

-Ma sei impazzita?

Non aveva ancora ben identificato l’oggetto che tenevo in mano, né tantomeno immaginava che fossi così stupida da farmi anche un’ora di fila dinanzi ad un negozio di dischi per comprare il suo, il cd di Michael Jackson, lo stesso tizio che conosceva da quasi dieci anni, dieci anni in cui avevano condiviso qualsiasi cosa fosse possibile e che adesso la stava ospitando a casa sua.

-IMPAZZITAAAA….E mica solo io…Ragazzo tu la gente la mandi al manicomio davvero, in giro ci sta il delirio Mike…I negozi di dischi sono pieni zeppi, file fino a fuori la strada, gente che spinge…Uuuu non immagini non immagini…

Ogni cosa in America si manifesta nell’eccesso. L’uscita di un libro tanto atteso, di un videogioco di ultima generazione, l’apertura di una nuova catena di negozi, per tutte queste cose si scatena l’inferno, immaginarsi che cosa potesse essere accaduto quando si seppe che era uscito il nuovo disco di Michael.
Avrei potuto benissimo avere la mia copia a casa, senza tanti problemi; anzi avrei potuto avere Mike a casa senza anti problemi, e invece no.
Lui per me era affetto e famiglia ma ogni tanto mi divertiva pensare che in fondo era anche uno dei miei cantanti preferiti, e quando un cantante ti piace tanto il cd te lo vai a comprare. Era una sorta di retroterra culturale ed educativo che nonostante tutto mi portavo dietro negli anni; mi avevano insegnato che non dovevo aspettare che una cosa mi fosse dovuta, se la volevo e ne avevo le possibilità l’avrei ottenuta da sola con le mie forze. E non nascondo che di forze ce ne vollero abbastanza per sopravvivere al caos in cui mi ero imbattuta per comprare quel disco, ma quando finalmente ne ebbi la mia copia mi sentivo una “ragazzina” soddisfatta!
E con la stessa faccia da ragazzina, un po’ stupida oltre che soddisfatta, entrai nel suo studio pronta per il mio autografo.

-Susie daiii…Uffa, di nuovo! Tu sei proprio scema…te lo volevo regalare io stavolta!...Basta non te lo firmo, mi rifiuto, così impari…Ma poi ne hai tremila di firme mie, ma che ne devi fare?

- Sig. Michael Jackson – risposi parlando un inglese pedestre marcatamente napoletano per prenderlo in giro- ma sono venuta da Napoli fino qui per avere un vostro autografo e voi così mi trattate? Siete proprio uno “scornacchiato”!

- Non cambierai mai…te ne approfitti perché non ho capito niente di quello che hai detto, da qua sto coso che te lo firmo…- rispose sorridente- …e poi dici che il pagliaccio sono io. Tu hai sbagliato mestiere, invece di fare la ballerina dovevi fare l’attrice…


- Ma tu non capisci Mike- gli dissi recuperando un accento decente che avevo conquistato dopo tanti anni americani- tu sei tu, lo so, l’amico di sempre con cui ho dormito, mangiato, litigato, scherzato, che mi ha visto con i capelli arruffati e brutti di prima mattina e anche in tenute casalinghe quasi imbarazzanti, ma comunque sei uno dei miei cantanti preferiti, te ne devi fare una ragione. Io voglio il tuo autografo!

- Ok…allora facciamo un patto. Io ti restituisco il tuo cd con l’autografo se anche tu mi fai un autografo su uno dei miei cd…


- Ma che c’entra…dai…

- Ok allora niente autografo…


- E che devo scrivere?

- Il tuo nome, semplice…


- Va bè dai, scrivo solo Susie…

- No perché, io mica ti scrivo Mike. Devi scrivere Susanna Marie De Matteo!


- Addirittura?!...Se proprio insisti…
- Ecco…prendi questo…ti becchi il più “cattivo”!

Mi diede il cd, proprio quello che cantava i nostri ricordi più belli, e sopra ci scrissi:
“Al mio più fedele compagno di avventura…Con affetto Susanna Marie De Matteo!!!”

Tornai in camera mia pronta ad ascoltare il prodotto di ciò per cui quell’uomo era nato, fare musica.
Mi distesi sul letto, inserì il cd nel lettore e mentre nel giro vorticoso del disco le cuffiette cantarono le prime note diedi un’occhiata ai titoli delle canzoni.
Uno mi saltò agli occhi come se fosse stato scritto a caratteri di grandezza tripla rispetto agli altri. Non poteva essere. Non poteva essere come credevo io, me lo avrebbe detto…
Il mio dito premette freneticamente il pulsante che spingeva in avanti la sequenza dei pezzi fino a quando quella canzone iniziò a raccontare la sua musica.
Un’introduzione solenne, la carica di un carillon, la tenera e lamentosa nenia di bambina interrotta da un’esplosione di archi. E poi lui…Lui, vellutato, trasportato, sommesso e delicato. Lui…lui che aveva rubato la voce degli angeli, suonava i suoi respiri con quella tecnica che nella sua naturalezza si era fatta arte perfetta…E poi…il mio nome, pronunciato come solo lui sapeva fare con quel suono dal sapore di un soffio che spingeva le lacrime lungo il mio viso, cadenzate e regolari come il rintocco delle campane che concludono quella dolorosa poesia.
Era la storia di una bambina uccisa, una bimba sola a cui era stata strappata la vita.
“Little Susie”si intitolava quella canzone, e si srotolava su di una musica delicata e tormentata, colonna sonora cucita ad arte sull’angoscia che avevo vissuto in quel periodo, quando fragile come una bambina mi era stata strappata la vita, anzi la possibilità di dare la vita per sempre.
Non volle mai raccontarmi che cosa davvero l’avesse ispirato, diceva si trattasse di evento di cronaca che aveva letto da qualche parte; sapevo che non era così, ma gli feci credere che me l’ero bevuta. Chissà, forse temeva che potessi prendermela, che mi potessi arrabbiare perché magari aveva parlato “pubblicamente” di un mio dolore, o forse più semplicemente non ero io che lo avevo ispirato. Ma ci volli credere lo stesso, quella canzone fu per me una grandissima dimostrazione del suo affetto e della sua intima condivisione della mia sofferenza.
Per questo non potevo arrabbiarmi, potevo solo volergli più bene.

Dal dolore per aver perso così giovane la gioia di diventare mamma, imparai che il mondo è pieno di bambini bisognosi di affetto. E così che il mio amore materno rimasto sospeso, trovò finalmente il suo senso nell’aiutare i bambini in difficoltà.
Chi più dell’uomo che è entrato nel Guinness dei primati per il numero illimitato di iniziative benefiche portate avanti poteva essermi di aiuto? E così anche per questo, come per tantissime altre cose importanti della mia vita, quell’uomo era Michael Jackson.
Iniziai ad interessarmi alle sue attività umanitarie con un coinvolgimento nuovo. Ho sempre saputo che era un gran benefattore, ma iniziai ad entrare davvero dentro il suo lavoro filantropico. Mi informai nel dettaglio di cosa si occupavano le associazioni umanitarie da lui fondate e in che cosa venivano investiti i soldi che dava in beneficenza. Iniziai a proporgli delle cose, presi delle iniziative e gli chiesi di potermi occupare personalmente di alcune attività svolte a suo nome. Mi diede campo libero e mi lasciò fare, donandomi la possibilità di guardare di nuovo al futuro con occhi speranzosi. Avevo nuovi obiettivi, nuovi progetti, e intanto lo aiutavo, lo incoraggiavo in un dare e ricevere che fu per me come manna dal cielo.
In quegli anni visitai le realtà più povere del mondo, dove la fame, le malattie, le guerre e l’ignoranza sono gli assassini di milioni e milioni di piccoli innocenti. Dinanzi a dolori così grandi imparai a tollerare anche le mie sventure e ad apprezzare davvero ciò che Dio mi ha donato.
Ho visitato villaggi fatiscenti, orfanotrofi abbandonati a se stessi, quartieri malfamati dove poter raggiungere l’adolescenza sani e salvi è quasi un miracolo e dove non c’è spiraglio di futuro, e a partire da quelle esperienze decisi che se non avevo potuto fare nulla per salvare il mio bambino, potevo quantomeno tentare di aiutare i bambini degli altri.
Poi arrivò il famoso “Mal D’Africa”, lì ho lasciato una pezzo del mio cuore e una parte di quel paese e di quel popolo continuerà a seguirmi ovunque io vada, e le iniziative che nel mio piccolo ho intrapreso autonomamente tramite una associazione a tutela delle donne maltrattate.
Di Patrick purtroppo non ne esiste solo uno.

Alla sofferenza legata alle mie sventure seguì la mortificazione di un uomo innocente travolto dalle più false ed infamanti accuse.
Mi stavo appena risollevando dal peso di quel destino che non mi volle vedere madre e avevo letto dinanzi a me la possibilità di rialzarmi di nuovo perché Michael aveva scritto per me quella possibilità.
Ma adesso il pilastro portante della mia vita stava per essere demolito sotto il peso del complotto, dell’ingiustizia e dello squallore massimo che l’umanità è in grado di raggiungere. Lui che mi era stato accanto senza risparmiarsi adesso aveva bisogno di tutto il mio aiuto.
Era sorprendente la capacità che aveva di aiutare gli altri, ma nello stesso tempo era sconvolgente la difficoltà che incontrava ad aiutare se stesso nei momenti di sofferenza.
Anche per questo credo che in lui predominasse quella spiccata sincronia di pensiero con i bambini. Come i bambini sentiva di dover essere sostenuto ed aiutato da parte di chi lo amava; come i bambini si regalava a te solo per il piacere di farlo; come i bambini sapeva essere sadico e spietato scegliendo però se stesso come bersaglio dei suoi impulsi. Non prendeva a fiondate le code di povere lucertole spaurite, ma in un cero senso le sovraumane aspettative che aveva erano la sua fionda e la sua autostima la povera lucertola; e proprio come i bambini era fragile, ancora, a quasi quaranta anni, lui che bambino non era mai stato davvero.
E intanto il mondo intero assisteva come un sadico spettatore a quel gioco di vita, mentre l’avidità degli adulti gli rivoltava contro nel modo più sporco l’infanzia che lui aveva tanto sostenuto e tutelato, per cui si era perennemente prodigato usando il suo nome e le sue possibilità per dare un contributo concreto a quella parte di mondo che soffre.
Intraprese una via crucis giudiziaria che lo vide accusato di aver commesso nefandezze che mai la sua mente sarebbe stata in grado di partorire; una mortificazioni che fu costretto a rivivere dopo le accuse del 1993, che sebbene non ebbero implicazioni penali, lasciarono in lui una ferita ancora sanguinante. Nel 2003 fu costretto a rivivere quel dolore con una intensità ancora più devastante, cronicizzando la sofferenza che con difficoltà aveva cercato di fronteggiare.
Processi, arresti, accuse, e ancora processi. Ciò che accadde in quegli anni, aimè è storia pubblica, ma quello che ci fu realmente dietro il caos mediatico è per me storia di vita.
Gli stetti vicino senza riserve, a differenza di tanti che si predicavano amici e che gli voltarono le spalle, e a differenza di tanti altri feci tutto lontano dai riflettori, dalle interviste, dalla televisione. Lo rispettai, come lui mi aveva sempre rispettata anche quando stavamo insieme, anche quando non ero abbastanza matura per comprendere i suoi bisogni, forse per mio egoismo, o forse perché lo amavo troppo.
Passavamo nottate intere a parlare. Aveva bisogno di sfogarsi, di urlare, di piangere; e quanto ha urlato, quanto ha pianto. Cercai di sostenerlo nel tormento fisico e psicologico di quegli anni, combattendo con tutte le mie forse contro quella sua debolezza che si abbandonava troppo spesso ad un sollievo chimico, beffardo, estraniante e distruttivo.

Volevo dimostrargli che poteva ancora essere felice e che chi lo amava davvero non lo avrebbe mai abbandonato, che per lui ci sarebbero state altre mille occasioni per sorridere e nel giorno del nostro compleanno gli preparai una sorpresa.
Non si sentiva dell’umore adatto per fare festeggiamenti, ma quel giorno non poteva passare inosservato…Era o non era il “Nostro Anniversario Di Vita”?
Avevo le chiavi di casa sua e con la complicità di un suo collaboratore feci in modo che stesse via per un paio d’ore, giusto il tempo di organizzarmi.
Niente mega festa eclatante; niente striscioni, né centinaia di invitati, caviale e champagne.
Il menu della serata prevedeva: trionfo di vecchi ricordi su una cascata di spaghetti al pomodoro fresco con contorno di pigiama e monopoly; per dessert il nostro film, “Neverending story”.
Quando arrivò era tutto pronto.
Fuori la porta di ingresso attaccai un post-it con su scritto a matita
”Per sempre…29 agosto 1987”
Lascia che sia io la tu medicina, te lo devo.

Quella sera ci divertimmo da pazzi, ne avevamo entrambi un grande bisogno.
Il salotto si trasformò nel nostro ring, e come i vecchi tempi demmo inizio alla nostra lotta a colpi di passi di danza. Erano anni ormai che non rispolveravamo questo nostro vecchio gioco; adoravamo fare queste gare ed eravamo capaci di passare delle ore a ballare senza mai fermarci. Ognuno di noi a turno faceva dei passi, i più belli e virtuosistici che riuscisse a danzare, cercando di battere la performance dell’avversario.
Sono sempre stata un tipo ambizioso…sfidare Michael Jackson…beh non è proprio una cosetta semplice semplice.
Ci divertivamo un mondo tra risate, smorfie e movenze assurde, ma poi in realtà ci impegnavamo sul serio. E pensare che da serate come quella in passato sono nati alcuni dei suoi passi più belli, gli stessi che hanno fatto impazzire di gioia intere generazioni e che hanno fatto la storia dell’intrattenimento musicale di tutti i tempi.
Alle volte non potevo trattenermi dal fermarmi a guardarlo. Lui, nello spazio compreso tra due divani, con indosso solo un pigiama ed un paio di calzini rigorosamente bianchi ai piedi, era capace di regalarmi strabilianti momenti di essenziale spettacolo, pura estasi anche con un solo movimento della testa. Quando si accorgeva del mio sguardo insistente e rapito dalla genialità che quel corpo era capace di creare, si fermava.

-Susieee…così no…mi imbarazzi, lo sai- mi diceva con quella voce che mi faceva dimenticare la sua vera età- …riprendo solo se ti muovi anche tu…altrimentiii…niente.

E allora si piantava davanti a me con le braccia conserte in attesa che muovessi un piede o un braccio. Ricominciavo a ballare mentre nella mia mente cercavo di escogitare il modo per poterlo guardare di nuovo senza che se ne accorgesse.
In momenti come quelli ho dubitato che quell’uomo fosse di questo pianeta, che esistesse davvero e che Dio mi avesse fatto il dono di stargli vicino in quel preciso istante.
Facevamo delle specie di “gemellaggi” tra la mia danza e la sua; ognuno doveva insegnare uno dei suoi passi all’altro.
Imparò le posizioni principali della danza classica e addirittura i port de bras. Guardarlo mentre cercava di tenere in piedi in quinta posizione mi fece morire dal ridere per una settimana. Dal canto mio devo riconoscere che per il moonwalk sono sempre stata portata. La prima volta che gli mostrai come lo avevo imparato dopo averglielo visto fare centinaia e centinaia di volte in prova e in scena, mi disse ridendo

-Ragazza non ti azzardare a farlo in pubblico. Vorrai mica rubarmi il mestiere? Io con il moonwalk ci campo…

Quella sera parlammo del passato, delle stupidaggini che facevamo insieme, delle nostre risate, di quando uscimmo entrambi travestiti da clown in giro per Los Angeles.
Lui amava questo tipo di cose sia perché gli permettevano di andare in giro senza essere riconosciuto sia perché in realtà si divertiva come un matto, io un po’ meno ma poi alla fine mi trascinava sempre nell’assurdità delle sue follie.
Spesso lo aiutavo a truccarsi nelle maniere più strane, con ombretti e pennelli sono sempre stata brava ed essendo cresciuta in teatro amavo il trucco di scena e conoscevo le astuzie del mestiere. Di solito lo aiutavo solo a prepararsi ma riuscì più volte anche a convincermi ad accompagnarlo bardata in maniera a dir poco ridicola.

-E dai…ma perché ti devi sempre far pregare….Solo stavolta…su!Ti metti una cosetta semplice non tanto vistosa- mi disse una di quelle volte prendendo in mano con una faccetta ironica un orrendo vestito lungo con pailette fuxia ed un grande fiore arancione al centro.
Mi sono sempre chiesta dove andasse a pescare quei cosi.

-Mike lo sai che non mi va…Ma poi chi cavolo mi deve riconoscere fammi capire?

-Scusa io sono vestito da pagliaccio e tu avresti il coraggio di far uscire il dolce sig. pagliaccio senza la sua bella mogliettina? Sei proprio crudele!

-Ooooooooookkkkkk…Però, abbi pazienza, se devo conciarmi in quel modo lo voglio fare con le mie mani…

-Ma non ci penso nemmeno…!!!Mi vuoi togliere la parte più bella…?Da qua sta roba…me la vedo io- mi rispose ridacchiando.

Mi riempì la testa di codini e fiocchi, mi disegnò con il rossetto due labbroni enormi e sugli occhi si sbizzarrì con i colori più sgargianti. Ah ovviamente non poteva mancare il naso rosso.
Ebbene si abbiamo avuto il coraggio di uscire in quel modo e aimè non fu l’unica volta.
Me ne combinava di tutti i colori, ma le volte peggiori erano quelle in cui dava inizio alla battaglia con l’acqua. Lì non ce ne era per nessuno.
Facevamo delle squadre con amici e parenti che frequentavano casa sua, ovviamente io stavo sempre in quella avversaria e ci scontravamo con pistole, palloncini e secchi. Non di rado capitava che mi accogliesse in casa facendomi dei “gavettoni di benvenuto” come li chiamava lui, e per questo lasciavo spesso da lui un paio di jeans e una t-shirt di ricambio perché sistematicamente mi capitava di trascorrere i miei pomeriggi bagnata fradicia.

Quei ricordi ci ammorbidirono il cuore ma allo stesso tempo lo resero anche più sensibile di fronte alla realtà sporca che stava vivendo. Lui, il mio bambino, non era più quello di una volta, dolorante, deluso e sfiduciato dinanzi al trucido mondo degli adulti a cui sentiva sempre di più di non appartenere. Volevo rivedere quegli occhi illuminarsi di nuovo, di quella stessa luce che aveva fatto mezzogiorno nelle mie nottate più dolorose; lo dovevo fare per lui e lo dovevo fare anche per me, che dall’età di vent’anni non avevo rinunciato mai a rendere quella luce la mia ragione di vita.
Quella sera trascorsi uno dei nostri compleanni più belli e dopo la rispolverata di vecchi ricordi eravamo stremati di chiacchiere. Proprio come i vecchi tempi crollammo tramortiti sul divano e poco prima che il sonno quella notte ci coprisse con la sua coperta mi guardò esausto ma tranquillo e mi disse

- Susie…Dio ha deciso che tu sia il mio angelo…

Almeno per quella volta evitai che prendesse delle porcherie per dormire.
Anto (girl on the line)
00martedì 13 luglio 2010 02:18
Senza parole.... [SM=x47964] [SM=x47964] [SM=x47964]
Sei magnifica Sere... [SM=x47938]
Sere-88
00mercoledì 14 luglio 2010 15:25
Capitolo 13




“Once all alone
I was lost in a world of strangers
No one to trust
On my own, I was lonely
You suddenly appeared
It was cloudy before but now it’s clear
You took away the fear
You brought me back to life
You are the sun
You make me shine
Or more like the stars
That twinkle at night
You are the moon
That glows in my heart
You’re my daytime my nighttime
My world
You’re my life”
(You Are My Life)


Sostenere, affrontare ed urtarsi con la sofferenza di un uomo complesso come Michael fu per me un’impresa titanica, per mia fortuna dolcemente alleggerita dall’aiuto di sei tenere manine che nel loro piccolo furono l’unico antidoto realmente efficace ad alleviare le pene di quel cuore dolorante ed affaticato da una vita di emozioni spietate.
La nascita dei suoi figli fu un duplice miracolo, che da una parte riaccese la gioia di un padre che li aveva tanto desiderati e dall’altra sublimò il mio desiderio di maternità; li ho accuditi, coccolati e strapazzati di baci e saranno per sempre una parte speciale del mio cuore
Ma inizialmente non fu facile per me accettare la paternità di Mike, quella paternità un tantino particolare rispetto al mio modo forse troppo tradizionale di intendere il concetto di famiglia.
Di lui conoscevo pensieri, sofferenze ed ovviamente anche difetti, come quello di tenermi totalmente allo scuro di sue scelte un pò opinabili, e che sapeva bene non avrei condiviso se mi avesse chiesto un consiglio in merito.
Ma lui era abituato ad essere assecondato da chi per interesse voleva a tutti i costi ottenere la sua approvazione, e di certo una come me senza peli sulla lingua poteva in alcuni casi essere un impiccio , per cui la cosa migliore da fare era comunicarmi le cose dopo che erano già belle che accadute.
Lungi da me l’intenzione di manipolarlo o condizionarlo, erano altre le persone che si preoccupavano di ricoprire questi ruoli nella sua vita, al massimo avrei espresso una mia opinione qualora me l’avesse chiesta, ma evidentemente il mio pensiero poteva avere su di lui una incidenza maggiore di quanto pensassi, quindi in questi casi il suo imperativo diventava “evitare e tacere!”.



Febbraio 1997
Da circa un anno avevo intrapreso il mio terapeutico impegno umanitario che mi trasformò per mesi e mesi in una cittadina del mondo; tra Sud America, Africa nera, Europa dell’est e qualche tappa in Italia dai miei parenti era ora di tornare in America.
In quell’anno di spostamenti continui avevo sentito Mike ben poco sia perché era stato impegnato dai concerti del suo nuovo tour mondiale, sia perché avevo trascorso lunghi periodi in zone del mondo dove talvolta la comunicazione telefonica era praticamente impossibile.
Avevo intenzione di fargli una sorpresa per cui non lo avvisai del mio ritorno, ma inaspettatamente fu lui a fare una sorpresa a me.

Nell’infinita attesa che il rullo del tapis roulant disegnasse impigrito il suo percorso con in groppa i bagagli dei passeggeri, lasciai lì uno dei collaboratori che mi accompagnava in quelle traversate e mi avviai alla ricerca di un bar, di un caffè rigorosamente espresso e di un bagno.
Mentre percorrevo gli spazi affollati dell’aereoporto con la zavorra di quelle estenuanti ore di viaggio sulle spalle, la copertina ingrandita di una rivista di gossip affissa alle vetrate di una edicola mi diede un sonoro cazzotto in faccia:
JACKO DIVENTA PADRE!
Mi strofinai gli occhi nella speranza che la vista mi stesse facendo uno scherzetto, ma non appena rimisi a fuoco l’immagine ebbi la conferma che da lontano ci vedevo ancora decentemente.
JACKO DIVENTA PADRE!
Una foto posata in copertina raccontava ancora meglio i caratteri cubitali di quel titolo; lui con accanto una donna bionda dal viso a me noto, e un piccolo fagotto tra le braccia.
JACKO DIVENTA PADRE!
Tre parole che seppure fossero state disposte in un ordine diverso avrebbero avuto per me lo stesso maledetto soffocante significato.
Una sensazione mista ed ambivalente di svenimento ed attacco isterico si impossessò del mio corpo, ma il tutto trovò una semplice e banale sintesi in due irruenti lacrimoni che mi bagnarono le guance all’istante, come se non stessero aspettando altro che una valida motivazione per sbucare fuori dai miei occhi.
Non mi sfiorò nemmeno lontanamente l’idea di acquistare quella rivista, sapevo che i giornali sul suo conto ne avevano dette di tutti i colori, e dal momento che generalmente conoscevo sempre la verità dei fatti non mi ero mai accostata a quel tipo di spazzatura giornalistica capace di far vergognare chi il mestiere di giornalista lo fa sul serio.
Ma oltre alla foto chiaramente eloquente, dentro di me sentivo che questa volta, per via dei miei viaggi e del fatto che in quei mesi ci eravamo sentiti poco e niente, la verità dei fatti la ignoravo completamente e l’unico modo per sapere le cose come stavano era chiamarlo.
Mi avvicinai ad un telefono e feci il suo numero.

-Pronto- rispose lui dopo qualche squillo

- Mike, sono Susie…sei a casa tra circa un’ora?

-Si si certo, ma sei tornata allora?

-Si

-Allora sbrigati ad arrivare qui e preparati perché troverai una…

-Ci vediamo dopo…

Conclusi all’istante la conversazione spezzando con freddezza il tono gioioso della sua voce; non mi andava che si accorgesse del mio stato d’animo alquanto confuso, né tantomeno volevo che si salvasse in calcio d’angolo dandomi la notizia al telefono e giustificandosi con il fatto che in quei mesi ero quasi sempre irrintracciabile.

Presi un taxi alla volta di Los Olivos.
I miei occhi rincorrevano passivamente lo scenario della strada che scorreva dietro il finestrino, stravolti nel tentativo di trattenere un pianto immondo.
Perché piango?- chiedevo a me stessa con insistenza- invece di essere felice perché il tuo più caro amico è diventato papà, appendi il muso? Sono lacrime di gioia le tue?
In quel pensiero vagavano una serie di espressioni sbagliate.
Innanzitutto il mio più caro che?
Ah si, Mike era il mio migliore amico, lui sapeva questo, la sua famiglia sapeva questo, la mia razionalità sapeva questo. Avevo bellamente preso in giro tutti e nessuno di loro aveva capito un emerito cavolo, compresa io.
L’unico vero detentore della verità se ne stava nascosto nel profondo del mio petto, e ad ogni battito pronunciava la parola bugiarda-bugiarda-bugiarda-buigiarda!!!!
Confusione, invidia, risentimento, delusione, rinuncia. Insieme a me furono questi i passeggeri del taxi che si fermò dinanzi a quel cancello enorme, che nei moduli delle sue ringhiere si apprestava a raccontare una favola.
C’era una volta…
…una donna confusa.

La porta d’ingresso si aprì prima ancora che bussassi.

-Susieee….ti aspettavo…

Mi accolse in un abbraccio strettissimo e con un sorriso che non potrò mai dimenticare.

-Ciao Michael

-Susie ho una sorpresona per te! Seguimi!

Mi prese impaziente per la mano conducendomi verso le camere da letto della sua casa.

-Mike aspetta…

-Ma che aspetta, devi venire di sopra…ti devo far conosc…

-Lo so già Mike, anzi… lo so finalmente…- gli dissi con tono serio

Quella frase spense il suo entusiasmo in maniera caustica.

-Da chi lo hai saputo?

-Di certo non dalla persona che avrebbe dovuto dirmelo…

-Ma chi è stato?

-Mike e su svegliati! Ma chi doveva essere…Se ti fai fotografare in bella posa con la sacra famiglia non ti sorprendere che i giornali ne abbiamo parlato…

-Lo so bene che ne hanno parlato, ma…ma non mi andava che lo sapessi così

-Potevi pensarci prima allora…

Fredda come l’inverno tirai via la mano dalla sua presa.
Non era il momento adatto alle presentazioni e non avevo nessun diritto di rovinargli quel momento di gioia, dovevo andarmene.

-Senti è meglio che vada…mi faccio viva io e poi con calma passo per vedere tuo…tuo figlio…Adesso non è il caso…

Mi afferrò di nuovo il polso con decisione e mi trascinò nel suo studio sbattendo la porta.
Il suo volto era cambiato, un piglio nervoso aveva preso a calci il suo bel sorriso e si preparava a prendere a calci anche me.

-Susie ma che vuoi?

-Nulla…lasciami andare…

Impugnai la maniglia aprendo leggermente la porta per uscire, ma quel tentativo di fuga venne stroncato dal peso del suo corpo che con decisione la serrò nuovamente.
Lui tra me e quella porta con le braccia conserte ed una espressione che non avrei mai voluto vedere.

-No…

-Non ho niente da dirti…anzi si forse una cosa sola…auguri…

-Ti rendi conto che questo per me è uno dei momenti più belli della mia vita?

-Appunto…è per questo che non mi va di rovinartelo…

-Ci stai riuscendo in pieno Susie e non capisco perché…

-Perché i figli si fanno con la persona che ami e non per il proprio egoismo…

-Pensi questo di me?

-E che devo pensare Mike, spiegamelo tu che devo pensare. Cazzo ci vogliono nove mesi per fare un figlio, senza considerare una precedente fase in cui di solito le persone prima di accoppiarsi si frequentano, alle volte si amano e poi decidono di mettere su famiglia. Tu mi vuoi dire che in tutto questo tempo non hai avuto modo di dirmi che stavi aspettando un bambino da una donna? Ma per favore…Ma poi lei chi è?

-Debbie…la conosci dai…, non mi dire che non la conosci…

-Ma non è questo il punto, non devi dar conto a me nello scegliere con quale donna vuoi fare dei figli. Guarda che tu non ti devi sentire in dovere di giustificarti di niente, non sono la tua fidanzata, tua moglie o la tua amante, sono solo una tua amica. Semplicemente dal momento che ci conosciamo da una vita e per l’intensità delle cose che abbiamo vissuto le vite forse sono pure due, mi aspettavo un minimo di considerazione in più e un po’ di finzioni in meno, tutto qua.

Soffiò fuori un respiro pesante e si mise a sedere dietro la scrivania.

-Tu lo sai quanto desideravo un figlio Susie, ma perché non puoi semplicemente essere felice insieme a me…

-Perché per me i figli non sono giocattoli Mike, e lo sai quello che ho passato…Ma tu la ami sta donna? Cioè… che significa per te? Spero che ci sia un sentimento alla base di tutto questo…

-Susie, lei è solo un’amica che mi ha fatto un favore…

La superficialità di quella frase mi ferì profondamente. Fu una offesa al dolore che come donna avevo provato in quegli anni. Io che quel figlio che mi fu strappato, nonostante tutto, lo avrei cresciuto nel rispetto dei legami della famiglia, questa tipa lo avrebbe barattato come favore da fare ad un amico.

-Continuo a non capire…

Divenne agitato; il suo sguardo vagava nella stanza alla ricerca di una via d’uscita e le dita tamburellavano nervosamente la superficie del tavolo.

-Bene…allora vuoi sapere davvero perché ho fatto una cosa del genere? Perché ho chiesto a lei una cosa del genere?- disse in tono concitato battendo un pugno sulla scrivania

-Si lo vorrei sapere…

Si guardò intorno imbarazzato evitando di incrociare il mio sguardo, come se questo da solo potesse strappargli via quella frase che tanto si vergognava a dire. Poi si voltò di scatto verso di me e mi trafisse con quegli occhi appuntiti per il tempo di lunghi secondi in cui forse sperava di potermi far leggere sul suo viso ciò che faceva tanta fatica a dirmi a parole. Ma queste poi vennero fuori spingendo il mio cuore giù da un precipizio scosceso di congetture e pensieri confusi.

-Perché a te non avrei potuto chiederlo Susie…

Offesa, mortificata, arrabbiata ed usata dal suo solo pensiero.
Nella sua durezza la mia voce non seppe mascherare nessuna di queste emozioni.

-Allora ritieniti fortunato che non posso più avere figli, quantomeno ti sei evitato un schiaffo in faccia a un bel vaffanculo che di certo sarebbero state le mie risposte alla tua proposta. Mai e poi mai mi sarei prestata ad essere l’utero che ti avrebbe “partorito” un figlio solo perché ti andava di giocare a fare il papà…Ma come puoi pensare che io potessi fare una cosa del genere? Ma hai capito o no che tipo di persona sono io?. Io non faccio un figlio con Michael Jackson solo perché possa avere il tuo nome o i tuoi soldi…Io avrei fatto un figlio con te perché…- deglutii prendendomi il tempo di correggere la cazzata che stavo per dire, o meglio la verità che spingeva con tutta forza per venir fuori e ripresi mascherando quell’impasse facendomi scudo di un tono deciso -…un figlio deve essere frutto dell’amore…Lo capisci questo?

Paradossalmente nei suoi occhi vidi lo specchio dei miei pensieri. Vi lessi offesa, mortificazione, rabbia ed incomprensione. Si alzò con uno scatto e prima di uscire da quella stanza lasciandosi dietro l’eco della porta che sbatte pesante, mi rispose

-Appunto…

Rimasi in quella stanza da sola con la mia confusione e con il senso di colpa per aver rovinato ad un padre la gioia di quel momento.
Che diritto avevo di fare una cosa del genere? E poi potevo biasimarlo? Proprio io che in quel periodo avrei fatto qualsiasi cosa per poter di nuovo avere un figlio.
Non dovevo scaricare su di lui le mie frustrazioni, non lo meritava dopo tutto il bene che mi aveva sempre dimostrato.
Corsi fuori da quella stanza intenzionata a rincorrerlo ovunque per chiedergli scusa. Le cose che gli avevo detto le pensavo davvero, ma il risentimento con cui avevo condito quelle parole era stato fuori luogo.
No dovetti fare tanta strada per trovarlo.
La sua voce leggera mi accompagnò con una ninna nanna cantata lievemente tra le numerose porte di quel corridoio immenso, fin quando da uno spiraglio lasciato aperto vidi ciò che avrei sempre sognato di vivere, come figlia e come donna, l’amore di un padre che culla il suo bambino con un trasporto estraniante che ti fa apprezzare la vera meraviglia della vita.
Mi accostai con discrezione allo stipite della porta aprendola giusto il necessario per poter imprimere meglio nella mia mente la dolcezza di quella scena.
Provocai un leggero rumore che fece in modo che si accorgesse della mia presenza.
Nemmeno l’ombra della rabbia che prima gli aveva sporcato il viso ora trovava spazio tra i suoi occhi e il suo sorriso.
Mi fece cenno di entrare.

-Si è appena addormentato- sussurrò

Risposi con un sorriso che ereditava ancora il disagio per la nostra precedente discussione.

-Vuoi tenerlo?

-Io?...

-Certo…

-Si… ne sarei felice…

Mi passò con accortezza quello splendore posandolo tra le mie braccia, e al contatto con quel corpicino caldo e indifeso piansi una felicità nuova ed inaspettata.

-Scusami Mike se non ho capito…

Mi si avvicinò posandosi l’indice sulle labbra per invitarmi al silenzio; mi baciò la fronte e mi disse

-Scuse accettate zia Susie…


Così conobbi il primo dei suoi gioielli, a cui dopo qualche tempo seguirono altri due a completare il tesoro della mia felicità.
Negli anni a seguire ho conservato con loro un rapporto meraviglioso, li amo profondamente e adoro la loro capacità di esprimere i sentimenti, questo è il più grande insegnamento che il padre ha trasmesso loro.
Mike mi ha concesso di essere per loro la zia che li vizia, che prepara i loro pranzetti preferiti e che li tramortisce di solletico; mi ha dato la possibilità di accompagnarlo nella loro crescita, caricandomi alle volte di una responsabilità eccessiva che tuttavia il mio istinto materno ha accettato con naturalezza, pur non essendomi mai permessa di impormi a loro come un surrogato di madre.
Quei tre bambini furono per Michael l’unica vera ragione di vita in grado di fargli affrontare la quotidianità dei suoi periodi più bui, e per me saranno in eterno la linfa dei ricordi più preziosi.

Quando finalmente nel 2005 il suo tormento giudiziario volse al termine, riconoscendogli la sua piena innocenza, decise di stare lontano dall’America per un annetto. Aveva bisogno di cambiare aria, di rilassarsi e di godersi in piena tranquillità l’affetto dei suoi figli.
Quell’anno sabatico fu per me altrettanto utile, in quanto mi servì a sbollire le tensioni che empaticamente i suoi momenti di difficoltà mi avevano provocato, permettendomi una più serena riflessione sulla natura del nostro rapporto.
Quello che venne fuori dal mio groviglio mentale ed emotivo non fu per nulla chiaro né definito.
Nel mio profondo conoscevo la natura dei sentimenti che da sempre nutrivo per lui, ma quegli anni di dolore fecero prevalere in me un tipo di vicinanza affettiva diversa, che cercasse di liberarlo dalla sua afflizione piuttosto che caricarlo delle mie aspettative o confusioni rispetto al “noi”.
Si era dato a me nel mio periodo di massima sofferenza, in cui senza forza mi abbandonai al sostegno del suo abbraccio. Quello stesso abbandono lo riconobbi nel suo modo talvolta criptico e contraddittorio di chiedermi aiuto, ma che accolsi senza riserve.
E adesso che le cose sembravano prendere di nuovo il giusto verso, avevo ripreso a tutta forza ad arrovellarmi il cervello per trovare una risposta razionale che potesse spiegare un legame che di razionale non aveva proprio nulla.
Da tutto questo intenso lavorio mentale ne venne fuori il profilo irregolare di un rapporto di intensa condivisione, che andava al di là di ogni affetto amicale, come anche di ogni affetto amoroso.
In sintesi, un casino infinito sorretto da un instabile equilibrio che tuttavia lo rendeva tanto speciale.
Queste conclusioni si mantennero precariamente in piedi fino a quando il suo ritorno non diede loro un ennesimo bello scossone.

Gennaio 2007
-Fatemi largoooo!!!!Tutti via dalla cucinaaaa, mi serve campo libero!!!- esclamai trionfante a gran voce con le buste della spesa in mano alle persone di servizio addette alla cucina.

Lo sapevano bene che quando a casa di Mike c’ero io, per cena si mangiava italiano.
Questa cosa faceva piacere a tutti, ai cuochi per primi che si prendevano la serata libera, ma anche a Mike perché quando c’ero io i bimbi mangiavano meglio e senza fare capricci e in fondo anche lui apprezzava i miei manicaretti sebbene non fosse mai stato un gran mangione.
Quella sera lasagne con ragù di carne e cotolette alla milanese. Dopo mangiato, giusto per digerire, facemmo tutti un po’ di movimento, lotta con i cuscini per la precisione, a cui seguirono una paio di giri a nascondino e acchiapparello.
Alle undici e mezza i bambini erano stremati e anche noi a dire il vero; stare dietro a quelle piccole pesti a volte era un’impresa, ma la più dolce del mondo.
Si addormentarono sul divano, tutti e tre addosso a noi; dopo un po’ decidemmo di portarli a letto, e così il papà prese in braccio la sua bella principessa e io mi trascinai il principino grande mentre quello piccolo mi teneva stretta aggrappato come un koala.
Li mettemmo a dormire e tornammo in salotto per bere un goccio di vino e tirare le somme della nostra vita.

-Mike, un giorno vorrei poter adottare un bambino…

-Perché aspettare, adottami subito…-rispose sorridente

-Dai fai il serio- dissi dandogli una leggera spinta con la spalla- dico davvero…Secondo te sarei una buona madre?

-Tu? Saresti la miglior madre per ogni bambino e la moglie perfetta per ogni marito…

-Si, come no? Infatti non sono più una ragazzina e di mariti nemmeno l’ombra. Caro mio, il problema vero siete voi uomini. Non vi sta mai bene niente, non si sa quello che volete dalla vita…

-Hai ragione sai…a volte non siamo capaci di amare chi ci sta vicino come meriterebbe di essere amato. Secondo me il trucco sta nel non smettere mai di cercare l’anima gemella. Non mi dire che ti sei già arresa ragazza?

Mi porse quella domanda con una malizia che da anni ormai non leggevo sul suo viso e che fece ribollire in me l’impulso irrefrenabile di prenderlo per il collo della camicia, di sbatterlo a terra e di farci l’amore più disperato urlandogli TUUUUU!!!!!! TU MALEDETTOOO SEI L’UOMO CHE VOGLIOOOOO!!!!!!
Tutto questo accadde solo nella mia testa, nel mio cuore e nella mia pancia.
Nelle fantasie ero una impavida spaccona pronta a tutto, ma nella realtà ero una cacasotto.
Quante volte mi perdevo nei miei pensieri vaneggiando su cosa avrei potuto rispondergli in una situazione come quella, ma poi sistematicamente ogni qual volta si presentava una circostanza simile, erigevo intorno a me architettoniche muraglie cinesi che mi impedivano di proferire una parola grammaticalmente sensata. Avevo paura di me, di lui ed ancor più ero terrorizzata dal “noi”; lui era stato la mia più grande passione, ma anche la mia più crudele tortura, un po’ di tremarella era ammissibile.
Vidi nella fuga la più semplice soluzione per sgusciare via furtiva da quel discorso pericoloso.
E pensare che in passato lo avevo criticato perché scappava dinanzi ai problemi…Complimentoni Susanna, bella coerenza!

-Mike, mi faresti un massaggino ai piedi? Sono stanca morta…

-Nooo…i tuoi piedi sono brutti…

-Ma la finisciii…- gli risposi lanciandogli un cuscino del divano-...saranno belli i tuoi…

-Puoi dirlo forte cara, i miei sono dei gran bei piedini…- rispose lui sollevando un po’ le gambe per mostrarmi meglio i suoi “gran bei piedini” facendoli dondolare su e giù.

-Non è vero sono orrendi…

-Ma guarda che bugiarda…Ma se hai sempre adorato i miei piedi…

-E dai su, quante storie…un massaggino piccolo piccolo…

-Okkkkkk, ma solo perchè stasera hai cucinato e ti sei data da fare con i bambini…

Mi distesi allungando le gambe su di lui.
Al primo contatto delle sue mani non riuscì a trattenermi dal sorridere per il solletico, ma poi persi completamente il senso di quello che mi circondava.
Se non sbaglio la medicina cinese sostiene che ad ogni punto della pianta del piede corrisponde un punto preciso del resto del corpo. Ebbene, non ho idea di che punto abbiano sfiorato quelle dita, ma di certo era un pulsante per raggiungere il paradiso; ogni tanto le sue mani arrivavano ad accarezzarmi la caviglia, il polpaccio, ed ogni centimetro in più che saliva era un brivido dritto fino alla cima dei capelli.

-Grazie Susie…-mi disse a voce bassa

-Per la cena? Figurati, lo sai che per me cucinare non è un problema…

-Ma non intendo solo per stasera…Grazie di tutto, grazie di te, grazie di essere entrata nella mia vita il giorno in cui ti vidi sul quel palco a Brodway…

Bum bum, bum bum, bum bum….
Il cuore mi batteva più forte.

- Susie?

-Mh…- mugugnai

-Ti andrebbe di danzare per me?

-Mike ballo sempre per te, sono anni che lavoriamo insieme…-gli risposi quasi sorpresa della sua richiesta.

Facevo finta di non capire, ma…

-No Susie, per me, per me soltanto…qui…adesso…senza riflettori, senza pubblico…Voglio essere io il tuo pubblico, come quella notte a Brodway…

…avevo capito tutto.

Pronunciò quelle parole con un tono diverso, nuovo, più profondo, più intenso; sembrava volere qualcosa, qualcuno.
Mi alzai di fronte a lui e gli presi le mani.

-Sono io invece che voglio ballare con te…

Gli risposi con una voce che non riconoscevo mia. Anche io volevo qualcosa, qualcuno; avevo la sensazione che finalmente ci eravamo ritrovati senza esserci mai persi veramente.
Ci stringemmo forte muovendoci delicatamente come se fossimo spinti da una leggerissima brezza. Poi ci fermammo e tutto girava intorno a noi, forse per il vino o forse per l’emozione e la sorpresa di ritrovarci così stretti dopo tanto tempo.
Le nostre fronti si poggiarono l’una all’altra e dolcemente sentivo il suo respiro alternarsi al mio secondo una ritmica perfetta, era quella la nostra musica in quel momento.
Eravamo di nuovo vicini come un tempo, emozionati come un tempo, desiderosi come un tempo. Chiusi gli occhi e in un istante mi attraversò l’eccitamento della prima volta in cui fu dentro di me in ogni senso, avvolti in quel vapore quasi metafisico, mentre sotto le mani avvertivo la consistenza dei nostri corpi e l’odore dei suoi capelli.
Mi fissò con quegli occhi, gli stessi di più di dieci anni fa, le sue mani grandi sui miei fianchi, io tremante come quella prima volta, e ad un tratto…
…dalla stanza accanto, una vocina assonnata esclamò

- Papàà, Susiee…veniteeee…ho fatto pipì a lettooo!.



Capitolo 14




“Why, why, tell 'em that it's human nature
Why, why, does he do me that way
I like lovin' this way
I like lovin' this way
Looking out
Across the nightime
Where the city's heart begins to beat
Reaching out
I touch her shoulder
I'm dreaming of the street…”
(Human Nature)


Lui, il limite oltre il quale la mia razionalità si disfa nella più deflagrante delle follie.
Lui, il superamento di quel valico che mi spoglia delle fattezze umane e mi trasforma in pura essenza di piacere.
Lui, per il quale mi perdo come persona rinascendo come un tutto desideroso di avvolgerlo e custodirlo per l’eternità.
Potevo mentire ancora alla golosa voglia di quegli occhi fondenti e al lussurioso formicolio delle mie mani pronte a toccarlo?
Si, avrei potuto, ma volli farmi di lui.
Lui, il mio peccato capitale.


“Ho bisogno di parlarti.”
Premetti il tasto di invio e quell’sms intraprese il suo viaggio accompagnato dalla terribile paura di commettere l’ennesimo errore madornale.
Non potevo far finta di nulla; la sera prima tra di noi stava succedendo qualcosa, non potevo mettere a tacere il mio cuore per la milionesima volta solo per il timore di perdere il controllo della situazione. Del resto a cosa mi era servito tutto quel controllo fino a quel momento? A nulla, se non ad affinare le mie doti di professionista bugiarda, verso me stessa e verso di lui.
Allora decisi di lasciare spazio all’istinto con la consapevolezza che avrei potuto pagarla cara.
Nemmeno il tempo di rimproverarmi a dovere che “Tin tin, tin tin, tin tin” il mio cellulare prese a squillare.
Un messaggio.
Feci un respiro profondo e digitai il tasto per procedere alla lettura.

“Sarò lì tra un’ora al massimo. Lascia aperta la porta sul retro, entrerò da lì per evitare la strada principale. Mike”

Ok, calmiamoci. Lui ha detto che vuole venire qui, tra un’ora. Mhmhm… quindi ho ancora un’ora prima di morire…- mi ripetevo ad alta voce come una psicotica andando avanti e indietro per la stanza- …respira Susie, respira…E’ sciocchezza, ma perché oggi ti stai facendo tanti problemi? Non è la prima volta che viene a casa tua no?

Si, effettivamente non era la prima volta che mi veniva a trovare, ma la tempestività di quella sua risposta mi lasciò perplessa. Insomma, perché tanta fretta di vedermi? In un’altra circostanza mi avrebbe semplicemente telefonato dicendomi -Ciao Susie, volevi parlarmi?
E invece adesso avevo il sentore che di lì a poco sarebbe successo qualcosa di incontrollabile.
Volevo finalmente dirgli la verità e confessargli dopo anni quello che sentivo davvero, quella passione mista di amorevole trasporto che mi vedeva pronta a consacrarmi a lui per il resto dei miei giorni. Una verità troppo scomoda da nascondere ancora, e il mio cuore, i miei sensi ed il mio corpo avevano deciso di porre fine a quella tregua decennale, pronti a dichiarare guerra ad ogni mia manifestazione di razionale diniego. Senza riserve e senza censure ero un libro pronto a spalancarmi alla sua lettura e a lasciarmi penetrare fin nelle righe più profonde.
Ero pronta, ma avevo una fottutissima paura.
Decisi di smetterla di consumare il parquet con quella insensata passeggiata, e pensai mi piazzarmi immobile dietro le tende della finestra ad attendere il suo arrivo.
Dalla psicosi passai alla catatonia, di male in peggio.

Prima una, poi due, poi tre lunghissime ore di tormento dietro a quel vetro, con gli occhi spalancati sulla strada così da ricoprire un campo visivo esteso quanto più possibile per vederlo arrivare da qualsiasi direzione.
Afflitta e trepidante come le mogli in attesa del ritorno dei mariti dal fronte.
Non sarebbe venuto.
Dannate aspettative, dannata emozione, dannata speranza, dannato dannatissimo amore.
Avevo sbagliato di nuovo.
Chiamalo Susie! cerca di capire perché ti sta facendo aspettare…- quel cazzutissimo grillo parlante che non la smetteva di tormentare il mio povero cervello in panne.
Presi il telefono per fare il suo numero, ma poi all’ultima cifra rinunciai.
Sentivo di non dover forzare la sorte, quello era un segno. Evidentemente il destino aveva deciso così; non era quello il momento della verità e chi sa se mai sarebbe arrivato.
Mi alzai dalla postazione di guardia, avevo bisogno di una camomilla per ammortizzare l’agitazione che quell’attesa mi aveva procurato.
Ero di spalle alla porta intenta ad affondare quella bustina su e giù nella tazza.
Così mi sentivo in quel momento, non appena sembravo riemergere dalla confusione, qualcosa mi affondava giù inesorabilmente.
Su e giù, su e giù, su…

-Eccomi!...Scusa il ritardo, ma è successo un casino…

Mi voltai di scatto presa da un infarto.

-…Siamo rimasti bloccati nel traffico perché mi hanno beccato i paparazzi…Che palle, non posso vivere in pace un solo giorno… Poi in più il cellulare si è scaricato e non ho potuto…

Ero così immersa nell’affondare i miei pensieri in quella camomilla che avevo dimenticato completamente di aver lasciato la porta speranzosamente aperta.

-Mio Dio Mike! Mi hai spaventato a morte!

-Oh scusami Susie...Ma sono entrato di corsa per non farmi vedere, volevo evitare che il tuo giardino fosse disseminato di fotografi…

-Va bè niente tranquillo…maaa… quelli?

Teneva tra le mani un fascio di rose rosse.

-Ehm… si questi li ho portati per te…così…un pensiero…

Ci scambiammo uno sguardo interrogativo.
Avevo come la sensazione che nessuno di noi due avesse la più pallida idea di cosa ci facesse lì in quel momento.
Non sapevo più dove mi trovavo né che ora fosse; sentivo solo che stavo per esplodere come un vulcano in eruzione.

-Mike senti, io…io ti devo dire una cosa…C’ho pensato e ripensato mille volte, forse sbaglierò, ma non ce la faccio più a vivere con questa…

Si avvicinò deciso mettendomi con irruenza una mano dinanzi alla bocca.

-Zitta…non voglio sentire più niente…troppe parole…

Quel mazzo di fiori fece un volo di dieci metri seguito a ruota dai nostri vestiti.
Le sue mani frenetiche come quelle di un percussionista che picchia di musica i suoi bonghi fecero del mio corpo il suo strumento, liberarono i miei capelli dal fermaglio che li conteneva capricciosi, e mi spalancarono voraci i lembi della camicia come un sipario pronto a scoprire le mie intimità.
Noi, come furie di corpi affamati che avevano ceduto al più primordiale degli istinti.
Cucina, salotto, corridoio; parete per parete percorremmo quelle stanze trascinandoci senza mai staccarci le mani di dosso in una passionale visita guidata del mio appartamento.
Facemmo un amore strano, in cui alla danza incosciente dei nostri corpi si alternavano lunghi attimi di consapevolezza durante i quali, occhi negli occhi, ci fissavamo stupiti come per dirci “Mio Dio, ci sta accadendo davvero!!!”.
Con baci, morsi, graffi, carezze, ripercorremmo in quella apoteosi di odori, umori e sensazioni celestiali quello che noi due eravamo stati in quegli anni, tutto e il contrario di tutto!

Altre volte nei mesi a seguire ci ritagliammo quel nostro spazio di estasi essenziale, nascosti, silenziosi, occulti, come se stessimo commettendo il più terribile degli errori.
Nessuno sapeva.
Vivevo con lui l’intensità di quei momenti, felice, appagata; ma quando ero sola avvertivo dentro di me qualcosa di stranamente spiacevole.
Era tutto diverso, ma non perché avessimo perso l’intimità di un tempo, per me tutto l’amore era bello se era fatto con lui, ma le dinamiche in cui avvenivano i nostri incontri si addicevano poco alle esigenze di una donna che come me aveva raggiunto i quarantadue anni suonati sebbene mi difendessi ancora molto bene.
Ci stavamo nascondendo di nuovo. E nuovamente, come in passato, sentivo di vivere quel disagio che da ragazzi ci aveva allontanato.

Stavo dando una mano ad organizzare i preparativi per la festa di compleanno della sua bambina. Palloncini, festoni, regali, i bambini intenti a pasticciare una torta; mi guardavo intorno e sentivo che noi e quei ragazzi saremmo potuti essere una famiglia e che avrei voluto tanto poter essere vicina a Mike e aiutarlo a crescere i suoi figli.

-Zia Susie- mi disse Paris mentre mi aiutava a preparare l’impasto di una torta- ti posso chiedere una cosa da grande?

-Certo amore di zia chiedimi quello che vuoi…

-Ma tu e papà siete parenti?

Quella domanda mi lasciò perplessa. La piccola era un tipo furbetto e quell’interrogativo di cui conosceva benissimo la risposta, nascondeva un domandone secco come un colpo di rivoltella.

-Certo che no…Lo sai che sono nata e cresciuta in Italia. Papà lo conobbi quando da ragazza arrivai in America per ballare

-…E tu gli vuoi bene?

-Certo che gliene voglio…

Eccola…stava per sparare il colpo.

-Ma…bene bene?

-Si…ma che domanda è? Signorina dimmi la verità, ma che vuoi sapere oggi?- le dissi avvicinandomi a lei e sporcandole buffamente il naso con un po’ di impasto

-Voglio sapere se voi vi volete un bene…un bene…da grandi…

-E perché lo vuoi sapere oggi?

-Perché oggi è il mio compleanno e quindi sono più grande di ieri…e per questo ho preso una decisione da bambina grande…

-Addiritturaaaa….- risposi facendole una smorfia di congratulazioni-…e fammi sentire un po’ che decisione hai preso…

-Zia Susie…da oggi ho deciso di darti il permesso, se vuoi, di poter essere un poco zia Susie e un poco pure la fidanzatina di papà….

In un istante il cuore mi si raggelò e sciolse allo stesso tempo, e il colorito del mio viso tradì escursione termica che mi stava scoppiando dentro.
Nel tentativo disperato di mantenere un certo aplomb, ricorsi al mio tradizionale metodo, una sonora risata che lasciava intendere che avevo preso la cosa poco sul serio. Ma c’era poco da ridere, perché se la bambina aveva fatto quelle domande era chiaro che avesse capito qualcosa di quello che ci stava succedendo in quei mesi, sebbene Mike fosse sempre stato attento a “nasconderci” a dovere. In fondo ero però anche un po’ sollevata, ottenere l’approvazione della figlia innamoratissima del proprio papà era una grande conquista.

Tornai in salotto, trascinandomi ancora sul viso il sorriso e la sorpresa per quanto era appena accaduto, e venni subito in soccorso di Michael che intanto provava invano ad attaccare uno striscione di buon compleanno alla porta.

- E che cavolo sto coso non si appendere…uffa…

-Tesoro…lascia perdere…i festoni a quanto pare non rientrano nel tuo repertorio. Dai a me, ci provo io…

Mi avvicinai a lui e con naturalezza, forse anche incoraggiata dalla dolce approvazione filiale che mi ero appena conquistata, gli sfiorai le labbra con un bacio leggero.
Ero felice della spontaneità di quel mio gesto e del “Tesoro” ch la mia bocca pronunciò senza alcuna consapevolezza; non lo avevo chiamato in quel modo neanche quando eravamo ragazzi.
Nemmeno il tempo di compiacermi che mi fece pentire di tutto.

-Susie! Ma che fai?! Ci sono i ragazzi, lo sai che mi dà fastidio su…

Mi scansò bruscamente come se avessi avuto la malaria, con un sguardo ed una voce acidi e perentori.
Quel gesto, quelle parole… una pugnalata dritta al cuore.
Uscii fuori da quella stanza e me ne andai in giardino con tutta l’umiliazione che mi aveva gettato addosso.
Mi seguì nel tentativo di fermarmi e di placare la collera che, conoscendomi bene, non avrebbe avuto di lì a qualche secondo alcuna vana possibilità di contenimento.

-Scusa. Non dovevo trattarti così davanti ai bambini…

-Davanti ai bambini!!!??? Tu non dovevi trattarmi così E BASTA!!!! Ma perché Mike…perché fai così? Perché mi confondi, mi allontani, ti riavvicini? Mi fai sentire una stupida…una ragazzina idiota…

-… Non la prendere male… cerca di capirmi. Adesso le cose non sono più semplici come un tempo; sono un padre, ho delle responsabilità…Non posso lasciarmi andare così senza tenere presente le conseguenze che ogni mia leggerezza potrebbe avere sui miei figli…

-Leggerezzaaa!!! Io per te sarei solo una leggerezza!? Ma come ti permetti di parlarmi così! Chi ti credi di essereeee?! Ti prendi la mia vita, ne fai quello che ti pare…Ne ho abbastanza!!!. MALEDETTO IL GIORNO IN CUI TI HO INCONTRATO!!!!…Ho sbagliato tutto…tutto e adesso sono stanca di essere trattata come fossi la tua puttana!!!!!!!!!!!
Urla e lacrime si confusero a parole cariche di risentimento e di voglia di recuperare quella dignità che sentivo calpestata ingiustamente.

-Mio Dio Susie…noooooo- rispose tappandosi convulsamente le orecchie- non voglio sentireeee, non voglio sentireee. Non puoi pensare questo di me, non puoi…

-Lasciami in pace Michael! Lasciami in pace per sempre! Non ti voglio più vedere!

Dinanzi a tutta l’afflizione e il disprezzo con cui gli sputai in faccia quelle parole, mi implorò di perdonarlo accompagnando le mie lacrime di rabbia con le sue di mortificazione.

-Sono io la causa di tutti i tuoi problemi, non vedi? Non faccio altro che procurarti sofferenza…Non sono più quello di un tempo, gli anni non fanno altro che portarmi acciacchi, solitudine e diffidenza…So che dovrei starti lontano…dovrei stare lontano da tutti…però ti prego Susie, non mi lasciare anche tu, non mi abbandonare ti prego…ti prego…


Era l’aprile del 2007.
Andai via da Los Angeles e per un anno fui irrintracciabile.
Mi sentivo ferita, usata, umiliata. Avevo bisogno di recuperare il rispetto di me stessa e il lavoro fu la mia terapia, cercando di compensare la mia frustrazione di amante disillusa con le gratificazioni di donna in carriera.
Ormai da qualche tempo ero la direttrice di una giovane compagnia di danza, che con sangue e sudore si stava facendo largo nell’ambiente teatrale. Ero tornata dietro quei sipari polverosi che da bambina mi avevano fatto tanto sognare.
Prove, spettacoli, casting, tournee, viaggi, mondo, burocrazia, scartoffie…come sarebbe bello poter fare spettacolo muniti solo di talento, passione e buona volontà. Ma la realtà è diversa e adesso che mi trovavo alla guida di un esercito di corpi danzanti e speranzosi, me ne stavo rendendo conto più che mai.
Dal giugno 2007 al novembre 2008 lavorai intensamente ad uno spettacolo che portammo in giro per parte dell’Europa, in Canada e negli Stati Uniti con un discreto riscontro di pubblico.
Quello che proposi su quei palchi fu per me una grande sfida in quanto rappresentò un momento di svolta, significativo sia a livello personale che professionale.
Abbandonai videoclip, concerti e show strabilianti a livello mediatico, per intraprendere un percorso di profonda riflessione interiore mediato da quell’arte sotto la cui ala protettrice ero cresciuta.
Mi riavvicinai alla danza contemporanea, il cui studio avevo da sempre coltivato attraverso gli insegnamenti di maestri che ne hanno segnato la storia, ma che accantonai per dare spazio ad un tipo di intrattenimento che fu comunque professionalmente formativo ma anche economicamente più remunerativo.
Avevo investito tanto in quel progetto teatrale, così stridente con il resto del mio curriculum personale, ma volevo dimostrare a me stessa che avrei potuto farcela anche da sola, con le mie sole forze. Senza l’aiuto di quell’amico speciale dal nome così ingombrante.
I miei sforzi furono ripagati con grande soddisfazione; avevo dimostrato esperienza, competenza ed umiltà sufficienti per fare di quel progetto così tanto ambizioso per una compagnia appena nata, una esperienza gratificante.
I risvolti che tutto ciò ebbe sulla mia autostima furono notevoli, ma non perché adesso mi sentissi wonder woman, ma semplicemente perché dopo anni difficili vedevo anche per me uno spiraglio di sole.
Aleggiava ancora qualche nuvola nella quotidianità del mio cielo, quella nuvola di cui avevo cercato di mettere via, lontano almeno dagli occhi, regali, fotografie, dischi. Ma i regali portavano con sé il ricordo di momenti speciali, le fotografie erano attimi stampati con l’inchiostro delle emozioni più forti, i dischi cantavano la voce di un amore che mi aveva sussurrato tante e troppe parole; niente di tutto questo poteva essere cancellato mettendolo semplicemente da parte.
Tuttavia gli impegni e le mie nuove responsabilità mi distolsero dalla mia parte romantica concedendo al mio cuore un po’ di meritato e camuffato riposo.
Tutto questo rientrava nella mastodontica costruzione di belle convinzioni che avevo sapientemente eretto in quei mesi, allo scopo di salvaguardare quel che restava della mia salute mentale.
Un bel castello alto, fatto di carte.

Era la prima statunitense dello spettacolo.
Quella mattina venni contattata da un noto giornalista, Francis Pedata, che si occupava di una famosa rivista di arte e spettacolo. Mi chiese un’intervista per sapere un po’ di più di questo progetto teatrale che aveva avuto così tanto successo a livello internazionale, riaccendendo l’interesse per la cultura teatrale anche da parte di un pubblico che ormai era schiavo dei social network e dei reality spazzatura, e non solo in America.
Quella telefonata mi lusingò parecchio, anche se già in quel periodo avevo fatto esperienze di quel tipo e nella tappa italiana della tournee mi venne anche dedicato un patriottico interesse televisivo.
Ero curiosa di incontrarlo e nel primo pomeriggio fissai un appuntamento nell’ albergo in cui alloggiavo con la compagnia.

-Signorina De Matteo, c’è un ospite per lei. L’ho fatto accomodare nella piccola sala congressi, per una questione di riservatezza sa com’è…- mi disse la receptionist chiamandomi dal telefono interno.

-Ah…la ringrazio, ma non si doveva disturbare così…la hall andava benissimo…Scendo in un lampo!

Riagganciai subito.
Ero molto emozionata per quell’incontro; stimavo tanto Pedata come giornalista e seguivo molto la sua rivista. Apprezzavo il suo modo di scrivere e la competenza con cui affrontava gli argomenti, e al di là di tutto questo era anche un bell’uomo il che non guasta mai.
Non credevo fosse così conosciuto, ma evidentemente essendo una firma famosa della carta stampata godeva di un po’ di notorietà pubblica. Mi spiegai così la leggera agitazione che avvertivo nella voce dell’addetta alla reception e la riservatezza di cui si era preoccupata.
Mi diedi una sistemata alla svelta e andai.
Scesi nella hall, e chiesi alla signorina con cui avevo parlato al telefono dove si trovasse la sala congressi.
C’era un atmosfera strana lì intorno. Avevano serrato le porte dell’ingresso e tirato giù le tende.

-Posso accompagnarla Signorina De Matteo?

-Ma guardi non si preoccupi…basta che mi dice dove devo…

-No, la prego. Ci terrei molto…-mi interruppe- l’accompagno più che volentieri…

Rimasi colpita dalla richiesta, ma pensai che l’albergo dovesse essere frequentato da persone facoltose per cui il personale era istruito a dovere su come comportarsi.
Era l’unica spiegazione sensata che riuscì a darmi dinanzi a tanta insistenza.
Arrivammo dinanzi alla porta antipanico della sala congressi. Fuori, due omaccioni erano piantati come pilastri.
Non credevo che Francis Pedata avesse addirittura bisogno delle guardie del corpo.
Prima di entrare la receptionist

-Le potrei chiedere un favore immenso?…

-Mi dica…

Mi porse un block notes ed una penna, aveva le mani sudate e la salivazione a zero.

-E’ per una mia amica…Anna…Voglio farle in anticipo il regalo di Natale…

Mi fece un occhiolino ed andò via lasciandomi con fogli,penna, e la convinzione che il personale di quell’albergo lavorasse un po’ troppo; quella ragazza aveva un evidente bisogno di una vacanza.

Porta o non porta, non appena entrai nella stanza venni presa dal panico più disarmante.
La fortezza delle mie belle rassicurazioni stava per essere attaccata, e contrariamente a quanto avrei creduto fin a quel momento, non avevo la più pallida intenzione di oppormi all’invasione.

Erano passati 19 mesi esatti.

-Michael….

-Susie…

Mi aveva trovata.
Era venuto a riprendermi.
Finalmente.

Al mio ingresso si alzò di scatto.
Rimasi distante vicino alla porta, come pronta a scappare o forse più probabilmente come in attesa che lui si avvicinasse a me.

-Che…che…ci fai qui Mike?- sillabai

-Non rispondevi alle mie telefonate né ai miei messaggi…Venirti a cercare era l’unico modo che avevo per chiederti scusa davvero…

-Ma guarda…io adesso…- dissi nel tentativo di offrire alla mia autostima il tributo di una dignotosa resistenza

-No Susie, ti scongiuro… Almeno stavolta ascolta quello che ho da dirti. Sto soffrendo, sto soffrendo come un cane, perché ho perso l’unica cosa preziosa che non si può comprare con il denaro. Ho perso un cuore pulito come il tuo che ha saputo confortarmi nei momenti di sofferenza e farmi sorridere nella gioia. Che mi sarebbe stato accanto anche se non fossi stato un personaggio stravagante ma semplicemente un uomo difficile. Che mi ha fatto capire cosa significa avere vicino l’affetto di una donna vera come te, che sa sorridere alla vita, che sa sollevarsi dopo le cadute e che sa conquistarsi le sue soddisfazioni senza diventare schiava del proprio stesso talento. Che ha il coraggio di vivere le proprie emozioni anche se questo significa rischiare tutto e che mi ha insegnato che anche a cinquanta anni , quando sembra che la vita ti abbia ormai sepolto sotto la seduzione degli eccessi, si può ancora imparare ad apprezzare le cose semplici che fanno di una vita qualsiasi la tua vita speciale.
Io non sono neanche un briciolo di quello che sei tu Susie.
Sono un uomo solo a metà e ho bisogno di averti vicino per sentirmi intero…

Il mio castello era stato espugnato.
Paradossalmente odiarlo non mi impediva di volergli un bene immenso; come facevo a dimenticare quello che aveva fatto per me in tutti quegli anni.
Dovevo ammetterlo, quell’uomo avrebbe potuto farmi qualsiasi torto ma io non avrei mai smesso di essere la sua piccola Susie per il resto della mia vita.
Chiamatela scarsa autostima, chiamatela sottomissione, chiamatela disperazione.
Io lo chiamo semplicemente amore.

Il silenzio e un tremore diffuso furono le uniche risposte che seppi dare a quell’immensità che aveva sfondato dentro di me.
Aprì le braccia e con la voce impastata di commozione

-Ti scongiuro Susie…non negarmi questo abbraccio…

Gli corsi incontro, e quando il calore di quel contatto mi cinse d’assedio, anche l’ultima carta del mio castello di illusioni era stata abbattuta.

LSButterfly
00giovedì 15 luglio 2010 17:46
Voglio solo congratularmi con te, perchè ogni volta che rileggo questa FF mi emoziona come fosse la prima volta....davvero complimenti, anche per non aver stravolto Michael (come purtroppo sempre più spesso avviene) rendendolo ridicolo, ma rendendolo anzi credibile. Grazie davvero, forse è proprio perchè hai cercato di rendere Michael il più vero (per quanto possiamo conoscere di lui) possibile che mi emoziono ogni volta a rileggerti..spero che prima o poi ci delizierai con altre FF nuove di zecca. Grazie ancora !!!!!
Anto (girl on the line)
00giovedì 15 luglio 2010 17:48
Sere,la storia di prima era fantastica...Ma questa lo è ancor di più!!
Non vedo l'ora di leggere il seguito [SM=g27817]
Bacione [SM=g27838]
huhu91
00giovedì 15 luglio 2010 17:59
[SM=g27831] [SM=g27836] [SM=g27836] ho cancellato il commento almeno una decina di volte e ricominciato da capo...una storia stupenda, sembra di esserci dentro...Sere aspetto il continuo, per un commento un pò più sensato [SM=g27838] [SM=x47932]
Sere-88
00giovedì 15 luglio 2010 18:41
Re:
LSButterfly, 15/07/2010 17.46:

Voglio solo congratularmi con te, perchè ogni volta che rileggo questa FF mi emoziona come fosse la prima volta....davvero complimenti, anche per non aver stravolto Michael (come purtroppo sempre più spesso avviene) rendendolo ridicolo, ma rendendolo anzi credibile. Grazie davvero, forse è proprio perchè hai cercato di rendere Michael il più vero (per quanto possiamo conoscere di lui) possibile che mi emoziono ogni volta a rileggerti..spero che prima o poi ci delizierai con altre FF nuove di zecca. Grazie ancora !!!!!



Ragazze grazie mille davvero...
Proprio stamattina ho completato uno dei capitoli della nuova storia; non vedo l'ora che sia pronta per farvela leggere, purtroppo essendo questo un periodaccio universitario non ho la tranquillità di scriverla tutta di seguito come feci con questa , anche perchè la nuova è parecchio diversa e i personaggi, oltre Michael, sono un pochino più complessi. Ma vedi tu se non mi devo andare a complicare la vita... [SM=x47954]
Sono certa che la storia nuova vi piacerà e vi sorprenderà ancora di più...ne sono convinta [SM=g27811]

x Anto: sei sempre una fedelissima ...
x huhu91: complimenti a te, ragazza tu con la penna non scherzi mica...
vi posto il seguito


Sere-88
00giovedì 15 luglio 2010 18:56
Capitolo 15




“Have you seen my childhood?
I'm searching for that world that I come from
'Cause I've been looking around
In the lost and found of my heart...
No one understands me…
Have you seen my childhood?
I'm searching for that wonder in my youth
Like fantastical stories to share
The dreams I would dare, watch me fly...”
(Childhood)


Il ricordo color seppia di una passeggiata a Mergellina, quando il sole delle prime domeniche di maggio accompagnava tiepido i primi passetti allegri di una bambina che a decine si affrettavano a riempire due sole falcate adulte.
Poi la notte in cui quel profumo intenso aprì uno spiraglio di porta e sventolò frettoloso uno sguardo su quei due lettini addormentati, che nella dolcezza del loro respiro non furono capaci di trattenere l’irresponsabilità di un uomo.
Le lacrime di una madre che mi stringevano strette in un abbraccio che sapeva di paura, e le parole appena comprensibili e troppo grandi per la bocca di un bambino di tre anni che dicevano “Io non me ne vado mamma”.
E infine, l’affetto di uomo che senza genetica mi ha reso figlia, amata, coccolata, rimproverata, educata. Lo amerò all’infinito.
Ricordi, solo ricordi pallidi di suoni, odori, ed immagini sbiadite che credevo di saper dimenticare…

Con gli anni in ogni versante della mia esperienza di vita imparai quanto sia inutile scappare dal proprio passato, perchè prima o poi questo passato viene a farti visita.


Se dovessi immaginare la mia vita come una geometria non potrebbe essere altro che una inesorabile, perpetua e crudelmente perfetta circonferenza; io uno dei suoi infiniti punti, e lui il suo centro constante rispetto al quale non potevo fare a meno di rimanere eternamente equidistante.
Nell’illusione di aver camminato anni di strade parallele che mi avevano condotto nei più diversi luoghi dell’esistenza, dalla gioia infinita all’oblio più incomprensibile dovevo rassegnarmi all’idea di aver intrapreso solo un percorso circolare il quale mi aveva inevitabilmente riportato al punto di partenza. E come in quel tempo in cui tutto ebbe inizio, il mio cuore rassegnato alla sua cocciutaggine pulsava incorreggibile alla medesima distanza da quell’uomo che rimaneva il centro eterno del suo battito.
Un amore giovane ed improvviso, la nostra vita di reciproche sventure, il vano tentativo di tornare ragazzini e la realtà di fare i conti con le esigenze di adulti; un giro di giostra vorticoso al punto tale da farti stare male ma che non si arrende al sadico divertimento dell’essere degli umani.
E quando il giro sembra essersi concluso, ecco di nuovo tornare lui a dare inizio alle danze.

“Viverlo alla giornata” era il mio nuovo motto da combattente innamorata; giorno per giorno, senza aspettative, senza progetti, solo lui così com’era senza avere altre pretese.
Non gli concessi nient’altro che i miei consigli, il mio sostegno, i miei sorrisi, la mia amicizia; non avrebbe avuto nulla di più fin quando non avesse fatto pace con se stesso, con il suo cuore e con il suo cervello, e avesse imparato a crescere.
Almeno ci provai, ma quegli sforzi non furono altro che becere vigliaccate nascoste dietro a continui viaggi di lavoro.
Partivo, tornavo, ripartivo, lo evitavo ma poi come una droga mi facevo penosamente della gioia che provavo e che leggevo nel suo sguardo di cioccolata ogni qual volta mi rifacevo viva dopo tanto tempo.
Cominciai a perdere d’occhio la sua quotidianità e le persone che frequentava e cercai di ritagliarmi uno spazio di autonomia che mi potesse aiutare a disintossicarmi da lui.
Del resto Mike non era il “guaiuncello del quartiere”, come diceva mia madre, e i suoi ritmi di vita non erano proprio come quelli dei comuni mortali, erano i ritmi di vita di Michael Jackson. Stargli dietro significava rinunciare totalmente a se stessi per essere la sua ombra silenziosa o il suo chiacchierone grillo parlante, e non avendo ancora raggiunto questo livello di nichilismo mi concessi dei momenti di dignitosa realizzazione personale.
Tuttavia la nostra reciproca incostanza nel sentirci si alternava a periodi di totale e sacra devozione dell’uno verso l’altra.
Per noi non c’erano vie di mezzo, tutto era portato all’estremo; noi eravamo estremi.
O vicini vicini o lontani lontani.
Ma Mike era per me come le piramidi in Egitto, non devi averle accanto per sapere che sono delle meraviglie mondiali.
Questo era il modo speciale di essere noi…era il nostro modo speciale.


Era parecchio che non ci vedevamo, la compagnia e l’associazione assorbivano totalmente le mie giornate, in più ero stata in Italia in occasione delle feste di Natale; al mio ritorno volle sorprendermi con una rinfrescata di imprevedibilità, tanto per non venire meno al solito canone vicini vicini, lontani lontani.
Questa volta fece le cose veramente in grande, nel suo estremo modo speciale.

Ero appena scesa dall’aereo, presi il palmare e controllai la posta elettronica.
Con mia sorpresa trovai un suo messaggio.

“Susie devo parlarti di una cosa importante che ti riguarda. Appena leggi questa mail chiamami.”

Doveva essere qualcosa di urgente per cui presi un taxi e mi diressi a casa sua.
Mi aprì la domestica.

-Ah…salve Susie, come sta?

La guardai perplessa.
Tina era una donna di poche, anzi pochissime parole. Erano anni che lavorava per Mike e da quando la conoscevo non mi aveva mai rivolto la parola. Quella improvvisa loquacità mi spaventò quasi.

-Ciao Tina…Eh tutto bene, sono un pochino stanca per il viaggio, la tratta Italia-America sembra allungarsi con gli anni…vengo direttamente dall’aereoporto. Mike è in casa?

-Ehmhmhmh…il sig. Jackson? Eh si…ehm anzi veramente non tanto. Cioè è impegnato, è nello studio sta lavorando…- mi rispose ambigua ed esitante.

Intanto entrai in casa, poggiai a terra la valigia, mi tolsi il cappotto. Lì mi sentivo a casa, ero a mio agio. Tra me e Mike non sono mai esistiti formalismi, quella era come casa mia.
Avanzai nel lungo corridoio diretta verso lo studio, mentre Tina come un cane da guardia mi seguiva nervosa e a passo frenetico borbottando una serie imprecisata di scuse.
La mail di Mike mi dava la sicurezza che mi aveva cercata e che doveva parlarmi. Ero impaziente di sapere cosa avesse da dirmi con tanta urgenza, per cui una volta di fronte alla porta del suo studio bussai alla mia maniera e senza attendere la risposta entrai spedita.

-Susie!...non ti aspettavo ancora…

Mi accolse con gli occhi sbarrati, evidentemente sorpreso dal vedermi “già” lì

-Oh Mike scusami tanto…credevo fossi solo…Ehm mi scusi anche lei…

Un signore che non avevo mai visto prima era con lui in quella stanza, seduto dall’altro lato della scrivania.
Un uomo di colore, stempiato e con i capelli lievemente spruzzati di bianco, che a testa bassa e senza rivolgermi la parola accennò solo un leggero gesto di saluto con la mano.

- Eeee…senti, aspettami in salotto. Devo sistemare una questione e ti raggiungo…

Chiusi la porta bruscamente ed attesi in salotto, trascinandomi per tutto il corridoio l’imbarazzo per la mia sbadataggine che con gli anni non si arrendeva a smussare i suoi angoli.
Mi misi a sedere sul bellissimo divano in pelle bianca posizionato di fronte ad un enorme televisore al plasma, riposando la mia stanchezza in attesa del suo arrivo.
Il viaggio stavolta mi aveva massacrato; il mio soggiorno in Italia fu una toccata e fuga giusto per rispettare la sacralità delle feste comandate che sentivo il bisogno di vivere a casa mia. Quelle erano le uniche occasioni in cui tornavo a Napoli perché sentivo l’esigenza di stare vicino ai miei fratelli e alla mia famiglia, ma poi ripartivo sempre come fosse una necessità inspiegabile anche se non avevo particolari impegni da mantenere. Oltre al lavoro, a Mike e agli affetti che qui avevo costruito c’era qualche altra cosa che mi richiamava oltreoceano come fosse una calamita, un magnete incomprensibile ed inconscio che esercitava su di me la sua forza senza alcuna pietà.

Dopo circa quindici minuti lo vidi arrivare con un sorriso troppo trasparente per celare la preoccupazione e il disagio che vi era nascosto dietro.

-Ehi…eccoti qua. Temevo te ne fossi andata…

-Scusami se sono entrata così ma ho letto la tua mail, ero in aereoporto, mi sono precipitata. Credevo fosse urgente…

-Si…in effetti lo è Susie…volevo appunto…

-Va bè ma forse è meglio che ne parliamo un’altra volta che dici? magari avete ancora da fare?

Feci un cenno con il capo ad indicare quell’uomo che dallo studio lo aveva seguito in salotto, e che senza aprire bocca si era messo a sedere di fianco a lui non manifestando alcuna intenzione di andare via.
Era stranissimo; la sua presenza mi inquietava.
Teneva tra le mani un cappello che nervosamente stropicciava, lo sguardo basso, il piede che martellava il pavimento, sembrava agitato.

-Eh no Susie…il signore è qui per lo stesso motivo per cui ti ho chiamata…Però prima di…

-Ah si giusto…non ci siamo nemmeno presentati, che sbadata, non ne combino una giusta oggi…- dissi sorridente porgendogli la mano-… Mi chiamo Susanna De Matteo, piacere di conoscerla…

Un discografico, un regista, un attore, un manager, un musicista…Pensai subito ad una offerta di lavoro, ad un ingaggio per la mia nuova compagnia, ad una proposta interessante.
Niente di tutto questo.
Nulla di ciò che avevo immaginato corrispondeva alla reale identità di quella persona; ah si, forse solo una cosa, che era un musicista.
O meglio, lo era stato.
Quasi esitante mi strinse la mano, come riluttante a rinunciare al tormento di quel povero cappello. Si alzò leggermente per tendermi il braccio. Sollevò finalmente lo sguardo e quegli occhi da soli bastarono ad aggiungere quel frammento che mancava nel mosaico della mia vita, quel frammento con la cui assenza ero cresciuta, quel frammento che si chiamava papà.
Il caso lo aveva rimesso sulla mia strada e il rimorso di coscienza lo aveva spinto a cercarmi. Charlie De Matteo dopo quaranta anni si era rifatto vivo.

Prima ancora che si presentasse avevo capito chiaramente chi avevo di fronte. Non ricordavo il suo aspetto, ma non ebbi difficoltà a riconoscerlo dato che era la fotocopia invecchiata di mio fratello Riccardo.
Per colpa sua ho odiato gli uomini; per colpa sua mi sono legata ad alcuni terribili; per colpa sua vivevo costantemente la paura di perdere ciò che amavo; per colpa sua ho scoperto troppo precocemente che la vita non è una passeggiata.
Fui molto dura e scettica riguardo quel ritorno, perché mi parve avere il sapore di una pretesa che non ero per nulla intenzionata a concedere.
Cosa può spingere un uomo che in tutto quel tempo non si era degnato mai nemmeno minimamente di preoccuparsi dell’esistenza di due figli, a farsi vivo adesso? I soldi furono la più ovvia risposta che seppi darmi.
La vita con Mike mi aveva insegnato che le persone sono capaci dei più machiavellici complotti per arrivare a realizzare i propri obiettivi, e chi mi assicurava che dietro questa ricomparsa miracolosa non si nascondesse un’altra delle orrende e viscide schifezze architettate da chi in precedenza e senza scrupoli aveva infangato l’immagine di Michael Jackson ed ucciso la sua anima per averne un vergognoso tornaconto economico?
Il fatto che Mike fosse stato coinvolto in tutta quella storia non fece altro che incrementare i miei sospetti. Che c’entrava lui?
Ecco un altro modo per spillargli denaro; una trovata dei giornali e delle televisioni per fare scalpore. Una di quelle belle porcherie montate ad arte che il mondo del gossip sapeva così ben costruire ogni qual volta si parlava di lui. Avevo partecipato allo stress mediatico a cui era da sempre sottoposto e sapevo bene quanto questa cosa lo facesse stare male psicologicamente; il pensiero che io potessi essere stata un tramite per la sua sofferenza in quel momento mi mortificò e mi fece imbestialire allo stesso tempo.

-Ciao Susanna…sono…Charlie…tuo padre…

-…Mio proprio niente direi…un padre ce l’ho, si chiama Roberto. Un altro non mi serve, soprattutto adesso che ho superato i quaranta…- risposi dura, ritirando istintivamente la mano. - Guarda io no so nemmeno come rivolgermi a te..a lei…non lo so e non mi interessa. Le suggerisco solo di vergognarsi, oltre che per il passato anche per il presente. Usare me come mezzo per raggiungere i miei amici…che schifo. Guardi io non me la bevo la storia del padre degenere che vuole recuperare il rapporto con la figlia. Concludiamo subito questa pagliacciata. Che vuoi? Soldi, scoop, titoli di giornali, interviste strepitose…? Uhhh già mi immagino il titolo scottante…”La vita dell’amica di Michael Jackson”…spiacente, ma stronzate del genere sono già state fatte!…Ma che so…potrei suggerirle…”Mia figlia: l’amica di Michael Jackson”…le piace questo?

Mike intervenne alzando la voce; mi spinse giù le spalle per mettermi a sedere interrompendo per qualche secondo quella lava incandescente di rabbia amara in cui si erano trasformate le mie parole.

-Susie! Basta! Fammi spiegare! Capisco tutto quello che puoi provare in questo momento, ma prima devi sapere come sono andate le cose. Niente giornali, niente televisioni. Non è stato il sig. De Matteo a cercare me, sono stato io a cercare lui…

- Questo non migliora di certo la sua posizione; dimostra che è qui solo perché lo hai chiamato e non perché è interessato ad incontrarmi…

-No Susanna, non è questa la verità…lasciami spiegare…

L’uomo fece un tentativo vano di inserirsi nella discussione.
Per me quello era diventato un chiarimento con Mike, la sua presenza era un di più che non vedevo nemmeno. Per quaranta anni non lo avevo visto, ero abituata a viverlo come una voce di sottofondo.

-E perché Mike? Che bisogno c’era di fare tutto questo?

-Susanna…ti ho cercata a lungo, ma non sono mai riuscito a mettermi in contatto con te. Quando ho ricevuto la telefonata del sig. Jackson pensavo fosse uno scherzo, non volevo crederci. Lui è stato solo un gancio, un tramite più diretto a te e allora ho pensato di approfittare della sua offerta d’aiuto dopo anni di ricerche alla cieca senza alcun risultato. Credimi…

Accecata dal risentimento avevo perso il senso di tutto ciò che stava accadendo. Era l’iniziativa di Mike ad avere la priorità sul fatto stesso che davanti ai miei occhi finalmente ci fosse il padre che non avevo mai conosciuto. Risentimento, certo, ma misto a quell’amore invalidante che ti mostra della realtà solo ciò che vuoi vedere.

-Non è di lui che ho bisogno Mike, non è lui che mi renderà felice…è un’altra la cosa che mi renderebbe felice…ma ormai sono anni che ci ho rinunciato…

Pronunciai quella frase abbassando progressivamente il tono della voce come per evitare che potesse comprenderne il significato.

- Ma Susie…è tuo padre cavolo…Dagli un’altra possibilità! Ascolta quello che ha da dirti…

- Susanna ero un ragazzino, irresponsabile…

-…Lei si faccia gli affari suoi!...

Come un pugno inaspettato i miei occhi sferrarono un colpo secco e spietato a quelli dell’ uomo, dal taglio così naturalmente simile. In quel momento, per la prima volta, lo fissai dritto in faccia e non potetti fare a meno di riconoscere con tenerezza e confusione quanto anche io, come mio fratello, gli somigliassi.
Di nuovo Mike intervenne a fare da arbitro in quel ring in cui l’amore risentito di una figlia abbandonata colpiva senza pietà l’anziano senso di colpa di un padre che con gli anni aveva imparato a riconoscere i suoi sbagli.

- No Susie…così non mi piace. Se hai intenzione di parlare in questi toni io non ci sto, non così, non in casa mia…

- Ma che speravi di ottenere Mike? Ma come posso perdonare un uomo che ci ha lasciati nella povertà più totale…che ha lasciato una ragazza con due bambini piccoli…ma come…

-Che cosa otterresti continuando a portargli rancore? Susie, ragiona… Sei schiava dell’odio che provi nei suoi confronti e dall’odio non ne viene mai niente di buono. Susie…provaci! Dagli un’altra possibilità!

-Ma perché mi hai fatto questo Mike?

E la lava della collera si sciolse in lacrime disperate ed impreparate a quel pianto.

-Perché dove c’è famiglia c’è felicità, e dove c’è felicità voglio che ci sia tu Susie…per questo…solo per questo…Credevo di aiutarti…

Andai via, lasciando quella discussione sospesa come sospesa e senza alcun fondamento di certezza mi sentivo io in quel momento.
Non avevo la forza di parlare, di discutere e non me la sentivo ancora di perdonare.
Ero stata dura con Charlie e me ne ero pentita non appena chiusi la porta di quella casa.
Non potevo biasimare Mike per quello che aveva fatto, perché come io negli anni fui per lui la spalla su cui appoggiare ogni pianto, l’orecchio preparato ad ogni sussurro confessato e la voce di qualche buon consiglio, lui per me fu la stessa medesima ricchezza. Conosceva bene la storia della mia infanzia e della mia famiglia; gli avevo parlato spesso di Charlie, del dolore che aveva causato a mia madre, delle privazioni a cui ci aveva costretto, dell’affetto che mi aveva tolto. Lo insultavo, lo criticavo, lo maledicevo, ma poi alla fine ne parlavo sempre. Dove sarà adesso? Ha un'altra famiglia? Chissà se ho una sorella? Mi penserà?
Dovevo ammetterlo, erano anni che aspettavo di incontrarlo, sebbene non avessi mai trovato il coraggio di cercarlo.

Ancora una volta come per la storia di Patrick, del bambino che avevo perso, delle opere umanitarie che tanto mi avevano segnato, anche in quell’occasione Mike fu per me l’uomo della svolta, il mio terremoto.
Dovevo mettere ordine nel caos che il ritorno di Charlie aveva scatenato dentro di me, e che Mike dal canto suo contribuiva ad aumentare.
“Non rinunciare… “ mi disse prima che mi infilassi nel taxi che mi avrebbe portato a casa.
Non rinunciare…E a che cosa? Alla possibilità di ricostruire un rapporto con mio padre, senza il quale ero comunque riuscita a costruirmi una vita, o a lui la cui assenza sarebbe stata in grado di mettere la mia vita drammaticamente in forse?
A tormento si aggiunse tormento, ed ecco che si ripresentavano le vecchie domande a cui inesorabili seguivano sempre le mie solite vecchie risposte.
Forse aveva fatto tutto questo per amicizia, forse per altruismo, forse per vigliaccheria; un valido modo per sopperire al mio bisogno d’amore, per tenere il mio cuore occupato, per riparare al dolore che mi aveva provocato. Un modo come un altro per avvertire di meno il senso di colpa per non sentirsi ancora pronto a volermi quel bene speciale che io volevo a lui. Quello di una volta.
Anche in quel caso avrei tanto desiderato che la risposta fosse stata un’altra, avrei voluto che avesse fatto quella cosa per amore.
Ma amore vero.

Quell’incontro chiuse un capitolo della mia vita e ne aprì un altro del tutto inaspettato, e Mike ancora una volta fu la mano che scrisse “fine” e quella che scrisse “inizio” sulle pagine dei miei giorni.
Niente di ciò che ho perso negli anni della mia infanzia potrà essere realmente recuperato, ma quanto meno ho scoperto di avere altri due fratelli ed una sorella con al seguito tre deliziosi nipotini e vivrò senza il rimpianto di non aver fatto nulla per completare i pezzi mancanti della mia esistenza, esistenza a cui lui ha contribuito a dare un senso. Lui, Michael, probabilmente l’unica persona a possedere nella sua collezione di dischi un vinile degli “Sturdust jazz quartet”.

Capitolo 16



"Then watch the ones
With the biggest smiles
The idle jabbers...
Cuz they're the backstabbers
If you know it's a lie
Then you will swear it
If you give it with guilt
Then you will bear it
If it's taking a chance
Then you will dare it
You'll do anything for money..."
(Money)


Nel percorrere a ritroso i nostri anni di ricordi costruiti insieme, percepisco intensamente la violenza delle emozioni attraverso le quali ci siamo vissuti, un darsi sviscerato senza sconti e uno strapparsi spietato…Poveri i nostri cuori, tormentati in questo gioco di rimbalzi…
Senza averne coscienza mi ritrovai a camminare quella scacchiera che era il nostro legame; un’alternanza di spazi bianchi di speranza e neri di illusione su cui alle sue mosse seguivano le mie. Noi due, pessimi giocatori della vita, portavamo avanti la nostra partita senza strategie e senza avversari, come guerrieri innamorati allo sbaraglio.

Nell’ultimo periodo c’era qualcosa che non mi tornava; non mi piacevano quelli che gli gironzolavano intorno come parassiti e non mi piaceva la sua compiacenza nei confronti di queste persone. Anzi a dire il vero più che compiacente pareva quasi rassegnato ad abbandonare i suoi interessi nelle mani di questi sconosciuti, avidi ed approfittatori.
Uno di questi in particolare, entrò da subito nella mia personale lista nera delle persone da evitare a tutti i costi: Thomas Machina.
Dalla prima volta che ci incontrammo fu un reciproco odio a prima vista.


“Se non hai impegni per stasera, ti aspetto a cena da me. Ti voglio bene, Mike”

Lessi quel messaggio con il solito sorriso che inconsapevolmente mi compariva sul viso ogni volta che lui, con poche semplici parole, era in grado di sconvolgere qualsiasi mio programma.
Quella sera avevo preso un impegno con un’amica; guardai l’orologio e mi resi conto che ero ancora educatamente in tempo per disdire il nostro appuntamento.
Avevo voglia di stare con lui e i bambini e non ci pensai due volte prima di chiamarlo e dirgli che sarei stata a casa sua per le otto al massimo.
Ma quella sera niente cenetta in famiglia.

-Oi eccoti…ti stavamo aspettando…- disse Mike accogliendomi all’ingresso

-Ma oggi i ragazzi hanno scioperato?...Ehiii…ragazziiii…ma dove siete? Così si accoglie zietta vostraaa?- dissi a gran voce sorpresa del fatto che questa volta non fossi stata travolta dai loro abbracci appena varcata la soglia di casa.

-No Susie…- aggiunse lui ridendo-…i bambini sono dai miei...Se ti abbraccio io fa lo stesso?

-Mhmhmh…insomma…non è proprio la stessa cosa, ma per stavolta mi accontento…Abbracciami pure ragazzo…

Mi strinse affettuosamente nel suo riconoscibile modo avvolgente, e a quel punto non potetti fare a meno di pensare che forse la serata si prospettava migliore di quanto avessi immaginato.
Ma una semplice frase bastò a soffiare via quella flebile illusione che non aspettava altro che il momento giusto per fare capolino nel mio cervello e nel mio stomaco.

-Vieni di là, ti presento una persona…

Non eravamo soli, e ben presto ebbi modo di constatare che forse per quella sera era meglio se fossi uscita con la mia amica; stavo per incontrare la persona più odiosa che avessi mai conosciuto negli ultimi anni.
Mentre avanzavamo verso la sala da pranzo, ci venne incontro un tale. Poco più alto di me, magrolino, stempiato, dai tratti somatici assai duri e marcati; labbra sottili, sguardo stretto e un naso importante ed aquilino.

-…Adesso ci siamo tutti Thomas, è lei l’amica che aspettavamo…

Con una stretta di mano decisa si presentò.

-Sono Thomas Machina, piacere di conoscerla

-Susanna De Matteo, piacere mio…

-De Matteo…De Matteo…immigrata?- disse quel tale con un sorrisetto asimmetrico e una espressione che diceva “credo di essere un grande comico”.

Nascosi abilmente la sorpresa e il fastidio che quell’uscita infelice mi aveva provocato e lo rimbeccai senza peli sulla lingua.

-Scusi, voleva essere una battuta la sua? Se si, le suggerisco di abbandonare tentativi umoristici, non credo siano il suo forte.

Fu quello il mio primo approccio con Thomas Machina, il preludio di una lunghissima lista di frecciatine e battibecchi che si rivelavano l’unica modalità comunicativa possibile tra me e quell’uomo.

La cena messicana che consumammo fu assai più leggera della conversazione a tavola, a cui non partecipai per nulla attivamente ma mi riservai un posto da attenta osservatrice. Qualcosa mi puzzava, e non era di certo il cibo messicano.

-Michael, le cose stanno così…Sono anni che lavoro in questo ambiente e mi rendo conto che il panorama musicale sta cambiando. Si sfornano pop star come fossero ciambelle, ma non tutte escono con il buco, e tuttavia si vende lo stesso. Ma dico io, vogliamo far vedere al mondo dei talent show chi è veramente il Re della musica? Michael, ti devi far vedere…devi venire di nuovo fuori come artista…vadano a farsi fottere tutte le stronzate che hanno raccontato su di te in questi anni…Le chiacchiere stanno a zero…Sei un dio Mike, nessuno deve dimenticarselo, nemmeno i ragazzini di oggi…Devi rinnovare la tua immagine, devi padroneggiare sul mercato nuovo…Il tuo genio deve esplodere e travolgere tutti come negli anni Ottanta. Ma che aspetti?

-…Queste proposte non mi sono nuove Thomas…Anche un paio di anni fa mi avevano offerto una buona occasione, ma sinceramente non mi sentivo…non…Ho passato dei momenti difficili Thomas, solo adesso mi sembra di respirare un po’, capisci?

-Appunto…ma che aspetti? E’ questo il momento per un ritorno trionfale dei tuoi…Michael è questo il momento propizio…

-Non so, ti confesso che la cosa mi spaventa un pochino…Non vorrei deludere le aspettative dei miei fan...sono loro che…

-Ma quanto ancora li vuoi fare aspettare? Guarda che quella gente è mercenaria Michael, quelli vanno da chi gli offre più spettacolo, e nessuno dei tizi che sta in giro adesso è capace di fare spettacolo come te…Andiamo su, rinfreschiamo un po’ le idee a questi ragazzi…Devi riconquistare credibilità Michael, come artista e come persona…

Colpito e affondato.
In silenzio passai al setaccio ogni minimo scambio verbale tra i due, e dovetti riconoscere l’incredibile abilità oratoria di Machina che sapeva rivoltarsi il Mike di adesso come fosse un calzino; quello di vent’anni fa gli avrebbe dato di certo più filo da torcere e non avrebbe avuto bisogno che un tal dei tali qualsiasi gli dicesse quelle cose. Il Michael degli anni d’oro quelle cose le sapeva già perchè il mondo le urlava a squarcia gola; il Michael di adesso aveva bisogno che qualcuno gliele ricordasse.
La piega di quella conversazione non mi piaceva affatto, nell’aria circolava una atmosfera artefatta che aveva il sapore di lavaggio del cervello.
Era uno furbo Machina, che si era studiato bene il pollo da spennare; investiamo, produciamo, riconquistiamo i palchi; Michael sembrava totalmente obnubilato dalle sue chiacchiere perdendo il senso della realtà e di ciò che veramente voleva.
Erano anni che combatteva contro l’opinione di un intero mondo sempre pronto a giudicarlo, e per quanto si sforzasse di vivere una vita normale era diventato schiavo di quelle opinioni e del suo stesso talento. Machina aveva giocato d’astuzia risvegliando in lui il desiderio di essere ancora una volta declamato come la più grande stella di tutti i tempi, sollecitando l’egocentrismo presente in tutti i grandi personaggi di spettacolo. Aveva di che vantarsi per il resto della sua esistenza del suo straordinario genio artistico e non l’ho mai giudicato per questo, io stessa sono sempre stata un tipo egocentrico e difatti avevo scelto come mestiere quello della ballerina e non dell’impiegata delle poste, ma era il modo insano con cui quell’uomo si proponeva a lui che mi preoccupava.
A quanto pare avevo perso di vista la sua quotidianità e le persone che frequentava nel momento peggiore.

Il mio silenzio fece un baccano tale da attirare l’attenzione di Mike.

-Ehi Susie…non hai detto una parola stasera…non è da te. Allora che ne pensi della proposta di Thomas? Mi interessa la tua opinione, lo sai…

Un respiro profondo mise in ordine le mie idee e manifestò chiaramente il mio scetticismo prima ancora che cominciassi a parlare.

-Penso che quando Michael Jackson non è convinto di una cosa non la deve fare, e questo vale ancora di più per Mike…

Machina intervenne prima che potessi completare la mia frase. A quanto pare non aveva ancora ben capito che quella era solo l’introduzione ad una lunga lista di perplessità.

-Scusami ma non mi trovi per niente d’accordo…Ti posso dare del tu no?

“No” sarebbe stata la mia risposta istintiva, ma non era il caso di mostrarmi così scortese per cui cercai ti addolcire alla meglio l’acidità che quell’uomo mi provocava.

-Se proprio non puoi evitarlo…

-Ok De Matteo, dicevo, il tuo discorso non mi sembra giusto…Mi occupo di musica, di produzione, di discografia da una vita ormai e so per certo che le cose funzionano così in questo mondo. Michael mi ha detto che fai la coreografa…Guarda, evidentemente quello è un settore diverso e c’entra ben poco con le dinamiche di quest’ambiente, e poi stiamo parlando di Michael Jackson, non mi dire che non ti “interessa” che il tuo amico Michael Jackson cavalchi l’onda come i vecchi tempi?

Quell’ “interessa” pronunciato con fare allusivo fu sottolineato da un sopracciglio alzato che ne accresceva l’intenzione ambigua. Mi avvelenai come il morsa da una vipera.

-Interessa? Tra di noi non sono di certo io quella che ha un “interesse” da tutelare. Di fatti il punto è che a me di Michael Jackson non è mai fregato nulla.
Innanzitutto, lavoro con lui dagli anni Ottanta e ti assicuro che “le dinamiche di quest’ambiente” le conosco come le mie tasche, ormai non me le deve insegnare più nessuno. La differenza tra me e te a questo tavolo sai qual è? E’ che tu hai il compito di vendere al meglio il prodotto Michael Jackson, io ho quello di aprire gli occhi a Mike, l’amico prima che l’artista. E se mi permetti, a questo punto credo di avere vantaggio di esperienza su entrambi i fronti rispetto a te…
Mike, per quanto mi riguarda posso solo consigliarti di pensare a te stesso adesso più che mai, adesso che le cose sembrano aver preso il verso giusto, adesso che i ragazzi stanno crescendo e te li puoi godere più serenamente…Se senti di avere qualche dubbio probabilmente questi dubbi avranno dentro di te un certo fondamento di verità, altrimenti ti saresti buttato a capofitto nelle cose come in passato…

-E’ anche per i ragazzi che vorrei farlo Susie…Insomma tu stessa hai detto che stanno crescendo, e forse Thomas ha ragione, è questo il momento propizio…il momento in cui i miei figli sono abbastanza grandi per apprezzare davvero quello che faccio come artista ed io non sono ancora troppo vecchio per fare un bello spettacolo…

Non volli insistere più di tanto; nonostante la sua iniziale resistenza fu sorprendente l’entusiasmo che vidi accendersi sul suo volto durante quella conversazione, un volto troppo spesso imbronciato e pensieroso. Non me la sentivo di fare la guasta feste e non volli drammatizzare più di tanto la proposta che gli era stata fatta, dato che Machina mi sembrava oltre che un abile cantastorie anche un grande produttore di palle colossali. Un solo uomo non poteva essere scrittore, attore, produttore, profeta post-moderno, musicista e quant’altro come sosteneva lui. Quel genere di genialità non si trovano così spesso, e di certo Thomas Machina non era quel genio incommensurabile che decantava di essere. Era solo uno che sapeva vendersi bene ad un uomo stanco, vittima delle sue stesse aspettative.
Quando arrivi a cinquant’anni, anche se con l’apparenza di un ragazzino, le pressioni del mondo mediatico si fanno sentire, soprattutto se queste pressioni non si erano mai placate ed erano state insistenti da quando bambino aveva solcato i primi palchi.
Quella di Michael fu una vita consacrata totalmente e con devozione estrema alla musica, essere stanchi mi sembra del tutto comprensibile.
Ma chi gli stava intorno seppe giocare d’astuzia sul suo punto debole, ossia sulla preoccupazione che da sempre lo accompagnava per la sua immagine pubblica di artista, preoccupazione che, per chi più e per chi meno, fa parte della vita di tutti i personaggi del suo calibro.

I miei sospetti su Thomas Machina non tardarono a trovare conferme.
Una mattina mi recai da Mike senza preavviso, la sera prima avevo dimenticato il palmare e dovevo recuperarla al più presto.
Quando la domestica mi aprì mi aspettavo di non trovare nessuno perché sapevo che sarebbe partito all’alba per un impegno importante, e invece nel bel mezzo del suo salotto c’era una vera e propria riunione di tutta quella gente che nell’ultimo periodo curava i suoi affari.
Trovai questa cosa di per sé spiacevole dal momento che di certo non mancavano loro uffici in cui fare cose del genere, ma a peggiorare la situazione fu la presenza di Machina che ormai da qualche mese si era conquistato la fiducia di Mike; si era innalzato a sua guida spirituale, life coach e consulente finanziario.
Ogni volta che aveva occasione di incontrarmi si faceva scappare sempre qualche considerazione pungente a cui io non mi risparmiavo certo di rispondere, ma quella volta toccò proprio il fondo e anche io feci lo stesso.

Non appena mi vide entrare nel salotto, era lì che avevo lasciato il palmare, mi accolse con il suo solito fare da gentleman.

–Ma è mai possibile che questa rompipalle sta sempre davanti alle scatole?...Senti un po’, ma non ce l’hai una casa?

Mi aveva fornito su un piatto d’argento l’occasione per dirgliene quattro e se solo mi avesse capito gli avrei fatto una di quelle sfuriate alla napoletana che solo se sei cresciuta alla “Sanità” puoi saper fare.
Mi avvicinai a lui spavalda e sicura come non mai e gli assestai una bella cinquina in faccia.

–Ma come ti permetti, brutto cafone che non sei altro! E tu una casa non ce l’hai?...E voi altri…non avete un posto migliore dove tramare…?....A me non mi imbambolate belli miei, ho capito subito di che pasta siete fatti…

Me ne andai indignata sbattendo la porta.
Nei giorni successivi la notizia giunse all’orecchio di Mike. Mi chiamò mille volte per scusarsi da parte del tipo, sapeva bene che tra noi due non c’era feeling e lui stesso aveva assistito più di una volta alle nostre discussioni, ma non immaginava che fosse capace di arrivare a questo livello di maleducazione e per giunta di fronte ad estranei. Effettivamente neanche io credevo di arrivare alle mani, ma non ne ero per niente pentita.
Machina fece anche dei vani tentativi di convincerlo che io gli girassi intorno per spillargli soldi (io!), perché ero un’approfittatrice (sempre io!), che stavo cercando di manipolarlo ecc ecc, ma ovviamente i suoi tentativi di diffamarmi furono un buco nell’acqua. Nessun Thomas Machina di turno sarebbe mai stato capace di scalfire la dura roccia di stima e fiducia reciproca che legava me e Michael ormai da vent’anni.
Ma che ne sapeva quel tale, che ne sapevano tutti gli altri di quello che io e lui avevamo condiviso; ma dov’erano quando era triste, quando era felice, quando piangeva?
Solo quando dovevano rilasciare interviste “scottanti” ai giornali di mezzo mondo, allora si che si facevano tutti vivi. Che vergogna!
Ma era chiaro il motivo per cui quell’uomo mi odiava così tanto, avevo capito bene che tipo di persona fosse, si era reso conto che non sarebbe riuscito a prendermi in giro e inoltre la mia vicinanza a Mike poteva mettere a rischio la sua posizione.
Ma fino a quel momento Thomas Machina non aveva ancora ben capito con che tipo di persona avesse a che fare, e nonostante i tentativi non riuscì a liberarsi di me tanto facilmente; la situazione stava prendendo una piega spiacevole ed io decisi di tenerlo d’occhio.

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Anto (girl on the line)
00venerdì 16 luglio 2010 00:16
Sere,anche noi siamo certe che la tua nuova storia sarà un successone!!!Già non sto più nella pelle!!!

Letti anche questi capitoli,bellissimi!! [SM=g27817] [SM=x47938]
Sere-88
00lunedì 19 luglio 2010 15:28

Capitolo 17




“…You got I know that keepin the faith
Means never givin up on love
But the power that love has
Has to make it right
Makes it
Makes it right
So keep the faith
Don't let nobody turn you round brother
You got to know when it's good to go
Get your dreams up off of the ground…”
(Keep the faith)


Coniugare arte ed impegno sociale; in questo avevo avuto un “grande maestro”, dovevo riconoscerlo. Ero in procinto di partire per Roma per lavorare ad un progetto in cui poter coinvolgere la compagnia di danza di cui ero la direttrice artistica e l’associazione che anni addietro avevo fondato per la tutela delle donne maltrattate. Avevo in mente uno spettacolo centrato su questa tematica da portare in giro per l’America e per le principali capitali europee, i cui proventi sarebbero stati devoluti a sostegno delle organizzazioni mondiali che si occupano dei diritti delle donne
Era un lavoro di un’entità non indifferente che avevo pensato di mandare in porto entro l’anno a venire, ma la preparazione del tutto richiedeva un notevole dispendio di pubbliche relazioni per l’individuazione di possibili collaboratori. Decisi di partire dalla mia terra, dalla mia casa, dalla mia Italia; avevo buoni contatti e ero certa di poter contare su una proficua collaborazione nostrana.

Stavo preparando le valige in quel mio modo meccanico e metodico che accompagnava da anni la mia natura ormai cosmopolita.
Scrutai attentamente nell’armadio per individuare i capi di cui avevo bisogno per quel soggiorno di circa una settimana quando, immersa nella mia logica del piccolo bagaglio-grande comodità, venni destata dallo squillo del cellulare, e come in un deja vù fui catapultata nel passato.

-Ohi Mike…ciao, come stai?

-Susanna…

Aveva pronunciato il mio nome per intero, quello era il segno di una grande preoccupazione.

-Domani Susanna…d omani… vieni con me a Londra?

-A Londra? Domani?...Oddio Mike, mi cogli in un momentaccio…stavo preparando i bagagli perché parto per Roma, per lavoro capisci? Mi dispiace tantissimo ma temo che…

-Susie…per favore…

Al suono di quel “per favore” pronunciato con tanta paura e quasi implorante, rabbrividii, e ad un tratto ogni mia priorità divenne secondaria a quella richiesta. Di nuovo, come sempre.

-Mike…accidenti…mi metti nei casini così…Era un impegno importantissimo…Ma che diamine devi fare a Londra domani?

Quell’ “era” lasciava chiaramente presagire come sarebbero andate le cose.

-Susie…annuncio il mio ritorno…

Aveva preso la sua decisione; come era solito fare per ogni cosa importante che lo riguardasse, anche quella volta non potette fare a meno di comunicarmela a bruciapelo.

-Ah…cacchio…alla fine ci è riuscito…

-Ho deciso io Susie…io…Allora? Vieni con me alla conferenza stampa?

Mi sorse spontaneo un accenno di sorriso; quella proposta non mi era nuova, anzi, era vecchia di vent’anni. Ma se in passato furono l’imbarazzo, l’incertezza e la confusione ad indurmi passivamente ad agire in una situazione analoga con un Michael sconosciuto e con una giovane impulsività, adesso sapevo perfettamente cosa dovevo fare.
Non mi restava che andare con lui.

-Dannazione ragazzo! Ma quanto mi complichi la vita tu?...Va bè dai...ritieniti fortunato perché le valige sono già pronte…

-…Che Dio ti benedica piccola!...ti devo un favore…

Non mi doveva nulla, perché non sarebbe bastato vivere per intero un’altra vita a ripagarlo per tutto ciò che mi aveva donato negli anni.
Ero pronta a seguirlo.
***

Destinazione Londra.
Londra e Mike; un binomio che più volte nella mia vita si era ripetuto, ma soprattutto una accoppiata vincente che permise a me diciottenne di conoscere il fenomeno musicale Michael Jackson.

Quindici giorni di vacanza studio a Londra furono niente male come regalo dei genitori in occasione della maturità per una ragazzina di provincia che non era mai uscita dai confini dell’Italia, e che aveva una voglia matta di festeggiare la tanto sudata licenza liceale.
Ma per un grande viaggio ci voleva una grande compagnia, e la mia cara Diana si offrì entusiasta di accompagnarmi in quella prima gita fuori porta.
Alloggiavamo presso una famiglia che era solita ospitare studenti stranieri; la mattina frequentavamo dei corsi per migliorare il nostro inglese scolastico e per il resto della giornata ce la spassavamo alla grande visitando qualsiasi cosa meritasse di essere ricordata e se possibile fotografata.
Con cartina alla mano girammo la città senza alcuna guida, se non il nostro talvolta discutibile senso dell’orientamento che spesso e volentieri ci lasciava in panne nel bel mezzo di stradine sconosciute.
Ed in una di queste avvenne la magia.

-Susà confessa…ci siamo perse…

-Noooo, ma che…tranquilla è tutto sotto controllo…Della cartina me ne dovevo occupare io no? Quindi fidati…

-I miei piedi gonfi e doloranti stanno organizzando una rivolta contro di te e quella dannata mappa…Che tra l’altro stai guardando al contrario…Facciamo una cosa, questa la prendo io e tu cerca di chiedere in giro qualche informazione…

-Io?

-E no io…Ma se so dire solo dog, yellow e hello, my name is Diana Ferrante?…Vedi un po’ tu…

Ci guardammo intorno spaesate, quando una piccola insegna con su scritto “Music tales” ci convinse ad entrare nella speranza di poter ottenere qualche indicazione utile.

Una porta pesante si aprì su di un piccolo bugigattolo stretto e lungo diviso centralmente da una lunga scaffalatura stracolma di vinili, musicassette e quant’altro, catalogati in ordine alfabetico e per genere musicale.
Diedi un’occhiata fugace in giro, giusto il tempo di prendere coraggio per formulare una di quelle belle frasi fatte che avevo imparato alla perfezione per i casi di emergenza, con tanto di corretta pronuncia londinese.

-Salve, potrei chiederle un’informazione?

Un signore sulla cinquantina dalla capigliatura fulva, una pioggia di efelidi sul viso e due curatissimi baffoni all’insù dall’aria da aristocratico dell’800, alla mia domanda distolse prontamente lo sguardo dal televisore che teneva poggiato su uno sgabello dietro al bancone e su cui stavano trasmettendo quello che aveva tutta l’aria di un concerto.

-Certo signorina, dica pure…- risposero quei simpatici baffoni d’altri tempi che tuttavia stonavano maledettamente con il codino, il cerchietto al lobo dell’orecchio e con quel tatuaggio sull’avambraccio che diceva “Elvis forever!”.
Quell’uomo era lo specchio degli anni ’50, ’60, ’70 e ’80, tutto riassunto in una unica immagine a tratti grottesca che non dimenticherò mai.

Le norme della consueta comunicazione dialogica a quel punto avrebbero chiaramente previsto che io, avendo inizialmente formulato la domanda, proseguissi nel chiarire che cavolo volessi sapere dal signor Elvis-per-sempre, ma niente.
Nessuna parola uscì dalla mia bocca, e non perché non sapessi come esprimere in inglese che ci eravamo perse e che non avessimo la più pallida idea di quale fosse la zona della città in cui ci trovassimo, ma perché ero troppo impegnata a tenere le fauci spalancate e gli occhi catturati dalle immagini che la televisione dietro al bancone continuava spietatamente a trasmettere, indifferente dinanzi a quello scenario adolescenziale alquanto pietoso.

-Signorina si sente bene?

Niente; catalessi totale.
Mi sporsi per guardare meglio, e la cosa non migliorò di certo l’espressione da ebete che avevo assunto.
Un ragazzo scuro, magro ed agilissimo, dalla capigliatura accuratamente ingellata e dal look a dir poco luccicante, si stava dimenando in maniera divina su un palco cantando con una voce superlativa il groove di un basso che mi fece pulsare il sangue nelle vene.
Avevo sentito in radio quel motivetto così invitante per lo spirito ballerino che ormai già da anni coltivavo con passione, ma non ricordavo bene come si chiamasse dal momento che da ragazzina ascoltavo poco la musica straniera e ci andavo giù pesante con il cantautorato italiano, anzi il “pallautorato” come lo definiva Diana.
Gli occhi non ne vollero sapere di scollarsi da quello schermo, ma la mia bocca prese a balbettare qualcosa che sembrava essere un’altra domanda.

-Ma…ma chi è questo ragazzo?

Quell’interrogativo dovette rendermi ancora più imbecille agli occhi del signore del negozio.

-Non mi dica che non conosce il tornado Michael Jackson? Ma da dove viene scusi?

A quel punto Diana, dopo aver incasinato un po’ gli scaffali del negozietto con le sue mani curiose, si unì alla conversazione e non appena udì il nome Michael Jackson, che tra l’altro era l’unica cosa che avesse capito di tutto il discorso, saltò come una molla.

-Oh Susà …Ma hai capito chi è quello?...- disse indicando il televisore come un marinaio che avesse appena avvistato terra-...è quel pezzo di figo americano che balla con gli zombie…Hai capito chi? Mamma mia quanto mi fa sangue questo…

Non prestai attenzione alle sue considerazioni che spessissimo anche in pubblico trascendevano i limiti della censura, e continuai a godermi estasiata quello spettacolo.
Ripresi fiato.

-Ma è un suo concerto?- chiesi ad Elvis-per-sempre

-No, in realtà è un tributo che ha fatto in occasione dell’anniversario di una importante etichetta discografica che lo rappresenta. Signorina se lo guardi bene, sta assistendo alla nascita di una stella mondiale, sentiremo ancora per molto parlare di questo giovanotto…

Quei piedi svelti si muovevano di magia, e ad un tratto li vidi disegnare una danza quasi illusionistica che mi lasciò sconcertata.

-Porca vacca Dià, ma guarda che fa questo…O gesù, va avanti camminando indietro!!!!!!!…- esclamai portandomi una mano alla testa tanto fu lo stupore che quei passi mi procurarono.

-Cavolo, questo si che è ballare…non quelle pippe classiche che fate a scuola tua. Tesò non ti offendere ma più di una volta ai tuoi saggi, tranne quando eri in scena tu, lo giuro, ho rischiato di addormentarmi. Non mi dire che quest’anno fate di nuovo “Schiaccianoci” che altrimenti me le porto io da casa le noci e ve le butto appresso…

Non prestai alcuna attenzione alle sue parole, rapita dalla magia di quell’arte cantata e ballata.

-Mamma mia, questo è un genio, ma guarda là come si muove….

-Già…Se sotto le lenzuola si sa muovere anche solo la metà di come si muove sotto i riflettori, lo vado a cercare in capo al mondo e me lo sposo sto tipo…

-Che palle Diana! Ma pensi sempre alla stessa cosa? Sei peggio di un ragazzo…

-Mi scusi Suor Susanna dei miei stivali, non sono io che penso sempre alla stessa cosa, sei tu che non ci pensi mai…Diciamo che io lo faccio anche per te, prendilo come un favore da parte di un’amica…Ah, già che ci sei, un favore fammelo pure tu, chiedi a sto tipo “Pel-di-carota” se vende qualche poster di quel cioccolatino con gli zombie…lo voglio…lo voGLIO…LO VOGLIOOOO!!!!

Cercai di formulare alla meglio quella richiesta anche con una certa urgenza, dal momento che volevo porre fine allo stravolgimento ormonale a cui il povero signore con le lentiggini stava assistendo.
Per fortuna il poster c’era e così i bollenti spiriti della mia cara amica, e anche i miei, furono almeno in parte placati.
Una volta ottenute le informazioni che ci occorrevano per riorientarci, eravamo pronte a proseguire il nostro tour fai-da-te, quando il baffo rosso ci fece una richiesta.

-Signorine vi andrebbe di farvi una foto da mettere nella “bacheca del viaggiatore”?

Ci indicò una parete su cui erano fissate con delle punesse un centinaio di foto di persone di tutte le nazionalità, immortalate tra gli scaffali del negozio con il simpatico proprietario.

-Sapete, sono anni ormai che porto avanti questo negozietto, e sin da quando è nato è stata mantenuta questa tradizione. Ogni viaggiatore che si trova per caso o con l’intenzione a mettere piede in questo mio caro e piccolo bugigattolo, anche se per pochi minuti, mi lascia un po’ della sua storia, del suo viaggio, della musica che ama…Ciascuno di noi ha una qualche musica che lo racconta, che ne accompagna i ricordi e le esperienze…Le persone sono storie di musica care ragazze, e anche voi oggi me ne avete raccontata una, quella di questo bel ragazzotto di colore che il mio fiuto da intenditore di note dice che diventerà un Re…Mio amato Elvis, concedimi questo azzardo…

Con sorpresa e divertimento acconsentimmo a quella simpatica richiesta, in cui vi lessi anche un qualcosa di magico e profetico.
Io, il signor baffo-rosso, Diana ed il mitico poster di Michael Jackson tra gli zombie dispiegato dinanzi a noi, ci mettemmo in posa ed imprimemmo i nostri sorrisi nello scatto di una Polaroid.
Lasciammo una frase ricordo e le nostre firme su quella foto, che noi stesse provvedemmo ad attaccare tra le centinaia di altre che riempivano la parete.
Salutammo l’atmosfera magica di quel negozietto e prima di varcarne la soglia, il proprietario del negozio ci disse qualcosa che con gli anni non ho mai dimenticato.

-Molti di coloro che si sono trovati qui di passaggio e che hanno lasciato una loro foto sono ritornati, e mi hanno raccontato di aver trovato fortuna…Chissà che “la bacheca del viaggiatore” non ne porti tanta anche a voi…Buon viaggio ragazze, aspetto che torniate un giorno a raccontarmi altre storie della vostra musica…


Di quell’episodio tanto divertente e al contempo suggestivo, conservo oltre che il ricordo anche la cassetta di Michael che acquistai, le cui canzoni furono la colonna sonora di quel viaggio.
All’epoca ero una ragazzina e la sua voce mi accompagnò per la mano lungo le strade sconosciute di una città nuova tutta da scoprire, che mi aveva regalato un augurio di fortuna; e adesso, diventata donna, toccava a me accompagnarlo in quella stessa città in cui, per la prima volta in assoluto, mi incantai nella sua magia.
***


In genere sono un tipo molto puntuale, ma quella mattina feci un ritardo epocale!
Mi svegliai di buon ora con un entusiasmo da scolaretta pronta per la gita.
Colazione, doccia e poi una lunga sosta dubbiosa tra le ante dell’armadio. Ma dov’era quella mattina la Susie donna pratica e sportiva? A quanto pare doveva essere momentaneamente assente, ma soprattutto più agitata del normale.
Decisi di indossare il tailleur e le scarpe che avevo appena acquistato; un completo con gonna aderente e fasciante sui fianchi tra il grigio e il lilla, un giacchettino corto che lasciava la vita scoperta, da cui veniva fuori il collo di una camicetta screziata dalla scollatura decisa; e per completare il quadro delle deliziose e scomodissime scarpe di vernice viola dal tacco acrobatico. La tenuta da viaggio meno da viaggio che avessi mai indossato!
Mi acconciai i capelli e il trucco con una cura certosina, spinta da una strana voglia di sembrare una bella donna; fu quella la prima causa del mio ritardo.
Ero pronta, adesso bisognava solo trovare le chiavi della macchina ed avviarmi all’aereo privato di Mike.
Le chiavi della macchina…Queste sconosciute! Dopo una furibonda ricerca delle stesse, durante la quale imprecavo in maniera bilingue per l’idea malsana di indossare quella specie di trampoli che erano le mie scarpe nuove, le trovai infilate tra i cuscini del divano.
Finalmente ero in macchina pronta a partire, ma quando la sfiga ci si mette non c’è scaramanzia che regga; il motore aveva deciso di lasciarmi a piedi, e neanche i cornetti rossi che tenevo folcroristicamente conservati nel cruscotto furono capaci di rimetterla in moto.
Non ebbi il tempo per lasciarmi prendere dal panico, e il barlume di praticità che quella mattina sembrava avermi abbandonato come l’auto, si fece vivo appena in tempo per chiamare un taxi.
Con quarantacinque minuti di ritardo arrivai a destinazione.

-Scusa, scusa, scusa, scusa….- iniziai a dire mentre stavo ancora salendo le scalette dell’aereo- sono imperdonabile…

-De Matteo ti abbiamo aspettato solo perché Michael ce lo ha chiesto con insistenza. Non capisco perché ti ritenga così indispensabile, in fondo non sei mica sua moglie…anche se si vede da un miglio che ti piacerebbe…-blaterò acidulo Thomas Machina

-Di fatti le scuse non erano per te…Mike mi dispiace, è successo di tutto oggi…Siamo ancora in tempo no?

Sollevò gli occhiali scuri infilandoli nei capelli, e mi accolse con uno sguardo dal significato indecifrabile.

-Cavolo Susie…ma sei…

-…Si si lo so, perdonami, sono in ritardo bestiale, ma me ne sono successe di tutti i colori stamattina…

-Guarda che non mi riferivo al ritardo…volevo dirti che stamattina sei…sei…uno splendore…A cosa devo tanta eleganza?

All’imbarazzo per il ritardo si aggiunse quello per il complimento inaspettato, e la conferma di essermi conciata in maniera evidentemente inadatta all’occasione. Nel tentativo di mantenere un decente aplomb da donna quarantaquattrenne, cercai di nascondere alla meglio il disagio che stavo provando in quel momento, per quella gonna, per quei tacchi, per quella scollatura, e per gli occhi di Michael su ciascuna di quelle parti del mio corpo.

-Elegante? Dici?...Ma no…ho preso la prima cosa che avevo a portata di mano…

Si, come no...Quella mattina per stare comoda avevo indossato il primo completo di Armani e le prime scarpe John Galliano, tra l’altro pagate vergognosamente troppo, che avevo trovato in giro per casa. Quanto fui poco credibile…
Lasciai scivolare il discorso e mi misi a sedere per spezzare l’impaccio. Si accomodò nel sedile accanto al mio, e non appena poggiò la testa sullo schienale soffiò un sospiro che lasciava chiaramente intendere quanto fosse agitato per ciò che lo attendeva.

-Come mi trovi?

-Sincera sincera?

-Sincera, sincera…

-Troppo teso ragazzo…Dai su…, questo è un momento importante per te, cerca di viverlo serenamente…prenditi il meglio. I tuoi fan saranno lì ad aspettarti impazienti di vedere il loro grande idolo…Non vorrai mica farti trovare in questo stato?

-…Lo so , lo so…del resto è soprattutto per loro che faccio tutto questo…

Machina, inutile e fastidioso come l’intervallo pubblicitario nel bel mezzo di un film interessante, si intromise nella nostra conversazione.

-Certo caro Michael che la tua amica in quanto a consigli va a avanti a botta di banalità…Direi che potresti tranquillamente farne a meno…

Con una scusa mi alzai e mi avvicinai a lui, infilandogli “per sbaglio” il tacco dodici delle mie belle scarpe nuove dritto dritto nel suo piede

-…Machina…vedi di stare al posto tuo e di non rompere i coglioni oggi…I tuoi interventi hanno la piacevolezza di un dente cariato…

-Ragazzi…e per favoreee…-rispose Mike infastidito-…Susie, almeno tu, ti prego…Così non mi sei per niente d’aiuto però…

-Michael lascia stare, la signorina forse oggi ha le sue cose… Mi metto per conto mio a leggere il giornale così non urto la sua suscettibilità…

Feci finta di non sentire per evitare di buttarlo elegantemente a calci nel sedere fuori da quell’aereo.
Mike aveva ragione, ero lì per un motivo. Aveva bisogno del mio sostegno e non della mia irascibilità.
Durante tutto il viaggio cercai di farlo distrarre cercando di parlare non troppo seriamente di ciò che lo attendeva nei mesi seguenti; avremmo avuto tempo di discutere tranquillamente anche di quello in un momento migliore e senza quel parassita di Thomas Machina tra i piedi.

-Mike…prima di partire mi hai detto che mi dovevi un favore giusto?

-Giusto…sono in debito con te perché so che oggi seguirmi ti è costato un grande sacrificio, quindi sei libera di chiedermi ciò che vuoi, spara!

-Almeno in uno dei tuoi prossimi concerti mi piacerebbe tanto che mi dedicassi una canzone…Lo so…queste richieste non sono da me, sembra una cosa sciocca da quindicenne, ma ci terrei davvero…

-Non è una richiesta sciocca anzi, sono felice che tu me lo abbia chiesto…anche se…mi hai rovinato una sorpresa…

Sgranai gli occhi. La sorpresa me l’aveva fatta lo stesso, in quel preciso momento.

-Perché? Oddio!!!!…Non mi dire che mi avresti cantato una canzone su quel palco?

-Sei così tanto stupita?...Prima o poi un tributo alla mia più fedele, paziente ed insostituibile compagna di avventure dovevo farlo…e questa è la volta buona…

Mi sporsi verso di lui sommergendolo in un abbraccio vulcanico che lo scompigliò tutto.

-Grazie, grazie, grazie, grazie…Ah…aspetta… ma ancora non ti ho detto che canzone vorrei sentire…

-Eh no, almeno questa sorpresa me la potresti lasciare…Sei proprio una guastafeste rompiscatole!

-Uffi dai…

-Niente da fare, decido io…

-Ok capo, decidi tu, ma io un suggerimento te lo do lo stesso…Vorrei tanto sentire dal vivo “Don’t walk away”…

-E perché quella?...Dove credi di andare ragazzina?- disse lui sorridente afferrandomi di colpo una mano come per trattenermi.

-Non so perché Mike…ma so solo che quel pezzo mi fa venire i brividi…Dai su, e cantamela, anche se non è prevista in scaletta…

-Infatti non credo che sarà inserita nella scaletta…anche se per te potrei fare una eccezione…Ma poi perché quel pezzo? E’ triste, malinconico, non so, mi dà la sensazione di fine, di una cosa irreparabile, è una richiesta disperata…E poi se devo dedicarti una canzone deve essere una che mi fa pensare a te…Cioè tu per me non sei quella disperazione là, capito che intendo? Se in questo momento fossi una canzone saresti una cosa bella grintosa, frizzante…Guarda, piuttosto che lasciarti andare via, da te mi farei ammazzare su una pista da ballo…

Ridemmo entrambi di gusto per l’allusione al quel suo pezzo il cui testo raccontava di una certa “Susie”, una tipa un po’ particolare, che andava a ballare con intenti omicidi.
Le classiche metaforiche costruzioni musicali di Mike, sottese da pensieri che poi diventavano successi pazzeschi.

-Ah ma poi quel pezzo là mica l’ho capito….Adesso sono diventata anche una pazza assassina? Questa cosa me la devi spiegare ragazzo, ce l’ho sospesa da qualche annetto ormai…

Rise ancora dinanzi al mio sopracciglio alzato ed interrogativo.

-Cara mia, devi imparare a leggere tra le righe, lì ci sono le risposte…

-Ma sai in fondo hai ragione, ci sono persone che volentieri mi ispirano questo tipo di intenzioni- gli dissi lanciando un’occhiata a Machina che stava infilato con la testa nel giornale.

-In realtà per me sarebbe difficile dedicarti una delle mie canzoni, ma non perché non ce ne sia nessuna in cui potrei ritrovare un po’ di te, ma perché in effetti tu non sei nessuna in particolare delle mie canzoni, ma allo stesso tempo sei un po’ tutte loro…Non so se mi spiego…

-Mhmhmhm…si forse ci sono, dopo venti anni probabilmente riesco almeno un pochino a decifrare il Michael-pensiero…

-Mi è capitato di nominarti nei miei testi, sai perchè?

-No…

Finalmente stava per rispondere a quella domanda che mi portavo dietro da tanto e tanto tempo, me che ero troppo inibita per porgliela.

-Perché quando scrivo la mia mente fa dei lunghi viaggi, viaggi che attraversano i miei anni, le cose che ho provato, le esperienze che ho vissuto, e in questo viaggio di istinto ed ispirazione mi lascio andare guidato da una sorta di spinta naturale, e quando a questo istinto e a questa natura gli si chiede di pronunciare di getto un nome di donna, il primo che mi viene è sempre il tuo.
Ecco, forse non riuscirei mai a dedicarti una canzone perché tu sei in più di una…Forse sei la firma di tutte le canzoni che ho scritto da quando ci siamo conosciuti…

L’espressione e la gestualità che accompagnò quella sua spiegazione mi lasciò completamente travolta. Io, nella semplicità che da sempre credevo mi contraddistinguesse, nel caleidoscopio umano che quell’uomo rifletteva nella sua arte diventavo una donna altrettanto complessa.
Mi strinse la guancia in un dolcissimo pizzicotto fraterno, e mi arruffò un po’ i capelli; adoravo quel suo modo di farmi sentire piccola, indifesa, una bambina da coccolare.

-…”Little Susie”…lo capisci o no quanto sei importante nella mia vita?...Tu ci sei sempre…nella mia testa e nel mio cuore, anche se talvolta non sono stato capace di dimostrartelo…

La sua mano si trasformò in una carezza indugiando sul mio viso qualche istante di più, quel tanto che bastò ad avvampare le mie gote di un rosso tiziano. Eccola, era quella la sua vera magia, la capacità di accendere in me il calore di una emozione mai invecchiata, acerba, impacciata, inaspettata, come quando eravamo solo due giovani ragazzi speranzosi.
Mi tuffai nella notte di quegli occhi d’ebano, e i nostri sguardi si incrociarono di complicità.
Come la sveglia delle sette, il battito del mio cuore si fece di una intensità fastidiosa ed allarmante. Lui colse il mio imbarazzo, che insieme al suo si dissolse in un’occhiata distratta al finestrino.
Per superare quell’impasse decisi di adottare i miei soliti vecchi metodi, aggrappandomi alla vena comica che avevo ereditato dalle mia napoletanità.

-Mike, ti va di fare un gioco?

-Che gioco si può fare in un aereo?

-In Italia lo chiamiamo tipo “Nomi, cose, città…” un cosa del genere…Quello delle parole con una certa lettera…

-Ah si ho capito, facciamolo facciamolo…

Iniziammo aggiungendo un po’ di regole nuove, tipo categorie di nomi assurde come acronimi, nomi di politici, stilisti, parolacce, e cose disgustose. In più io avevo la possibilità di usare anche parolacce in italiano, a patto che però gliene spiegassi il significato.
Era uscita la s, e tra le parolacce ne misi una in italiano che di certo non conosceva e che mi avrebbe assegnato di sicuro il punto, “sparacazzate”.

-Susie…non imbrogliare…secondo me sto sparacose che hai scritto tu non esiste…

-No Mike, ti giuro, esiste. Io la uso spesso…

-Allora voglio sapere che significa altrimenti niente punto…

- …Diciamo che “sparacazzate” non è una offesa generica, è più che altro un tipo di persona…

-…E che persona è questo tipo di persona?

-Dunque….mhmhmhm…fammici pensare….uno, uno che spara cavolate e si sente un genio, uno come…come Thomas Machina…

Iniziammo a ridere mentre il tipo si sentì chiamato in causa.
Alzò la testa dal giornale che stava leggendo e disse

-De Matteo hai fatto il mio nome? Che onore…E a cosa devo cotanta gentilezza?

-Niente di che. Stavo spiegando a Mike il significato di una parola in italiano, e per fargliela capire ho preso te come esempio. Ne sei il prototipo più chiaro direi…

-Addirittura…Posso sapere di che si tratta?

-Certo come no…Allora diciamo che è una specie di mestiere….Mhmhmh….si avvicina a quello di cui ti occupi tu diciamo…tecnicamente si dice “sparacazzate “….

Intanto Mike cercava di trattenersi per non scoppiare a ridergli in faccia.

-Bene…Quindi mi stai dicendo che qualora mi capitasse di trovarmi in Italia per lavoro potrei presentarmi come spara…”spara cazzate”?

-Senza dubbio, ne hai tutte le caratteristiche…- risposi io mantenendo non so come un viso serissimo.

-…Wow…grazie, così mi do un tocco di professionalità in più…Comunque devo impararlo l’italiano, è una lingua affascinante…

A quel punto mi nascosi dietro la mia borsa tappandomi la bocca per evitare che la mia risata fragorosa potesse venire fuori e rovinare quella bella scenetta; Machina tutto compiaciuto che si dava dello sparacazzate, mentre Mike ridendo sotto i baffi mi ripeteva

–…L’attrice, l’attrice…dovevi fare l’attrice…

Risate, chiacchiere e qualche assopimento ammortizzarono quelle lunghe ore di viaggio e il mal d’aereo che accompagnava Michael in ogni decollo e in ogni atterraggio sebbene fosse da anni assiduo frequentatore di quegli aggeggi volanti.
Arrivati a destinazione, venimmo accompagnati all’albergo interamente prenotato solo per noi e dopo una cena veloce ci ritirammo ognuno nella propria stanza.
Durante quella notte pensai a cosa avrei potuto fare per farlo stare meglio in un giorno emozionante come quello che lo avrebbe atteso l’indomani. Avrei voluto dirgli un in bocca al lupo in modo speciale, diverso dal solito; avrei voluto augurargli la fortuna e la speranza che gli avrei augurato ai suoi inizi di carriera da solista se solo ci fossimo conosciuti, nel tempo in cui era un giovanotto che ballava con gli zombie.
Fortuna, zombie, Londra…quella semplice associazione portò la mia mente al ricordo di negozio di musica in cui mi trovai tanti anni prima con Diana e alla bacheca del viaggiatore.
Il signore dai baffoni rossi aveva ragione, quella foto mi aveva portato tanta fortuna, e mi chiesi se fossi ancora in tempo per dirglielo.
Mi svegliai di buon ora e chiesi alla receptionist dell’albergo delle informazioni sul negozio che intendevo cercare, e con l’aiuto della mia memoria e di Google maps lo trovai.
L’autista di Mike si offrì di accompagnarmi, ma rifiutai l’invito, volevo andare da sola in metro come quando avevo diciotto anni e l’autista lo vedevo solo nei film.
Il destino volle che quel negozio fosse ancora lì, come in attesa di quei viaggiatori che prima o poi sarebbero ritornati a portagli le loro storie.
L’insegna era nuova ma diceva la stessa cosa di vent’anni prima, “Music tales”. Aprii la porta e con essa nel mio cuore si spalancò la dolce emozione di quel ricordo indimenticabile. Ebbi modo di constatare che gli anni avevano reso quel posto assai migliore in fatto di arredamento; la struttura era sostanzialmente la stessa, con in più un piano superiore in cui vi era un altro settore.
Il negozio era vuoto data l’ora piuttosto insolita per frequentare un negozio di musica, ed un ragazzo era intento a mettere apposto degli scatoli su uno scaffale.

-Salve, posso esserle utile?

Lo guardai e non potetti fare a meno di sorridergli. Stessi capelli fulvi e stesse efelidi del signor “Elvis-per-sempre”.

-Salve…ehm si…dovrei chiederle una cosa…Anche se è una cosa un po’…strana, ecco…

-Dica pure…

-Tanti anni fa, probabilmente quanti ne ha lei adesso, venni in questo negozio...Il proprietario era un signore con dei baffoni rossi…

-Si…mio nonno…-disse il ragazzo sorridendo-…e lei è qui per la bacheca del viaggiatore scommetto…

A quanto pare i viaggiatori ci tornavano davvero in quel posto, e con un certo imbarazzo non potetti che confermare la sua affermazione.

-Ehm…si…C’è ancora?

-Certo che c’è, e come potrebbe essere altrimenti…Del negozio me ne occupo io adesso, ma ci tengo alle tradizioni di famiglia…Venga, l’accompagno…

Mi fece strada tra gli scaffali e finalmente mi trovai dinanzi a quella parete, ancora più stracolma di come la ricordavo. Volti di persone, sorrisi, occhi, firme, frasi…vite.
Cercai per più di un quarto d’ora la foto che avevo fatto con Diana, la foto di quel viaggio tanto speciale in cui aveva avuto inizio il mio sogno, e dopo aver scrutato tra quelle migliaia di scatti, la trovai. Io, con i miei capelli cotonati, Diana con lo zaino in spalla, i baffoni rossi del signore del negozio e quel poster.

-Senta, la posso prendere questa foto?

-Non me lo chieda…mio nonno mi ammazza! Se le ricorda tutte queste facce, e nonostante l’età ha una vista da aquila; beccherebbe anche un minimo spazio vuoto…Ci tiene troppo alla sua bacheca…

-La prego, è importante per me…

-Guardi, non mi metta in difficoltà…E poi alla bacheca le cose si aggiungono non si sottraggono…

-E se io rimpiazzassi il buco che lascerebbe quella foto?

-E come?

-Con una che racconta come sono andate le cose da quel giorno in poi…

Dopo qualche titubanza la sua resistenza fu abbattuta in un secondo non appena gli mostrai la foto che avrei attaccato in sostituzione.
Era una fotografia autografata mia e di Mike fatta nell’87 dietro le quinte del primo tour mondiale in cui lo accompagnai, la portavo sempre con me e ne avevo a casa la versione ingrandita ed incorniciata.
Il ragazzo trattene a stento l’entusiasmo e diede un urlo di gioia. Mi abbracciò forte e mi disse che l’avrebbe portata a suo nonno il giorno stesso, perché quella foto era troppo preziosa per rimanere esposta, doveva essere custodita con cura.
Prima di lasciargliela volli scrivevi sopra una dedica rivolta al signore con i baffi.

“...Lui, solo e sempre lui, la mia vera storia di musica…Grazie, per avermi portato fortuna.
Susanna M. De Matteo”

Presi la foto e andai, ma prima di uscire da quella porta mi voltai verso il ragazzo per rivolgergli una domanda che aspettava da anni una risposta.

-Scusi, un’ultima cosa…Come si chiama suo nonno?

-Michael…


Tornai in fretta e furia all’albergo nella speranza di non arrivare in ritardo anche quella volta. Ed in effetti ero giunta appena in tempo.

-Ehi, ma dove ti eri cacciata? Mi hai fatto preoccupare…

-Ehm scusami Mike, ma avevo una cosa importante da fare, e poi ho pure dimenticato il cellulare in camera…

Una macchina dai vetri scuri lo attendeva dinanzi all’albergo, ed io lo avrei raggiunto dopo con il resto dello staff per evitare di essergli di ulteriore impiccio. Già immaginavo la folla ansimante che lo aspettava, ci mancava solo che si fosse dovuto preoccupare che io venissi schiacciata dalla gente.

-… Allora ci vediamo dopo lì…-gli dissi avviandomi verso l’altra macchina che avevano predisposto per noi.

Non rispose.
Mi si avvicinò e le dita della sua mano si intrecciarono alle mie trascinandomi fluidamente dietro il suo braccio

-Ho bisogno di te…adesso…- mi disse con una voce che non lasciava spazio a repliche; ed io non avrei mai replicato.

Durante il viaggio non disse una parola, era evidentemente agitato.

-Mike, oggi ho fatto questo…

Gli mostrai quella Polaroid sbiadita con un entusiasmo che la diceva lunga su quanto fosse importante per me, e gli raccontai del viaggio a Londra con Diana, della prima volta in cui avevo fatto la sua conoscenza attraverso un televisore, del signor “Elvis-per-sempre” e della sua bacheca del viaggiatore. Rimase divertito dal racconto dello sconvolgimento mio e della mia amica dinanzi alla sua esibizione, e fu affascinato dalla storia della foto.

-Ma quanto sei folle da uno a cento?

-Si, in effetti sono folle parecchio, hai ragione…ma dovevo trovare un modo speciale per farti in bocca al lupo. Vedi cosa c’è scritto su questa foto? “…Da qui inizia una nuova avventura…” Voglio che sia così anche per te, che da oggi, da qui, ci sia un nuovo inizio…Portala con te…

Con fatica l’auto si fece largo nella calca.
Prima di scendere ad affrontare quella folla, mi strinse forte a sé.

-Grazie, che Dio ti benedica piccola matta…


Capitolo 18



“…Don’t walk away…”
(Don’t walk away)


Eccolo, era tornato!
Ma quanto ama il suo lavoro quest’uomo, pensavo mentre lo vedevo indaffaratissimo e talvolta visibilmente affaticato tra basi, coreografie, effetti di luci e tutto quello strabiliante palcoscenico che lo circondava.
La macchina dello spettacolo stava per partire, e tutto aveva l’impressione di essere straordinariamente, esplosivamente, esageratamente alla sua maniera. Ma perché tutto fosse davvero alla’altezza del suo genio, c’era un elemento essenziale che doveva essere scelto con una perizia ed una accuratezza senza limiti, il corpo di ballo; la cornice, il prolungamento, l’eco di quella danza epocale che si chiama Michael.
Sebbene fosse affiancato da validi coreografi che lo accompagnavano da anni, il giorno delle selezioni dei ballerini volle che io fossi presente.

-Mi serve un tuo consiglio- mi disse- so che con te posso fare una scelta migliore…

Sapevo che stimava le mie capacità di coreografa ed adoravo la chimica e la complicità che scattava tra noi quando lavoravamo insieme, e con piacere immenso lo aiutai nelle selezioni.
Arrivai nella platea semi-illuminata, mentre sul palco ragazzi e ragazze provenienti da ogni parte del pianeta scalpitavano di emozione perché dinanzi a loro stava per sedersi il mito, il sogno di una vita, l’ispirazione di una intera carriera.
Mi riconobbi negli occhi speranzosi di quei ragazzi e in loro rividi i miei inizi. Si avvertiva nell’aria la voglia di farcela, di dare il massimo, di far si che il proprio corpo sapesse danzare la convinzione di essere la scelta migliore per quello spettacolo.
Quei ragazzi erano la grinta, la passione e l’elisir di eterna giovinezza capace di far sorridere di entusiasmo Mike non appena li vide.
Prendemmo posto dinanzi al palco, si spensero le luci in sala e prima che la musica partisse una frase scivolò spontanea fuori dal mio cuore.

-Mike…quante generazioni hai fatto ballare…

Seduto su quella poltrona era elettrico.
Come quando lo vidi la prima volta il giorno del mio pseudo-provino, il 28 agosto ’87, non riusciva a stare fermo; ballava, ballava sempre, con qualsiasi musica. Faceva scattare la testa e le spalle con un ritmo tutto suo, quel ritmo che ha fatto storia.

-Lei, lei lei!!!...lei è perfetta!! -disse indicando ripetutamente la ragazza in prima fila.

Alta, mora, capelli mossi e lunghi, leggermente scura di carnagione.
Mi ricordava qualcuno.
Si rivolse a me e dolcissimo mi strinse le guance tra le sue mani.

-Come vedi i miei gusti rimangono sempre gli stessi…

Ci abbracciammo a lungo e mi guardò felice con gli occhi lucidi.
Era stanco, stressato, preoccupato, ma leggevo ancora nel suo sguardo la voglia di regalare qualcosa di bello al mondo, uno spettacolo epico, strabiliante, sfarzoso, sorprendente. Il saluto ai suoi fan non poteva che immaginarlo così.
Emily Dickinson diceva che la fama è come un’ape, ha un ronzio, ha un pungiglione, ma ha anche le ali per volare, e sapevo che in quello spettacolo Mike avrebbe volato alto, meravigliosamente, come ha sempre fatto.
Con un ampio gesto panoramico del braccio indirizzò la mia attenzione sul quel palco, le luci, gli amplificatori, gli strumenti.

-Vedi Susie, questa è la musica per le migliaia di ragazze e ragazzi che mi hanno seguito in questi anni con tanto affetto. Alcuni di questi saranno ormai già uomini e donne adulti, altri forse, chissà, sono ancora dei ragazzini…ma tutta la musica di quel palco sarà per loro…

Prese le mie mani e se le portò al petto. Il suo cuore come il ritmo di una follia di tamburo.
Tirò giù gli occhiali scuri come per timore che dentro quegli occhi si leggesse troppo sfacciatamente ciò che gli frullava nella mente o forse solo per nascondere l’imbarazzo, ma il rossore sulle sue guance lo tradì.

-…E la senti questa Susie?...questa è la mia musica solo per te. Non è mai stata di nessun altra…Quanto sono stato stupido Susie…Come ho fatto a non capire che la felicità non l’avrei trovata cercandola lontano…La felicità è sempre stata seduta al mio fianco, dove sei seduta tu adesso.

Abbassai lo sguardo incapace di reggere la trepidazione di quella sua voce senza età mentre, accarezzandomi il viso, allontanava dalla mia fronte qualche ricciolo ribelle.

-Ma dimmi…è tardi Susie?...è troppo tardi per noi…?

-…Non è mai troppo tardi per noi Mike…non lo è mai stato…

Mi diede un caldo bacio sulla fronte e avvicinandosi al mio viso come per annullare ogni altra cosa dal suo campo visivo mi disse a voce lieve

-Allora ragazza tieniti pronta… perchè quando tutto questo sarà finito ti giuro che ci sarà tempo solo per noi e per quello che in questi anni abbiamo lasciato sospeso…tutto il tempo che vogliamo…

Non mi restava che aspettare.
***



Tra pacchi, scatoloni e carta da imballaggio non ci stavamo capendo più niente. La compagnia mi teneva sempre lontana da casa per mesi, ma adesso era arrivato il momento di cominciare quel benedetto trasloco.
Quella villa era uno spettacolo dell’architettura, ma per me era troppo. I miei tentativi di rifiutare quel regalo furono vani, ormai Mike aveva deciso così .

-Susie…non voglio sentire storie…Non è carino rifiutare un regalo- disse facendo tintinnare le chiavi della casa davanti ad un mega sorrisone dei suoi.

Con il naso verso il soffitto mi sorprendevo dell’immensità di quelle stanze.

-Guarda Mike, questo posto è uno spettacolo…Ma…ma girati un po’ intorno…che ci faccio io con tutto questo spazio? Lo sai che non ci sono abituata, e poi vivere da sola in un posto così grande mi mette un’angoscia senza limite…

-Ma pensi solo a te?...che egoista…E io e bambini dove ci mettiamo? Ragazza, la famiglia si allarga, ne siamo in cinque fattene una ragione…

Un tuffo al cuore, dal sapore così straordinariamente emozionante che non riuscii nemmeno ad assaggiarne la dolcezza, tanto fu trepidante di anni l’attesa di sentirmi dire quella frase. Non potevo credere alle mie orecchie.

-…Ripetimelo Mike…ripetimelo, ripetimelo, ripetimelo all’infinito…

Gli saltai al collo piansi un’alluvione di gioia.

-Voglio che tu diventi la mia famiglia Susie…Tu lo vuoi?

-Non ho mai smesso di sperarlo tesoro mio, mai, mai, mai, mai…

Ci incontrammo in un bacio infinito che pose finalmente fine alla nostra trincea di cuori. Ci eravamo arresi finalmente al nostro amore.
Ci stringemmo intensamente come colti dalla paura di perderci di nuovo per sempre, e poi cercai di tornare sulla Terra.

-Mike ma con i bambini? Come facciamo? Loro non sanno nulla, non hanno mai saputo nulla, e poi in questo periodo tu devi lavorare come un matto, non ci vedremo per non so quanti mesi…Come facciamo?

-Si si, c’avevo pensato. Magari cerchiamo di fare una cosa graduale, piano, piano. Non perché i bambini non ti vogliano bene, lo sai che ti adorano, però sai com’è…Per loro ci sono sempre stato solo io, vedermi con una compagna accanto all’improvviso, sotto lo stesso tetto tutti e cinque…Non vorrei che per loro fosse una cosa un po’ traumatica…Poi in effetti mi aspetta un periodo di fuoco. Starò via tanto e già so che per quanto voglia fare i salti mortali li vedrò pochissimo, quindi far vivere loro quest’altro cambiamento improvviso, così subito, forse non è il caso…Che dici?

-Si si…hai ragione… Tanto che fretta abbiamo? Facciamo così, in questi mesi mi occuperò io di tutto, di sistemare la casa, arredarla, ecc ecc, tu intanto hai un certo tour da fare. Quando poi avrai concluso con i concerti e le varie cose, faremo questo passo con più tranquillità, per allora sarà tutto pronto e non mancherà nulla. Adesso sarebbe uno strapazzo per noi e per i ragazzi…

-Ma penserai proprio a tutto tutto?

-Si, non ti preoccupare, a tutto tutto…

-…E…anche…alle nostre fedi Susie?

Tutto ciò che riguardava la nostra storia era stato inusuale, anche la sua proposta di matrimonio.

-…Si Mike…anche alle nostre fedi…


Era trascorso qualche mese da quando avevamo preso quella casa, ma da allora nessuno dei due ci aveva più messo piede; io sempre in giro con il nuovo progetto della compagnia e lui assolutamente impegnato con le prove. Era arrivato il momento di darmi una mossa con l’arredamento e i vari acquisti necessari per rendere quella stupenda villa, la nostra casa, ma si sa che le cose si fanno meglio in due, per cui approfittai di graditissimi rinforzi venuti dall’Italia.
Finalmente, dopo ventidue anni che vivevo in America, Diana era venuta a trovarmi. Si sarebbe fermata per un paio di mesi, giusto il tempo di far lavorare un po’ le sue braccine e farmi dare una mano.
Era da ore che spacchettavamo e spolveravamo di tutto.

-Mamma mia sono distrutta…

-Susà vai a letto, non ti preoccupare per me, io sto ancora stordita dal fuso orario quindi adesso non riesco a dormire…Magari leggo un po’…

-Mi dispiace lasciarti di qua da sola…Anzi, sai che faccio, mo mi metto a dormire su sta poltrona nuova. L’ho pagata un occhio della testa, è reclinabile e fa pure i massaggi, la devo testare e se non funziona a quello del negozio gliela butto appresso…

Presi il lettore mp3 e decisi di ascoltare un po’ di buona musica per accompagnare la mia fase di dormiveglia. Scorsi le varie cartelle della playlist nella sezione in cui avevo i dischi dei cantanti stranieri: Aereosmith; Alicia Keys; Beyoncè; Celin Dion; Janet Jackson; John Legend; George Michael; Mika; Michael Jackson; Queen; Sting.
Mi ci voleva un pezzo dolce, lento, una voce sottile che accompagnasse il mio riposo.
Non potetti fare a meno di pensare a Michael e a quanto sarebbe stato importante sentirlo cantare per me quella canzone che tanto mi emozionava, e pensai che se poi lui avesse deciso di dedicarmene una diversa sarebbe stata stupenda lo stesso, lui sarebbe stato stupendo lo stesso. La cercai nella cartella in cui avevo raccolto i suoi pezzi che più mi piacevano; con il dito confermai sullo schermo la scelta e la musica partì.

“Don’t walk away
See I just can’t find the right thing to say
I tried but all my pain gets in the way
Tell me what I have to do so you’ll stay
Should I get down on my knees and pray…”



Il campanello.
Sobbalzai.
Guardai l’orologio con gli occhi semiaperti, non riuscivo a vedere che ora fosse perché l’orologio mi parve essere senza lancette. Il sonno e la mia cocciutaggine a non voler mettere gli occhiali da vista mi facevano brutti scherzi.
Aprii la porta.

-Ohi…Mike!?...Ma che ci fai qua.? Entra dentro…ti vedranno!

Era solo, non era travestito, né tantomeno indossava mascherine, cappelli o cose del genere.

- No…stai tranquilla non può vedermi nessuno…

-Eh si come no… dai, non sparare cavolate ed entra…

Indossava quel paio di stivali neri che tanto gli piacevano, con la punta e dal tacco rumoroso, ma tanto furono lievi i suoi passi che mi sembrò di non avvertire alcun suono che accompagnasse il suo incedere curioso, spaesato, come di qualcuno che per la prima volta si trova in un posto nuovo e totalmente sconosciuto.

-Allora? Come mai qui?

-Sono venuto per lasciarti delle parole…

Parlava piano, forse non voleva svegliare Diana che dormiva.
Diana!!! Solo a quel punto realizzai che in casa c’era anche lei, l’amica di una vita, una delle donne per me più importanti che per ironia della sorte non aveva mai, e dico mai, conosciuto di persona l’uomo per me più importante. E adesso, in quel giorno, ad un’ora imprecisata, si trovavamo nella stessa stanza.
Era il momento dello storico incontro. Dopo vent’anni era ora.

“…And how can I stop losing you
How can I begin to say
When there’s nothing left to do but walk away…”

-Mike…Mike…aspetta aspetta. Prima che vai avanti devi conoscere Diana. È arrivata ieri, te la presento finalmente…

Mi avvicinai per svegliarla, quando lui mi bloccò delicatamente.

-Shhhhhhhh- mi fece con l’indice poggiato sulle labbra- ci saranno delle parole solo per lei, ma non adesso…Ho fame Susie…

-Ah…vedo che ho in frigo. Che ti va?

-Hai dei muffin Susie?

Sorrisi leggermente a quella richiesta per via del dolce ricordo che mi suscitava.
Mi affaccendai a cercare qualcosa nella credenza che avevo quello stesso giorno provveduto a riempire.

-No Mike…non credo proprio…Posso controllare… Oggi ho fatto un po’ di spesa, ma non ricordo di averli pre…Ah…sei fortunato! Li ho trovati…deve averli portati Diana perché non credevo…mah…comunque tieni, prendi pure.

Mangiò lentamente e in silenzio; composto, seduto al tavolo della cucina.
Nemmeno io dissi nulla, rimasi in piedi a guardarlo.
Quella visita, quella richiesta, tutto avvenne lentamente e con una ritualità quasi mistica che mi tolse ogni parola.
Una volta che ebbe finito si avviò verso la porta.

“…I close my eyes
Just to try and see you smile one more time
But it’s been so long now all I do is cry
Can’t we find some love to take this away
‘Cause the pain gets stronger every day
How can I begin again
How am I to understand
When there’s nothing left to du but walk away…”

-Ehi Mike, ma vai via così…?

-…Lo so ma…credevo di avere più tempo, però prima di andare via ti lascio tre cose Susie.
Il ricordo di una promessa preziosa, una coperta per quando la tua paura sarà fredda e il mio Ti Amo…Ti Amo per sempre Susie…

“…See now why
All my dreams been broken
I don’t know where we’re going
Everything we said and all we done now
Don’t let go, I don’t wanna walk away…”

Avvicinò delicatamente il mio viso al suo e lasciò sulle mie labbra il sapore di quel muffin.
Non ebbi la forza di parlare anche se dentro di me a quel ti amo sussurrato rispondeva un Ti Amo gridato; ma adesso che sapevo che il mio Mike innamorato era tornato non avevo più nulla da temere, perché io, la sua piccola Susie innamorata, non ero mai andata via.
Ero così felice che una sola notte non mi sarebbe mai bastata a colmare l’immensità che quella semplice parola mi aveva aperto dentro, ma ormai avremmo avuto tante altre notti in cui gli avrei potuto raccontare la mia gioia.
Aprì la porta e prima di uscire mi stinse in una culla calda di braccia, occhi e sorrisi. Il suo profumo era più intenso, la sua pelle più vellutata, il suo avvolgermi stretto e bruciante come un marchio a fuoco impresso sulla pelle.

-Susie…un’ultima cosa, i miei bambini…ti raccomando…


“…Now why
All my dreams are broken
Don’t know where we’re going
Everything begins to set us free
Can’t you see, I don’t wanna walk away
If you go, I won’t forget you girl
Can’t you see that you will always be
Even though I had to let you go
There’ nothing left to do…”


Quella frase stritolò il mio cuore in un pugno; un nodo di incomprensibile ed improvviso dolore mi strinse la gola, lasciandomi solo il respiro sufficiente a pronunciare poche parole sconnesse.

-Michael…“Don’t walk away…”


La mia testa si appesantì di lato e con uno scatto brusco aprii gli occhi.

-Uè, che c’è? Ormai parli americano pure nei sogni…Non riesci a dormire nemmeno tu? Stai da un’ora che ti giri e ti rigiri su quella poltrona. Forse non è poi così comoda come pensavi… Neppure io ci riesco comunque, sto jet lag mi uccide…

-Dià ma che stai dicendo? Se non mi alzavo io, mo l’aprivi quella porta. E quel povero Mike a voglia di stare là fuori…

Diana si avvicinò e mi pose una mano sulla fronte.

-Eppure non scotti… Susà ma ti sei presa qualche cosa? Dimmi la verità, mica ti droghi e non me lo dici? Mi fai dispiacere assai se è così…

-Ma la vuoi smettere! Mi stai facendo incazzare! Ho fatto bene a non svegliarti; Mike è venuto qua e non te l’ho nemmeno presentato. La prossima volta impari…aspetta altri vent’anni mo!

Diana con sguardo serio e con voce tranquilla cercò di calmarmi accarezzandomi i capelli. Ad un tratto ero diventata una furia. Mi agitavo, ero sudata e paonazza in viso.

-Susanna calmati…mi stai facendo preoccupare. Forse hai fatto un brutto sogno? Io sono stata sveglia a leggere fino ad adesso, tu dormivi, e qua non è venuto nessuno…

-Ah no?...Ma che ti pensi che mi sono rincretinita? Vieni con me in cucina…ti faccio vedere chi delle due sta male…

La trascinai nell’altra stanza e sul tavolo c’era un pacco di muffin aperto.

-Ecco! Hai visto? Mike è venuto qua, è stato dieci minuti. Ha detto che aveva fame e che voleva un muffin. L’ha mangiato…

-Susà vieni un attimo per favore

Diana mi interruppe turbata, mentre frugava dentro la scatola delle merendine

- Ci sta qualcosa qua dentro…

-Embè che sarà mai. Forse è una di quelle sorprese per i bambini…sai quelle…

-Ah si…E da quando in qua nelle merendine ci mettono gioielli di brillanti?

Tirò fuori da quel pacco uno scatolino dalle fattezze note, e prima ancora di vederne il contenuto il cuore mi esplose nel petto.
Conoscevo quel cofanetto.
Lo aprii e ciò che vidi al suo interno mi lasciò inebetita.
Il mio ciondolo, anzi il nostro ciondolo, era adagiato su un piccolo cuscinetto come in attesa di essere ritrovato e ammirato di nuovo nella sua bellezza; quello con la data che Mike mi aveva regalato tanti anni prima. Ma era impossibile! Insomma, erano passati quattordici anni da quando mi era stato strappato via dal collo con violenza durante quella notte infernale e da allora non lo avevo più ritrovato.
Lo voltai, e dietro c’era quella scritta eterna come il “Per sempre” che vi era inciso, eterna come…
…come “il ricordo di una promessa preziosa” che qualcuno mi aveva lasciato insieme ad un bacio dal sapore dolce, in un tempo sospeso senza lancette.
Stavo per svenire.
A quel punto Diana mi sostenne e mi accompagnò sul divano; mi addormentai distesa con la testa sulle sue gambe, mentre lei in compagnia del fuso orario sballato leggeva il suo libro.

Mi alzai tardi quella mattina e cercai di fare piano per non svegliarla, quella poverina non aveva dormito tutta la notte. Le tolsi il libro che ancora teneva in una mano, ed involontariamente lo feci cadere a terra.
Dalle pagine ne uscì una busta; pensai che fosse un segnalibro, ma sembrava una piccola lettera.
Mi incuriosii e la aprii. Tanto tra me e lei non c’erano segreti, non se la sarebbe presa.
Dietro c’era una scritta che diceva “Per Diana” ; era in inglese il che mi parve strano perché lei l’inglese lo parlavo poco, e quella scrittura era troppo riconoscibile per non provocarmi un altro mancamento.
Per leggerla dovetti sedermi, stavo per svenire di nuovo.

“Diana,
il Destino ha voluto che noi due, totali sconosciuti, separati da mondi ed oceani, condividessimo un tesoro prezioso dalle sembianze di donna, quel tesoro di nome Susanna.
La vita non mi ha concesso di godere ancora della meraviglia del suo amore, ma a te che l’accompagnerai negli anni a venire, lascio un’eredità d’anima.
Sii per lei i miei occhi, il mio calore ed i miei abbracci;. stalle vicino nei momenti difficili e gioisci con lei nei momenti di felicità, mentre io vi seguirò senza infastidire il percorso delle vostre vite e vivrò ancora nel tuo affetto, nelle tue carezze e nelle tue parole.
Come Susanna ha scelto te per esserle amica nella vita, io ti scelgo come tramite oltre la vita, perché è attraverso di te le insegnerò ad udire con gli occhi e a leggere ciò che scriverà ancora per lei il mio amore silenzioso. Sarò lontano, ma mai così tanto da impedire al mio cuore di raggiungerla ovunque.
Diana, le nostre mani non si sono mai strette per presentarsi e me ne dispiace, speravo di avere più tempo anche per questo, tuttavia da oggi mi auguro che saranno le nostre anime a stringersi, in questo patto eterno…
Ti sorrido dall’alto,
Michael.”

Il tempo artefatto del sogno aveva ceduto il posto alle lancette della realtà.
Erano all’incirca le dodici e un quarto del 25 giugno 2009, e al mio angelo stavano per spuntare le ali.
Eh si…era volato via, prima ancora che il suo spettacolo potesse avere inizio.


Epilogo




“Smile though your heart is aching
Smile, even though it's breaking
When there are clouds in the sky
You'll get by...
If you smile
With your fear and sorrow
Smile and maybe tomorrow
You'll find that life's still worth while if you'll just...
Light up your face with gladness
Hide every trace of sadness
Although a tear may be ever so near
That's the time you must keep on trying
Smile, what's the use of crying
You'll find that life is still worth while
If you'll just...”
(Smile)


Ti vedo camminare nella cadenza riconoscibile del tuo passo. Il tuo solo incedere fa musica. Ti sento tra i palmi di queste mani, nella ruvidezza del tuo viso che talvolta si impigriva di radersi e nell’odore così tanto tuo che vi lasciavi sopra come una firma al solo accarezzarti.
Silenzio intorno, ma poi sento soffiare un respiro. Non è il mio, perché il mio è spezzato da singhiozzi ritmati. Lo so che sei qua dentro, tra queste mura che aspettavano l’impazienza di diventare famiglia, ti sento.
Chiudo gli occhi.
La tua voce.
Susie…stasera cinese?...Susie ti piacciono queste scarpe?....Susie andiamo in giro?...Susie sono impegnato, ma ti prometto che dopo ti chiamo…Susie quando torni a Napoli a Natale mi prendi i pastori del presepe?...Susie mi serve una mano…Susie hai bisogno di aiuto?...Susie chiama quando arrivi a casa…
La mia voce.
Mike non fare il musone…Mike smettila con l’acqua…Mike mi manchi tanto…Mike fatti sentire…
Mike ti ho preso un regalo…Mike facciamo una torta…Mike guarda questo pezzo…Mike stai benissimo così, lascia stare…Mike lavoraci un po’ su ed è perfetto…Mike non fare quelle facce…Mike te l’ho mai detto che sei un testone?....Mike abbracciami un pochino…Mike passo a prendere i bambini…Mike…
Poi il silenzio di queste stanze vuote. E adesso?
Senza cene, senza scarpe, senza uscite, senza presepe, senza telefonate, senza aiuto, senza attesa, senza rimproveri, senza consigli, senza regali, senza proposte, senza linguacce, senza abbracci, senza te…Michael, senza te per il resto dei miei giorni. Cosa può esserci dopo?
Non lo so.
Si può morire forse?
Si, si può.
Allora che faccio? Ti seguo?
...E tu che farai? So che mi rimprovereresti. Ma io sono testarda lo sai, potrei non darti ascolto.
Però tu mi hai aperto gli occhi al futuro, tu mi hai suggerito un obiettivo, tu sei la mia speranza, tu mi hai lasciato quelle parole. Tu per me sei vita Mike.
Mi alzo in piedi e volteggio al suono di quella musica che mi canta nelle orecchie…quella in cui sussurri “…Sorridi anche se ti piange il cuore…con le tue paure e il tuo dolore sorridi e forse domani scoprirai che vale ancora la pena di vivere…”. È paradossale; tu sei capace di uccidermi, e solo tu sei capace di farmi rinascere…
Sento che mi avvolgi le spalle in un abbraccio caldo, protettivo, sicuro, come in questa foto che tormenta i miei occhi di lacrime. Avverto la tua presenza intorno a me con lo stesso calore, con la stessa protezione e con la stessa sicurezza…ti sento forte Michael e questo mi dice che è arrivato il momento giusto. Il mio momento giusto.
Alle celebrazioni pubbliche ero assente, agli annunci ufficiali ero assente…Ed eccomi qui nella mia commemorazione personale per ricordare il tuo sorriso appassionato, i tuoi occhi struggenti, le tue mani accoglienti, il tuo profumo intenso, il tuo cuore grande; non per rendere onore al re della musica, ma al “mio piccolo grande uomo normale”.
Mi hai insegnato ad amare e a combattere per ciò in cui credo. Mi hai insegnato che i figli non sono di chi li fa ma di chi li cresce e che per cambiare il mondo bisogna partire da se stessi prendendo un piccolo posto per renderlo un posto migliore. E adesso in questa casa semivuota con addosso il tuo pigiama rosso a righe, mentre sullo schermo della tv scorrono le immagini di un ragazzino che vola in groppa ad un drago bianco, penso a noi e alla nostra storia infinita.
Quanta gioia, quanto dolore, quante lacrime e quanti baci si nascondono e si intrecciano tra le righe di questa specie di diario che ho scritto ricordando con sofferenza e sorrisi quello che siamo stati; mi pare quasi assurdo pensare che questa carta sia adesso in parte depositaria della nostra vita Mike, ma ne sentivo il bisogno. Non per buttarmi tutto alle spalle, non per cancellare ed andare avanti, bensì per rendere il tuo ricordo eterno anche dopo di me, quando il destino deciderà che è arrivato il mio tempo per raggiungerti.
Custodirò queste pagine come un dono prezioso che lascerò in dote a mio figlio, si Mike come vorrei che tu adesso potessi sentirmi dire questa frase, a mio figlio, quel bambino che adotterò perché tu mi hai aperto la strada della speranza, così che in futuro possa sapere che quando era piccino piccino la sua mamma decise di amarlo anche se non aveva potuto vivere la gioia di portarlo in grembo, e tutto questo per merito di un angelo chiamato Michael volato in cielo troppo presto perché potesse imparare a conoscerlo.
Solo in questo modo sento di poterti dare il mio saluto eterno, con la consapevolezza di esserti stata amica nel modo migliore in cui avrei potuto esserlo, ma con il rimpianto di non aver avuto il tempo di gridare al tuo sussurro il mio Ti Amo lungo vent’anni; ma adesso, in questo giorno, nel “Nostro Anniversario Di Vita”…ti giuro che anche il mio sarà Per Sempre.

Con tutto l’amore che posso,
la tua piccola Susie.
29 agosto 2009.




*** The end ***


Anto (girl on the line)
00lunedì 19 luglio 2010 16:24
Serena...Non so cosa dire..
Ti lascio solo un pensiero..



Questa storia mi ha colpita nel profondo dell'anima... [SM=x47964] [SM=x47964]
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