In The Name Of Love (in corso). Rating: verde

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ludo.94
00martedì 6 luglio 2010 09:57
ehm ehm ......tati!! ciao quando posti?? ti scrivo qui ma è riferito a tutte e due le ff ovviamente!! ihihih vabbè prenditi tutto il tempo che ti serve....
un bacio,ludo!
BEAT IT 81
00martedì 6 luglio 2010 12:39
Mi accodo alla richiesta di Ludo, quando posti?Baci Sara
dirtydiana66
00martedì 6 luglio 2010 17:29
ti prego posta!!!!!
tati-a4ever
00martedì 6 luglio 2010 23:18
Ragazze mi scuso di aver tardato così tanto T___T
Adesso sposto subito, sistemo il layout e pubblico!

P.S. Non sono sicura vi piacerà molto, perchè a me sinceramente non ha soddisfatto pienamente... Non sono soddisfatta del mio lavoro svolto. Ad ogni modo, adesso penso a pubblicare : )

Scusate ancora...
tati-a4ever
00martedì 6 luglio 2010 23:35
Il capitolo è un po' lungo, spero di non farvi addormentare XD.


Capitolo VIII

Mi lasciai cadere sul divano, stanca e assonnata, dopo una sessione di prove generali per la seconda e ultima serie di concerti che si sarebbe svolta negli Stati Uniti, per un periodo che sarebbe durato da metà maggio a ottobre. Erano una serie di serate che comprendevano il giro di tutti gli USA nel giro di pochi mesi nelle città più importanti, che lasciavano qualche periodo lungo di riposo – circa anche due o tre settimane – ma che mi facevo salire l’adrenalina a dismisura.

I tour mi mettevano ansia, dovevano essere perfezionati e curati anche nel più minimo dettaglio, e arrivavano ad esasperare anche la più tranquilla cellula nervosa del mio cervello. Per non parlare della spossatezza. Ci mettevo tutta la mia più concentrata volontà nel fare alla perfezione ogni esibizione, di mettercela tutta ogni volta e volevo che il pubblico fosse orgoglioso di me. Amavo le cose fatte in grande, fin quando potevo permettermele, ma anche la più minima doveva essere compiuta senza un minimo errore. A volte ci mettevo troppe energie, lo sapevo bene, però se il risultato sarebbe stato soddisfacente sarebbe stata una fatica ben compiuta.

Mi distesi sul divano senza portare i piedi sopra, troppo stanchi per fare una fatica del genere. Guardai il soffitto bianco per qualche lungo minuto, con le mani congiunte in grembo come se fossi un morto disposto sulla tomba, godendomi il meritato e silenzioso riposo, cercando di convincere la mia mente a fare pausa da tutti gli stress possibili ed immaginali. Eppure la mia mente continuava a pensare ai passi, alle tonalità da utilizzare nelle varie canzoni, agli effetti scenici...

Continuavo a fare progetti, a sistemare meccanicamente i vocalizzi giusti affinchè fossero resi piacevoli e, possibilmente, imprevedibili, anche se alla fine era il mio cuore a scegliere cosa fare. Non potevo controllare l’istinto, perché era una cosa che mi veniva troppo naturale. Non potevo programmare la mia voce, perché quella alla fine desiderava fare a modo suo. Per mia fortuna gli effetti erano appaganti e positivi.

Mi piaceva andare oltre gli schemi qualche volta, purché tutto fosse regolare alla fine. Per quello però non avevo grandi problemi: sapevo misurare la mia voce a personale piacimento, arrivare alle note molto alte senza stonare e a quelle più basse mantenendo la musicalità, provocare “ruggiti” o falsetti quando volevo. La mia voce era una delle cose di me che più amavo, oltre ai miei occhi.

Cantavo da quando ero piccola – si poteva dire che fossi nata cantando perfino – e la mia voce per grazia di Dio si era rivelata un’ottima alleata non solo nella carriera, ma anche nella mia vita. Len, il mio manager, diceva che avevo un talento che nessuno prima di allora possedeva. Ero una donna che, se avessi deciso di sfruttare la mia voce, sarei riuscita a conquistare il mondo della musica in poco tempo. O almeno così lui diceva.

Inoltre era d’accordo con me sul fatto di non impuntarmi su solo un genere musicale; il mio Cd di debutto era stile Rock soft, non c’erano molte canzoni Pop o R&B, diciamo solo due o tre su un disco di dodici canzoni. Entrambi pensavano che, con il prossimo Cd, sarei dovuta sbarcare nell’ambiente Pop musicale, non lasciando però sprecata la mia voce e nemmeno lo stile del primo album.

Perfino il mio produttore mi disse che aveva già molte idee per me.
“Le tonalità saranno Pop, ma con la tua voce instaurerai un nuovo sound ruggente e allo stesso tempo melodico, uno stile che varia fra tonalità alte e basse che farà impazzire ancora di più le classifiche non solo americane, ma mondiali! Non abbandonerai del tutto la musica Rock, ma ti porteremo verso una tendenza del tutto nuova e assoluta! Vedrai, quando uscirà il tuo prossimo album sarai la novità del secolo!”

L’idea di farmi fare un Cd rock come introduzione nel campo musicale era stata di Len; poche donne cantavano Rock, la maggior parte si sviluppava nel sound melodico e lento, stile ballata, e io sarei stata una novità che sarebbe stata impossibile non notare. Sarei stata la giovane donna che avrebbe rivoluzionato per sempre il mondo Rock, Pop e allo stesso tempo R&B nella categoria femminile. Se lo diceva lui. Io nel frattempo potevo soltanto credere in me stessa e continuare a fare quello che amavo di più: cantare.

Decisi di lasciar perdere ogni cosa che non fosse il relax, perciò mi alzai svogliatamente - e con grande sforzo - dal divano e mi diressi in camera da letto, al primo piano, con l’intenzione di mettermi un pigiama e poi guardare un po’ di Tv. Tanto per curiosare un po’ sui canali locali, tutto qui. Al massimo più tardi sarei risalita in camera, a leggere un po’ “Orgoglio E Pregiudizio” e mi sarei addormentata con il libro aperto fra le mani, come un’idiota.

Mi misi il mio pigiama preferito, una vestaglia primaverile/estiva un po’ larghetta di colore rosato con i fiocchettini bianchi verso le estremità. Senza ciabatte ma scalza, com’ero sempre io girare per casa, mi portai in salotto, di nuovo, e mi accasciai sul divano pesantemente. Presi il telecomando sul tavolino in vetro di fronte a me e accesi la Tv, cambiando continuamente canale in cerca di qualcosa di bello da vedere.

Adoravo la mia casa, non tanto grande non piccola ,ma di classe con un ché accogliente; in più aveva confort che non avevo mai avuto in vita mia, come la piscina, perciò questo la faceva più meravigliosa. Per fortuna era recintata da muri e cancelli, se no mi sarei ritrovata i giornalistici o qualche fan oltre la porta di casa o spiarmi fuori dalla finestra come i guardoni. Mi venivano i brividi al solo pensiero...!

Stavo girando canali su canali in cerca di non so ché, tanto che dopo un buon quarto d’ora ero già stufa. Con uno sbuffo e gli occhi impuntati come un pesce lesso sullo schermo spensi meccanicamente la tv, tirandomi su in piedi con un grugnito annoiato e stiracchiai per bene le braccia. Sì, a quanto pare il letto mi chiamava e non potevo non rispondere alla sua chiamata divina!

Chiusi le luci della sala non appena ne fui fuori, accesi quelle delle scale e non appena stetti per salire sentii una musica leggera. Il mio cellulare. Se c’era una cosa che non si potesse dire di me, era che non avevo un buon udito. Sentivo anche il minimo suono anche a metri e metri di distanza, come un radar! In alcuni casi non era una bella cosa, poiché ero allo stesso modo capace di percepire i soavi e soffocati commenti negativi detti alle spalle...

Non feci neanche il tempo a sospirare che corsi veloce alla sua ricerca. Per fortuna ero sufficientemente sveglia da ritrovarlo abbastanza velocemente, ma non così tanto da non rischiare di rompermi la testa scivolando sul parquet liscio come una demente e non così tanto veloce da rispondere prima che finisse di suonare. Maledizione. Lo presi dalla tasca destra del mio giubbotto nero leggero e guardai lo schermo: due chiamate perse.

A quanto pare non ero stata abbastanza “captatrice” da sentire la prima chiamata, forse a causa della tv. Sbuffai spostando un ciuffo di capelli con un soffio irritato dalla mia fronte. Visualizzai di chi fossero le chiamate, tanto sapevo che avrei dovuto richiamare io. Magari era Len, solo che non pensavo ci fossero cose tanto importanti da risolvere. Ci eravamo incontrati solo tre quarti d’ora prima, poteva però essersene dimenticato. Perché allora non mi aveva telefonato subito? Bah.

Rimasi perplessa quando vidi la scritta “Numero privato”.
Ma non potei farmi altri rompicapo che la schermata si illuminò e la suoneria risuonò alta e sonora in tutta la stanza, facendo vibrare il mio piccolo macinino come un pazzo, nel frattempo che la scritta ricompariva con lo stesso nome di prima. Numero privato.
Titubante, poggiai il mio pollice sul tasto di risposta alla chiamata, inspirai col naso e mi affrettai a rispondere, prima che quello dall’altra parte del telefono mi mandasse una volta per tutte al diavolo.
Giornalista? No, non poteva essere...
Forse un maniaco...?

«Pronto?», chiesi nascondendo il dubbio nella mia voce. Da subito sentii silenzio per qualche secondo e la mia espressione facciale divenne corrugata come quella di una bambina imbronciata. Quella era una smorfia tipica di me: sopracciglia aggrottate, labbro lievemente imbronciato, occhi a malapena socchiusi.

«...Chi parla?», chiesi di nuovo, qualche istante dopo che non avevo ancora ottenuto risposta.

Un sospiro dall’altra parte del capo mi fece temere di non essere davvero nelle mani di un maniaco ossessivo... Che diavolo avrei detto se fosse stato vera quella faccenda? Inventavo di essere un’altra persona e che il tizio maniaco aveva sbagliato? Come faceva ad avere il mio numero?

Cazzo. Improvvisamente mi venne in mente di chi potesse essere, proprio quando lui si decise a parlare.
Oh merda.

«Joyce?», disse una voce vellutata e melodiosa ma con una nota di esitazione. «Sono Michael».
Già, questo penso di averlo capito adesso...

La mia espressione, se solo fotografata, avrebbe fatto paura persino alle deliranti ragazze nei film perseguitate da Psyco. Avevo gli occhi spalancati dalla sorpresa e dallo shock, il cuore mi batteva come un pazzo e il respiro era bloccato in bocca senza l’intenzione di uscire. Non sapevo se ero sbiancata oppure arrossita dalla vergogna, ma sapevo che ero comunque una visione abbastanza spaventosa. In più con quei capelli arruffati da spaventapasseri e la vestaglia sembravo quasi una carcerata, o peggio, una squilibrata in un istituto psichiatrico. Mancavano le catene, le sbarre, ed ero davvero apposto.

«Oh... Michael!...», esclamai quasi sollevata ma imbarazzata. Chissà che posizione si meritava quest’altra mia figura da idiota nella classifica delle più indimenticabili che avessi mai fatto. Era la terza forse da quando avevo a che fare con lui. Anzi, forse la quarta... O la quinta...
«Scusa, ti ho per caso svegliato?», mi chiese lui preoccupato. Forse anche sperava che gli dicessi di sì, per chissà quale immotivata ragione. Sbattei gli occhi come per riprendermi da un sogno ad occhi aperti.
«No... No! Anzi, scusa... Non ho sentito il telefono, ero nel mio salotto a guardare la tv e...»
Calma, Joyce, non penso voglia sapere la cronistoria...
«In realtà mi sono accorta troppo tardi del secondo squillo e non sono arrivata in tempo...», alzai le spalle anche se lui non poteva vedermi. «E a dirla tutta sono dopotutto stata molto brava a non cercare di uccidermi sul pavimento liscio del corridoio, visto che ero lì per fare una capriola rovesciata».

Lo sentii ridere dall’altra parte della cornetta, in un suono cristallino e delicato come lo scroscio dell’acqua di una piccola sorgente di montagna. Era uno dei suoni più musicali e straordinariamente belli che avessi mai udito in tutta la mia intera vita. Amavo quando rideva. Non potevi rimanere impassibile, perché lui riusciva a coinvolgerti in poco meno di qualche fugace istante. La sua risata era innocentemente contagiosa!

Nel frattempo e salii le scale per arrivare in camera mia al primo piano, cercando come sempre di stare attenta a dove mettevo i piedi per non rischiare di cadere giù per i gradini. Non vorrei che fosse stato indirettamente partecipe al suicidio del secolo... Non sarebbe stata una buona cosa, questo era certo.

Dette un colpo di tosse e poi parlò, ancora incerto. Pensavo fosse imbarazzato nel dovermi dire qualcosa di importante, poi ricordai il mio invito e feci qualche calcolo troppo impulsivo. Mi paralizzai proprio davanti alla porta della mia camera, con una mano appoggiata alla porta in procinto di aprirla. Tornai ad assumere le sembianze da “vittima di Psyco”. Nella mia testa sentivo la voce di Vincent Price e la sua risata in “Thriller”.

Cavolo, vuoi vedere che non può venire?
...E via con i sensi di colpa...
Vedi? Alla fine hai fatto tante illusioni per niente, come al tuo solito! Pronta per la tua ennesima delusione? Be’, adesso goditi il tuo momento...
Mi maledissi infinitamente e per una volta non volli sapere risposta enunciata dalla sua bocca.

Lui finalmente si decise a parlare. «Uhm... Ti ho telefonato per...»
«Il compleanno di Emily?», chiesi come se però sapessi già la risposta. Ammisi che la mia voce avesse preso una piega abbastanza grave quanto fintamente neutrale. Ero così triste prima dell’ora che cominciavo a deprimermi.
«Sì, quello...», e lui sospirò, come a dire “Fuori il dente, fuori il dolore!”. Mi preparai psicologicamente alla mia rovina mentale. «Ti volevo avvisare che ci verrò, ma penso con un po’ di ritardo...»

“Oh” fu l’unica risposta che mi uscì dalle labbra. Ero un po’ delusa del fatto che non sarebbe venuto puntuale - ci tenevo più io che i bambini che ancora non sapevano della mia sorpresa - ma in parte ero contenta come una pasqua! Già il fatto che avrebbe partecipato mi rendeva tremendamente scalpitante di gioia! Mi chiesi se sarebbe venuto anche con il suo staff, e con un po’ di indecisione glielo chiesi.

«Vieni da solo? Sì, insomma... Persone dello staff intendo...», chiesi incerta di essere sembrata molto più di una semplice curiosa. Be’, in effetti non potevo dire che se sarebbe venuta qualche sua conoscenza mi sarei irritata...
«Oh sì, sì vengo da sola», disse lui con una nota in più di energia. «E’ solo che avrei delle cose da sistemare riguardanti lavoro, a cui purtroppo non posso assolutamente rinunciare... Scusami davvero, Joyce».

Non chiedetemi perché, ma ogni volta che pronunciava il mio nome una scossa attraversava tutta la mia spina dorsale fino ad arrivare alla testa. Erano come piccole formichine che veloci risalivano per tutta la schiena, facendomi venire brividi a cui anche volendo non potevo mai sottrarmi. Tutto per colpa sua, eh.

«Non ti preoccupare, Michael», dissi fingendo non curanza. «Non ti devi scusare di niente, anzi, sono già molto felice che tu venga, anche i miei bimbi lo saranno... Grazie per aver telefonato, sei stato molto gentile...»
«Pensi che lo saranno davvero?», chiese timidamente ed innocentemente interessato.

Sorrisi pensando ai volti dei miei dolci angioletti alla vista di Michael. Loro amavano Michael quasi quanto me – modestamente dovevo ammettere che da una parte ero io la maggiore fonte che li aveva convertiti a diventare fan – e adoravano la sua musica: per le recite di Natale o per i balletti di fine anno mi avevano chiesto sempre di insegnar loro a cantare o ballare le sue canzoni, oppure quando c’erano ore a cui avevo lasciato libero far niente mi chiedevano una volta su quattro di vedere “Moonwalker”. Una volta perfino un bambino si alzò dalla sedia, durante la canzone di “Billie Jean”, e lo imitò alla perfezione. Potete solo immaginare quante risate, e quanti bambini che poi lo hanno imitato!

«Ti amano molto, credimi...», trattenni il pensiero “Hanno preso la passione da me” e continuai con un sorrisetto ironico in viso. «Sei uno fra i loro idoli preferiti dopo Batman per i maschietti e Wonder Woman per le bambine!»
Lui scoppiò in una limpida risatina soffocata. «Davvero?»
«Certamente! Potrai chieder loro questo non appena li vedrai», esclamai con ancora un bel sorriso beffardo in volto.
Michael rise di nuovo, ma si placò più velocemente di prima.

Ci fu un attimo di perseverante silenzio. Entrambi non dicemmo nulla, ma stranamente nessuno dei due sembrava imbarazzato. Almeno, io ero abbastanza tranquilla. Il silenzio mi piaceva... Però, essendo sinceri, in quel momento mi piaceva ancora di più perché ero attirata dal soffio oltre la cornetta che trasmetteva il suo respiro. Non che si sentisse molto, ma come ho già detto le mie orecchie erano abbastanza acute e prestai tutta la mia attenzione su esso.

A volte il soffio era instabile, più veloce del normale, a volte più lento e tranquillo, a volte inesistente. Chissà perché ma ero curiosa di vederlo in quello stesso momento; magari era nella sua cucina di Neverland – chissà com’era... affascinante – e si stava preparando una camomilla, come tutte le persone normali. Oppure era in camera da letto, col pigiama disteso a faccia in su verso il soffitto, come stavo per fare anche io. Mi piaceva immaginarlo in tutti questi atteggiamenti comuni alle altre persone.

«Joyce?», chiese quasi dopo un minuto.
«Sì?», risposi con delicatezza.
«Che stai facendo?»
«Eh?», chiesi mezza rincitrullita.
«Cosa fai?», domandò con la stessa dolcezza di prima.

Inizialmente pensai che avesse bevuto un po’ di whisky per chiedermi cose così, poi mi resi conto - subito dopo che incamerai la domanda - che la sua era solo una curiosità e un modo per parlare. Con quella voce sembrava volermi implorare di parlare, come se il suo vero obiettivo, invece quello di avvisarmi, fosse stato al contrario solo un modo per fare una chiacchierata e discutere come due vecchi amici.

Stranamente per me fui solo capace di sorridere, felice per quella strana quanto dolce richiesta sottointesa.
«Be’, in effetti sono in camera mia, seduta sul mio letto...», e in automatico cominciai a rimbalzarci un po’ sopra. Non mi ero effettivamente accorta che ero già entrata nella mia stanza...
«Oh, devi riposarti? Se vuoi metto giù...», ma sapevo benissimo che lui in realtà non lo voleva affatto.
Sorrisi di nuovo, intenerita dal suo comportamento e contenta perché non volesse abbandonare la discussione.
«No, non mi devo riposare. Sono venuta solo perché qua in camera mia sto meglio... Non so... Sarà perché ci dormo o perché la considero il mio rifugio...», dissi senza sapere bene che diavolo stessi dicendo. Non me lo sapevo spiegare nemmeno io, ma quando parlavo con lui mi lasciavo sfuggire anche la cosa più irrilevante che mi ritrovavo a pensare.
«Mmh», disse lui, interessato come se stesse ascoltando i dettagli di un vitale affare di grandissima importanza.

Un’altra cosa da appuntare che non si potesse non dire di lui: ogni cosa che dicevo la ascoltava con attenzione sconvolgente, almeno nei miei confronti. Anche a Neverland, qualche giorno prima, durante le nostre chiacchierate nel giro del lago si era mostrato un grande ascoltatore. Pensavo perché fossero argomenti che gli interessavano parecchio, e tuttavia quel comportamento mi dimostrò che ogni cosa che emettevo dalle mie labbra erano per lui interessanti da capire, comprendere e rifletterci su. La stessa cosa – fatto che non era poi una novità – era per me nei suoi confronti.

«Ad ogni modo non faccio niente di così tanto interessante, esclusa la chiacchierata con te», ammisi con un sorriso. Dal soffio dall’altra parte della cornetta sembrò che anche lui sorridesse. «Tu che fai invece, Michael?»
Che goduria era pronunciare il suo nome in un momento del genere... Lo so, ero pazza e anormale.
«Oh, be’, ho appena finito di guardare un cartone Disney», mi disse con sincerità spiazzante. La mia schiena si raddrizzò in contemporanea pronunciò la parola “Disney”, segno che ero più attenta che mai.
«Ti piacciono i Classici Disney?», chiesi tutta emozionata.

Qualcuno che come a me piacevano ancora, evviva! Sembrava fossi l’unica che ancora all’età di ventinove anni – trenta ad aprile, sia chiaro, non ero ancora trent’enne! – guardava i cartoni. In più la mia faccia tutta concentrata e le mie espressioni quando li guardavo parlavano chiaramente riguardo al mio interesse: assomigliavo ad una bambina che, anche se vedeva lo stesso film per la quarantesima volta, era come se lo vedesse sempre per la prima volta.

«Da matti!», esclamò lui con la stessa euforia. Sembrava eccitato a quell’argomento quanto la sottoscritta era in evidente crisi adrenalinica. «A te piacciono?»
«Da morire! Insomma, non mi stancherei mai di vederli! E non solo della Disney, ma proprio cartoni in generale. Però Walt Disney rimarrà sempre il mio mito di una vita, perché è l’unico che riesce a farmi sognare sempre coi suoi grandi capolavori!», dissi adorante.
«Esatto! Ti portano in un mondo fatto di fantasia e desideri, dove la realtà meravigliosamente si ferma e tu ti ritrovi nel film assieme a tutti i personaggi del cartone! Il tempo si ferma e tu vieni catapultato in un mondo che non è quello in cui vivi tutti i giorni, ma semplicemente quello dei sogni!»
«Infatti! Mi hai letto proprio nel pensiero», dissi stupefatta da quel suo discorso diventando improvvisamente più seria. «E’ molto strano, sai? Tutti intorno a me sembrano non capire che cosa ci trovo in queste cose, ma io la trovo arte allo stato puro. Pensano che siano film destinati ai bambini e non agli adulti... E’ ridicolo...»
«Già, è la stessa cosa che succede a me», disse a tonalità posata ma profonda. «L’arte sta anche in questo. È soprattutto in questo. La fantasia è un arte che non va dimenticata, ma diventando grandi dimentichiamo sempre come utilizzarla...»

Era strano che parlassi di quelle cose con lui. Non per il fatto che era Michael Jackson, ma semplicemente perché di quelle cose non parlavo mai a nessuno. Mi ero rassegnata tanti anni fa ad essere fatta passare per “la ragazza non capita”, perciò soffrendo avevo richiuso tutte quelle cose dentro di me, in un cassetto nascosto del mio cuore, e sapevo che se avessi parlato di cose del genere ad un’altra persona qualunque mi avrebbe guardato con occhi spalancati dalla confusione, pensando magari che avessi perso qualche rotella.

«Mh-mh...», soffocai con una certa rassegnazione. «Loro che non capiscono dicono “Tu sei fuori” solo perché non sono capaci di metterti nei tuoi panni, non sanno più come si sogna o hanno perso queste cose per strada da così molto tempo che ti guardano come se fossi un alieno...»
Feci una pausa e sentii silenzio dall’altra parte della cornetta. Pensai che la linea fosse caduta per un attimo, ma poi mi accorsi del suo respiro e capii che voleva proseguissi nel mio discorso.
«Mi da fastidio la loro concezione mentale. Pensano che diventando adulti bisogna abbandonare ogni divertimento, prendere le proprie responsabilità abbandonando la parte bambinesca di te e, per ovvietà di cose, lasciare che la fantasia diventi solo un ricordo del passato, un pezzo di te che verrà rivangato soltanto per ricordarti quanto eri bambino una volta e ora non lo sei più...»

Mi fermai e ascoltai il silenzio. Michael non sembrava voler rispondere. Sembrava che la sua voce si fosse congelata dall’altra parte del telefono, che non riuscisse più ad essere emanata dalla sue labbra. Temetti davvero di aver fatto quel lungo discorso a vuoto – chissà, magari problemi di linea – e aggrottai le sopracciglia. Allontanai lo schermo dall’orecchio per un velocissimo secondo e mi accorsi che la connessione era ancora attiva. Bene, e ora che dicevo?

«Michael, tutto bene?», chiese un po’ preoccupata. In effetti lo ero veramente.
«Sì...», disse lui a bassa voce. Sembrava quasi turbato e mi chiesi avessi parlato arabo invece che inglese. «E’... E’ solo che non ho mai sentito nessuno fare un discorso simile... E’ stato, come dire...»
«Irragionevole? Pazzoide?», domandai sardonica.
«Stupendo...»

Mi congelò. Davvero trovava le mie parole stupende? Eppure non avevo detto chissà ché, ma solo quello che pensavo. Non avevo mai detto cose così a nessuno, ma le pensavo. Di certo però non avevo preparato in anticipo un discorso di quel tipo per un’occasione del genere. Anzi, non riuscivo ancora ad immagazzinare la cosa per bene. Avevo parlato a lui, il mio cantante preferito di sempre, di quelle robe? E magari condivideva?

«Eh?», chiesi ancora stupita da quel dolce “Stupendo”. Per una buona mezz’ora quella parola, assieme al ricordo della sua voce teneramente felice, riecheggiò vorticosamente in testa. Stupendo, stupendo, stupendo...
«Non ho mai sentito qualcuno che mi avesse rivolto queste parole con tanta sincerità, nessuno ha mai letto nella mia mente come hai fatto tu... Io ne sono molto contento, davvero tanto. Inoltre sono tutte cose che ho pensato un migliaio di volte anche io, perciò... Grazie».
Grazie? Perché grazie?
«E di che cosa, Michael?», domandai sempre più allibita. «Tu non mi devi ringraziare di niente, anzi... E’ la prima volta che dico certe cose a una persona senza che essa mi giudichi solo una pazza...»
«Tu non sei pazza», mi disse lui convinto. Poi esitò, imbarazzato. «Sei una persona molto simpatica e dolce...»
Simpatica... Dolce... Sto qua mi vuole morta d’infarto sul serio...

Immaginatevi nei miei panni: Michael Jackson – be’, non è molto importante chi sia... Immaginatevi che la persona che avete sempre ammirato più di tutti nella vostra vita vi dica che siete simpatiche e dolci in un modo che solo lui può fare, capace con la sua voce amabile di sciogliermi come il ghiaccio al sole. Ora, non ditemi che non sareste rimaste immobilizzate e non avreste arrossito almeno un po’ perché non vi credo!

«Oh... Be’...», dissi bofonchiando parole sconnesse. Ero imbarazzata perché nessuno mi aveva detto cose di quel genere nel suo stesso tono ed emotività. «Grazie, ma... Be’, non mi considero proprio così... Comunque grazie...»
Lo sentii soffocare un respiro allegro e capii che stava sorridendo. Avrei voluto vedere tanto il suo sorriso.
«Anche tu sei una buona persona, Michael», dissi seriamente pur con un modo molto schietto e sincero. «Anche se non ti conosco a fondo, sono sicura che tu lo sei davvero.»
Di nuovo nessun suono e in seguito il suo canto d’usignolo si fece riudire.
«Grazie...». Lo avevo fatto imbarazzare, lo capivo dalla sua voce. Era molto timido quando gli si faceva un complimento. «Sono felice di averti conosciuta, Joyce... Ringrazio Dio per questo.»

Quelle parole furono come un getto d’acqua fresca sui miei bollori per i complimenti di prima. La vista mi si ovattò un po’, ma riuscii a mantenere una buona salute psicologica. Stavo guardando il muro come una povera demente, ancora seduta sul letto nella stessa posizione di un quarto d’ora prima, ma questa volta ero presa nei miei pensieri.
Aveva ringraziato Dio per avermi conosciuta, era felice per questo...

«Anche io lo sono, molto...»
Fu questo l’unico “discorso” che riuscii a tenere.

«Aspetta, Michael!», esclamai d’improvviso. Come faceva a raggiungere la scuola se non aveva l’indirizzo? «Ti devo dire in che luogo si trova la scuola, altrimenti non la raggiungerai mai!»
Lo sentii soffocare una risata. «Hai ragione, me ne stavo quasi dimenticando... Oh, aspetta che prendo qualcosa dove scrivere... Un momento solo...»
«Fai con calma, ti aspetto»

Sentii dei rumori confusi dall’altra parte, il suo respiro e un rumore secco ma attenuato. Sembrava – a quanto potevo dedurre – che avesse aperto un cassetto. Magari era il comodino della sua stanza da letto. Nel frattempo io portai i piedi sopra il letto in una posizione incrociata, guardandomi le mani senza far un tubo.

«Eccomi», annunciò successivamente. Era stato veloce.
«Allora, la città è Santa Paula, non è cosicché distante da Los Angeles. Il nome della scuola è semplicemente Santa Paula Elementary School, si trova alla 607 East Ventura Street. Non è un edificio molto grande, anzi...»
«Ok...», disse lui concentrato nel riportare le mie indicazioni, in seguito titubante. «Se mai avessi problemi nel trovare la strada potrei chiamarti al telefono?»
«Certamente!», risposi con un sorriso. «Vuoi che ti dia anche il numero della scuola, nel caso che io non ti risponda?»
«Sì è una buona idea!», esclamò energicamente.
«805 933 53 50»
«Fatto, grazie mille Joy...»
«Figurati Michael...», risposi minuta quanto lui.

«Mmh, ora devo andare...», mi disse dopo un nostro successivo silenzio fra l’imbarazzato e il pensieroso. Entrambi avevamo le menti così impegnate nelle frasi dell’altro che ci eravamo dimenticati che eravamo al telefono. L’idea di agganciare mi sembrò una buona idea, nonostante tutto.
«Già, penso che andrò anche io... Sono un po’ stanca...», evitai di dire che ero troppo emozionata per parlare, poiché sarebbe stata una frase ulteriormente schietta ed imbarazzante. A volte tendevo ad essere troppo sincera...
«Ok...», disse lui, timido; perciò fui io a finire la conversazione con la tipica frase di chiusura.
«Buona notte, Michael. Sogni d’oro...»
«Sogni d’oro anche a te e buona notte, Joy...»
Pausa di riflessione prima di chiudere la linea o solo ripensamenti prima del tempo?
«Ti voglio bene...», annunciò così riservatamente che ebbi paura di aver sbagliato a capire le sue parole.

Era riuscito a dirmi che mi voleva bene – e già questo causava ansia da panico in me – nonostante fosse timido.
Mio Dio. Sto per morire...

«Ti voglio bene anch’io», ammisi la pura verità, senza troppi intoppi nel parlare.
Strano ma vero, a volte riuscivo a parlare senza intoppi a dispetto dell’imbarazzo.
«A domani», disse lui.
A domani?

Ma non chiesi niente che il rumore solito della telefonata chiusa – quel “tu-tu” infinito capace di provare emicranie – mi interruppe prima di fare ulteriori domande sceme o sconsiderate.
Che giorno era? Avevo forse perso il conto?
Per un momento non ne fui così stupita, dopo quello che avevo passato.
Mi feci quattro calcoli mentali e capii.

Cazzo. L’indomani era il 7 marzo. Il compleanno di Emily.

***

Musica alto volume, occhiali da sole, sole splendente, finestrini abbassati e strade quasi del tutto deserte.
On the road, come si dice.

Ero diretta verso la scuola elementare nella quale avevo lavorato per ben due anni, per di più con i bambini più dolci che avessi mai potuto allevare. Era una scuola non molto grande, di una piccola cittadina non molto abitata, l’unica di quel paese di Santa Paula. Inizialmente abitavo là, dopo essermi trasferita dal Texas e aver ricevuto quel posto.

Il primo lavoro lo avevo avuto in una cittadina non molto distante dal mio paese locale. Avevo fatto l’insegnante per bambini dell’asilo e avevo lavorato là per ben tre anni. Erano bambini così teneri che mi veniva voglia di mangiarli! Mi divertivo con loro, li facevo giocare tutti assieme, insegnavo loro che anche le piccole cose possono essere speciali, e insegnavo soprattutto il rispetto della vita e del prossimo. Anche se erano piccoli, capivano molto bene le mie parole.

Successivamente, tre anni dopo, ricevetti un posto di lavoro a Santa Paula. La mia capacità di far star bene i bambini con il mio modo di fare e soprattutto di educarli dolcemente e premurosamente era arrivata alla direttrice Maggie Baker dell’istituto Elementary School grazie a Sandra Thompson, la direttrice dell’asilo nel quale lavorai quei tre anni. Erano amiche da tempo, perciò Sandra aveva raccontato all’amica delle mie potenzialità. Ma questo lo venni a sapere solo dopo qualche tempo.

Ricevetti una telefonata da Maggie Baker, la quale mi chiese che sarebbe stata contenta di vedermi lavorare per lei in una classe formata da quindici bambini dell’età di sette anni, nel suo piccolo istituto. Sebbene le chiesi come aveva fatto ad avere il mio numero, lei mi disse che non era necessario capire chi era stato, che era una cosa di non importanza.

Mi disse che l’anziana insegnante a cui avrei preso il posto, Ileen Morris, aveva dovuto rinunciare al suo lavoro a causa di cure importantissime per la sua salute – era molto fragile e non era facile essere una insegnante per bambini piccoli all’età di ottanta e passa anni - per cui non aveva esitato a chiamarmi. Mi pregò di andare, perché riteneva che sarei stata un’ottima risorsa per un paese così piccolo ma così bisognoso di un’ottima maestra per il futuro della loro cittadina.

Non fu una scelta facile. Abbandonare i miei bambini che avevo accudito per tre anni di seguito era doloroso – sebbene la situazione con le mie colleghe di lavoro era abbastanza tesa, forse a causa del impatto che avevo sui bambini rispetto a loro - e la signora Baker mi aveva colpito con le sue parole e, soprattutto, con i suoi bambini. Mi propose di andare una volta almeno per visitare l’istituto e i bambini e io accettai. Quello che mi si presentò davanti riuscì a farmi capire che la mia risposta sarebbe stata un sì.

Le condizioni dell’edificio erano abbastanza buone, le strutture non erano trattate in modo pietoso. Era una scuola dal colorito bianco opaco a forma di L e un cancelletto in ferro grigio consentiva l’accesso. Non c’erano parcheggi all’interno della scuola, solo fuori dall’istituto, ed un piccolo spazio di ciottoli bianchi ti guidava verso l’interno della scuola. La porta d’ingresso era grande e di legno scuro, e c’erano più o meno otto finestre che davano una prima vista dell’interno appena oltrepassavi il cancelletto e osservavi la struttura dell’edificio. Di solito gli insegnanti parcheggiavano dalla parte opposta all’entrata principale, ma da tutt’altra parte della scuola. Per i bambini quello spazio dove le maestre parcheggiavano le auto era un luogo di puro mistero e curiosità.

L’interno della scuola era tutto sommato carino Il pavimento era di colori misto fra l’avorio e l’ocra e le pareti bianche come l’esterno della struttura. Proprio nell’atrio potevi notari quadri orari e quant’altro, e ogni muro era tempestato da disegni di bambini. Appena entravi nell’ingresso principale potevi scegliere solo tre direzioni: sinistra, destra o diritto.

Andando dritto salivi cinque scalini in marmo che portavano alla sala mensa e alla sala video, vicino una scala con molti più gradini portava al primo piano, dove stavano gran parte delle aule riservate agli insegnanti oppure ai bidelli, oppure ad altro – come la segreteria -, compresa la stanza dove risiedeva la direttrice scolastica. I bambini, nonostante fossero estremamente interessati da quella maestosa salita, erano profondamente turbati all’idea di salire, visto che sopra c’era la preside. Qualche coraggioso era riuscito a salire un paio di volte, i più tremendi messi in castigo. Ecco da dove derivava quella grande paura mista ad “interesse”.

Seguendo la direzione di sinistra – e perciò svoltando l’angolo L dell’edificio – si potevano raggiungere le classi prima e seconda. Quella parte dell’edificio era chiamata “prima ala” e non era molto popolata di aule; difatti, c’erano le prime due classi dell’istituto primario, una toilette e un magazzino per i bidelli.

Seguendo la direzione destra, la più lunga, c’erano le classi terze, quarte e quinte. Quella era chiamata “seconda ala”. Anche là si trovavano una toilette, sgabuzzino dei bidelli e anche una stanza dove venivano riposti giochi di vario tipo durante le ore di svago o ricreazione. In quella parte dell’edificio d’estate si subiva un gran caldo, perciò qualcuno dei bambini l’aveva soprannominata “ala della bollitura”.

La direttrice mi fece fare un giro lungo tutta la scuola, sia piano terra che primo piano, accompagnata da lei e da nessun altro. Mi spiegò la funzione di ogni particolare stanza, mi raccontò la storia di quell’edificio e di come fosse grande la responsabilità di avere una scuola elementare tutta sulle sue spalle. Non si lamentava di quel fatto – era una donna veramente dolce – non solo perché amava prendersi cura dei bimbi, ma anche perché, dopotutto, non voleva che anche quella scuola – unica fra l’altro in quel paesello – sarebbe fallita e i bambini avrebbero dovuto andare in un'altra città lontana per studiare.

Mi presentò alcuni insegnanti e mi parvero molto cordiali. Con mio stupore, c’era solo un insegnante della mia età più o meno, uomo, dai grandi occhi azzurro/grigio. Il suo nome era Daren Singh. Aveva trentadue anni e - devo ammetterlo - era un uomo attraente e molto più giovane della sua età, amichevole, ma non il mio tipo. Insegnava matematica nella mia classe – io inglese invece – e perciò eravamo colleghi molto uniti. Mi aiutò lui ad inscenare alcune recite o concerti scolastici, con la sua simpatia naturale riusciva a coinvolgere animatamente i bambini. Ma, come ho già detto, non era per me. Eravamo amici, questo sì, a volte ci prendevamo in giro a vicenda e ci facevamo dispetti a vicenda – piacevano ai bambini le nostre battute spiritose - ma in realtà sapevo che lui non poteva capirmi. Io non “diventavo” bambina per far sentire meglio i bambini, semplicemente lo ero.

Daren ci aveva provato con me più di una volta da quando ero arrivata ad insegnare in quella scuola, ma diciamo che non gli avevo mai dato corda del tutto. Una volta ci uscii fuori a cena – lui mi disse che era per parlare di lavoro, ma alla fine lui voleva parlare di tutt’altra cosa che fosse la scuola. Penso che ci sarei anche stata al suo “corteggiamento”, peccato che io odiavo il doppio gioco. Non mi riferisco a quel caso – perché uno potrebbe essere stato anche timido da non aver avuto il coraggio di chiedermi di uscire perché voleva ampliare il nostro rapporto a più che una semplice amicizia fra colleghi, era una cosa che potevo capire benissimo – ma a molti altri casi che si verificarono poi in futuro.
Ma non voglio parlare di lui.

Quando la direttrice Maggie Baker mi presentò i bimbi che dovevo accudire e insegnare inglese mi si sciolse il cuore. Era la classe prima di quell’anno, ma non solo per questo riuscirono a conquistare il mio cuore. Erano bambini tenerissimi, alcuni scuri di pelle e altri no, nessuno uguale agli altri ma tutti con quella luce negli occhi che solo l’infanzia può dare. Alcuni avevano i capelli scuri, altri più chiari, alcuni lisci e alcuni ricci, alcuni mossi; certi avevano gli occhi scuri e certi chiarissimi, altri indefinibilmente dolci. Il colpo di grazia fu quando la donna me li fece conoscere uno ad uno.

Mi fece entrare in classe – in quel periodo erano seguiti da una maestra che faceva solamente sostegno – e mi ritrovai con gli occhi di tutti quei quindici bambini addosso. Alcuni erano meravigliati di vedermi, altri silenziosi, alcuni seri e certi sorridenti. La signora Baker mi presentò con gentilezza, portandomi di fronte alla cattedra e facendomi fare una piccola presentazione. Mi comportai con naturalezza, con enfasi bambinesca. La reazione che ebbero non me la scorderò mai.

Finito il mio discorsetto non troppo lungo ci fu un gran silenzio. Un silenzio carico e ben concentrato. I bambini si guardarono fra loro, poi sorrisero tutti assieme. Una bambina dai biondi capelli tenuti su due codine perfette si alzò dal suo posto, mi venne vicino calma e mi mise una mano sulla gamba, come a chiamarmi ad abbassarmi. Mi inginocchiai a terra non appena posò la sua delicata manina su di me.

La guardai bene in viso e notai come i suoi contorni così delicati e soffici fossero stupendamente perfetti. Labbra piccole, occhi nocciola chiaro, nasino piccolo e le guance rosate. Nello stesso momento che incrociò i suoi occhi con i miei rividi me stessa da piccola tanti, tanti anni prima. Non solo anche io da piccolina avevo i capelli color biondo, ma lo sguardo mi fece venire in mente una foto di me stessa all’età di due anni, tempo in cui ero ancora abbastanza felice.

La bimba continuò a fissarmi, entrambe lasciammo perdere i piccoli bisbigli di alcune suoi compagni - e miei futuri alunni per di più – come se fossimo state incatenate l’una all’altra tramite il nostro sguardo. Improvvisamente lei mi sorrise e schiuse la labbra senza emettere alcun suono, facendo uscire solo un flebile sospiro d’aria. Con la bocca ancora semiaperta si guardò una mano e se la posò sulla gola, tornando ad osservarmi.
Capii tutto senza dovermi dire niente. Non ce ne era bisogno.

I miei occhi in automatico cominciarono ad inumidirsi, strinsi le labbra per reprimere alcune lacrime e la mia vista si ovattò un poco, ma allora la bambina mi espose di nuovo il suo sorriso candido. Era uno dei più bei sorrisi che avessi mai visto in tutta la mia vita. Prese la mia mano delicatamente e io la lasciai fare, incantata da ogni suo gesto, fin quando lei la posò sul suo petto, proprio dove c’era il cuore. Immobile spalancai le palpebre, ma lei ignorò quel gesto: allargò il suo sorriso e mi mise le sue sottili braccia al collo.

Ero troppo paralizzata per cominciare a piangere. Le emozioni del momento erano confuse da quella stretta gentile che tuttavia non ostentava a volersi separare, la mia mente era catturata dalle immagini dei suoi occhi pieni di luce per quella contentezza inspiegabile. Tremante ricambiai, chiudendo gli occhi e ispirando il dolce profumo naturale che emanavano i suoi capelli dorati.

Non appena ci abbracciammo, tutti gli altri bambini emisero gridolini felici e gioiosi, alzandosi dalle proprie sedie e venendomi incontro in cerca anche loro di un abbraccio. Sapevo di avere gli occhi pieni di lacrime, ma non per questo piansi. Mi fecero domande su domande, tutti in una volta, sorridendomi e venendomi incontro, prendendomi la mano cinque o più in una volta. Passai con loro l’intera ricreazione di mezz’ora, fermandomi perfino a mangiare in mensa con loro. Anche i bambini delle altre quattro classi, incuriosite da quella folla di quindici bimbi, mi vennero vicino e stettero con noi.

«Resterai in questa scuola con noi, vero?», chiese una bambina dal colorito mulatto e gli occhi neri, Agatha.
Non seppi inizialmente cosa dire, per non dire che rimasi spiazzata. Guardai tutti loro, studiando le loro espressioni interessate e ansiose, e dopo una lunga occhiata silenziosa alla direttrice – che sembrava davvero commossa – e agli altri insegnanti presenti risposi:
«Penso... Penso di sì.»

Ero commossa dall’affetto che un bambino poteva provare e che in contemporanea voleva ricevere. Per questo io lavoravo con loro: per fargli sentire affetto e insegnare cosa significava amore, per cercare di fargli capire quanto fossero importanti per l’intera umanità e quanto fossero speciali nella loro semplicità. Insegnavo loro la beltà dell’innocenza, dei sogni, e davo loro lezioni di vita importanti. Volevo che fossero capaci di reagire alla crudeltà del mondo continuando sempre a sperare ma senza smettere di lottare per i propri sogni.

Più tardi Maggie Baker, ancora con gli occhi lucidi, mi disse una cosa molto importante.
«Questi bambini hanno bisogno di Lei, Joyce. Nessun insegnante, nuovo o dalla lunga carriera in questa scuola, è riuscito in quello che ha fatto Lei poco fa: ha unito bambini di un’intera scuola senza particolari mezzi se non la Sua semplicità. I bambini l’hanno amata da subito, nessuna eccezione. Mi creda... E’ la prima volta che vedo con i miei occhi una cosa del genere. Non lasci questi bimbi... Loro Le vogliono già bene... Penso che questo sia chiaro ad entrambe... Hanno bisogno di un’insegnante come Lei...»

Perciò lasciai il mio lavoro, un po’ a malincuore ma con un grande impegno nel cuore e nell’anima, e mi trasferii a Santa Paula tre giorni dopo il mio licenziamento. Non molto tempo dopo, quando mi fui definitivamente instaurata nel nuovo sistema scolastico – ci volle circa o forse più di una settimana – la preside Baker mi disse il nome della bambina dai capelli biondi, ma non mi spiegò il perché lei non parlasse: questo l’avevo già capito da sola e non era necessario che me lo dicesse. Quella bambina non aveva l’utilizzo della voce, era muta.
Quella bimba si chiamava Emily.
Ed io ero riuscita a salvarla.

Cavolacci. Se continuo a pensare a quello che è successo arrivo alla festa di Emily con le lacrime...
In effetti quell’ultimo argomento, il “come” fossi riuscita a salvare Emily, era una cosa che mi metteva su molta commozione. Molta commozione ma anche molta tristezza, molto risentimento verso me stessa.

*

Arrivai alla festa con qualche minuto di anticipo dall’ora prevista – mi ero abilmente messa d’accordo con la preside ancora da una settimana prima, lasciando però detto di non dire niente a nessuno dei miei bimbi.

L’ultima volta che li ero andata a visitare era stato durante il compleanno di Katie, qualche mese prima, a gennaio, e da quel tempo non ero più andata. Temevo che ce l’avessero con me, ma sapevano tutti quanti di come fosse impegnativo. La loro compassione e gentilezza nel perdonarmi mi sbalordiva ogni volta. Ma Emily...

Parcheggiai nel parcheggio dei professori, come tanto tempo prima, colpita d’improvviso da un senso di malinconia lancinante al petto. Mi mancava tornare là... Fare quello che facevo prima... Ma sapevo che ormai non potevo più tornare indietro. Sapevo che accettando di diventare una cantante avrei dovuto rinunciare a queste determinate cose. Era un rischio che avevo dovuto affrontare pagando alcune conseguenze, ma l’obiettivo da raggiungere poteva essere soddisfacente per me stessa e per tutti i bimbi e i bisognosi del mondo. Ero diventata famosa perché volevo dare emozioni a chi amava la mia musica, volevo essere amata e dare il ricavato in aiuto a chi se lo meritava.

Scesi dall’auto e mi diressi all’entrata “segreta” dell’edificio. Mi tremavano le gambe e le mani, il mio respiro non era affatto tranquillo. Ero così felice di essere là e così volenterosa di rivedere tutti i miei bambini che mi veniva perfino da piangere. Il mio era un desiderio ripetitivo e retorico: voglio vedere i miei bimbi, voglio vedere i miei bimbi...
Aprii la porta di servizio ed entrai nella scuola. Ero vicino alla sala mensa e alle scale del piano di sopra.

Per un momento inspirai a fondo, lasciando invadere l’odore di pulito e inconfondibile di quell’edificio. Sentivo gridolini e voci da parte dei bambini, risate candide e voci energiche confondersi in una sola nella mia mente.
Quanti ricordi...

Prima di entrare nell’aula magna – stanza dove di sicuro stavano tutti, alunni e qualche insegnante – non potei far a meno che dirigermi verso la bacheca. C’erano nuovi orari, nuove circolari di quell’anno. Sorrisi fin quando non vidi un nome nuovo sbucare fra gli insegnanti. Il nome era Maddison Cox. Inutile dire che sentii una morsa nello stomaco invadermi, la stessa morsa che mi colpì il primo giorno che tornai nella scuola dopo la mia fama. Non vedere il mio nome mi causava una sorta di fastidio represso e micidiale, ma sapevo che era una cosa più che naturale.

Mi detti un’occhiata in giro e notai i nuovi disegni dei bambini che erano stati appesi alle pareti, poi decisi che era momento di fare la tanto ansiosa sorpresa. Con passo lento mi portai fino alla porta d’entrata dell’aula magna e tirai un grande respiro.

Oh cazzo, devo prima avvisare la preside!

Come al mio solito, mi stavo dimenticando un passaggio importante del piano. In pratica la preside – che era all’interno della stanza con tutti gli altri bambini di tutte le classi – doveva far finta di ricevere una chiamata importante e rispondere. Io le avrei comunicato via chiamata che poteva “dare il regalo” ad Emily, cosicché lei l’avrebbe bendata e l’attenzione degli altri alunni sarebbe rimasta fissa su Emily fin quando non sarei entrata. Nemmeno gli altri bambini sapevano del mio “arrivo”, ma pensai avrebbe fatto piacere anche a loro. Poi quando sarei entrata qualche bambino di sarebbe voltato verso di me e urlato “Joyce!” e la preside avrebbe tirato via la benda a Emily. Sapeva anche lei quanto la piccola ci tenesse a vedermi...

Chiamai e l’avvisai. Non durò molto, perché l’ordine era che fossi solo io a parlare e la signora Baker avrebbe solo accennato a qualche “Sì” con il capo e qualche soffocato “Mh-mh”.
Improvvisamente ci fu silenzio dall’altra parte dell’aula. Sentii la voce della preside chiamare Emily sopra il palco – quel giorno era in progetto anche una recita, come ogni compleanno che si faceva.
Chissà come mai la voce della direttrice la trovai tremante e sinceramente balbettante.
Pensai che evidentemente Emily non fosse pienamente contenta, o addirittura stesse male.
Cominciai a toccarmi i capelli e lisciarmeli dall’ansia e dal nervoso.

«...Ora chiudi gli occhi, tesoro», disse la signora Baker con emozione. «Ora arriva la sorpresa... Anche voi, ragazzi... James, dove stai andando?»
«Vado in bagno...», disse James, il più terribile di tutti... E quello che si era preso una cotta per la sottoscritta insegnante di italiano, cosa che andava avanti ormai da due anni da quando ero stata insegnante là.
«No, James... Aspetta!»
Non sapevo perché, ma stavo per morire dal ridere. Poverino, non sapeva che avrebbe potuto rovinare la sorpresa!
«Perché?...», chiese insoddisfatto. Silenzio. Forse un’occhiata della preside era servita a riuscire a fargli cambiare idea prima che rovinasse tutto... «Per favore...»
Silenzio ancora.
«D’accordo, ma passa per la porta di servizio...»
...Ossia quella dove non poteva beccarmi. Astuta la donna.
«Grazie!», esclamò tutto soddisfatto l’altro.

Povero... Si sarebbe perso il mio arrivo. Eppure non riuscivo a smettere di sghignazzare sotto i baffi. Chissà che colpo
poi avrebbe perso. “Ma non è possibile che perdo solo io queste sorprese?!”, avrebbe esclamato arrabbiato.

«...Poi non dire che ti sei perso lo spettacolo, ok?», disse Maggie Baker.
«Non mi perderò niente, tornerò subito!...», rispose l’altro di fretta.
Sì, come no. Diceva sempre così con gli altri professori quando andava in toilette. Poi ci stava ore. Con me non lo faceva mai, credeva che se faceva lo scortese con me non sarebbe mai stato “ricambiato” col mio amore...
Trattenni una risata nasale.

Sentii lo sbuffo della donna e alcune risate cristalline.
«Bene, ora tutti quanti bene attenti alla sorpresa... Emily, tesoro, ora puoi chiudere gli occhi...»

Vai, Joyce, è il tuo momento... Speriamo solo che funzioni...

Aprii la porta così silenziosamente che sembrai un semplice soffio di vento e la richiusi con la stessa delicatezza. Nessuno all’inizio sembrò vedermi, tutti i bambini guardavano con occhi spalancati in cerca di qualche sorpresa davanti a loro. Emily temeva gli occhi chiusi ma non aveva la benda, eppure non esitava ad aprire gli occhi.

Il mio sorrisetto soddisfatto si fece spazio in volto, studiò attentamente il capo di ognuno degli studenti presenti, ricordando perfettamente i nomi di ognuno a mente. Passai al setaccio dei professori e degli alunni in poco meno di due secondi, esaminando fatti e persone presenti. Oltre i miei bambini c’erano la preside Baker, Michael, il mio vecchio collega Daren, ma nessun altro insegnante...

No, aspetta! Michael?!
Mi sentii sbiancare.
Ma lui non doveva arrivare dopo?
Il suo sorriso mi accecava.
Mi aveva detto sarebbe arrivato in ritardo!...
Aveva gli occhi più luminosi del solito.
Oddio non voglio immaginare il mio volto! Che figura di...

«Joyce!», urlò Rachel, una bambina dai capelli corvini e lunghi come la seta. La conoscevo poco, era nuova e di prima.

Centinaia di occhi mi fissarono e i sorrisi si fecero presenti suoi volti d’ognuno. Emily aprì di scatto i suoi, fissandomi con stupore e un po’ shockata. Le lanciai un impercettibile sorriso ma lei non sembrò accorgersene. Persi di vista perfino lo sguardo sorridente a trentadue denti di Michael. Non poteva essere altrimenti...

Nel giro di pochi secondi fui circondata e abbracciata da tanti paia di braccini di bambini presenti nella stanza, perdendo di vista ogni cosa che non fossero i loro numerosi sorrisi e occhioni dolci ed eccitati.




Ringrazio ancora tutte tutte le mie commentatrici. Vi voglio bene davvero, spero di non avervi deluso. [SM=x47926]
BEAT IT 81
00mercoledì 7 luglio 2010 00:41
Troppo dolce questo capitolo e anche comico ;-)))))) . Mi ha fatto ammazzare la scena di Joy che ancora un po' fa il tuffo carpiato x rispondere al cell, troppo comica. Troppo dolce la scena "ti voglio bene" e lei lì come un'ebete....Cupido inizia a intrufolarsi ;-)))))ne sono convinta, ci vorrebbe solo un piccolo aiuto ;-))))) . Grandioso Michael che ha fatto una sorpresa anche a Joy arrivando prima al compleanno di Evelyn!!! Bravissima Taty, stupendo capitolo anche stavolta :-))))))) . Baci Sara
ludo.94
00mercoledì 7 luglio 2010 12:10
bellissimo tati!!! e nn è vero che nn hai fatto un buon lavoro anzi....sei molto simpatica e si vede anche da come scrivi...e poi....ma quanto sono dolci questi due??? che belli che sono insieme e anche per telefono!!! non ci hai deluso nn ti preoccupare....posta presto un bacio,ludo!
dirtydiana66
00mercoledì 7 luglio 2010 23:01
un bellissimo capitolo, brava continua presto
marty.jackson
00giovedì 8 luglio 2010 21:06
ambra scusa se commento ora ma in questi giorni non ho avuto molto tempo per leggere!!questo capitolo è davvero dolcissimo!!la parte dove joyce incontra per la prima volta i bambini mi ha commossa, l'hai descritta alla perfezione! bravissima!!
non farci aspettare troppo per il prossimo [SM=g27822]
baci [SM=x47938]
tati-a4ever
00sabato 10 luglio 2010 17:23
Re:

Troppo dolce questo capitolo e anche comico ;-)))))) . Mi ha fatto ammazzare la scena di Joy che ancora un po' fa il tuffo carpiato x rispondere al cell, troppo comica. Troppo dolce la scena "ti voglio bene" e lei lì come un'ebete....Cupido inizia a intrufolarsi ;-)))))ne sono convinta, ci vorrebbe solo un piccolo aiuto ;-))))) . Grandioso Michael che ha fatto una sorpresa anche a Joy arrivando prima al compleanno di Emily!!! Bravissima Taty, stupendo capitolo anche stavolta :-))))))) . Baci Sara



Grazie Sara, sei sempre dolcissima nei tuoi commenti :* Sono estremamente felice di averti fatto divertire con Joy e le sue acrobazie ;D Nella reazoine quando le dice "Ti voglio bene" mi sono un po' intrufolata io, pensando a come avrei reagito io nei suoi panni - forse sarei svenuta, che è una reazione ancora più peggiore! XD Ti piacerebbe che si facesse vivo il "fattore determinante" della loro storia "d'amore", eh? Tutto a suo tempo, devi pazientire per ancora un po' di tempo... Forse anche un bel po' XD Ho tante idee al riguardo! Sono soddisfatta di non averti deluso anche stavolta ^-^
Bacioni, ti voglio bene,
Ambra


bellissimo tati!!! e nn è vero che nn hai fatto un buon lavoro anzi....sei molto simpatica e si vede anche da come scrivi...e poi....ma quanto sono dolci questi due??? che belli che sono insieme e anche per telefono!!! non ci hai deluso nn ti preoccupare....posta presto un bacio,ludo!



Oh, mio Dio XD Tu mi imbarazzi con i tuoi complimenti XD Sono contenta che mi reputi simpatica ma... Credimi, non lo sono come desidererei esserlo veramente! Ma se tu mi definisci ironica, allora ti ringrazio di cuore! ^-^ Grazie di cuore, ti voglio bene!


un bellissimo capitolo, brava continua presto



Grazie mille dirtydiana66 ;D Cercherò di spostare in tempo!

marty.jackson, 08/07/2010 21.06:

ambra scusa se commento ora ma in questi giorni non ho avuto molto tempo per leggere!!questo capitolo è davvero dolcissimo!!la parte dove joyce incontra per la prima volta i bambini mi ha commossa, l'hai descritta alla perfezione! bravissima!!
non farci aspettare troppo per il prossimo [SM=g27822]
baci [SM=x47938]



Stai tranquilla Marty, anche io ho tanti impegni e a fatica riesco a finire di scrivere il successivo capitolo a questa storia, perciò credimi che ti capisco e non c'è bisogno di scusarsi! L'importante è che non ti sembri una schifezza quello che io scrivo XD
Grazie con tutta l'anima anche a te, bacioni grandi grandi!

Ad ogni modo il prossimo capitolo sarà un po' lunghino - almeno lo prevedo perchè sono già a buon punto - e siccome non l'ho ancora finito e non ho molto tempo per scrivere vi dico che dovrete aspettare ancora un bel po'. Forse una settimana massimo. Se sono con l'ispirazione al massimo, forse anche qualche giorno di meno! Due o tre e forse lo sposterò, se lo completo!
I love you more!
BEAT IT 81
00domenica 11 luglio 2010 23:28
Certo che vorrei si facesse vivo il fattore "determinante" nella loro storia, sono perfetti insieme, fatti l'uno x altra e devono stare insieme!!!! X il cappy nuovo tranquilla, post appena riesci, io aspetto, con la curiosità a mille, ma aspetto ;-))))))) . Bacione, Sara
tati-a4ever
00lunedì 12 luglio 2010 20:26
Re:
BEAT IT 81, 11/07/2010 23.28:

Certo che vorrei si facesse vivo il fattore "determinante" nella loro storia, sono perfetti insieme, fatti l'uno x altra e devono stare insieme!!!! X il cappy nuovo tranquilla, post appena riesci, io aspetto, con la curiosità a mille, ma aspetto ;-))))))) . Bacione, Sara




Il fattore determinante è forse più vicino di quanto sembri [SM=g27832] Grazie per aspettare il mio aggiornamento, ci vorrà ancora un po' di tempo [SM=g27838] Se riesco forse finisco il capitolo entro domani sera!
BEAT IT 81
00lunedì 12 luglio 2010 23:36
Re: Re:
tati-a4ever, 12/07/2010 20.26:




Il fattore determinante è forse più vicino di quanto sembri [SM=g27832] Grazie per aspettare il mio aggiornamento, ci vorrà ancora un po' di tempo [SM=g27838] Se riesco forse finisco il capitolo entro domani sera!




Davvero il fattore "Cupido" è vicino? Me felice!!!!!!! :-)))))))) Bello bello bello, quei 2 qui sono fatti x stare insieme, anime gemelle sul serio ;-)))))). Oddio ti prego dimmi che riesci a finire x domani, nn vedo l'ora di leggere il seguito!!!!!!!!!! Aspetto con ansia ;-)))))) . Bacione Sara
tati-a4ever
00martedì 13 luglio 2010 13:59
Re: Re: Re:
BEAT IT 81, 12/07/2010 23.36:




Davvero il fattore "Cupido" è vicino? Me felice!!!!!!! :-)))))))) Bello bello bello, quei 2 qui sono fatti x stare insieme, anime gemelle sul serio ;-)))))). Oddio ti prego dimmi che riesci a finire x domani, nn vedo l'ora di leggere il seguito!!!!!!!!!! Aspetto con ansia ;-)))))) . Bacione Sara




Cercherò di finirlo entro stasera, ma devo proprio mettermi d'impegno duro per riuscire! Se ce la faccio - e lo faccio per te e per tutte le altre ò.ò - mi merito un giorno di pausa XD
E ora... Al lavoro! [SM=x47961]
BEAT IT 81
00martedì 13 luglio 2010 14:23
Re: Re: Re: Re:
tati-a4ever, 13/07/2010 13.59:




Cercherò di finirlo entro stasera, ma devo proprio mettermi d'impegno duro per riuscire! Se ce la faccio - e lo faccio per te e per tutte le altre ò.ò - mi merito un giorno di pausa XD
E ora... Al lavoro! [SM=x47961]




Tranquilla, se nn riesci nn preoccuparti, x cui nn scapicollarti, ok? Buon lavoro [SM=g27828] [SM=g27828] . Baci Sara
tati-a4ever
00martedì 13 luglio 2010 20:52
Re: Re: Re: Re: Re:
BEAT IT 81, 13/07/2010 14.23:




Tranquilla, se nn riesci nn preoccuparti, x cui nn scapicollarti, ok? Buon lavoro [SM=g27828] [SM=g27828] . Baci Sara




Infatti non l'ho ancora concluso [SM=g27828] Se siamo fortunati - anzi, se siete fortunati - leggere il capitolo domani. SE siamo fortunati! [SM=x47958]
ludo.94
00martedì 13 luglio 2010 20:57
Re: Re: Re: Re: Re: Re:
tati-a4ever, 13/07/2010 20.52:




Infatti non l'ho ancora concluso [SM=g27828] Se siamo fortunati - anzi, se siete fortunati - leggere il capitolo domani. SE siamo fortunati! [SM=x47958]




tati non ti preoccupare posta quando puoi tanto noi siamo sempre qua!! hiihihi [SM=g27811] [SM=g27819] [SM=x47938]
un bacio,ludo!
BEAT IT 81
00martedì 13 luglio 2010 22:16
Re: Re: Re: Re: Re: Re:
tati-a4ever, 13/07/2010 20.52:




Infatti non l'ho ancora concluso [SM=g27828] Se siamo fortunati - anzi, se siete fortunati - leggere il capitolo domani. SE siamo fortunati! [SM=x47958]



Tranquilla, qui nn scappa nessuno, x cui posta quando riesci. Baci Sara
tati-a4ever
00venerdì 16 luglio 2010 13:46
HO FINITO IL CAPITOLO *-*
(Sono molto entusiasta di questa cosa xD)
Fra poco - o se non ho tempo verso le 17 - sposto!
tati-a4ever
00venerdì 16 luglio 2010 14:04
Capitolo IX

Un coro di voci acute e allegre risuonò per tutta la sala mensa, limpide note felici di bambini entusiasti, facendo eco sulle vaste paresti avorio della stanza. Nel momento in cui ero stata “sorpresa” era scoppiato il putiferio, ed ero stata d’impeto travolta da un numeroso gruppo di bimbi che pronunciavano il mio nome insistentemente.

Mi sentivo confusa non per il frastuono –a quello ero pazientemente abituata –, ma a causa di quel essere di nome Michael Joseph Jackson che se ne stava tranquillo e beato a braccia conserte ad osservare me e i miei tesori, per di più con uno dei suoi soliti sorrisoni accecanti! Affascinante, innocentemente carismatico, aveva il viso così luminoso capace perfino di poter spaccare le pietre, così irradiante di calore comparabile ai potenti raggi solari che infuocano il deserto.
E io, piccolo granello di sabbia, potevo forse rinunciare a quel affabile volere?

Che fossero i bambini capaci di illuminarlo a questo modo? Be’, in tal caso potevo benissimo capire come si sentisse... I bambini sono capaci di gesti che gli adulti non sanno compiere, riescono a farti provare un amore semplice e puro che può riuscire ad innalzare la tua felicità ad un livello che riesce a conquistare il tuo cuore in men che non si dica. Basta un loro sorriso e sorridi anche tu; basta una loro lacrima e ti commuovi anche tu; basta una loro carezza e ti senti pieno di affetto.

«Joy, sei tornata!»
«Sei venuta a trovarci, Joy!»
«Ci sei mancata!»
«Joy sei qua con noi! Non ci posso credere!»

I miei bimbi. Tutti loro riuscivano sempre a capire come rendermi felice. I loro occhi erano così luccicanti, erano così differenti ma così uguali nel possedere tutti quella particolare luce nello sguardo.

«Ti aspettavamo! Perché ci hai fatto attendere così tanto?», disse Kelly facendosi udire sopra tutte le altri voci, una bambina di prima elementare dai grandi occhioni azzurri e capelli riccioluti.
Tutti gli altri ripeterono la stessa frase guardandomi con tristezza e curiosità.
«Mi dispiace, lo sapete che tengo a voi con tutto il mio cuore...», risposi docilmente, con un tenero sorriso.

Emily...


I miei occhi furono subito attirati da lei, dalla festeggiata che avevo così tanta voglia di rendere gioiosa con la mia presenza. La guardai e la vidi osservarmi seriamente, ad occhi spalancati, mentre compiva qualche passo giù dal palco dove stava. Mi studiò con tanto d’occhi che pensai fosse arrabbiata con me.

D’improvviso i bambini cominciarono a stringersi sempre più a me, abbracciandomi dovunque – braccia, gambe, ecc... – obbligandomi per forza di cose ad abbassarmi a terra in ginocchio. Continuavano a chiamarmi, a farmi domande una dopo l’altra. Ogni volta era la stessa storia, e quella cosa mi rendeva sempre indiscutibilmente amata e contenta. E, ovviamente, io ridevo come una pazza ogni volta.

Mrs. Baker batté le mani, dicendo loro di calmarsi e di non soffocarmi, nel frattempo che Michael e Daren osservavano entrambi me e i bimbi. Per ovvietà di cose, nessuno di loro la ascoltò. La donna sbuffò e entrambe ci guardammo negli occhi. Capivo perfettamente la richiesta che mi mandò con quell’occhiata intensa, perciò la fissai ridacchiando a bassa voce. Solo io potevo richiamarli a prestare attenzione, perché non avrebbero ascoltato nessun altro se non me.

«Bambini! Bambini!», dissi sorridendo alzando di poco i toni. Il loro vociare sembrò pian piano svanire, fin quando non cessò non appena misi in atto il trucco del “fischio”. Avevo testato quel metodo tante di quelle volte... Che immancabilmente mi venne in mente la figura fatta durante la festa di compleanno di Liz Taylor, con Michael che ancora se la rideva a quel mio gesto.

«Risponderò a tuuutte le vostre domande, ma prima...», e tornai a fissare Emily, la quale espressione non era cambiata e si trovava giù dal palco. Abbozzai un sorriso. «Penso che devo fare gli auguri alla festeggiata...»
I bambini allora tacquero e si distanziarono obbedienti da me, creando due linee parallelamente separate l’una dall’altra, per lasciare spazio a Emily nel caso volesse venirmi incontro.
Ma Emily non si mosse di un millimetro.

Il silenzio fece parte della stanza per un lungo momento.
Sentivo il mio sorriso svanire sempre più che i secondi passavano, le occhiate preoccupate della preside e di Michael stesso che osservava me e la bambina con tanto di dubbi e amarezza, riflesso del mio stesso sguardo.
Gli altri bambini guardavano me ed Emily silenziosi, alcuni più preoccupati di altri e alcuni semplicemente curiosi.
Emily ostentava a fissarmi neutrale, con sguardo vacuo ma allo stesso tempo timoroso.

Mi sembrò che il mondo mi stesse cadendo addosso. Davvero, quell’occhiata fu capace di distruggere ogni mia sicurezza, facendomi temere di averla ferita in qualche modo a me forse sconosciuto. Forse era arrabbiata perché non ero venuta a trovare tutti loro prima, forse era semplicemente offesa che io me ne fossi andata, o forse... Forse si era dimenticata di me... Forse mi odiava e non mi voleva più bene...

No, non può... Non lo sopporterei... Non può non volermi più bene...
Il mio cuore cominciò a sgretolarsi più il silenzio continuava a rallentare lo scorrere del tempo.

«Emily...», soffocai con un sospiro tenue. Dentro di me pregavo perché i miei dubbi fossero infondati.
Lei allora rispose con un sospiro, mentre i suoi occhi cominciarono a farsi più lucidi.

Ti prego, Emily... Parla, parla come la prima volta che sei riuscita ad enunciare parola... Fallo per me...

*

Nel momento in cui dovetti abbandonare la mia carriera da insegnante per immergermi nella carriera di cantante dovetti anche lasciare i miei bambini. Tutti soffrivano per la mia partenza, ma Emily fu quella più distrutta. Si era richiusa nel bagno femminile e non voleva assolutamente uscirne. Non si era fatta viva tutto il giorno.

Me ne stavo per andare, avevo tutti i miei oggetti nel bagagliaio della mia auto – ogni ricordo mi riportasse in mente quella scuola -, e tutti riuniti nel piccolo giardino principale dell’edificio, con le lacrime agli occhi, i bimbi mi fissavano con sguardo triste, angosciato, e i loro occhi mi pregavano di non partire.
Che scelta dura era stata andarmene...

«Mi raccomando», dissi inginocchiandomi davanti loro. La mia vista era talmente ovattata che temevo di crollare da un istante all’altro. «Siate sempre dei buoni bambini, ok? Questo non è un addio... Verrò a trovarvi, ve lo prometto! Non dimenticate le cose che vi ho insegnato... Il rispetto nel prossimo, la gioia di amare, l’innocenza, i sogni... Portate sempre con voi questo messaggio, non abbandonatelo mai
Loro annuirono, attenti e commossi.

James si fece improvvisamente spazio davanti a tutti, fissandomi con gli occhi gonfi dalle lacrime. Lo sapevo che odiava piangere, era un tale sforzo per lui mostrarsi meno virile di quanto volesse sembrare, ma in quel momento pensai che non aveva la forza per trattenersi.

«Joy... Sarai sempre la donna dei miei sogni... Ho promesso che ti sposerò e manterrò la promessa...», disse in un soffio tremante, per poi scoppiare a piangere e rintanarsi fra le mie braccia.
Accennai un sorriso e una lacrima scivolò lungo la mia gote.
«E tu sarai sempre il mio primo ometto...», risposi baciandolo sulla tempia destra.
Dopodiché tutti i bimbi si ritrovarono a sussurrare il mio nome, a pregarmi di tornare presto, di non piangere, di non essere triste, di non temere. Loro mi avrebbero sempre voluto bene, anche quando il tempo ci avrebbe diviso.

«Joy...»
Drizzai la schiena non appena la sentii. Quella voce soffusa io non...

«Joyce!», urlò la voce a tonalità superiore, acuta come quella di un campanellino.

Tutti i bambini si voltarono indietro, preside ed insegnanti presenti che, chi più o meno, era commosso da tale scena.

Gli occhi di tutti i presenti si spalancarono dalla sorpresa e dalla meraviglia. I bimbi rimasero a fissare alle loro spalle la fonte da dove proveniva quel suono cristallino di campanelli e gli insegnanti, scioccati, impallidirono. Mrs. Baker ebbe la reazione più scossa di tutti; si mise le mani davanti le labbra per impedire un sibilo e le lacrime le sgorgarono dalle pupille in una velocità stratosferica.

Rimasi a guardare la esile figura di Emily, poco lontano da me, con i pugni serrate, le labbra socchiuse e gli occhi colmi di lacrime. Prima che potessi udire altro, sentii le mie guance inumidirsi di calde gocce salate ed irruenti.

«E... Emily...?», soffocai in un respiro. Ignorai lo sguardo di alcuni bambini che mi fissarono sbigottiti e sorridenti, e subito cominciarono ad allontanarsi da me come a comando, lasciando me ed Emily a pochi metri di distanza con gli occhi fissi l’una sull’altra.

«Joy

La piccola bimba bionda emise un singhiozzo e mi corse incontro. Mi strinse le sue piccole braccia attorno il mio collo, sotto gli occhi lucidi di tutti, e io la baciai sulle sue soffici guance.

La piccola aveva parlato.
Per la prima volta aveva parlato!
Aveva detto il mio nome!

«Joy...», disse dopo avermi abbracciato, stupita di sé stessa e fissandomi con gli occhi spalancati. «I-io... Io...»
Le scoccai un bacio sulla fronte, nel frattempo che le lacrime scendevano copiose. «Sì... Tu puoi parlare

*

Sorrisi al ricordo di quel giorno. Sorrisi e allo stesso tempo una lacrima rigò silenziosa il mio viso. Perché piangevo? Non era il tempo di piangere! Era una festa di compleanno, ecchecavolo! C’erano persone che mi stavano fissando, bimbi che m’osservavano. Eppure il ricordo non poteva avere alcun altro effetto su me. Solo io potevo sapere quanti ricordi stessero affollando la mia mente.

«Joy...», disse nuovamente Emily, mentre il suo sguardo cominciò a sciogliersi e gli occhi s’illuminavano.
Riuscivo vedere attraverso l’espressione del suo volto che non mi odiava. Lei non mi avrebbe mai odiato. Non lei. No...
Sorrisi nuovamente, commossa.
«...Vieni qui», e così, a voce spezzata dal pianto, mi corse incontro non appena le spalancai le braccia, non appena ebbi enunciato le suddette parole. Corse verso di me in una corsa gioiosa e un sorriso luminoso, felice.
«Joy, Joy, Joy!», urlò correndomi incontro e abbracciandomi stretta.

Si aggrappò con tutte le sue forze su di me, incrociando le sue manine dietro il mio collo, rischiando di farci cadere entrambe all’indietro. Risi e per poco non fui altrettanto soffocata da tutti gli altri bambini che, nel momento in cui io ed Emily ci eravamo unite in un abbraccio, si fecero stretti, stretti a noi. Tutti emanavano gridolini di gioia e felicità, facendo risaltare i loro graziosi sorrisi.

Ecco. Questa era la bellezza, la bellezza quella vera. Essere così dolcemente innocenti e aperti, sorridere delle piccole cose che ti può donare il mondo e renderti felice.
I bambini avevano questa stupenda qualità dentro di loro: non giudicavano, non ti condannavano, per la maggior parte dei casi. I bambini erano tutto questo se educati con dei sani principi morali, se veniva insegnato loro a mantenere la purezza nel cuore.

«Mi sei mancata tanto!», sussurrò Emily al mio orecchio. Io sorrisi di liberazione.
«Anche tu mi sei mancata...», le detti un bacio sulla tempia, poi mi alzai in piedi con lei ancora aggrappata al mio collo, comodamente in braccio. «Voi tutti mi siete mancati! Tutti, tutti
Tutti loro mi sorrisero felici, e io guardai la bimba che tenevo fra le mie braccia. Emily mi sorrise e mi sfiorò i capelli, inclinando il capo e adagiando la sua fronte sulla mia guancia, stringendo maggiormente la presa.
«Allora», dissi guardando i bimbi con fare furbescamente divertito. «Che stiamo aspettando? Festeggiamo?»

Un coro di voci gridò la conferma e non mi restò altro che ridacchiare entusiasta. Le loro manine si posarono su di me, tenendomi per alcuni lembi dei jeans e della maglietta. Erano così felici che facevano fatica a trattenersi ognuno dal emettere parola, creando una tal confusione da farti non capire più nulla di quel che ti capitava intorno, tanto che alla fine mi arresi all’idea che, per tranquillizzarsi, si sarebbero dovuti prima abituare alla mia partecipazione per tutto il pomeriggio.

Nel frattempo che loro mi trascinavano nel loro mondo fantastico, mi spiegarono tutto il programma del pomeriggio. Mi dissero che avrebbero prima mangiato la torta di compleanno, e successivamente ci sarebbe stato uno piccolo spettacolino canoro, recitato e ballato in cui mi chiesero di partecipare. Io, imbarazzata, inventai la scusa che lo spettacolo era loro, che quel palco era riservato esclusivamente a loro, e mentre mi condussero verso una delle sedie attorno all’immensa tavolata rettangolare notai lo sguardo di Michael.

Inutile dire che mi fissava, ma i suoi occhi erano strani, profondamente intensi. Mi guardava con interesse, anche se sembrasse quasi stesse in realtà pensando ad altro, con un’aria un po’ spaesata ma che comunque aveva centrato l’obiettivo principale della sua fugace mira silenziosa.

Quando lo incrociai rimasi un po’ perplessa – con tutto quel caos inutile dire che potevo essere attenta a ogni persona mi stesse vicino o mi rivolgesse parola – e lui d’improvviso abbozzò un sorriso e osservò tutti i bambini intorno. Sorrisi anch’io, pur non sapendo nemmeno da me il perché. Poco dopo realizzai una cosa che mi colpì tantissimo...
I suoi occhi... Erano lucidi. Forse si era commosso per la scena precedente. Forse era l’innocenza dei bambini, la loro innata dolcezza che lo rendeva così... Vivo. Ecco, quella era la parola giusta. Vivo. Pieno di un’energia che scoppiettava attraverso quello sguardo dai sentimenti segretamente celati e misteriosi.

Improvvisamente fui chiamata – diciamo meglio leggermente “strattonata” – a sedere da Robert, un bambino dai capelli castano scuro e gli occhi nocciola. Lo accontentai, ancora con Emily in braccio. Ella non ne volle sapere di staccarsi minimamente, neanche quando la preside si fece vicino a noi per chiederle almeno di sedersi nella sedia vicino a me. Niente, lei fu così testarda e irremovibile da stringermi al collo fino a farmi perfino soffocare.

La signora Baker sbuffò e mi rivolse uno sguardo amorevole che ricambiai.
«Grazie per essere venuta...», mi disse dolcemente. Io strinsi le labbra in un sorriso intenerito.
«Per i bambini questo e altro!», ed era vero.

Guardai dritto di fronte a me e mi ritrovai Michael, accanto a due bimbi della stessa classe di Emily, nonché ex mie alunne di tanto tempo fa, Rose e Louise. Le guardai e le vidi osservarlo con un’adorazione che mi fece quasi scoppiare a ridere come una cretina, ma che riuscii ben a trattenere. Michael, che mi fissava, assunse un’espressione confusa e poi si guardò a destra e a sinistra, immediatamente ricambiato dalle sue fan che gli sorrisero a trentadue denti. Ricambiò con gioia e poi mi fissò non smettendo di ridacchiare fra sé e sé.

Ed ecco che, a spezzare quell’occhiata, qualcuno alle spalle mi fece il solletico sui fianchi, facendomi saltare sul posto come un’emerita idiota – al mio solito, ovvio. Mi voltai e vidi Daren, chi se non altro, dietro di me, sorridente.

«Daren!...», esclamai scuotendo il capo ridendo. «A quanto pare non la smetti mai di farmi questi scherzi?»
«E tu davvero non la smetti mai di diventare così affascinante?», mi disse ridendo osservando il cambiamento che assunse il mio volto. Contrassi le labbra in un sorrisetto e aggrottai le sopracciglia, socchiudendo gli occhi.
«Sei sempre il solito ruffiano», dissi ironica. Daren emise una risatina e si inginocchiò vicino alla mia sedia, cosicché fossimo più vicini e non urlassimo per parlare. «Allora come ti va?», chiesi.
«Oh, be’», disse lui alzando le spalle. «Come al solito, ma quando arrivi tu comincio a diventare pazzo!»
«Oh!...», dissi sogghignando. «Davvero...?»
«Sì, davvero! Insomma, guarda che gli effetti che fai tu su questi piccoli birbanti sono considerevoli!...»
E dette un buffetto sulla guancia di Emily – che ci stette silenziosamente ad ascoltare, di punto in bianco – la quale sorrise divertita. Lui ricambiò e, quando la bimba fu attirata successivamente da tutt’altra parte, mi guardò serio.
«E tu? Come stai? La vita da cantante ti soddisfa?»
Poi cambiò tono di voce ed espressione.
«Hai portato con te anche un ospite...»

Notai una nota di non so ché in quelle frasi che mi fece storcere un po’ il naso dal fastidio, soprattutto sull’ultima, ma gli risposi come se niente fosse. Sapevo a che cosa si riferiva, l’idea che ci fosse un tale chiamato Michael Jackson lo lasciava contrariato. E sapevo bene che a Daren dava un po’ sui nervi quando era ignorato, specialmente, a suo tempo, da me. Il bello era che era sempre stato così, anche prima di quando fossi divenuta famosa. Amava essere al centro della mia attenzione...

«Sì, ho pensato che fosse una cosa molto bella e dolce», dissi sperando che Michael non sentisse e che non mi stesse fissando. Mi sarei sentita tremendamente arrossata altrimenti. «Riguardo alla mia carriera, sai benissimo che cantare mi è sempre piaciuto, per questo non mi pento della decisione che ho fatto».
Daren strinse le labbra in una stretta ferrea e annuì fiaccamente.
«Sì, lo so bene. Dopotutto ti conosco da... Aspetta... Con questo siamo a tre anni?», chiese con una faccia da cretino.
«Scemo...», dissi, dandogli una pressione leggera sul braccio, ridacchiando sofficemente.
«Canterai dopo, quando ti chiamerò sul palco, vero?», chiese con occhi furbescamente sarcastici.

La mia espressione facciale si congelò e lui scoppiò a ridere, alzandosi su dalla posizione inginocchiata per tornare al suo posto nella grande tavolata. La torta non era ancora pronta per essere servita, siccome mancava ancora James, perciò pensai che avesse scelto l’occasione più propizia per parlare un po’.

«Non ci provare nemmeno, Daren Singh!», gli ordinai preoccupata. Ma lui ormai si stava già allontanando da me per poter rispondere, cosicché si sprecò solamente a rivolgermi un sorriso sghembo dei suoi quando era in vena di scherzi.
Sbuffai.

Ci manca solo che mi chiami sul palco... Non è la mia festa oggi.

Voltai il capo verso Emily, la quale stava alle prese con una forchetta adagiata fra le sue manine e se la guardava e riguardava interessata. Senza potermi controllare, le scoccai un bacio rumoroso sulla guancia, tant’è che lei sorrise e inclinò il capo verso il punto in cui l’avevo baciata, facendola ridere imbarazzata.

Sorrisi e mi allontanai di poco dalla sua gote e, in quel preciso istante, osservai Michael con un’occhiata interessata. Era preso ad osservare alla sua sinistra, in direzione di Daren – il quale tranquillo chiacchierava con due bimbi di seconda -, attento a quello che lui faceva. Successivamente si voltò verso me, tutto nel giro di un attimo così veloce da non sembrare reale. Mi guardò e mi sorrise, ed io feci lo stesso.

Un altro appunto da segnarmi riguardo Michael, da non dimenticare assolutamente: non era osservatore, era estremamente osservatore. Fissava quello che gli era intorno con un attenzione spiazzante, esaminava tutto, soprattutto gli atteggiamenti della gente. Poteva sembrare semplicemente curioso, o indiscreto, ed invece nascondeva sotto, sotto un grande intelligenza – secondo me.

Sebbene non lo conoscessi bene – era ancora troppo presto per definirlo accuratamente – pensavo che la mie considerazioni non fossero del tutto sbagliate. Dopotutto, l’ho già detto, ero anch’io un’ottima osservatrice!

Improvvisamente si sentì una voce tuonare.
«Non è possibile!»

Tutti ci voltammo per vedere chi aveva urlato, scombussolati dal tono allarmante. In fondo, sulla porta di servizio, se ne stava imbambolato James, con gli occhi fuori dalle orbite puntate prima su di me e poi su Michael, poi di nuovo da e me e poi di nuovo da lui, il tutto ripetuto circa una ventina di volte prima che emanasse anche una sola sillaba.
Era James. Il mio “corteggiator bambino” nonché meno fan di Michael e della sottoscritta.

James era un ex alunno della classe che seguivo, in gamba, molto furbo e spiritoso, vivace e sempre in continuo movimento – una vera piccola peste - con la voglia estrema di giocare sempre. La sua pelle era graziosamente mulatta, con due occhi grandi neri e svegli. Un po’ paffutello, piccolo d’altezza, con le labbra un po’ carnose e una vivacità sconvolgente degna di un bambino incontenibilmente alla ricerca di svago.

«Joy!», disse lui scioccato, spalancando le braccia. «Ma che cosa ci fai qui? Senza avvisarmi?!»
Tutti ridacchiarono divertiti. Evidentemente non ero l’unica a pensare che avrebbe avuto una reazione simile!
«Perché nessuno mi ha avvisato, diamine?!», continuò guardando i compagni.
Sembrava arrabbiato, in effetti... Ma era troppo simpatico!

Risi, alzando dalle mie ginocchia Emily e adagiandola nella sedia da dove mi ero alzata. Lei mi guardò in primo momento dispiaciuta, ma poi le feci l’occhiolino e lei mi regalò uno stupendo sorriso furbetto. Mi voltai e feci qualche passo verso James, il quale mi fissò con gli occhi che gli brillavano di gioia e trepidazione. Era praticamente immobile. Forse era il tempo ad avergli causato tali reazioni, dato che faceva così ogni volta da quando non ero più insegnante.

«Dai, Casanova, vieni qua!», lo incitai inginocchiandomi vicino di lui, spalancandogli le braccia.

Lui tentennò, indeciso, ma sapevo che la sua era solo una falsa. Faceva un po’ il “prezioso” e il dubbioso, ma in realtà non vedeva l’ora di abbracciarmi. Conoscevo la volpe che era... Mi sarei stupita se poco dopo non mi sarebbe saltato in braccio e ad ogni passo mi sarebbe stato avvinghiato alla gamba, facendo gara con Emily su chi mi sarebbe stato più appiccicato come una piovra a duecento tentacoli..

Misi il broncio e lasciai cadere la braccia sui fianchi, appoggiandomi con le ginocchia a terra e guardandolo negl’occhi.
«Perché non mi hai avvisato?», disse lui corrugando la fronte e arricciando le labbra.
Sorrisi. «In realtà era una sorpresa, nessuno lo sapeva...»
«Ma io sono il tuo fidanzato! Ne avevo il diritto!», rispose pestando col piede destro per terra.
Tutti risero, e per un attimo mi chiesi che faccia avesse Michael in quel preciso istante.
«James...», feci per dire dopo aver abbassato gli occhi imbarazzata.
«No Joy! Niente scuse!», mi disse lui allontanandosi proseguendo in avanti, verso i tavoli, ignorandomi come se fosse arrabbiato o gli avessi fatto un torto imperdonabile. «Abbiamo rotto!»

Tutti risero di nuovo ma io fui troppo... Ehm, scioccata per ridere a mia volta. Voltai il capo verso di lui, indecisa se scoppiare in una risata o rimanerlo a fissare col dubbio, con la bocca socchiusa e le sopracciglia aggrottate. Voltai il capo lievemente a sinistra, serrando le labbra, facendo una delle mie solite smorfie fintamente accigliate quando venivo presa in contropiede da qualcosa di inaspettato, come per esempio uno scherzo fallito per di più diretto personalmente dalla sottoscritta.
Poi però mi venne di nuovo da sorridere: avevo avuto un’idea.

«Che peccato...», sospirai guardandolo con la coda dell’occhio, interpretando la parte della dispiaciuta, aspettando che lui si fermasse in mezzo alla stanza. «E io che volevo regalarti un bacio. Dopo tutto è passato tanto di quel tempo dall’ultima volta... Come non detto, li darò a tutti gli altri bambini allora e a te niente!»

Mi alzai in piedi stancamente, con le labbra arricciate dal finto dispiacere, e lui s’immobilizzò. Come se gli si fosse irrigidito qualche ingranaggio dentro di lui, voltò la testa a scatti verso di me. Mi guardava con occhi luccicanti, un sorriso furbetto che parlava da solo. Gli lanciai un’occhiata fugace, alzando le sopracciglia e dirigendomi verso il tavolo dove tutti gli altri si stavano felicemente godendo la scenetta.

«Un bacio? Mi dai un bacio?!», chiese lui stupefatto. «Sulla guancia o sulle labbra?»
Feci una smorfia, mentre nella mia mente me la stavo ridendo come una bambina piccola. «Be’, ovviamente sulle guance... Ma siccome sei arrabbiato con me non vedo perché infastidirti con i miei inutili bacetti...»

Detti uno sguardo a lui e, mentre passai oltre lui in direzione della sedia dove ero seduta prima con Emily, non potei fare a meno che osservare le facce dei miei bambini e di Michael. I primi osservavano me e James sghignazzando fra loro, alcuni zitti, zitti, alcuni bisbigliando fra loro come a rivelarsi un buffo segreto. Michael mi guardava con insistenza, sorridente, con la bocca semiaperta e gli occhi un po’ stravolti. Lo fissai di rimando alzando un angolo delle labbra in un sorriso impercettibile, facendo un poco visibile occhiolino che stava a dire: “Tranquillo, è tutto un gioco”.

«Nono! Non sono arrabbiato!», e così dicendo James si catapultò verso le mie gambe, stringendosi a loro rischiando di farmi cadere anche a me, tant’è che feci per mia fortuna tempo a reggermi sulla sedia sul quale c’era seduta Emily.

Emily, infastidita e imbronciata dalla gelosia, emise un suono seccato con la gola e si alzò giù dalla sedia, venendomi incontro e spalancando le braccia affinchè potesse venire nelle mie braccia. Intenerita non potei far che accettare la sua richiesta, e una volta in braccio m’inginocchiai a terra.

«Ti giuro, non sono arrabbiato! Come potrei! Sei bellissima, troppo bella, come potrei smettere di amarti?! Ti prego, voglio un bacio sulla guancia... Ti prego, ti prego, ti prego!...», mi pregò facendo gli occhi da cucciolo.
Emily mi si strinse al collo, guardando James come se volesse fulminarlo da un momento all’altro.
«Tranquilla, Emily, è solo un bacio piccolo...», dissi per rincuorarla. «Anzi, facciamo così – altrimenti non sarebbe giusto. Dopo, prima di andare via, do un bacio a tutti voi, anzi, quando ne volete io sono a vostra disposizione!»

I bambini esultarono e James mi porse la guancia sinistra. Quando si metteva in testa una cosa era estremamente testardo – soprattutto quando gli promettevo un piccolo bacetto, e si metteva a fare sceneggiate di gelosia se ne davo a qualcun altro che non fosse lui. Ma non sapeva che così stava sfidando Emily ad attaccarlo.
Anche lei era molto gelosa, possessiva, e non permetteva facilmente che lui mi baciasse senza prima non aver litigato.

Fin da quando lavoravo là, ogni volta che se ne prestava l’occasione, James ed Emily erano come cane e gatto nel litigio, come due leoni che combattono ognuno per conquistarsi il territorio... In quel caso, io ero l’oggetto delle liti.
Anche quando Emily non sapeva parlare trovavano sempre il modo per tirar su confusione, uno usando la voce e l’altra usando il suo quaderno degli appunti, tirandoglielo egregiamente e con destrezza in testa.

«Non ci provare...», sibilò Emily socchiudendo gli occhi. James si ritrasse e la fulminò con lo sguardo.
«Perché? Me lo vuoi forse impedire?», le disse con aria di chi vuole sfida.
«No, perché semplicemente Joy non può permettersi di baciare te!», disse lei alzando le sopracciglia.
«E perché no?», chiese avanzando verso me ed Emily, la quale mi avvinghiava il collo facendomi mancare il respiro.
«Perché...», cominciò, un po’ dubbiosa e alla ricerca di scuse. «Perché lei è impegnata con me!»

E così mi si avvinghiò ancora di più... E io mi ritrovai ormai a tossicchiare senza respiro, soffocando le mie invocazioni d’aiuto verso tutti gli altri che si stavano godendo la scena. Perché diavolo non mi aiutavano? Era così divertente vedere un litigio e la terza incomoda che ci rimette la pelle? No perché non ero mica così in salute in quel istante...

«Ragaz... Aiuto... Per fav...», ma ogni mia parola era soffocata dalle braccia di Emily.
Tutto inutile. Quei due ormai non li fermava più nessuno.

«Sentimi bene, Emily, Joy è la mia futura moglie, quando avrò diciotto anni mi ha promesso che ci sposeremo», avviso che questa se l’era inventata lui senza il mio consenso! «e tu non potrai farci niente, quindi abituati all’idea!»
«Da quando te lo ha promesso? Io non lo ho mai sentita questa... E comunque tu non la sposerai! Sei... Sei troppo giovane, e lei ormai a quel tempo sarà già sposata con qualcuno che di certo sarà bellissimo e dolcissimo!», rispose l’altra infastidita e ormai su procinto di corrergli dietro per tutta la stanza per ucciderlo.
«Tsk, sei solo gelosa!», disse James sempre più arrabbiato. «Lei è mia e non ci puoi fare niente!»
«Gelosa?!», esclamò l’altra sibilando.
«Certo, e di me
«Gelosa di te?! Ma... Per favore

Sinceramente, quei due insieme me li vedevo benissimo assieme. Il loro rapporto amore/odio era stupendamente affascinante dal mio punto di vista: “amore” perché erano sempre pronti ad aiutarsi a vicenda, entrambi si supportavano e a volte si atteggiavano da veri piccioncini, come tenersi la mano o appoggiarsi alla spalla dell’altro; “odio” perché, quando c’ero di mezzo io, la loro relazione diventava una lotta per ottenere le mie attenzioni.

Forse era veramente un bene che me ne fossi andata... Temevo che, con la capacità di parola acquisita da Emily, se sarei rimasta sarei solamente stata una spettatrice inerme della Terza Guerra Mondiale!

«Ok, piccini, ora lasciamo perdere questo discorso...», intervenne Daren separando lui e lei e, allo stesso tempo, salvandomi la vita da una morte da soffocamento. «Altrimenti la nostra adorata Joyce qua si sente male!...»
«Grazie...», tossicchiai ridendo. Mi aiutò gentilmente ad alzarmi in piedi, osservata con preoccupazione da Emily e James e da tutti gli altri che se la ridevano di me.
«Povera me, stavo già cominciando a vedere la luce!», esclamai portandomi il palmo della mano destra sulla fronte, recitando la parte della povera vittima e facendo ridere tutti ancora più di prima.

Alla fine mi sedetti, con James ed Emily seduti uno dalla parte opposta ma attaccati a me come sanguisughe. E mentre la festa andava avanti, osservavo Michael guardarmi e cercare a malapena di trattenersi dal scoppiare a ridere. Si doveva essere così divertito in quel momento – con quei due appiccicati alle mie costole non lasciandomi aria per respirare a sufficienza – che una volta da solo, a casa, sarebbe scoppiato in una isterica risata liberatoria, guardato da tutti i suoi dipendenti che preoccupati si sarebbero chiesti se, al posto della torta, avesse bevuto whisky e vodka a manetta fino a scoppiare.

Perché, lo giuro, non lo avevo mai visto così! Era rosso paonazzo ogni volta che cercava di trattenersi dalla risata, ogni santa volta che mi osservava – per questo forse da quel momento cercava di evitarmi! – che temevo sulla sua salute. Voltava il capo verso di me, si copriva le labbra e si toccava il mento e tentava di non ridere.
Tentava, sia chiaro, non è che non ridesse...
E io con lui.

Lo fissavo e mi mettevo a ridere. Forse questo meccanismo automatico – il fatto di capirci telepaticamente – era anche mezzo involontario del mal funzionamento dell’autocontrollo emotivo. Perché è sempre molto difficile, quando ride qualcuno, cercare di stare seri e far finta di niente, soprattutto se si sa perfettamente il motivo della risata!

Ad ogni modo, la torta fu servita e il tempo passò veloce come un battito d’ali di farfalla. Ci fu un clima molto sereno a tavola – tralasciando me e Michael e quegl’altri due di nome James ed Emily che, quando potevano, si minacciavano silenziosamente lontani dai miei rimproveri. La torta, ovviamente, era buonissima. Figuriamoci se una mangiatrice golosa come me poteva certo negare una cosa del genere!

Successivamente, quando tutti finirono di mangiucchiare, vennero disposte alcune sedie attorno al palco, fino a creare otto/nove file perfettamente contate da poter lasciar un posticino a tutti i bambini e a me e a Michael, come ci fu gentilmente chiesto dalla preside e da tutti gli altri bambini. Mrs. Baker non avrebbe partecipato, ma sapeva bene che io e Daren ce ne potevamo benissimo occupare.

Furono tutti invitati a sedere ai loro posti e io e Michael ci sedemmo all’estremità destra della prima fila, lui l’ultimo e io in mezzo ad egli e a James. Emily, dopo una breve e intensa occhiata con James, si sedette sulle mie ginocchia come se niente fosse. Inutile dire che l’altro ne rimase imbronciato e leggermente irritato. Capirete se vi dico che mi sentivo un po’ come divisa in due, con quei due. Almeno c’era Michael, che era il più tranquillo di tutti sicuramente.

Con una musica di trombe e grancassa, proveniente da uno stereo ultimo modello accanto al palco, il piccolo spettacolo, diretto dal presentatore del giorno e mio ex collega Daren, iniziò.

Come prime cose furono cantante alcune canzoni.
La prima iniziale fu una che creai io personalmente, diretta ai bambini, che intitolai “I’ll send all the love”. Era una canzone dalla musica lievemente orientale, cantata in inglese e in tantissime altre lingue delle quali avevo deciso fossero riportate sul testo; parlava del senso di fraternità, di amore, di bontà, e di un legame che, attraverso il vento, sarebbe passato in mano a tutte le persone del mondo, donando loro affetto e gioia nel domani.
Inutile dire che mi commossi e piansi come un fiume in piena. Successivamente vennero cantate, a gruppetti, canzoni come “No More Tears”, di Barbra Streisand e Donna Summer, “I Wanna Dance With Somebody”, di Whitney Houston, e tantissime altre, in tutto per una lista di sei canzoni totali.

Dopodiché fu il turno della recitazione. Furono recitati spezzoni di storie e racconti, poi ancora vennero fatte recite divertenti di bambini nei panni di adulti, di simpatiche situazioni famigliari e di relazioni fra marito e moglie, tutte causando grandi risate. Vennero poi messi in atto scene di musical degli anni prima, fra cui “Grease”, il più gettonato.

Osservai molto il viso di Michael durante lo spettacolo, nei momenti in cui lui non se ne accorgeva, troppo preso dallo spettacolo – tanto ormai quella era una cosa ovvia, il fatto che io fossi sempre, inconsapevolmente attirata dal suo viso. Quando lo beccavi fissare i bambini l’unica impressione che potevi avere era la consapevolezza che, quando rivolgeva occhi a loro, una immensa felicità gli attraversava corpo e anima e illuminava il suo viso e il sorriso.
Lo fissavi e capivi che, in quel momento, nel suo piccolo e privato mondo tutto aveva inspiegabilmente un senso proprio e concreto. Era come se percepissi d’improvviso un’energia contagiosa provenire dalla sua aura ed espandersi fino e dentro di te.
Era una cosa un po’ assurda da spiegare a parole, perciò mi limitavo ad osservarlo con un sorriso compiaciuto e gioioso, e a godermelo in una forma rara e preziosa che il suo carattere assumeva solo in tali situazioni.

Ad un certo punto, fui richiamata all’attenzione. Una bambina della fila dietro, Mandy, mi dette un colpetto sulla spalla, spingendomi a voltarmi verso lei. Quattro paia di occhi – fra quello mio anche quello di James, Emily e Michael – fissarono la bimba incuriositi. Come si suon dire, “una reazione a catena”.

«Joy, ci canterai qualche canzone per noi?», chiese. Immediatamente altri due bambini si trovarono a fissarmi in attesa di risposta, compresi i tre che mi stavano accanto. «Per favore...»
Bene, e ora che diavolo di scusa tiri fuori per evitare questa cosa?
«Ehm, ecco...», dissi nel frattempo che un battito veloce di musica pop cominciò ad echeggiare nella stanza e tutti gli altri bimbi applaudivano felici. Svoltai fugacemente gli occhi e vidi Daren ballare, seguito dagli urletti dei piccoli spettatori presenti.

Dimenticavo di dire che anche egli aveva una passione per il ballo... Soprattutto per il ballo! Era bravo, perciò mi aveva fatto da ulteriore appoggio, negli anni precedenti alla mia carriera da cantante, nel organizzare i balletti scolastici durante eventi o spettacolini particolari. Era un ottimo ballerino, dovevo ammetterlo.

Anche io me la cavavo abbastanza con la danza, sebbene avessi al massimo, in tutta la mia vita, frequentato solo una scuola di danza latino-americana con tutte le specialità del suddetto genere, per di più essendo considerata come una delle più brave del corso solamente dopo tre mesi di lezioni. Una cosa bella di me, era che imparavo molto in fretta.
Ero appassionata a ogni tipo di danza, ma ero sempre tremendamente contraria all’idea di mettermi davanti ad una persona e farle vedere me ballare. Potevano chiedermi di cantare fin quando volevano, ma danzare...
Diciamo che mi sentivo in soggezione. Se ballavo, ballavo perché me la sentivo e non perché me lo chiedevano di fare, volente o nolente. Avrei ballato con una musica che mi ispirava particolarmente, e magari evitando gli occhi cinici di persone che si credevano sicuramente superiori ad una principiante come me.
Non che l’opinione altrui mi intimorisse o mi scalfisse, di quello che pensavano gli altri proprio non me fregava un cazzo – detta volgarmente parlando. Mi disgustava solo l’idea che qualcuno dai pregiudizi infondati e con la puzza sotto il naso mi guardasse dall’alto in basso come se venissi da Marte, quando avrei voluto dir loro: “Ma vi siete visti voi allo specchio o ci passate di fronte credendovi tanto fighi e bravi?”
Ballavo quando e se ne avevo voglia.

Ad ogni modo, un secondo e mi ritrovai a guardare Mandy ancora alla ricerca di una degna risposta da dare.
«Be’, in realtà preferirei di no... Lo sapete che il vostro è uno spettacolo che riguarda voi e basta, io non c’entro...»
Sì che lo sanno, ho spiegato loro questa mia convinzione un milione di volte...
E alla fine mi convincevano sempre.
«Ogni volta dici così e alla fine ti arrendi alle nostre richieste!», esclamò con un sorriso sghembo James. Gli scoccai un’occhiatina fulminante e sardonica. «Che cosa vuoi che sia arrenderti per una ventottesima volta, no?»
«Sì, per favore!...», disse Emily tirandomi per la camicia bianca a bottoni a maniche corte che indossavo. «Fallo per me... E’ il mio compleanno... Per favoree...!»
Mi pregò con lo sguardo, in più con tanto d’occhi dolci, e la voce così dolcemente tenera e fragile che non potei non sciogliermi. Come facevo a resistere ad uno zuccherino tanto dolce quanto innocente?
James, al contrario di me, roteò gli occhi e fece per mettersi un dito in bocca, spalancandola, nel gesto che intendeva: “Sto per vomitare con tutto questo miele, vi prego salvatemi da questa smielata tortura!”
«Be’...», dissi cercando di non ridere all’espressione di James e in contemporanea di non cadere alla avance di Emily.

«Ehy, ragazzi, un momento, un momento!...», disse Daren rivolgendosi ai due bambini allo stereo, alzando le mani in aria in segno di arresa, ancora col fiatone per il lungo balletto. «Stop un attimo! Devo fare un annuncio!»

I due lo guardarono con tanto d’occhi e misero in pausa la musica, mentre ora tutti - nessuno escluso – osservò Daren stupiti e scombussolati. Io, d’altro canto, non potei far altro che preoccuparmi per la mia impotente capacità d’agire. Sapevo che qualcosa non quadrava, e di certo sapevo altrettanto bene che le cose per me si facevano pericolose. Non pensai scherzasse sul fatto di volermi fare salire sul palco con lui, perciò mi rimpicciolii sulla sedia, lasciandomi scivolare con ancora Emily in braccio verso il panico più totale.

Dio, Dio, Dio... Non può farmi ballare... Cantare ok, ma non ballare...! Non che la cosa mi dia fastidio, di coraggio ce ne ho da vendere, ma... Oddio, che dirà Michael? No, no, no... Mi sento un misero pezzo di legno in confronto a lui, non vorrei proprio fare la figura della ridicola...

Ma in fondo sapevo che la verità più vera era nascosta nel profondo della mia anima, e la conoscevo, ma non la volevo ammettere. Quel giorno non mi sarei mai voluta esibire per paura che lui mi considerasse solo una eccentrica, una eccentrica ex maestra la cui vita da cantante cerca di influenzare la vita dei suoi ex alunni con i suoi spettacoli durante una recita che per di più non era la sua. Non avrei mai potuto fare una cosa del genere a dei bambini – non li avrei mai convinti a sentire quello che io creavo come donna di spettacolo – né avrei sopportato l’idea che qualcuno pensasse di me come “la ragazza che, pur di far scena, torna nel suo vecchio posto di lavoro e fa una delle scene da pop star che è diventata”.

Vabbè, anche vero che un po’ temevo per di più il giudizio di Michael sulla mia “danza”. Lui, formidabile genio musicale e dio del ballo e dell’intrattenimento, che avrebbe mai pensato di una dilettante come me? Cioè, potevo solo farlo ridere di me! Poi se mi avessero chiesto di ballare una sua canzone... Oh, non osai nemmeno immaginare! Sarei di sicuro uscita dall’aula magna e mi sarei chiusa nel bagno degli insegnanti fin quando non si sarebbero arresi all’idea che io non avrei ballato!

Daren si rivolse a me con uno sguardo maliziosamente sorridente. «Joy...»
Ecco, avevo ragione.
«Balla con me, qua, sul palco»

Subito mi irrigidii. Lasciai che il silenzio scorresse per una manciata di secondi fin quando i bisbigli dei bambini si fecero continui richiami alla mia attenzione. Mi sentivo in preda ad un’ansia convulsa, continuamente scrutata dagli occhi imploranti di Emily. Non sapevo che scusa inventare, perché non ne avevo di ragionevoli. Eppure ero decisa a non salire sul palco. O almeno, cercavo di rimanere convinta dell’idea.

«Scordatelo!...», risposi in modo molto soft, soffocando una lieve risatina sardonica. Di colpo mi sentii sempre più osservata e più al centro delle attenzioni di tutti, ma soprattutto di Michael. Non avevo idea e non avevo intenzione di scoprire che piega avesse assunto il suo volto. Proprio no...

Nel frattempo che i bimbi m’implorarono con piccole frasi come “Daiii”, “Joy, per favore...!”, “Perché nooo?!”, Daren sorrise fra sé e sfruttò la mia debolezza occasionale per insistere sulla mia apparente forza di decisione. Sapeva che quando i bambini mi pregavano io ero sempre pronta a cedere, e questa mi sembrò una vera e propria carognata da parte sua: perché ballare quando potevo benissimo cantare, come facevo sempre?
La risposta me la detti da sola subito dopo che mi feci la stessa domanda.

«Dai, non farti pregare!», continuò lui con un sorrisetto apparentemente innocente.

Nel frattempo, nella mia mente continuavo a maledirlo dandogli del coglione. Se come avevo dedotto giusto stava facendo tutto questo per mettermi in crisi di fronte a Michael, la risposta l’avrei ricevuta solo salendo sul palco. E quando intendevo “mettermi in crisi” intendevo infastidire. Perché la verità era che era geloso, scocciato dalla sua presenza e, forse, aveva perfino notato le nostre occhiate.

So che mi penserete ora come una maligna, ma certe cose me le sentivo dentro, in fondo le viscere. Istinto di donna? Sesto senso? No, semplicemente conoscevo molto bene Daren. Quasi tre anni era serviti per capirlo bene, e in effetti più volte avevo avuto conferma ai miei dubbi.

Di sicuro aveva in mente qualche piano per far sì o che l’opinione di Michael cambiasse riguardo ai miei confronti, o aveva qualche altra idea a me sconosciuta escogitata silenziosamente dentro quella testa bacata d’idiota!

«Anzi, bambini, che ne dite di convincere la nostra adorata Joyce a salire sul palco? Gridiamo tutti insieme... Joy! Joy! Joy! Joy! Joy!...», cominciò a urlare, battendo le mani in aria ad incitarli.

Pian piano tutti i bambini cominciarono a urlare il mio nome, alzandosi in piedi dalle loro sedie e battendo le mani, sorridenti e felici. Loro molto probabilmente non arrivavano a capire quale fosse il significato nascosto di tutti i gesti in apparenza “puri” di Daren, ma io sì. E nella mia mente cercavo di capire che diavolo gli frullasse in quel cervello.

Probabilmente non avevo un’espressione molto allegra in quel momento, perché quando Daren mi guardo sorridente e vide il viso contrariato e i miei occhi fissi su di lui - come a volergli cavare chissà quale importante segreto con la forza di uno sguardo - il suo sorrisino si fece meno strafottente e più cauto.

Anche lui mi conosceva bene, perciò sapeva quanto io fossi captatrice delle sue mosse. Qualche volta avevo temuto che temesse della mia capacità d’osservazione, o presumibilmente temeva l’intensità propria.
Sapeva che a me non la davano a bere i suoi giochetti beffardi e finti puritani, perché quando se ne era prestata l’occasione mi aveva visto arrabbiata. Ma non arrabbiata di poco, furiosa.
Non che compisse certe azioni sempre, ma se venivi presa come una facile da prendere sottogamba lui sapeva girarti e voltarti come meglio voleva. Aveva appreso qual’era l’importanza che davo al rispetto, quanto era odiata da me ogni minuziosa forma di ipocrisia, malizia sottointesa delle parole e dei fatti.
D’altra parte non potevo dargli torto se ora se ne stesse tornando sui suoi passi in punta di piede.

«Avanti... Un ballo... Piccolo, piccolo! Promesso!», disse piano dal microfono che aveva in mano.
Ti sei fatto più tranquillo per ora, eh?

Abbassai lo sguardo, detti un piccolo sbuffo e cercai di darmi una calmata.
Dopotutto non dovevo scaldarmi per così poco, dovevo misurare di più il mio autocontrollo generale del fastidio e richiamare alla tranquillità ogni mia molecola del settore nervoso e muscolare.
Dopotutto se non avessi provato avrei deluso i miei bimbi...
Dopotutto, già...

«Lo sai che io canto...», gli risposi piano scoccando un’occhiata diretta a quegl’occhi azzurri e infrangibili.
«Per favoreeee!», pregò lui facendo il bambino, congiungendo le mani vicino al viso. Stetti per replicare, per dire qualsiasi cosa di abbastanza ovvio e comprensibile per scusarmi, ma fui bloccata sul nascere.
«Per favoreeee!», fecero eco tutti gli altri bimbi.

Lo guardai con una certa riluttanza, ma poi alla fine cedetti e, in mezzo agli applausi dei bambini, salii un po’ di malavoglia sul palco, mettendo prima a sedere sulla sedia Emily. Non mi piaceva essere il centro dell’attenzione, come avevo già detto lo spettacolo era dei bimbi, punto, ma se loro me lo stavano implorando non avrei comunque potuto trovare una giustificazione adeguata per rinunciare.
Quando fui in piedi vicino a Daren lui mi spalancò le braccia in segno di un abbraccio, che io accettai mentre un lieve sorriso addolcito si materializzava in viso.
Questo grazie ai bambini, eh.

Mi rivolsi ad egli sottovoce, quasi non facendo percepire il movimento delle labbra.
«Perché mi fai questo?», sussurrai imbronciata.
«Perché voglio rivederti danzare come sapevi fare tu una volta».
Estinsi una sogghigno, prima di separarmi da lui, facendogli capire che non l’avevo bevuta con solo una parola: «Bugiardo...»
La stretta si spense e Daren evitò di osservarmi. Dentro di me, io, invece, sorridevo.
Uno a zero per me.

«Sappiamo tutti come canta bene la nostra Joy, no? Perciò per una volta pensiamo a cambiare!», disse lui esplicito con un sorriso. Subito smisi di essere soddisfatta di me stessa e tentai di tener a freno una risata convulsa e sardonica.

Cazzo. Maledizione a quella sua fottuta boccaccia.
Uno a uno per lui.


«Ma noi vogliamo anche sentirla cantare!», esclamò Emily di punto in bianco.
Che Dio ti abbia in gloria, mio dolcissimo angelo!
«Se avrai voglia canterò Emily, sta tranquilla...», risposi arresa stringendo le labbra, nascondendo l’ira e la rabbia che provavo verso Daren. Dopo gliene avrei fatte patire di tutti i colori...

«Devi sapere una cosa, Joy, prima di ballare...», disse lui improvvisamente impacciato, voltandosi a sinistra nella mia direzione. Io lo guardai un po’ confusa ma con una lampadina di dubbio accesa nel mio cervello. «Tu sei... La più brava insegnante di coreografie che io abbia mai avuto, sai?» «Uhhhhh...!», urlarono i bambini eccitati.
Io arrossii lievemente e il complimento riuscii ad addolcirmi maggiormente.
«Ahah», rise lui voltandosi verso i bambini. «Modestamente le ho insegnato io ogni cosa!...»
Gli scoccai uno sguardo scioccato, nel frattempo che i bimbi se la ridevano.

Osservai prima lui e poi i bimbi, ma i miei occhi furono chiamati dal richiamo visivo di Michael. Serio e attento – quasi avesse capito lui che la questione là non quadrava! – mi fissava in un modo che voleva dirmi: “E ora che gli dirai?”.
Mi sentii come se mi avesse letto la mente per tutto quel tempo, impotente ma comunque non debole di reagire alle malizie nascoste di Daren. Quello era un deliberato attacco al mio orgoglio e alla mia dignità. Un insulso attacco.
E io, permalosa di mio e altrettanto sprezzante che potevo divenire, potevo mai risparmiargli una delle mie frecciatine?
Sorrisi fra me e me.

«E’ divertente, non ho mai incontrato nessuno come te con tal fantasia!», esclamai da finta innocente. «Se avessi imparato ogni mio passo da te, non so questi poveri bambini come avrebbero fatto ai balletti scolastici, vero bambini?»
Loro risero e annuirono, stando al gioco.
Due a uno per me. Prendi questa, Daren!

Rise anch’egli ma con meno entusiasmo, stando sulla finta ironia per non far pesare un clima teso ai nostri spettatori. Almeno così lo avevo colpito e affondato rivoltando la sua stessa frase, e anche se i bambini non avevano appreso appieno il significato nascosto di tutto quel discorso lo avevamo ben inteso io, Daren... E Michael, il quale volto osservai disegnare un sottile riso fra quelle labbra ben distese.

«Woo... Ok, magari sei stata tu ad insegnarmi qualche cosa, ma questo è ancora tutto da vedere, sai?», mi disse Daren gettandomi gli occhi addosso di nuovo. «Balliamo. Provami che non hai dimenticato quello che tu dici di aver imparato...»

Una nuova luce diffondeva i suoi occhi.
Era quella della sfida.
(angel66)
00venerdì 16 luglio 2010 14:56
bellissimi grazie
marty.jackson
00venerdì 16 luglio 2010 15:04
Ambra che bel capitolo!! bravissima! che dolce la piccola Emily! e la scenata di gelosia con James è stata divertentissima!!bravissimissimaaa!! non vedo l'ora di leggere il prossimo!!
bacii [SM=x47938]
BEAT IT 81
00domenica 18 luglio 2010 02:19
Bravissima Ambra!!!!! Emily è troppo dolce e le scaramucce con James sono troppo forti. Quel gioco di sguardi fra Joy e Mike.....mhhhh.....qui Cupido ci cova!!!!!!!! ;-))))))) . Daren onestamente nn mi piace molto, mi sa un po' di stronzetto. Bellissimo capitolo e Joy e Mike sono davvero ugauli, proprio anime gemelle ;-))))). Baci Sara
ludo.94
00mercoledì 28 luglio 2010 22:28
tati continua please!!! bellissimoo e molto molto dolce questo capitolo co0me tutti gli altri del resto!! continuaaaaa
posta presto un bacio,ludo! [SM=g27823]
dirtydiana66
00giovedì 29 luglio 2010 17:48
ti prego continua ,mi piace qsta storia
ludo.94
00lunedì 2 agosto 2010 09:47
ciao tati! ci manchi!! a che punto sei con il capitolo??
BEAT IT 81
00lunedì 2 agosto 2010 22:50
Tati, ma che fine hai fatto? Appena riesci posta. Baci Sara
Thrilleryna 95
00lunedì 9 agosto 2010 14:18
Credo di essere un po' in ritardo... Ma mi sono letta i capitoli tutti d'un fiato! Questa FF è veramente MERAVIGLIOSA! ;) Complimentissimi, veramente! Scrivi stupendamente... E Michael e Joy sono bellissimi (Michael in Bad era *.*) spero possa nascere al più presto una bella storia d'amore fra di loro! :) Un bacio, e spero, inoltre di leggere il seguito al più presto ;);) Ancora complimenti!
marty.jackson
00lunedì 9 agosto 2010 20:51
Ambraa che fine hai fatto???
ludo.94
00mercoledì 8 settembre 2010 18:58
Ambra ci manchi!!! a che punto sei con il cappy??? [SM=g27821] [SM=g27823] [SM=x47938] ti voglio bene!! [SM=x47938]
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