In The Name Of Love (in corso). Rating: verde

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marty.jackson
00mercoledì 9 giugno 2010 15:30
Re:
tati-a4ever, 09/06/2010 15.24:

Fra cinque minuti il capitolo sarà spostato ;D




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tati-a4ever
00mercoledì 9 giugno 2010 15:38
CAPITOLO IV

Ora che mi quasi psicologicamente ripresa del tutto, nonostante l’attimo di panico momentaneo, pensai che potei riuscire di nuovo ad alzarmi e dirigermi verso l’interno della casa. La musica continuava a risuonare - la potevo udire benissimo - e ammisi che fosse quella l’unica ad avermi fatto compagnia e sollevato il morale.

Non sapevo da quanto tempo ero rimasta lì seduta, a cercare di levare qualche mia lacrima salata che scendeva candida sulle mie guance. I dorsi delle mie mani erano umide per tutte le gocce che avevo fatto scomparire, e il trucco forse ne stava risentendo. Ma, diciamocelo, sinceramente dei cosmetici sbavati non mi interessava granché: la cosa più importante era rimanere nelle mie piene facoltà mentali e fisiche, ma soprattutto mentali!

Presi un respiro. Sapevo che dovevo tornare dentro – altrimenti Liz si sarebbe preoccupata probabilmente – e cercai di darmi il coraggio necessario per rialzarmi. Per mia fortuna, il peggio era passato, sapevo che non dovevo temere di nulla fuorché la vacillazione della fermezza in me stessa. Ora che l’inquietudine se ne era lentamente andata, potevo benissimo fronteggiare ognuno.

Nel frattempo che ero là avevo cambiato posizione; mi ritrovavo distesa sulla panchina, e a malincuore però dovetti abbandonare quella comoda posizione. Appoggiai le gambe a terra con fare delicato, ignorando la stoffa che lieve scopriva poco e niente le mie cosce, e tirai di nuovo un sospiro, guardandomi intorno. Mi detti una spinta abbastanza energica per rialzarmi senza perdere equilibrio, e prima di incamminarmi per il vialetto di ciottoli, i miei occhi vennero attratti da una delle finestre illuminate della villa.

Mi pareva di aver visto un’ombra. Non la avevo ben vista e né avevo un loro profilo chiaro in testa, però ero sicura di averla vista. Qualcuno mi aveva osservato. Mi aveva visto lì, da sola, e forse mi aveva visto perfino piangere. Chissà poi da quanto era lì, se la sua era stata una curiosità più o meno indiscreta oppure no.

Ma io fui decisa ad incamminarmi, subito dopo che essa scomparve dalla mia mente. Nonostante tutto, per altri minuti infiniti me ne rimasi come un imbecille ad osservare la grande vetrata. Mi incamminai. A sguardo abbassato e occhi impuntati sul terreno, continuavo a domandarmi chi potesse essere. Detti un’ultima occhiata dietro di me, in direzione della finestra, e andai a sbattere contro un’altra ombra.

«Mi scusi», dissi subito, a voce soffocata, ma i suoni mi si bloccarono in gola quando mi resi conto di chi avevo davanti. To’, Michael Jackson era di fronte a me e io gli ero andata a sbattere da perfetta cretina! Lui accennò ad un sorriso, chiedendo lui scusa poco dopo me, a voce fioca.

Stetti ad ammirare quei suoi occhi scuri in contemplazione, e mi resi conto che i miei facevano fatica solo al pensiero di doverli separare. Mi mancava perfino il respiro, il cuore mi batteva, ma non riuscivo ancora a fissarmi bene in testa che il mio sogno si era avverato; avevo davanti a me un chiaro e netto ricordo felice della mia infanzia, adolescenza, e vita contemporanea. Un momento come quello non potevo di certo dimenticarmelo.

Il suo sorriso pian piano cominciò a svanire, nel frattempo che il suo volto prendeva una piega più pensierosa e rammaricata. I motivi potevano essere solo due: o stava pensando che ero una persona sofferente da gravi problemi psicologici e, perciò, fisici, o se no avevano notato qualcosa nel mio viso da farlo preoccupare. In un primo momento fui più propensa a scegliere la prima opzione, l’unica che mi sembrava veramente ragionevole!

«Tutto bene?», mi chiese pochi istanti dopo l’aver enunciato parola da parte sua, scrutandomi con intensità da brivido. Infatti, io ne rabbrividii. Chi non lo avrebbe fatto al mio posto?

Nello stesso momento in cui fui scossa da fremiti non seppi cosa dire. Continuai a guardarlo, sbattei le palpebre degli occhi più volte e guardai il terreno, confusa. Lui che mi chiedeva se andava tutto bene... Ero indecisa se chiedergli che ci faceva lì, se mi stava prendendo in giro, che cosa voleva da me, come mai era là... Ma alla fine non gli feci nemmeno una di queste domande che mi stavano rendendo i pensieri ottusi.

«Sì... Più o meno...». Il bello era che non sapevo nemmeno io che diavolo stavo dicendo. Parlavo senza pensare concretamente alle mie parole, spostando di continuo i miei occhi dal suo sguardo all’ambiente circostante. Se lo guardavo sarei caduta in preda all’intensità delle sue occhiate, se invece non lo facevo venivo assalita dal dubbio.

«No... Tu hai pianto», disse lui sottovoce, facendo incatenare così i nostri sguardi. Ero sbigottita, lui serio. «Non va bene quando qualcuno piange da solo, durante una festa».

Se non fosse stato lui a dirmi quelle cose, penso che probabilmente lo avrei mandato a quel paese. Anzi, più probabilmente avrei risposto: “E a te si può sapere perché ti dovrebbe interessare?”. Ma, siccome era Michael, non né avevo le possibilità né la volontà.

Mi aveva spiazzato. Nemmeno io sapevo che rispondere. Le mie orbite degl’occhi erano scioccamente spalancate, le mie riflessioni tutte frastornate. E lui che ci faceva lì? Neanche lui se per quello doveva starsene da solo durante un party per la sua amica Liz. In quell’attimo non ebbi però la coerenza di rispondere; voltai il capo in basso alla mia sinistra, emanai un respiro soffocato, e successivamente alzai un sopracciglio con un ché di sarcastico nel volto.

«In effetti, sì, ho pianto», risposi a mezza voce, rapida, per poi tornandolo a guardare dritto negl’occhi. «Può capitare, anche nei momenti più felici... Io ne sono un chiaro tipico esempio».

Che cazzate stavo dicendo? Ad ogni modo, la mia era solo una scusa per sviare il discorso. Anche se avevo pianto, a lui non interessava comunque. A nessuno sarebbe interessato in un tempo quale quello in cui si stava vivendo. Lui sembrò comunque convinto a scrutarmi all’interno, ma il mio chiaro sviare lo sguardo era evidentemente una scusa per non far capire i motivi della mia tristezza. Ora che mi ero abbastanza ristabilita, ricadevo di nuovo nel vuoto?

«Hai bisogno d’aiuto. Non fa bene tenere le cose dentro per molto tempo, ti fa male al cuore», continuò a tono più delicato. Nei suoi c’era una chiara ombra di dolcezza che era in grado di poter sbriciolare anche il cuore più freddo, almeno così io pensai. «...Qualcuno ti ha fatto del male?»

Ok, non era normale. Un check-up in quattro e quattr’otto così rapido non era normale; la capacità nel entrare dritto nei miei pensieri non era normale. Niente in quel che stava succedendo era così naturale e decifrabile. Possibile?
Con una mano adagiato al fianco lo fissai negl’occhi per qualche secondo abbondante. Lui non sembrava voler mollare la presa, stava cercando ad ogni modo scoprire – per qualche ragione a me illogica – il motivo dei miei occhi così lucidi. Agli occhi altrui quel suo comportamento poteva sembrare sfacciato o maleducato – anche io inizialmente la pensai così –, ed invece era un atteggiamento straordinariamente bambinesco ed innocente il suo.

«Sì... Se vuoi metterla così». Non mi stavo riferendo a lui non tono formale, ma piuttosto come se stessi parlando con un mio vecchio amico. Mi inumidii il labbro inferiore con la lingua – questo lo avevo imparato vedendo le sue interviste in Tv, modestamente... Ottima opportunità per sviluppare quel suo insegnamento! – e guardai il basso a braccia incrociate in petto. «Ma non è una cosa appena accaduta...»

A mano a mano che i secondi passavano, era come se gli stessi dando la prova che volevo che lui mi facesse quelle domande. Il mio sguardo e i miei silenzi aspettavano altri suoi interrogativi, ogni cosa che riuscisse a dimostrarmi che a qualcuno – almeno a una persona – la mia mestizia poteva interessare. I dubbi rimanevano se, purtroppo, quella sua curiosità era vera o ipocrita. Tuttavia, di lui avevo sempre avuto un buon istinto di fiducia inconsapevole, anche guardandolo attraverso lo schermo del televisore.

D’improvviso lui mi passò di fianco dirigendosi verso la stessa panchina dove poco prima io mi ero distesa. Lo fissai a bocca semiaperta, e quando lui si sedette, rivolgendomi nuovamente i suoi occhi, non seppi se continuare a sbattere le palpebre come una rincoglionita – termine alquanto giusto in quel momento – oppure se aspettare mi dicesse qualcosa. Infatti, l’ultima opportunità si rivelò efficace.

«Desideri parlarne?», chiese, nonostante la sua sembrasse più una invocazione, invitandomi a sedermi accanto a lui con un cenno della mano sulla panchina, e aprire il mio cuore. In ogni modo non decisi di sedermi, ma rimasi in piedi, fissandolo, per poi emanare un altro respiro e mettermi le mani adagiate ai fianchi, guardando il basso e riflettendo bene sul cosa fare... O da dove incominciare.

«In realtà ero appena riuscita a ottenere il controllo, almeno parziale, della mia inquietudine. Ti farei cruccio dei miei pensieri, per cui penso che, se ti raccontassi il perché delle mie lacrime, alla fine ti farei solo avere pietà di me, o peggio, come tutti, ne rimarresti indifferente...»

Avevo cominciato a parlare a raffica – lo facevo ogni volta che ero nervosa, o almeno la maggior parte delle volte – e sembrava dal tono della mia voce che cercassi di giustificare i suoi prossimi giudizi, nel caso in cui si fosse pentito di avermi ascoltato. Eppure lui mi bloccò in tempo.

«Non avrò compianto», disse lui convinto. «Né rimarrò indifferente».

Lo fissai per un ennesima volta sbalordita, ma seria. Era proprio convinto di quello che voleva sentire? Spalancai le braccia in un gesto di arresa, non voltando il mio sguardo dal suo. Se proprio voleva, lo avrei accontentato...

«Be’, in realtà piangevo perché... Perché tutto è nato da una discussione di poco fa, in salone, riguardo ad un libro; un dannato libro che narra delle vicende di una bambina a cui viene negato l’affetto dei genitori. Ed in più, oltre tutto questo, si è aggiunta una mia canzone alla radio. Sì, una mia canzone! La scrissi per quello che provai nella mia cosiddetta “infanzia”, per quel maledetto periodo doloroso... Sono venuta qua apposta per trovare un po’ di pace!»

Irrequieta, stavo procedendo a piccoli passi avanti e indietro nervosi lungo uno stesso pezzo di stradina di ghiaia, ad occhi mobili su ogni cosa intorno a me che non fosse Michael. Ero agitata, poiché parlare di quello che avevo da sempre rinchiuso nel mio cuore faceva fatica a fuoriuscire facilmente. Ero ormai così brava a nascondere che non mi era semplice parlare. Stavo parlando così veloce che temevo non riuscisse perfino a capire cosa stessi dicendo!

«...Che ti è successo?», chiese apprensivo, a voce fine, da riuscire a tirare fuori le parole di bocca in modo molto semplice e puro. Tutto così strano, eppure così reale da non sembrare solo che un sogno... Era questo il vero Michael?

Soffocai una risata affatto divertita. «Che cosa mi è successo? È accaduto che i miei si sono separati, quando io avevo a malapena nove anni! Ho vissuto nel rancore verso mio padre - un uomo che non è mai veramente importato niente né di me né di mia madre, curandosi esclusivamente del suo lavoro e della sua amante – e il rancore verso mia madre, la quale alludeva il suo dolore in piccole comprese antidepressive che in realtà hanno causato la ragione della sua vera crisi di sanità mentale, portandola in casa di cura ed, infine... Alla morte».

Soffocai le ultime parole oramai sull’orlo di crisi traumatica. Lo guardai negli occhi e lo vidi accennare ad una strana luce nei suoi occhi che, in quel momento, credetti potesse dirmi tutto quello che ero sicura avrebbe provato: repulsione, pietà, compassione. Tutte cose di cui non necessitavo.
Scansai un secondo dopo il suo sguardo, dirigendomi ancora pochi passi lontano da egli, con la schiena voltata per non farmi vedere in viso. Abbassai il capo verso terra, coi capelli che leggeri sfioravano il mio volto, e mi portai una mano davanti alle labbra, con l’istinto di reprimere uno spasmo di pianto imminente. Con tutte le forze in corpo inspirai ed espirai.

«Scusa...», disse lui, e riuscii a sentirlo, ciò nonostante il basso tono della sua voce. “Scusa?” Di che cosa doveva chiedermi scusa? Di una cosa di cui lui non centrava niente e non ne aveva affatto la minima colpa?

Soffocai una risata sardonica e rattristata, scuotendo il capo lentamente. «Non sei tu a dover chiedere scusa... Chi deve chiedere il perdono per quel che ho sofferto sono solo le due persone che io pensavo mi volessero bene...», e così dicendo mi voltai nuovamente verso di lui.

Quasi feci un salto quando me lo ritrovai a pochi centimetri di distanza. Controllai a stento un fremito al cuore e al respiro, vedendo con quanta intensità e dedizione quegl’occhi luminosi mi osservavano e mi parlavano. Rimasi a bocca leggermente aperta, ma staccando il nostro contatto visivo riuscii a riprender controllo di me stessa.

«Non hanno visto che le loro priorità», dissi a basso tono più controllato. «Non si sono curati della propria figlia. Sono dovuta crescere con dei principi morali insegnati dalle brutte esperienze, dai bambini, da chi mi faceva soffrire, da proprio coloro che dovevano curarsi di crescere la propria fonte di vita con amore».
Feci una pausa.
«Ed è per questo che stavo piangendo...»

Lui non disse niente. Entrambi non pronunciammo parola per vari minuti, ma quel lungo silenzio valse più di ogni possibile sillaba che si potesse pronunciare. Io non osavo guardarlo negli occhi - la Joy coraggiosa e determinata in quel momento era in una lunga pausa interminabile – e lui non sembrò voler dire niente fin quando, solo dopo un lungo silenzio, non lo sentii pronunciare:

«Ti ammiro», disse con voce tremante. Lo scrutai, chiedendomi se fosse impazzito o meno. Lui ricambiò con sguardo altrettanto intenso quanto devastato. «Riesci a parlare del tuo passato con dolore, anche commuovendoti, e credimi quando ti dico che vorrei essere come te...»
«Non vorresti essere come me...», dissi lentamente, con un accenno di sorriso beffardo, scuotendo a malapena il capo e con un sopracciglio alzato. «Credimi, non ne varrebbe la pena».
«E invece sì», esclamò lui sempre più convinto. Evvai coi brividi... «Io non riuscirei mai ad essere come te, a parlare di queste cose senza cadere nello completo sconforto e vuoto che ho provato».
«Parli come se sapessi cosa volesse dire la mancanza d’affetto...», dissi con nota d’interesse e sconforto.
«So come ci si sente», confermò infine. I miei occhi non riuscivano a staccarsi dai suoi. «L’amore è la cosa di cui più necessito ancora, dopo tutto questo tempo... E penso che la cosa valga anche per te...»
Annuii soltanto, con una fitta al cuore. La sua voce era così debole...

Più facevo mente locale su quello che mi aveva detto, più la curiosità aumentava. Che cosa aveva passato per sentirsi così male? Non sarebbe riuscito a dirlo, se mi aveva detto appunto che mi ammirava per quella mia spontaneità di dire anche le cose che più mi facevano male. E io, anche se ero davvero curiosa, non volevo rubargli la sua privacy.

«Grazie», dissi debolmente, troppo imbarazzata per guardarlo negl’occhi. Le mie guance erano più calde, più scarlatte, e non era proprio il caso di ritornare alla faccia da ebete con cui mi ero presentata inizialmente. «...Per avermi aiutato ed ascoltato, quando nessuno lo avrebbe fatto...»
«Non mi devi dire grazie, assolutamente», disse lui intenerito, sorridente. «Anzi, ti sarò sembrato piuttosto scortese, devo ammetterlo... Però mi colpisce tanto vedere qualcuno piangere, tanto da voler sempre aiutare. Sono contento se sono riuscito nel mio intento, e soprattutto che ti senta molto meglio adesso...»

Basita e troppo rapita dalle sue parole, non riuscivo a concentrarmi su altro. Le sue parole, soavi e musicali, mi ovattavano ogni pensiero che mi vagasse per il cervello, la vista annebbiata, e la voce mancava. Mi erano perfino venuti i brividi sulle braccia, sulle gambe, sul capo... Era musica dolcissima per le mie orecchie e quell’attimo desiderai durasse ancora e ancora.

D’improvviso un flash di logica – e dopo quattro conti ben fatti in testa – arrivai forse a capire come mai si trovasse là. Ma questo successe solo dopo un altro infinito istante di silenzio e, stavolta, di sguardi fissi sul terreno.

«Sei qui... Perché ti ci ha mandato Liz?», chiesi osservando ogni sua reazione. Dall’accennato sorriso imbarazzato e rammaricato potei capire da me che la risposta era un sì.
«Non dirò a nessuno quello che mi hai detto. Nemmeno a lei...»
«Non fa niente, puoi star tranquillo...», feci per rassicurarlo.
«No.», esclamò deciso, facendomi spalancare lievemente le palpebre. Continuò dolcemente. «Te lo prometto».

La sincerità che traspariva dai suoi occhi mi metteva completamente in subbuglio. Ero abituata a capire chi mentiva e chi no, e lui era la chiara prova fondamentale che mi diceva che lui era schietto. Non ne avevo dubbi – in tutta la mia vita non ne avevo mai dubitato – ed ora però ne avevo la dimostrazione. In contemporanea, non riuscii a trattenermi da chiedergli il perché.

«Perché non dovresti?», chiesi aggrottando la fronte. «Potresti fare tutte quelle cose che fanno tutte le persone sleali, ossia rivelare a tutti la verità e darmi un punto su cui i paparazzi potrebbero benissimo prendermi di mira».
Lui sorrise compassionevole e bellissimo. «Appunto perché non sono sleale che non farò niente per farti star male. I tabloid non sono miei amici... Nemmeno chi usa le persone alle sue spalle per accumularsi solo la fama delle cose vere o non vere che sono state dette».

Chissà perché, ma di questo ultimo punto ne ero sicura. Era questo che mi piaceva così tanto di lui: quello spiccato senso di lealtà che mi pareva emanasse in ogni sua forma. Non sembrava un bugiardo, ma semplicemente una persona trasparente che, se ferita, sanguinava come tutti gli altri essere viventi, se non molto di più di quello che si desse a vedere. E proprio la sua fiducia volevo così tanto ottenere; quel mio desiderio nasceva dal profondo, irragionevole.

Gli sorrisi e in contemporanea anche lui ricambiò. Era così affascinante quando sorrideva... Non potevo non rimanere paralizzata dallo charme che espandeva ed emanava da quei gesti così soffici e tutto il resto.
Lui strinse le labbra, congiungendo le mani in una ferrea stretta, spostando il suo sguardo da terra a me. Le sue guance erano a malapena arrossate, le mie stranamente no. Ero così serena che non riuscivo ad essere nervosa. I miei problemi erano così svaniti... Puff! Scomparsi!
Mi aveva aiutato.

Schiamazzi e urla cominciarono a risuonare dall’esterno del giardino, quello che dava di fronte alla veranda, ed era un chiaro segno che la mezzanotte stava per scoccare. Si potevano sentire un continuo vociare echeggiante, nonostante la poca distanza fra dove ci trovavamo noi e il grande parco. Sia io che Michael, in contemporanea, ci guardammo.

«Se Liz non ci vedrà arrivare manderà qualcuno a riprenderci...», dissi io sorridendo, sottolineando il fatto che dovevamo tornare alla festa. Non che lo volessi veramente, ma che ragioni aveva per restare ancora con me?
«Verrebbe a lei a prenderci di persona...». All’inizio pensai stette scherzando, perciò risi, ma lui mi guardò con sorriso beffardo. «Ma siccome penso stia per scoccare la mezzanotte non potrebbe comunque perché, credimi, lo potrebbe fare sul serio».

Il mio sorriso si congelò di stupefazione e stupore in viso e allora, con fare bizzarro, il mio volto assunse un espressione di divertita preoccupazione. «Ok, andiamo!», e così dicendo m’incamminai veloce verso la stradina di ciottolino bianchi.

Lo sentii ridere dietro di me, a voce sottile e cristallina, e mi voltai per ricambiare il sorriso con la stessa espressione che tengono i bambini quando compiono qualcosa di birichino e allo stesso tempo furbesco.
Michael mi si fece vicino con abile scatto, osservandomi con riso dolce e divertito. Per un momento, mi sentii perfino in soggezione. Sentivo sulla mia pelle, intanto che m’apprestavo a mirare la strada di fronte a me, i suoi occhi curiosi; non avevo il coraggio di voltarmi verso egli, per paura di rimanere incatenata alle sue occhiate profonde e non risalire mai più alla realtà.

Arrivai alla meta più serena e tranquilla, a dispetto del senso di agitazione, e fu il tempo che la mezzanotte scoccasse; fu straordinario come si svolse l’evento. Tutti riuniti in giardino - in un gazebo di legno c’era una grande torta da spartire fra le migliaia di persone - in attesa dell’arrivo del 27 febbraio. Venne invitata a fare un discorso, in piedi ad una piattaforma rialzata in mezzo al prato, evidentemente sistemata per l’occasione. Ringraziò, fece sorridere, addirittura commosse, me compresa.

Feci per voltarmi per osservare l’espressione di Michael, ma lui non c’era. Mi guardai intorno, mi alzai perfino sulle punte, ma non riuscii a riconoscerlo; con tutte le persone, infatti, era abbastanza impossibile! Mi dissi che probabilmente aveva raggiunto l’amica, ed essendo amici intimi sarebbe stato uno dei primi a fargli gli auguri. Anche se capivo la situazione, un senso di dispiacere e amarezza mi avvolse di poco. Con tutto il mio cuore avevo sperato di spendere un po’ di tempo nella mia vita con Michael Jackson, e l’occasione era svanita come era comparsa.

Ma io non mi facevo abbattere per così poco; l’importante era che lo avevo conosciuto, che mi aveva dimostrato la sua sincerità, che mi avrebbe dato prova – con la sua promessa di non dire niente a nessuno sul perché del mio pianto – della sua lealtà. Avevo visto almeno per una volta il suo meraviglioso sorriso dal vivo, i suoi occhi, e credetemi quando dico che facevo fatica a trattenere l’istinto di abbracciarlo e mettermi a piangere commossa dalla situazione.
Anche se ero famosa, ero stata ed ero una fan anche io, perciò mi atteggiavo come loro quando se ne presentava l’occasione.

Venni a confondermi con la folla, man mano che l’ansia della mezzanotte si faceva più palpabile, e il countdown iniziò. Sembrava di essere ad una festa di capodanno, ed era come se lo fosse! La mezzanotte scoccò e diversi fischi allegri ed esclamazioni d’auguri riempirono l’aria circostante! Liz fissava la situazione con sorriso e labbra socchiuse, ammirando i fuochi d’artificio che d’improvviso vennero a farsi spazio nel cielo oscuro della notte. Il mio volto dava prova di quanto quel momento ebbe scaturito in me un’immensa gioia e stupore.

D’improvviso, quasi fossi stata richiamata da una voce in lontananza, mi voltai indietro, lasciando trascinare i miei occhi verso una figura in lontananza ed emancipata da quell’ammasso confuso e disordinato di gente. Oltre quel caos, vedendolo, il mio sorriso scomparve e lasciò posto ad un’espressione delicatamente sorpresa e stranita. Lo vidi. Era Michael.

Era uscito dalla folla, spingendosi verso il gazebo, appoggiandosi con la schiena ad una delle quattro colonne in legno che lo sorreggevano. Lo vidi emanare un sospiro, il sorriso lieve in contrasto con i suoi occhi che si alzavano e si abbassavano da terra. Non ebbi dubbi che avesse già fatto gli auguri a Liz, ma perché starsene così lontano da lei e da tutte quelle persone?

Forse per lo stesso motivo che stavi pensando tu un momento fa, Joyce?

Ritornai a guardare di fronte a me, con occhi riversi sulla terra e il verde dell’erba. Ero pervasa da uno stato di rammarico sorpreso, nonostante la felicità, e guardandomi intorno riconobbi una cosa importante che non potevo negare: non vedevo altro di essere una straniera. Una persona che non aveva niente a che fare con il mondo in cui viveva prima, né in quello in cui stava vivendo.

O forse, era meglio dire che con le persone non avevo dei rapporti. Non rapporti che volevo io, ecco.

Perché dovevo essere triste? Perché dovevo essere abbattuta? Infatti non lo ero. Ero ormai rassegnata da così tanto tempo nel considerarmi una estranea che quel fatto ormai non mi faceva sanguinare il cuore più. Sapevo che ero forse l’unica che pensava le cose che mi vagavano vorticosamente nella mente, perciò, inconsciamente, i miei piedi cominciarono ad indietreggiare.

Il mio sorriso era serrato dalle mie labbra rosee, i miei occhi attenti sugli ultimi fuochi d’artificio, le mie orecchie immerse nel suono caotico di quello che mi stava attorno. Ad un certo punto andai a sbattere – ovviamente... – contro una cameriera, la quale gentile mi porse dal suo vassoio un bicchiere di champagne. Lo presi accennando un grazie col capo, poiché la mia voce non si poteva sentire comunque. Decisa a non fare altre figure del cavolo, voltai le spalle verso i fuochi d’artificio e mi diressi verso una via d’uscita da quell’ammasso. Via dal rumore. Via da lì.

Mentre le persone si dirigono verso una stessa direzione, io sono l’unica fonte ad andare controcorrente.

***

«Bene, si può dire che ora siano pronti...». Io e Ryan ci guardammo negl’occhi, con un silenzio divertito che parlava più d’ogni altra parola. «A quanto pare dovremo dirci addio. Chi avrà l’onore di assaggiare per primo?»

Erano passati quasi tre giorni dalla festa di compleanno di Liz Taylor; ero riuscita a farle gli auguri, rassicurandola del buono stato della mia salute, e poi me ne ero andata a casa di filata. Liz mi aveva ordinato di tenermi il vestito, non voleva assolutamente che io glielo restituissi, e ringraziai con il dovuto rispetto e onore. Un regalo così lo avrei trattato benissimo, soprattutto perché in quel regalo c’era un gran gesto di gentilezza. Non ero molto attaccata gli oggetti, ma piuttosto ai loro significati.

Non avevo avuto il coraggio di presentarmi accanto a Michael, quando lo avevo visto solo, - forse per troppa paura o timidezza -, né lo avevo visto per potergli dare un ultimo saluto prima di andare a casa. Per quella cosa fui veramente rammaricata, poiché ci tenevo davvero con tutto il cuore. Dovevo ringraziarlo per essermi stato d’aiuto, cosa che avevo già fatto ma che mi sembrava giusto rammentare.

Ma non lo avevo visto in giro. Avevo perso ogni sua traccia, e non ebbi il coraggio di chiedere a Liz di salutarmelo. In compenso, compresi dalle allusioni nei suoi occhi che cercava di capire se veramente i miei occhi erano alla ricerca di lui. Michael non lo vidi più da quel giorno, persi ogni contatto che mi legava a lui se non il ricordo di averlo incontrato, almeno una volta nella mia vita, di persona.

Erano passati tre giorni ed ora ero a casa di Ryan. Lo conobbi pochi mesi prima di quel freddino giorno febbrile, grazie ad un giornale. Lessi della sua storia, della storia di Ryan White. Egli soffriva di AIDS, purtroppo fin da piccolo venne infettato da questa malattia, divenne simbolo della lotta contro l’HIV. Così lo avevo scoperto. Per una volta, i giornali avevano fatto qualcosa di buono, raccontando pubblicamente la sua storia.

Ryan era stato un bambino a volte isolato dai suoi compagni; durante quegl’anni addietro l’AIDS non era affatto conosciuta, perciò veniva passata spesso come omosessualità, cosa assolutamente riprovevole e indignitosa secondo i miei ideali. Gli erano stati dati pochi mesi di vita, e ancora era tuttavia vivo. Sapevo che prima o poi se ne sarebbe dovuto andare, ma il mio cuore non lo voleva ammettere.
Pregavo perché questo giorno non arrivasse mai.

Volutamente avevo chiesto di conoscerlo, e così era successo. Chiesi a Len, il mio manager, di chiamare la madre o chiunque fosse disponibile per avere un appuntamento col ragazzo. Dopo insistenze e tentativi, il mio desiderio personale sembrò avverarsi. Ero così felice per quella cosa che mi sembrò toccare il cielo con un dito.

Incontrai sua madre, molto prima di incontrare Ryan, la quale si rivelò ai miei occhi davvero una brava e buona persona. Inizialmente era un po’ sulle difensive, ma entrando in sintonia scoprii di potersi fidare. Mi raccontò del dolore che aveva provato Ryan, dei suoi problemi giornalieri, della difficoltà di una madre nel voler aiutare una situazione che, purtroppo, sarebbe stata difficile da cambiare.

Mi ricordo che piansi quando finì di raccontarmi tutto, non ero riuscita a trattenermi di fronte a lei, e la donna si mostrò a me per quello che era: una donna sanguinante per la continua preoccupazione per il figlio, in preda al dolore non appena si sforzava di capire che un giorno il suo bambino se ne sarebbe andato per sempre, ma che lottava assieme ad egli e combatteva. La stimavo perché era una madre fiera del proprio figlio così com’era.

In quasi meno di un mese cominciai ad essere considerata da lui sua amica – gesto molto importante per me – e incominciammo a incontrarci spesso, di solito regolarmente quattro volte al mese, non contando tutte le telefonate. Ci tenevo alla sua amicizia, come nessun altro; conobbi molti artisti che lo supportavano, fra cui il grande Elton John, ma non per questo approfittai della situazione.

Pochi mesi dopo la nostra prima conoscenza, diventammo migliori amici. A lui gli dicevo tutto, ogni cosa, e lui faceva lo stesso con me; in lui avevo trovato un vero amico. Diventammo molto più amici quando raccontammo ad ognuno il nostro proprio passato, un giorno a casa mia, dopo aver visto un cartone della Disney che ci piaceva particolarmente. Quel giorno fu indescrivibile ed indimenticabile, entrambi avevamo capito il dolore altrui, con commozione e sincerità, e di sicuro rimase per sempre nella mia mente come uno dei giorni più belli della mia vita.
L’unico motivo per cui stavo in compagnia di Ryan era la sua amicizia fondamentale per me ed essergli in contemporanea da supporto, come lui lo sarebbe stato per me.

All’età di sedici anni avevo deciso di compiere volontariato per i bambini malati, e ancora a quel tempo, nonostante la fama, quando mi si poneva una situazione favorevole, mi recavo in ospedali e facevo loro compagnia; donavo loro fondi, li supportavo moralmente, cercavo di aiutarli nel trovare le cure giuste. Era straziante da una parte, ma da un’altra mi faceva sentire bene. Era quello che desideravo fare: donare a chi non aveva ricevuto tanto dalla vita, il più grande dono che potessi donare: l’amore.

Ed eccoci là, nella cucina di casa sua, nel frattempo che sua madre sbrigava serenamente qualche piccolo lavoretto di casa, come due amici di vecchia data, con un piatto in biscotti appena pronti e fumanti. Ci avevamo messo tutto il pomeriggio per farli – glielo avevo promesso – e ora era il momento di assaggiarli. Ironicamente, valutai la situazione come la ragione della nostra morte.

Penso che forse lui non mi avrebbe preso così in simpatia, se non per la mia spigliatezza e per quella cosa che lui definiva “simpatia”. Lo facevo spesso e volentieri ridere, cercavo ogni mezzo per farlo divertire e stare a suo agio, e mi rendeva orgogliosa il fatto di renderlo felice. Mi sentivo realizzata, in pace con me stessa, e soprattutto piena di quella “luce” che si possiede dentro quando si fa qualcosa per gli altri e ci si sente appagati.

«Pensi davvero che moriremo?», mi disse lui fissando sarcastico i biscotti sul vassoio. Quando alzò lo sguardo per guardare la mia espressione, notò che ero piuttosto scettica, anche se un lieve sorriso ironico sbucava dalle mie labbra imbronciate. Aggrottai maggiormente le sopracciglia.

«Oh be’, tanto vale provare», esclamai alzando le spalle, e lo osservai con sorriso sardonico. «Tanto male non sarà. Penso sarà un trauma passabile...»
«Ok, allora prima tu», disse lui con espressione finta tonta. Rise come un pazzo alla vista delle mie labbra spalancate e ai miei occhi spalancati. Mi misi le mani sui fianchi, ignorando il campanello che suonava alla porta, e lo stetti ad osservare mutando il mio sguardo sorpreso in furbesco e finto offeso.

«Oh. Oh. E così tu mi vuoi morta... Bene, bene... Questa me la segno... Anzi no, me l’appendo all’orecchio al posto dell’orecchino che ho indosso... Questa proprio non me la sarei mai aspettata, ma, siccome sono misericordiosa quanto Cristo – che razza di cavolate che dico – assaggerò prima io».

Con gesto teatrale feci per prendere un biscotto – ignorando le sue risate divertite su di me – ma poi mi ritrassi. Guardai in alto e feci il segno della croce come ironia della sorte che stavo per subire, e mi comportai scherzosamente come un’eterna indecisa. Sembrava di no, ma lo facevo apposta per farlo divertire un po’. Vederlo ridere così tanto da farlo arrivare alle lacrime mi faceva star davvero bene. Qualche volta in effetti sua mamma ci aveva raccomandato di non rischiare l’infarto a suon di risate...

«Ok, sono pronta. Sì... Be’... Forse sì... Vado? Vado!», e così dicendo presi un biscotto e, nel momento che stetti per portarmelo in bocca, di fronte a me vidi lui. Per un momento, mi chiesi se stessi vedendo sbagliato io e se non fossi davvero da ricovero.

Di fronte a me e Ryan, a qualche metro di distanza, c’era Michael Jackson. Bello, anzi stupendo, in ogni sua forma, aveva la stessa espressione che padroneggiava il mio volto. Entrambi ci fissavamo con stupore e curiosità, un interesse sbigottito dalla sorpresa di quell’incontro casuale e straordinario. Ryan, in confronto a noi, sembrava davvero più sereno. Le mie guance, invece, stavano cominciando a bollire dall’imbarazzo, ma il mio sorriso spicco sulle guance.

«Michael! Non sapevo venissi!», disse Ryan correndogli incontro, lanciandomi un’occhiata standomi a dire “Vieni che te lo presento”. Certo, come se non lo avessi già incontrato... E chi sapeva che Michael fosse un suo amico?

«Mi dispiace disturbarvi, pensavo di venire a farti una sorpresa...», disse lui mite e arrossato. Evidente era il fatto che stesse alludendo alla mia presenza. Non potei che non avvicinarmi per mio malgrado a quest’ultimo e Ryan.

«In effetti io e Joyce abbiamo appena finito di cucinare... Oh, scusa. Lei è Joyce, di sicuro sai già chi è... La ragazza di cui ti ho parlato... E’ la prima volta che vi vedete?», chiese lui osservandoci. Aveva già parlato di me a lui? Perfetto.

Nel frattempo che i miei occhi s’incatenarono a quelli di Michael, con la mia mente risposi alla domanda di Ryan...
No, quella non era la prima volta e nemmeno l’ultima.
BEAT IT 81
00mercoledì 9 giugno 2010 16:32
Bellissimo!!!!!!! Lo sapevo io che Michael l'avrebbe raggiunta in giardino, me lo sentivo!!!!!!! L'intesa fra Joy e Michael è fortissima, si può quasi toccare, sono 2 anime affini, di questo ne sono certa è bellissima anche la parte finale. Ambra sei davvero bravissima!!!! Nn vedo già l'ora di leggere il seguito ;-)))) . Baci Sara
marty.jackson
00mercoledì 9 giugno 2010 16:37
che bello questo capitolo! sei bravissima!! non vedo l'ora di leggere il seguito!!! [SM=x47938]
tati-a4ever
00mercoledì 9 giugno 2010 17:44
Re:
BEAT IT 81, 09/06/2010 16.32:

Bellissimo!!!!!!! Lo sapevo io che Michael l'avrebbe raggiunta in giardino, me lo sentivo!!!!!!! L'intesa fra Joy e Michael è fortissima, si può quasi toccare, sono 2 anime affini, di questo ne sono certa è bellissima anche la parte finale. Ambra sei davvero bravissima!!!! Nn vedo già l'ora di leggere il seguito ;-)))) . Baci Sara




Hai indovinato anche stavolta... Non mi va bene! [SM=x47982] Se continui così sposto il prossimo fra una settimana! [SM=x47979]
Interessante sapere come definisci l'intensità emotiva di Michael e Joyce; è stato commovente e allo stesso tempo veritiero, una lettura oltre le righe davvero affascinante! [SM=g27811]
Grazie mille di tutti i complimenti che mi fai, Sara, te ne sono riconoscente! [SM=x47938]

marty.jackson, 09/06/2010 16.37:

che bello questo capitolo! sei bravissima!! non vedo l'ora di leggere il seguito!!! [SM=x47938]



Grazie di cuore, Marty [SM=g27838] Un po' di pazienza e fra qualche tempo arriverà anche quello! [SM=g27824]
BEAT IT 81
00mercoledì 9 giugno 2010 17:55
Re: Re:
tati-a4ever, 09/06/2010 17.44:




Hai indovinato anche stavolta... Non mi va bene! [SM=x47982] Se continui così sposto il prossimo fra una settimana! [SM=x47979]
Interessante sapere come definisci l'intensità emotiva di Michael e Joyce; è stato commovente e allo stesso tempo veritiero, una lettura oltre le righe davvero affascinante! [SM=g27811]
Grazie mille di tutti i complimenti che mi fai, Sara, te ne sono riconoscente! [SM=x47938]




No, che fra una settimana, giuro che nn deduco più nulla [SM=g27828] [SM=g27822] [SM=g27828] , ma tu posta il prima possibile, ok? Beh, mi fa piacere che ti sia piaciuta la definizione che ho dato dell'intensità emotiva che c'è fra Mike e Joy, xò ti assicuro che è quello che sento veramente e lo ripeto, sono 2 anime affini in cerca della loro metà che li possa capire profondamente e amara oltre ogni confine. Bravissima davvero Ambra. Baci
tati-a4ever
00mercoledì 9 giugno 2010 18:39
Re: Re: Re:
BEAT IT 81, 09/06/2010 17.55:


No, che fra una settimana, giuro che nn deduco più nulla [SM=g27828] [SM=g27822] [SM=g27828] , ma tu posta il prima possibile, ok? Beh, mi fa piacere che ti sia piaciuta la definizione che ho dato dell'intensità emotiva che c'è fra Mike e Joy, xò ti assicuro che è quello che sento veramente e lo ripeto, sono 2 anime affini in cerca della loro metà che li possa capire profondamente e amara oltre ogni confine. Bravissima davvero Ambra. Baci



Eheh... Paura che non sposto per una settimana intera eh? [SM=x47979] Ovviamente non per ora, quindi scherzi a parte: deduci, deduci, che a me fa piacere sapere! [SM=g27828] La definizione mi è piaciuta eccome! Spero continuerai a farmi sapere le tue idee anche con i prossimi capitoli! [SM=g27819] Grazie ancora, di tutto! Bacioni! [SM=g27838]
dirtydiana66
00mercoledì 9 giugno 2010 20:33
e vaiiiiiiii che sei brava...nn fermarti proprio adesso..[SM=x47982]
tati-a4ever
00mercoledì 9 giugno 2010 21:33
Re:
dirtydiana66, 09/06/2010 20.33:

e vaiiiiiiii che sei brava...nn fermarti proprio adesso..[SM=x47982]




Un paio di idee ce le ho già... Tranquilla che per ora di sicuro non mi fermo [SM=g27828]
BEAT IT 81
00mercoledì 9 giugno 2010 23:24
Re: Re: Re: Re:
tati-a4ever, 09/06/2010 18.39:



Eheh... Paura che non sposto per una settimana intera eh? [SM=x47979] Ovviamente non per ora, quindi scherzi a parte: deduci, deduci, che a me fa piacere sapere! [SM=g27828] La definizione mi è piaciuta eccome! Spero continuerai a farmi sapere le tue idee anche con i prossimi capitoli! [SM=g27819] Grazie ancora, di tutto! Bacioni! [SM=g27838]




Paura sì, [SM=g27828] [SM=g27828], xò posta appena puoi, ok? Tranquilla che continuerò a farti sapere le mie idee, nn ti liberi di me [SM=g27828] [SM=g27828] [SM=g27828] [SM=g27828]......Cmq, chissà xè qlc mi dice che fra Mike e Joy è in arrivo un grandissimo Amore, del resto sono uno l'esatta metà dell'altro, x cui.... [SM=g27822] [SM=g27822] Baci
tati-a4ever
00giovedì 10 giugno 2010 20:05
Re: Re: Re: Re: Re:
BEAT IT 81, 09/06/2010 23.24:


Paura sì, [SM=g27828] [SM=g27828], xò posta appena puoi, ok? Tranquilla che continuerò a farti sapere le mie idee, nn ti liberi di me [SM=g27828] [SM=g27828] [SM=g27828] [SM=g27828]......Cmq, chissà xè qlc mi dice che fra Mike e Joy è in arrivo un grandissimo Amore, del resto sono uno l'esatta metà dell'altro, x cui.... [SM=g27822] [SM=g27822] Baci



Cercherò di spostare non appena posso, ma quando la vostra ansia sarà alle stelle per il prossimo capitolo! [SM=x47979] ... Sono proprio cattiva eh? [SM=g27828] Non ho intenzione di liberarmi di te, perciò prendi quello che ti dico come una mia chiara e concisa richiesta di volerti sempre come mia lettrice, ok? [SM=x47982] Fra Michael e Joyce... Mmh... Per ora sto in silenzio, anche perchè non è che abbia ancora le idee chiare sulla questione! Dico solo che cercherò di essere più imprevedibile ed innovativa che mai! [SM=g27829] Bacioni!
marty.jackson
00sabato 12 giugno 2010 16:44
Re: Re: Re: Re: Re: Re:
tati-a4ever, 10/06/2010 20.05:



Cercherò di spostare non appena posso, ma quando la vostra ansia sarà alle stelle per il prossimo capitolo! [SM=x47979] ... Sono proprio cattiva eh? [SM=g27828] Non ho intenzione di liberarmi di te, perciò prendi quello che ti dico come una mia chiara e concisa richiesta di volerti sempre come mia lettrice, ok? [SM=x47982] Fra Michael e Joyce... Mmh... Per ora sto in silenzio, anche perchè non è che abbia ancora le idee chiare sulla questione! Dico solo che cercherò di essere più imprevedibile ed innovativa che mai! [SM=g27829] Bacioni!




ma perchè voi scrittrici siete così perfide nei nosrti confronti?? [SM=x47926]
tati-a4ever
00domenica 13 giugno 2010 01:01
Re: Re: Re: Re: Re: Re: Re:
marty.jackson, 12/06/2010 16.44:


ma perchè voi scrittrici siete così perfide nei nosrti confronti?? [SM=x47926]



penso che sia per il fatto di farsi desiderare, sai? [SM=g27828]
ad ogni modo, siccome sono un diavoletto un po' più buono degli altri giorni, oggi, sposterò domani! [SM=g27835]
dirtydiana66
00domenica 13 giugno 2010 23:32
ma voi scrittrici siete un po' tremendine per tenerci così sulle spine ......... cmq appena puoi posta
Grazie
tati-a4ever
00lunedì 14 giugno 2010 09:13
In effetti ammetto di essere un po' crudele XD Chiedo scusa comunque, perchè ieri tutto il giorno sono stata in giro e non ho potuto utilizzare il computer... Sposto fra poco :)
tati-a4ever
00lunedì 14 giugno 2010 09:17
CAPITOLO V

«In effetti, noi abbiamo già fatto conoscenza presso la festa di compleanno di Liz Taylor», soggiunsi dopo un breve attimo di silenzio, lasciando trasparire dalle mie labbra un percettibile sorriso divertito e impacciato.
Un altro attimo di silenzio palpabile, i due mi fissavano.
«Più o meno, insomma...», intervenni infine, come a concludere una questione da lasciar perdere.

Avere di fronte per una seconda volta Michael Jackson era dopotutto un’emozione. Mi era impossibile credere che non stavo immaginando e che il destino mi aveva dato un’ulteriore opportunità per incontrarlo. Tutto potevo immaginare fuorché quello che stava succedendo. Che fosse il fato o un’assurda casualità della situazione io non potevo saperlo. E nemmeno lui. Credo.

Eravamo distanti di quasi due metri e Ryan divideva lo spazio fra noi rivolgendoci sguardi curiosi e sinceramente stupiti. Chissà cosa stava pensando. Sembrava sinceramente sorpreso per quel fatto. Io avevo gli occhi fissi su Michael, in volto il mio lieve sorriso soffocava il batticuore frenetico del momento. A discapito di questo fatto, però, non ero né agitata né nervosa.

Anch’egli mi osservava. Il suo sguardo era enigmatico, un misto fra curiosità, interdizione e timidezza. Batteva le punte dei piedi lentamente sul pavimento, senza staccare le piante dei piedi dal pavimento, le mani tenute dietro la schiena con una presa d’acciaio. Sembrava essere tranquillo, ma una luce nei suoi occhi mi parlava e diceva che era stato colto alla sprovvista dalla mia presenza.

«Oh beh, allora niente presentazioni!», esclamò d’impeto Ryan, il quale mi si rivolse in seguito. «Michael può restare con noi, vero?». La sua occhiata era speranzosa e tenera, non potevo non dire no...

«Non importa, davvero», s’intromise l’altro prima che potessi parlare io. Lo studiai con le labbra semiaperte, segno che mi aveva beccato in contropiedi prima che io potessi spiccicare parola di risposta. «Posso tornare un altro giorno. Anzi, la colpa è mia per non aver avvisato...»

Le sue gote cominciarono ad arrossire sotto i miei occhi verdi puntati su di lui, tant’è che abbassò segretamente i suoi e li ripose verso Ryan. D’istinto, arrossii anch’io, ma non staccai lo sguardo da egli. Sentii un formicolio leggero alla testa.

«Ryan, è ovvio che per me può restare!», dissi rivolgendomi a quest’ultimo, anche se tuttavia sembrava stessi parlando con Michael. Entrambi mi fissarono – uno felice, l’altro silenziosamente stupito – e io sorrisi sincera. «Come potrebbe essere altrimenti?»

Anche i due dinanzi a me sorrisero, Ryan allegramente, Michael grato del mio gesto. A quest’ultimo lanciai uno sguardo duttile, sereno. Dopotutto non sarebbe stato male passare un po’ di tempo anche con lui; era un ottimo modo per conoscerlo e si sapeva: io ero molto curiosa della psicologia umana, anche se talvolta per nulla soddisfacente!

«Abbiamo appena finito di cucinare dei biscotti, sai?», disse Ryan a Michael ad occhi sfavillanti di gioia. L’altro gli si rivolse alzando le sopracciglia dalla curiosità. Ryan mi rivolse un’occhiata furbesca. «Joy ne stava proprio per assaggiare uno...»

«In realtà, ha tutte le intenzioni di farmi venire un’intossicazione alimentare», mi sentii di dire, alzando un indice della mano in alto. I due sogghignarono a bassa voce, uno più tenero dell’altro, e ci dirigemmo piano verso la mensola della cucina. Quasi non mi pareva vero di vivere quella situazione!

«Ecco la famigerata teglia di biscotti!», esclamò Ryan, appoggiandosi con le mani sul bordo della mensola. Michael continuò a sorridere, allargando maggiormente il suo sorriso. «Che te ne pare? Ti sembrano mangiabili?»
L’altro rise. «Secondo me sì... Qual è il parere della degustatrice?», rispose lanciandomi un’occhiata ironica e furbesca, in attesa di una mia interessante risposta.

Ma si divertivano così tanto a provocarmi o, più che altro, alle mie smorfie “simpatiche”?

Io restituii lo sguardo con un sopracciglio alzato e con un ché da finto tonto. «Oh be’, fin quando qua non assaggio io, nessuno rischia!», risposi alzando lievemente le spalle. Notai il sorriso di Michael farsi sempre più grande.
«Dai, assaggia Joyce!», mi propose Ryan rivolgendosi con la stessa furbizia dell’amico poco distante da lui. «Voglio il verdetto... Oh, a proposito, quali sono le tue ultime parole in caso non ce la facessi a vivere?»

«Certo che non vedete l’ora di sbarazzarvi di me!», esclamai compiendo un gesto secco col capo come a dire “Tanto cosa vuoi che sia, no?!”, a mani congiunte sui fianchi e testa leggermente inclinata a sinistra. Poi stetti al gioco come una bambina di cinque anni o meno...
«Mm... Vediamo... Aspetta, hai carta e penna? Così te lo segni, dato che farà direttamente da mio testamento!»

Ryan prese un foglio e una matita poco lontano dallo scaffale vicino e si mise in posa di scrittura, dicendomi: “Parti!”. Intanto, l’altro se ne stava divertito con una mano sulle labbra, godendosi la scena, interessato e divertito come non mai. Gli piaceva godersi lo spettacolo, e io glielo avrei dato!

«Allora... “Io sottoscritta Joyce Lorelay Owen, 29 anni, nata il 24 aprile 1959, lascio le mie adorate cassette Disney – patrimonio di cui vado molto fiera! – a tutti i bambini bisognosi di cartoni animati del mondo...»

Passammo una decina di minuti abbondanti nel scrivere il mio cosiddetto “testamento”, all’insegno di risate e commenti vari sulle stupidaggini che inventavo! Solo io potevo pensare a delle cose assurde come quelle che stavo riferendo ad alta voce, e in più punti dovetti cercare anch’io di trattenermi dallo scoppiare a ridere.

A mio confronto, gli altri due non si sprecavano nemmeno a trattenersi: ridevano e basta! Come pazzi! Era così bello vedere quei due ridere, ed era ulteriormente bella quella situazioni da portarmi a pensare, per un solo ed importante istante, che, in fondo, noi tre eravamo solo bambini non cresciuti!

E, mentre Michael mi osservava con le lacrime agl’occhi, non riusciva a constatare da egli stesso che una più vaga luce in quelle profondità scure mi avrebbe portato alla sconnessione di rete che agganciava ogni mio sano neurone alla mia sanità mentale!

Una cosa che dedussi subito, nella sua personalità spiccante, fu la sua dote di osservazione; non distoglieva quasi mai lo sguardo dal mio viso – sembrava fosse ipnotizzato – ed io pensai che fosse curioso di scoprire il mio carattere. Era una persona molto attenta, esaminatrice in un certo senso, e in quel giorno tanto particolare mi sentii l’oggetto principale delle sue attenzioni.

Anche io ero interessata, completamente presa nel conoscere che tipo fosse, ma, in confronto a lui, lo davo meno a vedere. Se tanto dovevo studiarlo, pensavo, era meglio lo facessi quando lui si distraesse un attimo da me, quando non avrei rischiato di fargli scoprire la mia reale natura curiosa, casomai fossi stata invece giudicata come un’impertinente.
Contrariamente da ogni mia previsione, lui era sempre attento su ogni mio gesto o parola che emettevo, perciò, ahimè, ero più disposta a rivolgergli fugaci occhiate esaminatrici. Una bella cosa, però, era la mia capacità di visualizzare con solo un veloce scambio d’occhi i sentimenti che trasparivano dal viso di una persona.

Ma lui per me era un caso patologico. Un caso che non sapevo risolvere.
Ero cieca di fronte a lui, e per cui ero obbligata a prendere le mie considerazioni sul suo vero carattere “con le pinze”. In un modo tutto suo, riusciva a sfasarmi. La mia bravura nel leggere dentro la mente delle persone e ogni lezione di psicologia presa all’università sembrava non essere in grado di resistere di fronte ad egli.<br>
Colpa mia o sua? Questo, inizialmente, fu un mistero per me, un grande e colossale enigma da risolvere.

«Bene,» dissi battendo un colpo con le mani. «Ora posso anche assaggiare! Addio, ci rivedremo in Paradiso, se Dio solo mi vuole accettare... Forse, se è misericordioso, rinuncerà alla gravità di stress che solo io posso portargli!»
«Posso abbracciarti prima che te ne vada per sempre?», disse Ryan con fare pregante. Io, per ovvietà di cose, mi sciolsi in un’occhiata che significasse “Ohh... Che tenero, grazie!”. Per intenderci, la stessa che assumevo quando guardavo i bambini piccoli o i cuccioli!

Lo abbracciai teneramente, quasi fosse un fragile pezzo di cristallo, e gli scoccai un bacio sciolto e disinvolto sulla tempia destra. Mi venivano naturali quei innati gesti d’affetto, perché li sentivo da dentro il cuore, e ogni volta che se presentava l’effettiva opportunità non rinunciavo a quello che il cuore mi comandava di fare!

In contemporanea, mentre sentivo la mia anima sollevarsi di qualche metro, nella mia testa gravava la consapevolezza nascosta di quello che sarebbe successo. Un giorno, il futuro mi avrebbe riportato a contatto con il passato, una volta che Ryan non ci sarebbe stato più, e quello sarebbe stato uno dei ricordi più importanti, insieme a molti altri che conservavo dei nostri momenti assieme...

Quel gesto, da divertente ed ironico che mi era semplicemente sembrato all’inizio, una semplice fonte di ironia, stava diventando una fonte di brutti pensieri. Ryan forse non ci pensò in quel momento, ma io sì. Perciò, una volta che venne sciolto quella stretta di soli pochi secondi, la mia espressione mutò di nuovo; durante l’abbraccio il mio volto aveva assunto un carattere pensieroso e rammaricato, e quando ritornai di fronte al suo viso cercai di riacquistare energia e positività.

Ero quasi sicura che Michael si fosse accorto di tutto quello che stavo provando io dentro di me. Non avevo il coraggio di osservarlo dritto negli occhi, nemmeno quando io e Ryan ci eravamo presi tra le braccia dell’altro, perché sapevo – dentro di me – che in quelli avrei trovato il lieve riflesso delle mie emozioni amareggiate.

Finalmente mi accinsi a portarmi un biscotto alle labbra e mangiarlo. E, tanto per fare un po’ di scena, nella mia mente risi della mia idea diabolica di far venire un bello spavento ad entrambi. Ero crudele, ma mi divertivo qualche volta nell’essere cattiva!

Masticai con lentezza, sotto gli occhi interessati dei due, uno più attento dell’altro, e feci mutare ad ogni secondo le sensazioni che trasparivano dai lineamenti del mio volto. Inizialmente corrugai d’istinto le sopracciglia, in modo tale da dar loro un’idea piuttosto confusa e pensierosa, poi i miei occhi cominciarono a divenire più impauriti e timorosi; con un arte scenica perfetta, aumentai pian piano il respiro nel petto e il battito cardiaco, e mi portai una mano al petto, fino a salire all’incirca nella stessa posizione dove si trovava la trachea.
Ammisi, fra me e me, di essere un’attrice perfetta in un caso del genere!

«Joyce... Che succede?», disse Ryan con tanto di preoccupazione e paura. S’avvicinò lentamente, prendendomi sofficemente il braccio, e Michael fece lo stesso, situandosi accanto al mio fianco destro libero. Entrambi sembravano in procinto di chiamare qualcuno ad aiutarli con la situazione ed io, portando avanti la scena, cominciai a tossicchiare.

Mi meravigliai con me stessa su come non fossi riuscita ancora a scoppiare dalle risate! D’altra parte, i biscotti erano tutt’altro che disgustosi, perciò dovevo considerarmi ulteriormente brava nel far finta che invece fossero orribili ed immangiabili!

«Joyce?», mi chiamò Michael. Era la prima volta che mi chiamava col mio nome, perciò mi sentii lunghi fremiti attraversarmi di getto la schiena e la nuca, perfino il braccio dove il suo polso mi aveva stretto con fare apprensivo. Sembrava così sinceramente impensierito ed ansioso da farmi venire voglia di guardarlo dritto negl’occhi per cogliere ogni sua sfaccettatura.

Ma non fermai comunque la mia recitazione. M’appoggiai con finto affanno sul bordo della mensola della cucina, e, mentre i capelli mi accarezzavano dolcemente il viso, lasciai trapelare un sorriso di sincero divertimento.
Michael mi mise una mano sulla schiena, lungo un fianco, cercando di trattenermi nel caso io fossi caduta sul serio. Ed in effetti rischiavo veramente, con tutti quei brividi di emozioni convulse che mi stava provocando!

«Oh mio Dio, Michael... Aiutiamola...», disse Ryan. «Joy...»
«Forse davvero sono orribili...», disse l’altro con voce sempre più agitata, anche se la sua agitazione era riferita a me più che ai biscotti e al loro gusto. «Ryan, vai a chiamare tua madre, io intanto... Ma che...»

Non ce la feci più. Un grugnito nasale mi portò a scoppiare letteralmente in risate e lacrime di spasso assoluto!
Mi lasciai trascinare a terra, piegando le ginocchia ed appoggiando il capo al mobile della cucina nel quale prima mi ero appoggiata. Stavo ridendo come una scema rincoglionita, ma riuscii ad alzarmi in piedi e batter un colpo a mani unite alle espressioni scioccate e confuse dei due spettatori. Feci due passi indietro, tanto per coglier bene ogni loro accenno di emozioni in viso, con una mano che mi copriva le labbra per cercare di trattenermi. Ero. Letteralmente. In. La-cri-me!

Ryan mi rivolse un’occhiata sempre più rassegnata e allo stesso tempo sconcertata, mentre l’altro ancora mi guardava ad occhi aperti e senza parole. In seguito emise un sospiro rassicurato, voltando il capo da un’altra parte con un sorriso scettico e, anche se lo nascondeva, era rallegrato.

«Non... Non ci posso credere!», esclamò Ryan, a bocca aperta nel vero senso della parola. «Tu stavi solo facendo finta di star male Joy? No, aspetta, davvero stavi facendo finta?»
Annuii e, con grande difficoltà, riuscii ad emettere parola; «Dovreste... Dovreste aver visto le vostre facce!», esclamai con sillabe confuse e acute da una risata che non riuscii di nuovo a contenere. E giù, che ritornai a piangere dal divertimento!

Ryan fissò Michael a lungo, il quale aveva ancora gli occhi puntati su di me inflessibili, questa volta visibilmente lucenti di sensazioni miste e caotiche. Essi davano la completa e chiara impressione che stesse ridendo dentro, sebbene mostrasse una facciata molto seria e impassibile.
L’altro compagno non seppe per un po’ cosa dire, poi si voltò verso di me che ero quasi riuscita a calmarmi dalle convulsioni del riso.

«Joyce, stavo per morire d’infarto! Ci hai fatto seriamente preoccupare, che non ti salti più in mente, per favore! Pensavo ti avessi avvelenata veramente... Michael, ti prego, dille qualcosa!», e così si rivolse a quest’ultimo spalancando le braccia, a mo’ di pretesa.

Michael, che teneva lo sguardo basso, mi rivolse una veloce occhiata anomala. Io rimasi a fissarlo, a bocca semiaperta, col mezzo sorriso che se ne stava lentamente andando dal volto. Il suo sguardo era grave, davvero allarmante, e mordendosi il labbro inferiore mi si avvicinò a passi calmi, calmi. Teneva le mani appoggiate ai fianchi, come me, solo con le nocche tenute in una ferrea stretta. Dapprima spostò lo sguardo verso il pavimento, poi tornò a scrutarmi senza più distoglierlo.

Per un lungo arco di tempo che variò dai tre ai sei secondi rimasi in completa trepidazione; mi sentivo un po’ in colpa, perché pensavo potesse pensare che avessi fatto un gesto in considerevole, e in parte avevo temevo in una sua sgridata che mi avrebbe fatto venire innumerevoli sensi di colpa e riflessioni agoniche. Mi dispiaceva se mi avrebbe fatto pesare quella cosa, soprattutto per il valore che aveva potuto essere considerato grave da parte di Ryan.

«Questa veramente non me la sarei mai aspettata...», disse lui con un tono di lieve rimprovero, ma qualcosa mi disse che stava per cambiare totalmente visione delle cose. Le sue sopracciglia s’inarcarono in una smorfia di divertimento, poi i suoi occhi s’illuminarono d’improvviso di giocondità e compiacimento immensi. «Sei stata emozionante!, ma come hai avuto l’idea di uno scherzo così geniale

Da quell’attimo anche il mio viso s’illuminò di gioia!
Sapere che non voleva farmi una ramanzina che mi avrebbe soltanto procurato uno spiacevole senso di colpa mi faceva sentire davvero bene, e mi faceva sentire ancora più sollevata il fatto delle belle parole che mi aveva detto; ero stata emozionante per lui – il che mi faceva toccare il cielo con un dito immotivatamente – era poco in confronto a come aveva denominato il mio scherzo: geniale.

«Davvero lo pensi?», chiesi sorridendo a trentadue denti.
«Ma sicuramente!», rispose con la sua adorabile voce. «E’ stato unico! Una cosa che non te lo potevi mai aspettare!»
«Sono felice di averti stupito positivamente, mi rende orgogliosa questo fatto! Che ne pensavi della mano sul petto? Era abbastanza reale da sembrare che stessi per rimettere?»
«Dio! Era sensazionale! Hai fatto proprio una faccia da: “Oddio, non respiro!”. Ti giuro, ci stavo credendo veramente! E l’appoggiarsi alla mensola è stata un’azione di stile...»

Ero così presa da tutta quella discussione fra me e Michael – come due bambini che vedono per la prima volta il loro cartone preferito e lo commentano con devozione fra loro – che nemmeno c’accorgemmo dell’espressione sbigottita e la posizione paralizzata di Ryan. Ci guardava entrambi con occhi spalancati dalla confusione e dallo shock, così si sentì in dovere di interromperci in quella eccitante discussione.

«Michael!», esclamò lui, richiamando entrambi la nostra attenzione su di lui, straniti. Lui gli fece un cenno che stava a dire “Allora? Non la rimproveri?”, e io e Michael ci fissammo negl’occhi.

Tutti e tre ci rivolgemmo occhiate serie l’uno con l’altro, facendo continuamente vagare i nostri occhi da un compagno all’altro, in attesa di chissà che cosa. Ma, dopodiché, insieme scoppiammo a ridere come dei bambini! Con quei due stavo bene. Bene sul serio.

«Si può sapere che succede qua dentro?», arrivò in stanza sua madre, armata di stracci e detersivi, reduce da una pulizia generale dalla casa, con in volto un sorriso teneramente divertito, per poi alzare gli occhi al cielo. «Vi ho sentito allarmati poco fa, e ora ridere come matti!»

«Lo sai, mamma, Joyce mi ha fatto uno scherzo imperdonabile!», disse Ryan fingendosi arrabbiato e offeso. <br>La madre si diresse verso alcune mensole della cucina, rimettendo a posto le varie cose che aveva fra le mani negli appositi scaffali. C’era qualcosa in sua madre che mi portava incondizionatamente a stimarla dal profondo della mia anima.

«Oh, davvero Joyce? Che tipo di scherzo?», disse lanciandomi un’occhiata allegra.
Io sorrisi e risposi, mentre gli altri due comari mi fissavano uno sorridendo, l’altro mezzo imbronciato. «Ho fatto finta di soffocare con i nostri biscotti, in effetti! Non può nemmeno immaginare che facce avevano assunto i loro volti!...»
«Guarda, mamma!», disse Ryan, avvicinandosi a lei e mostrandole un foglio di carta a quadretti bianco. «Ha fatto perfino il testamento in caso di morte certa! Poi dopo aver mangiato un biscotto ha fatto finta di soffocare, sembrava davvero che stesse per morire davanti ai nostri occhi!...»

La donna si ritrovò a ridere di cuore, leggendo attentamente fra le righe di quel foglio stropicciato. Io, un po’ arrossita sulle guance, mi apprestai a ricambiare quel riso leggermente, mentre il mio sguardo vagava di continuo tra la madre del ragazzo, Ryan, e Michael. Quest’ultimo sorrideva compiaciuto, quasi soddisfatto; nei pochi secondi in cui lui non m’osservava, rimasi incantata dal suo sorriso lucente. Era così grandemente sfavillante che m’abbagliava!

«Oh be’, davvero complimenti per la recitazione allora, Joy! Peccato per essermela persa...»
«Mamma!», rispose Ryan alla madre. «Così non m’aiuti!»
Tutti e quattro tornammo a ridere, stavolta, e di seguito la donna ci si rivolse con fare autorevolmente dolce.
«Ora andate in sala, mi sa che dovrò sistemare io la cucina e il disastro che avete procurato! Ryan, aspetta che metto i biscotti in un vassoio più carino, così almeno potrete mangiarli senza prenderli da una teglia scottante! Potrete rischiare di bruciarvi le dita!»

Poco dopo, io, Ryan e Michael ci avviammo diligenti, con un vassoio di biscotti belli ed invitanti, verso il salotto, attraversando il piccolo corridoio di legno che univa cucina, sala pranzo, sala, bagno di servizio e scale del piano superiore. Una volta entrati, chiudemmo la porta dietro di noi e ci sedemmo sul grande divano della stanza.

Il salotto era un posto dall’aspetto sicuramente classico, ma con un certo tocco di eleganza. Le pareti giallo crema davano una visione più sobria dell’ambiente, il pavimento era di legno; nella stanza c’erano un divano bianco – quello dove noi tre eravamo seduti – e ai suoi due lati, poco distanti, in posizione una opposta all’altra, c’erano due poltrone, sempre di color bianco.

Un tappeto stava proprio sotto il divano, coprendo gran parte del parquet, ed era ricamato con decorazioni bianche e andanti ad ogni tonalità di rosso. Di fronte al sofà, dinanzi di circa trenta centimetri, c’era un tavolino in legno scuro, con vari oggetti appoggiati fra cui un vaso antico e alcune tazzine da servizio da tè.

Ancora più distante c’era un mobile dello stesso colore del tavolino, diviso in tanti ripiani e vetrate, in cui in uno c’era lo spazio dove era adagiata la tv. Nelle varie mensole dalle ante in vetro, si potevano scorgere libri, oggetti di valore antico, foto e articoli di porcellana. Nella stanza c’erano anche due grandi finestre che davano al giardino esterno, con graziose tendine a fiori arancioni, che lasciavano trasparire la luce fioca dei raggi di sole.

Una volta ben comodi e seduti, rimanemmo indecisi sul da farsi.

«E ora che facciamo qua in salotto?», chiese Ryan guardando prima Michael poi me. Io alzai lo sguardo verso il soffitto, emettendo un lieve soffio dalle labbra socchiuse, per poi stringerle in una stretta ferrea. Gran bel dilemma.
«Beh, seguiamo il consiglio della tua mamma, ossia quello di guardare qualcosa alla tv... Voi che ne dite?», dissi rivolgendomi ad entrambi, lanciando loro un’occhiata con la coda dell’occhio. Ryan aveva un’espressione confusa e pensierosa, mentre l’altro... Inutile dire che gli piaceva osservarmi. Ricambiai lo sguardo per mezzo secondo, fin quando la connessione non venne interrotta nuovamente da Ryan con il suo dolce tono di richiesta.

Probabilmente Michael non lo sapeva, ma ogni volta che mi guardava riusciva sempre a mettermi sotto sopra... Pensai che fosse un effetto tipico che suscitava, soprattutto per le donne cui era a conoscenza, specialmente con quelle che conosceva da poco tempo. Ad esempio, quelle come me.

In effetti era noto a chi mi conoscesse bene che avevo una specie di “mania” verso di lui. Lo sapevano i miei bambini delle elementari, che per il saggio di Natale o fine anno facevo sempre ballare una coreografia di Michael, ed era altrettanto certo che lo sapesse chiunque mi fosse stato abbastanza amico; bastava poter osservare la mia reazione ad ogni sua canzone, i miei continui intenti di imitare i suoi passi, fare i suoi urletti tipici come “Aow”, ecc., e impazzire ogni volta che il suo ritmo diventava abbastanza ballabile da poter passare per una da ricovero.

Dopotutto potevo ritenermi una fan quasi al completo, considerando la mia vasta collezione dei suoi Cd fino in tenera età, e tenendo anche conto delle innumerevoli volte che mi ero letta la sua biografia, vista i suoi video e rivista, per chissà quante volte, “Moonwalker”. Ormai avevo consumato la cassetta! D’altra parte, come potevo non rimanere ammagliata dal suo fascino? Insomma, provate voi a guardare quel film di seguito per sedici volte, e vedrete se non ho ragione io a dire che, più lo guardavo, più m’infatuavo di lui!

Era bello – ma forse “bello” era un termine troppo riduttivo per quello che lui era veramente -, su questo non avevo mai dubitato, ma vi assicuro che non era un bene per il mio povero cuore vederlo sempre e continuamente in tv, figuriamoci nella realtà!, con tutto quello charme addosso! Era chiaro che ne fossi ossessionata – come sua fan come potevo non esserlo? – e, soprattutto, che fossi presa da attacchi di iperventilazione!

Quel giorno in cui l’avevo visto agli Awards, oppure durante la festa... In confronto a quel momento, quegl’attimi erano puri e semplici ricordi d’un giorno prima. Quello che stavo vivendo, in quel salotto, era un sogno ad occhi aperti! Io la credevo così, tanto che per un istante mi ero semplicemente detta di godermi quel tempo fino a quando non mi sarei svegliata!

Chi è stato fan come me di sicuro avrebbe capito come potevo sentirmi, e forse ero considerata anche abbastanza auto controllata da non essere corsa subito, dal primo momento in cui l’avevo visto, ad abbracciarlo. L’istinto l’avrei avuto, ma dovevo ringraziare anni e anni di duro lavoro psicologico nell’essere stata così brava!

Più e più volte Michael aveva fatto parte della mia vita – a volte scatenando troppo i miei fragili ormoni femminili, a volte semplicemente facendomi emozionare – grazie a lui e al suo genio musicale. La musica mi era sempre stata vicino, soprattutto la sua. Mi ricordo che ebbi associato spesso alcuni periodi della mia esistenza a sua canzoni, per la maggior parte delle volte. Anche se dall’altra parte del mondo, io lui lo sentivo dentro, come se qualcosa mi dicesse: “Joyce, lui è veramente speciale. Non riuscirai mai ad abbandonarlo”.

Credevo in passato che non sarei riuscita a controllarmi se l’avessi incontrato – avevo progettato un sacco di cose da chiedergli e tante altre cose di cui discutere, mi ero fantasticata in testa un miliardo di volte la scena di un nostro fatidico quanto impossibile incontro – ed essendo là, quel giorno, mi resi conto che nessuna delle mie previsione si era avverata come avevo tanto concepito con fantasia. Mai avrei pensato di essere in grado di rivolgermi a lui con naturalezza, ma in fondo dovevo ringraziare soprattutto quella sera a casa di Liz.

Se lui non fosse stato là a chiedermi quale fosse il mio problema, probabilmente non gli avrei mai detto nulla, né a lui né a nessun altro; se non fosse stato così persuasivo e dolce da indurmi incondizionatamente a rivelargli anche il mio dolore più profondo, senza alcuna paura di fidarmi della persona sbagliata, forse mai mi sarei rivolta a lui con quella spontaneità semplice e inconcepibile. Chissà, magari per me sarebbe stato sempre e solo un modello da seguire, un idolo magnifico e irraggiungibile, e io sarei rimasta solo una fan che, vedendolo, sarebbe andata in crisi ormonale!

Decidemmo infine per vedere un film, e insieme tutt’e tre programmammo di vedere “Chi ha incastrato Roger Rabbit”; adoravo davvero tanto quel film, mi piaceva moltissimo, e anche agli altri due non sembrava dispiacergli. Sì, mi piaceva, fin quando non scoprii, il giorno dopo la festa di Liz Taylor, che colei che cantava la parte di Jessica Rabbit era Amy Irving. Perfetta coincidenza, non vi pare? La voce cantata era la stessa di quella donna con cui avevo parlato la sera prima. Be’, quella scena famosa nella quale la femme fatale cantava fu abbastanza comica quanto irritabile.

Stavamo in tre sul divano, io alla sinistra, Ryan in centro e Michael alla destra; d’improvviso arrivò la scena nella quale la sensuale Jessica se ne entra ballando e cantando nel bar, movimentando gli ormoni degli uomini presenti al locale notturno. Ero a braccia conserte in grembo, con un sopracciglio leggermente alzato, e con un sorriso ironico sulle labbra, mentre gli altri due guardavano lo schermo con una tale apprensione e incanto che mi stava per far morire dal ridere e, allo stesso tempo, mi procurava un tantino di gelosia verso il fascino di quel “personaggio”.

Ero ridicola, lo sapevo bene, ad essere gelosa di solo un “modello” inventato, però non potevo fare a meno in contemporanea di ammirare quel gran bel fisico; certo si erano molto sbizzarriti i creatori, creando un personaggio così bello e formoso, così sexy. Ma anche se ero un po’ gelosa del gran “caos ormonale” procuratosi a Ryan e Michael – e qualche volta mi scappasse l’occhio nell’intenzione di vedere le loro occhiate – ero incantata dal fascino di Jessica Rabbit. Quel che era vero era vero: era una grande gnocca per essere un cartoon!

Per tutto il film le nostre risate e il nostro affiatamento come gruppetto da tre s’affiatò; soprattutto, era bello vedere i miei due amici ridere. Michael mi rivolgeva uno sguardo davvero dolce e divertito, tanto da riuscire a farmi un po’ arrossire sulle gote abbronzate, e più passava il tempo più speravo che non finisse. Sapevo che quella occasione sarebbe durata non più di tanto, che la magia presto sarebbe finita, perciò cercavo di tenere ben conservati nella mia testa quei momenti.

Durante quel poco di tempo, Michael si dimostrò una persona sempre più sciolta e gentile; il suo animo era timido – forse ero anche io che lo mettevo in difficoltà, dato che non mi conosceva bene – ma stando a ridere e gioire la situazione cambiava. Sembrava che tutto quello che era successo la sera della festa di compleanno di Liz all’inizio non fu fatto mai accaduto, dato il suo silenzio e sguardo osservatore su me e Ryan, ma durante la visione del film si era dimostrato una persona veramente sociale.

Mi sorrideva, mi parlava allegramente, e forse mi concedeva persino il suo sguardo quando ero abbastanza presa dal film per non capirlo. Ma mi bastava solamente guardarlo negli occhi per capire l’intesa; forse d’altra parte le parole non servivano, non quanto lo sguardo almeno. Mi piaceva ancora di più di prima, soprattutto perché avevo intuito che fosse una persona spontanea e sincera più di quanto si desse a vedere attraverso gli schermi della tv o nel live di un concerto.

Ero contenta come una bambina al pensiero che non avevo torto nel averlo sempre giudicato un bravo ragazzo. Può darsi che avrei dovevo aspettare a giudicarlo, perché non lo conoscevo così bene da dire come fosse in realtà. Avevo imparato per esperienze personali a cercare di non credere mai in quello che si vede al di fuori, nel bene e nel male, e soprattutto nel male più spesso erravo; il mio cuore aveva sanguinato abbastanza durante la mia vita. Mi ero fidata spesso e volentieri di persone che pensavano solo a ferirmi, e ne avevo risentito parecchio.

A fine del film, perciò, venne il momento del saluto. Michael disse che aveva un impegno per quella sera, e che doveva andarsene via prima; erano quasi le sei del pomeriggio, dopotutto. Io quella sera sarei rimasta a cena da Ryan e sua madre, perciò non avevo grandi impegni se non divertirmi con il mio migliore amico.

Io e Ryan allora lo accompagnammo fino fuori dal cancello di casa White, e poco prima che stette per salire in macchina lui e Ryan si salutarono confidenzialmente, con una tenerezza da farmi sciogliere su due piedi.

«Quando verrai a trovarmi, Michael, la prossima volta?», chiese tenendo strette con le mani due lunghi steli di ferro del cancello. Michael si girò ad osservarlo – con i suoi occhiali da sole appena messi su anche quando era sera – e ci rimase un pochino a pensare.
«Oh, beh, sarai tu la prossima volta a venire da me, a Neverland. Ho instaurato delle nuove giostre molto divertenti, ci sono tanti tipi di negozi di dolciumi e leccornie varie, e soprattutto gli autoscontri sui quali mi hai detto vorresti andare...», disse aprendosi in un sorriso.

Non appena sentii nominare “Neverland” drizzai orecchie e schiena, spalancando i miei occhi verdi in un’espressione di divinazione per quel luogo di cui avevo tanto sentito parlare. La Neverland dei sogni, dove i bambini possono sognare, fantasticare e desiderare; l’isola che non c’è di tutti i bambini sperduti che non sono mai diventati grandi, proprio come Peter Pan. Chissà che posto doveva essere dal vivo...

Neanche mi avesse letto nella mente, che Michael e Ryan mi fissarono per un attimo interminabile. Io guardai entrambi con sorpresa, poi facendo finta di niente e cercando di allontanare la lucentezza che, di sicuro, aveva illuminato i miei occhi. Stetti per voltarmi dall’altra parte col capo, in direzione contraria ai due, che Michael mi rivolse dolcemente la sua parola.

«Ti piacerebbe venire, Joyce?», i miei occhi si spalancarono alle sue parole, lasciandomi senza parole da dire. Lui aumentò l’ampiezza del suo sorriso, un po’ timido e un po’ entusiasta. «Saresti la benvenuta, sul serio!»
«Vieni, Joy!», mi disse Ryan, implorando con lo sguardo. «Ci sono tante cose che ti piacerebbero, ne sono sicuro! Ci sono montagne russe, giostre di ogni tipo, negozi di caramelle, servizi d’ogni genere... Tutto per noi bambini! E tu ami queste cose! Sei bambina quanto noi due! Avanti...»
«Io...», dissi sbattendo un po’ le palpebre in uno sguardo a dir poco confuso. Io: a Neverland? Nelle giostre? Con i bambini? Con tutte quelle meraviglie? Non poteva essere vero! «Io non saprei... Sarei d’impiccio per i vostri divertimenti, non ho intenzione di rovinarmi quella futura giornata...»

Era vero, pensavo davvero di riuscir causare loro del disturbo, soprattutto a Michael, e anche se invece avevo una gran voglia matta di mettermi ad urlare “Sì!”, la mia coscienza non mi permetteva di essere in tal modo maleducata o, peggio, una grande rottura. E viceversa quegl’altri due sembravano volermi veramente vedere con loro quel giorno!

«Ma cosa dici, Joy?», mi chiese Ryan impensierito.
«No, non dirlo nemmeno, non disturberai!», esclamò Michael scuotendo la testa e spalancando le braccia con fare altruista e generoso.<br>
Poi Ryan sorrise e disse: «...Abbiamo bisogno di una fatina magica, fra tutti quei bimbi sperduti!»

Io allora mi lasciai andare in una risata intenerita, e sotto gli sguardi insistenti di Ryan e amorevoli di quelli di Michael, annuii col capo. Mi bastavano quelle occhiate e parole dolci per sciogliermi? Sì. La risposta era assolutamente sì! Alzai le spalle come una bimba e, inclinando il capo, detti ulteriore conferma.

«...Se allora la mettiamo così, non posso proprio permettermi di negare ai bimbi la loro Tinkerbell!»

°CucciolaJackson°
00lunedì 14 giugno 2010 10:42
waaaa finalmente sono riuscita a leggere gli ultimi capitoli... complimenti mi piace molto la tua storia... chissà cosa succederà tra Michael e Joy!!!
tati-a4ever
00lunedì 14 giugno 2010 12:26
Sono contenta ti piaccia la storia :D Grazie per tutti i complimenti, Cucciola! Un bacione :)
ludo.94
00lunedì 14 giugno 2010 12:31
questa storia mi piace sempre di più!! è avvincente miraccomando posta presto nn vedo l'ora del seguito!! un bacio,ludo
tati-a4ever
00lunedì 14 giugno 2010 13:14
Ciao Ludo :D Sono felice ti piaccia, grazie per il complimento al riguardo! Cercherò di spostare il prima possibile ;D
Un bacio!
BEAT IT 81
00lunedì 14 giugno 2010 13:17
Il capitolo nuovo è bellissimo!!!!!!!!! Lo scherzo che Joy fa a Ryan e Mike è troppo divertente e la loro reazione pure. Io rimango convinta che fra Joy e Mike scatterà la scintilla, le emozioni già ci sono e anche l'Amore nell'aria ;-)))))) , sbaglio? Bravissima!!!!!! Aspetto già il capitolo nuovo ;-)))) . Baci Sara
marty.jackson
00lunedì 14 giugno 2010 14:09
bellissimoo!! lo scherzo di joice mi ha fatto morire dalle risate!! [SM=x47979] sono sicura che tra Michael e Joice succederà qualcosa veeeero??? aspetto con anzia il prossimo!!
kiss [SM=x47938]
tati-a4ever
00lunedì 14 giugno 2010 14:44
Re:
BEAT IT 81, 14/06/2010 13.17:

Il capitolo nuovo è bellissimo!!!!!!!!! Lo scherzo che Joy fa a Ryan e Mike è troppo divertente e la loro reazione pure. Io rimango convinta che fra Joy e Mike scatterà la scintilla, le emozioni già ci sono e anche l'Amore nell'aria ;-)))))) , sbaglio? Bravissima!!!!!! Aspetto già il capitolo nuovo ;-)))) . Baci Sara



Grazie di cuore, sono felice ti piaccia! [SM=g27838] Lo scherzo è stato unico di Joyce, e riguardo alla scintilla... Per il momento, non dico niente ;D Ma posso dire una cosa: il settimo capitolo sarà speciale! E con questo ti lascio i dubbi... [SM=g27828]
Bacioni!

marty.jackson, 14/06/2010 14.09:

bellissimoo!! lo scherzo di joice mi ha fatto morire dalle risate!! [SM=x47979] sono sicura che tra Michael e Joice succederà qualcosa veeeero??? aspetto con anzia il prossimo!!
kiss [SM=x47938]



Grazie Marty! [SM=g27819] Lo scherzetto è piaciuto molto anche a te, sono mucho felice [SM=x47979] Anche a te do la risposta di prima: non dico niente riguardo la situazione fra Michael e Joyce, ma... Be', il capitolo sette sarà importante per la nostra storia! ;D
Bacioni!
dirtydiana66
00mercoledì 16 giugno 2010 22:29
bellissimo, cosa aspetti a postare il capitolo sesto, perchè sono curiosa del settimo.... cosa ci sarà di cosi importante e poi qsta storia mi piace
baci
tati-a4ever
00giovedì 17 giugno 2010 14:26
Re:
dirtydiana66, 16/06/2010 22.29:

bellissimo, cosa aspetti a postare il capitolo sesto, perchè sono curiosa del settimo.... cosa ci sarà di cosi importante e poi qsta storia mi piace
baci




Grazie dirtydiana66 :D Sposterò questo pomeriggio, adesso cerco di finire il settimo una volta per tutte :3 Bacioni!
dirtydiana66
00giovedì 17 giugno 2010 19:44
[SM=x47981] [SM=x47981] [SM=x47981]
tati-a4ever
00venerdì 18 giugno 2010 13:40
CAPITOLO VI

«Davvero Michael Jackson ti ha invitato a Neverland? Quando?», mi chiese Len, spalancando gli occhi da sembrare più sconvolto che emozionato. «Come è successo? Non avrai mica fatto la figura della impertinente, spero...»

Era venuto a casa mia per parlarmi di affari, e dagli affari eravamo passati a quella discussione. Quasi una settimana era passata dal giorno in cui - a casa di Ryan - avevo visto anche Michael, e mi era sembrato giusto farlo sapere a Len; eppure Ryan non mi aveva ancora telefonato per darmi alcuna conferma del quando sarei dovuta andare là...

«Ancora è passato un anno da quando ci conosciamo, e tu hai questa opinione di me, Len» Sbuffai rassegnata, alzandomi dalla poltrona del mio salotto per raggiungere le grandi vetrate della stanza. Mi piaceva stare ad osservare il di fuori da quelle grandi finestre: mostravano la grande veranda e il giardino al di fuori, piscina inclusa. «E poi non so nemmeno se ci andrò...»

«Vuoi dire che dirai di no?», chiese Len confuso, non sapendo più che cosa aspettarsi dalle mie vaghe risposte. Io voltai il capo verso di lui, alzando un sopracciglio e un angolo delle labbra in un un’espressione tanto ironica quanto contrariata.
«Non ho detto questo», dissi mostrando un sorriso tirato. «Ryan non mi chiama da una settimana, il che mi fa intendere o che hanno cambiato idea riguardo l’invito, o che c’è qualche possibile impegno che non si può rimandare...», e con queste ultime parole mi riferivo chiaramente al signor Jackson.

Non c’era momento che mi chiedevo e richiedevo che cosa avesse pensato lui di me; quando meno me lo aspettavo, la sua immagine mi ripiombava in testa, regalandomi quei pochi ricordi dei nostri due incontri durati troppo poco e non tanto loquaci quanto avrei desiderato in realtà. Certo, era stata una fortuna incontrarlo per ben due volte, però la fortuna nei miei confronti non era mai compassionevole! In qualche irragionevole modo, pensavo che non l’avrei incontrato una terza volta.

Era importante per me la sua opinione, non sapevo nemmeno io il perché. Ero così curiosa di sapere che cosa avesse capito della mia personalità che facevo fatica a restare calma al pensiero che, se l’avrei rivisto di nuovo, non sarei riuscita a trattenermi dal chiederglielo. Ma qualcosa – sperai mi sbagliassi – mi diceva che non lo avrei incontrato così presto come speravo. Avrei dovuto mettermi il cuore in pace e lasciare che il tempo scorresse, prima di avere un’altra possibilità come quella.

Che cosa mi portava a pensare quelle cose? Il fatto che Ryan era puntuale, con le sue chiamate, nell’avvisarmi di qualcosa di importante come quello. Eppure, in quei giorni in cui l’avevo sentito, non mi aveva benché minimamente accennato dell’appuntamento al Neverland Ranch, né il giorno, né la data, né l’ora... Niente di niente.
Era possibile che notasse la mia irrequietezza nella voce ogni volta che parlassi con lui, perché tentavo sempre all’opportunità di fargli quella dannatissima domanda: “Ryan, allora quand’è che andremo a Neverland?”. Ma io non ero così maleducata da chiederlo, anche se dentro provassi una grande dose di adrenalina e attesa che non potevo colmare col silenzio. Credetemi quando dico che non ero mai stata così impaziente in tutta la mia vita!

Len rimase ancora seduto sul divano, fermo immobile, con una mano adagiata all’appoggio sinistro dell’enorme sofà nel quale era adagiato, tenendo gli occhi sbarrati ancora per un po’ di secondi. Evidentemente mai si sarebbe aspettato una fortuna del genere, sembrava sbalordito, anche se era troppo presto per dire quale fosse la sua opinione precisa su quella faccenda; non che me ne importasse un granché, anche perché volente o nolente, se l’opportunità ci sarebbe stata, avrei detto sì mille volte, anche se non era d’accordo!

«Sei davvero sicura? Sì, insomma, è Michael Jackson... Non so se ti rendi conto...», borbottò impettito, aggrottando percettibilmente le sopracciglia. Mi venne da ridere alla sua affermazione: se sapevo io chi era? Mi stava prendendo in giro, non c’era alcun dubbio.

«Oh, ehm, , me ne rendo conto! Michael Jackson, nato a Gary, Indiana, il 29 agosto 1958, famoso già da bambino per esser stato membro dei Jackson 5 assieme ai fratelli, che lo rese famoso ed un vero e unico talento fin da piccolo; successivamente, anni dopo, intraprese la carriera solista, creando celebri album come “Off The Wall”, “Thriller” e “Bad”. Difatti, “Thriller” è tutt’ora l’album più famoso che creò, con famosi singoli come lo stesso “Thriller”, “Beat It” e “Billie Jean”, che gli dettero una fama incomparabile ad altri. Negli anni scrisse anche una biografia, “Moonwalk”, e anche un film di sua creazione fantastica, “Moonwalker”. La Moonwalk è un suo famoso passo di danza che lo rese celebre in tutto il mondo e...»

«Ok, ok...», disse Len, spalancando le mani a mo’ d’arresa, un po’ sbigottito. «Ho capito l’antifona... E’ chiaro che sai molto bene chi è Michael Jackson, su questo non ho dubbi...».
Sorrisi.
«Ma lo sai anche tu delle tante cose che vengono dette su di lui? Il fatto del cambiamento del colore della pelle, la camera iperbarica...»

Tac! Era arrivato proprio dove volevo non arrivasse.
«Sì che so di queste cose», dissi diventando d’improvviso seria in volto, mentre un fastidio represso vagava vorticosamente nel mio stomaco. «E so anche che queste cose non sono vere. Tutti e due sappiamo che cosa può fare la stampa, dato che non dicono stupidaggini solo di lui... Se forse non hai letto i giornali, cominciano a spuntare sentenze ridicole anche su di me...»

Len sbarrò gli occhi a quella notizia, diventando più paonazzo in volto. Probabilmente non aveva letto i giornali come me, e non aveva letto le prime cazzate che venivano dette sul mio conto. Un esempio, era il fatto che avevo intenzione di acquistare un famoso diamante del valore di ben 20 milioni di dollari. Figurarsi. Che cosa me ne facevo io poi di quel diamante? Lo rompevo, ne facevo gioielli, e poi creavo una gioielleria? Piuttosto avrei speso quei soldi per darli a chi ne aveva <i>davvero</i> bisogno!

«Ma non è questo il punto», disse lui, come a giustificare più me e meno lui. «Insomma, non sai che persona è. Potrebbe essere un pazzo, o uno squinternato... Io non mi fido molto, sinceramente, Joy... Sarei un po’ preoccupato».

Il suo tono era così accusatorio e allo stesso tempo difensivo che mi fece accapponare la pelle dal malessere di quelle parole. Mi dava fastidio sentire quelle parole su di lui, e non solo perché ero fan di Michael: non mi piacevano quelle cose, quelle parole dette così, senza nemmeno conoscerlo! Io non giudicavo Michael a tal modo... Perciò, cercai di controllare la mia voce e ripresi con un tono più calmo di quanto dessi a vedere.

«Io non lo sarei, Len. Mi dispiace, ma io non vedo proprio di che hai da preoccuparti! Avanti, mica mi mangia! Anzi, io sono 100 volte – ma che dico, un milione di volte! – più propensa a credere a Michael Jackson che a tutti i giornali del mondo! Non vedo perché non dovrei andare», poi, dopo una piccola pausa, continuai. «Me lo dici sempre, no?, “Joy devi provare, altrimenti non lo saprai mai!”. E io infatti, se me lo chiederà, andrò a Neverland tutte le volte che vorrà!»
«Joyce, non è questo che intendo...», ma lo bloccò la suoneria del mio telefono prima di dire qualche altra parola. Lo presi dal comodino accanto al divano e vidi dal nome sulla schermata che era Ryan. To’, la casualità del destino, no?

«Scusa, devo rispondere. È Ryan», e così dicendo, con un cenno del capo di scuse, accesi la comunicazione telefonica. In realtà, non ero affatto dispiaciuta per quella interruzione: non mi andava di discutere con Len, soprattutto di quel argomento che mi rendeva abbastanza irascibile.

«Joyce?», chiese una voce piccola e mite, quasi avendo paura di essere indiscreta. Sorrisi, avanzando verso le grandi vetrate di vetro e aprendone una con un gesto rapido del polso, facendo scattare la serratura della manipola in un colpo solo.
«Sì, Ryan, eccomi. Scusa se non ho potuto rispondere subito, ma non trovavo più il telefono...», dissi inventandomi una bugia sul momento. Se avesse saputo la realtà dei fatti, avrei causato qualche domanda alla quale non volevo chiaramente rispondere. Scoccai un’occhiata a Len, il quale a parole mute mi disse che doveva andare; annuii soltanto, lasciandolo uscire dalla sala, mentre io mi dirigevo fuori nella veranda.
«Oh ok. Senti, volevamo avvisarti, io e Michael, se domani potessimo andare tutti e tre a Neverland, come avevamo proposto tempo fa». Due attimi di silenzio. «Ovviamente se per te non è un disturbo».

Ebbi un fremito. Qualcosa nella mia testa – forse una lampadina di avviso – s’accese, procurandomi uno strano dubbio in testa a cui non volevo in realtà vederci chiaro. Aveva usato il plurale, primo di ogni cosa, e inoltre quei pochi secondi di silenzio erano stati decisivi. Ero brava ad usare l’intuito, soprattutto quando mi decidevo ad ascoltarlo, e qualcosa mi diceva che con Ryan ci fosse anche qualcun altro.

«C’è lui con te?», chiesi a voce quasi mancante.
Subito dopo aver enunciato quella domanda mi sentii arrossare dalla consapevolezza di aver fatto la figura dell’idiota e mi morsi il labbro inferiore nervosamente. Che cosa avrebbe significato quella domanda? Che mi interessava forse sapere se anche anch’egli era lì con lui? Se avrebbe sentito, chissà che figura di...
«Sì, c’è anche lui con me!»
...Ecco, per l’appunto. Sperai non...
«Metto il vivavoce, aspetta!»
Perfetto. Volevo pregargli perché non lo facesse, ma in contemporanea ringraziai il cielo perché non avesse sentito le mie parole e il mio silenzio imbarazzante! Feci un sospiro inudibile, mentre mi accorsi che stavo passeggiando avanti e indietro per il porticciolo come un’emerita imbecille! Neanche fosse una conferenza stampa!

«Ecco fatto!», disse Ryan poco dopo alcuni maneggi del telefono, fino ad arrivare al benedetto tasto del vivavoce. Ohsacrosantoiddio... Joy, mi dissi, stai calma e non agitarti! Ti agiti più in una conversazione telefonica che nel vederlo davanti ai tuoi occhi? Forse è questo l’effetto della lontananza post traumatica...
«Ad ogni modo», disse l’interlocutore al telefono, con fare più disinvolto di me – su questo non c’era dubbio! «Se ti andrebbe bene, potremmo vederci verso le due del pomeriggio a Neverland; Michael ha detto che per lui non c’è alcun problema, che ci farà visitare tutto il ranch se vorremo! Che ne dici?»
«Nessun problema!», esclamai cercando di sembrare più tranquilla e serena possibile, portandomi una ciocca dei miei capelli lisci e castano chiaro dietro l’orecchio sinistro. Il mio sorriso a trentadue denti, se qualcuno soltanto lo avrebbe visto, avrebbe dato una netta sensazione di sconcerto. Si sarebbe pensato “Sicuramente questa si è fatta di eroina”.
«Oh, ehm...», dissi poi, stringendo le labbra in un sorriso percettibile e timido. «Grazie ad entrambi, a te Ryan, e anche a te, Michael...»
Cavolo, cavolo, cavolo... Avevo detto quelle parole senza neanche pensarci su, come se fosse la cosa più naturale del mondo, rendendomi poi conto delle conseguenze: avrei sentito la sua voce!
«Grazie a te, Joyce», sentii una voce fioca e lieve rispondere al ringraziamento. Non c’era bisogno di tante riflessioni e richiami mentali per capire chi potesse essere. «Grazie mille per aver accettato...!»

Le mie gambe divennero quasi due stoccafissi non appena sentii pronunciare il mio nome, e, in egual modo, io ad essere riuscita ad enunciare il suo. In contemporanea, mi resi conto che quella era la prima ed effettiva volta che ci avevamo chiamati per nome, in tutte le occasioni che avevamo avuto a disposizione. I miei occhi si paralizzarono nel vuoto, immaginando di vedere gli occhi dell’altro. Stavo diventando troppo ossessionata... Pure troppo di quanto già lo ero come fan!

«A domani Joy, a Neverland», rispose Ryan, interrompendo il piccolo silenzio che si era formato nel frattempo. Io sorrisi, ancora un po’ frastornata.
Ci vediamo», dissi un po’ impacciata, per poi aspettare che fossero quegl’altri due a buttare giù la conversazioni per primi. Quando lo fecero, subito dopo feci lo stesso con il mio telefono; senza neanche guardarlo, ancora poco distante dall’orecchio dove lo avevo tenuto appoggiato, lo chiusi meccanicamente con scatto rumoroso.

***

Quando scesi dall’auto nera non avevo abbastanza controllo di me stessa per misurare le mie emozioni. Era troppo bello per essere vero, e troppo vero per essere un’illusione. Ero nel posto dove avevo sempre sognato andare, dove i bambini potevano essere loro stessi con la loro semplicità e meravigliosa innocenza.
Quella era l’Isola che non c’è. La Neverland di Michael. L’Isola dei bimbi sperduti e di Peter.

Erano le due precise quando arrivai ma mi ci vollero parecchi minuti perché fossi nelle mie piene facoltà mentali e non. Tuttavia, lo incredulità di quel paesaggio aveva preso il posto dell’eccitazione per essere là; se in macchina, attimi prima, ero stata sull’orlo si scoppiare ad urlare dall’emozione, poco dopo mi ero ritrovata senza parole e non “urlante” come presumevo sarebbe stato fattibile.

Rimasi con una mano appoggiata alla portiera del guidatore – visto che avevo pensato di venire da sola, senza essere scortata da guardie del corpo e manager – mentre con l’altra mi apprestavo a togliere gli occhiali da sole, come se cercassi di vedere meglio quello che c’avevo davanti, agganciandoli per un bottone della camicia. La giornata era una delle più soleggiate che avessi mai goduto in pieno Marzo a LA e il caldo non tardava ad arrivare: perciò, per l’occasione, mi ero vestita in modo fresco e sobrio, con un paio di jeans chiari lunghi fino a poco più del ginocchio e una camicia di seta a mezze maniche, arancione, un po’ sbottonata, lasciando intravedere a malapena la scollatura. Nonostante l’abbigliamento abbastanza primaverile-estivo, ero stata prudente nel decidere di indossare bianche scarpe da ginnastica. Non mi ero truccata chissà ché né pettinata alla perfezione, mi ero solo messa la matita nera e legati i capelli in una coda fatta alla bel meglio.

Una stradina di piccoli sassolini divideva la strada in tre diverse direzioni, c’erano maestosi alberi tutto intorno e già l’accoglienza ai cancelli sembrava una delle più belle avessi mai ricevuto. Ero entrata dentro Neverland, lasciando sempre più posto alla meraviglia che alla confusione, calorosamente invitata a lasciare la mia auto in mano a due inservienti, che mi dissero l’avrebbero portata in un posto meno confusionale di quello e più tranquillo, fino a quando non avrei deciso di andarmene.
Entrambi si presentarono, mi sorrisero cordiali e furono gentilissimi nel rivolgermi parola; no atti di superbia, no atti da snob, niente che potesse sembrare irrispettoso.

Si chiamavano uno Jack e l’altro Edward: il primo aveva capelli corti, chiari, occhi nocciola, mentre il secondo aveva capelli castano scuro e occhi scuri; entrambi dovevano essere sulla trentina, pressoché. Detti a Edward le chiavi della mia auto, lasciandogli la libertà di portarla nel parcheggio dove avevano accennato prima, in un luogo di cui sapevano solo loro dove fosse, e con Jack mi diressi nel luogo nel quale Michael e Ryan mi aspettavano.
I due – mi disse Jack – mi attendevano poco meno da cinque minuti di anticipo, poco più in là del centro benvenuti.

Mentre camminavamo però ero molto più propensa a guardarmi in giro piuttosto che ascoltarlo; ovviamente annuivo diligente con il capo, mostrando una faccia interessata da buona e brava ascoltatrice, ma in realtà metà delle frasi che mi rivolgeva entravano da un orecchio e si perdevano nella stupefazione che aleggiava nella mia testa, scomparendo poi come polvere sottile.

Neverland era una distesa immensa, un vasto territorio collinare, e sapevo che quello che stavo vedendo in quel momento non era niente in confronto a quello che poi avrei osservato. Passeggiavamo su una stradina di piccoli ciottoli di sassi, il verde era un colore tipico del paesaggio, tutto il ranch era pieno di alberi, e migliaia di statue di bambini di bronzo e ottone rendevano tutto l’ambiente più meraviglioso e strabiliante ai miei occhi.
Non c’era stradina dove non ne trovassi una, e tutte raffiguravano scene o immagini diverse e dal significato profondamente misterioso.

Dopo circa una decina abbondante di minuti – sebbene per me il tempo si fosse fermato non appena avevo passato oltre il confine dell’entrata al ranch – Jack ed io arrivammo ad un altro incrocio di strade, nel quale si trovavano anche gli altri due con i quali avevo appunto un appuntamento. Li vidi da lontano, entrambi propensi a parlare, e appena decifrarono anche loro la mia presenza sorrisi.

Abbassai inizialmente lo sguardo, ogni metro che si riduceva fra me, Ryan e Michael sentivo mi procurava un brivido lungo la schiena, austero e dirompente, e arrossii di poco sulle gote. Se proprio avrei dovuto spiegare perché ero così scarlatta, avrei inventato la scusa del caldo, ma pensai che sarebbe stata davvero poco credibile.
Soprattutto se incrociavo i suoi occhi. Anche se fossimo distanti di alcuni metri oramai, gli avevo già fatto il check-up completo – come anche lui del resto!

Lui. Michael. Era bellissimo, estremamente carismatico, come sempre. Portava pantaloni neri, camicia rossa – chissà come mai, ma in quel periodo pensai che nel suo guardaroba ci fosse solo il colore rosso e nero –, un cappello dei suoi nel capo, mocassini neri classici, e i miei tanto amati Ray Ban agganciati alla camicia che lo facevano sembrare sempre e sempre più figo! I lineamenti del viso e del corpo in sé lo facevano sembrare una di quelle statue che creano solo i grandi artisti, una volta solo così nella loro vita creativa, una di quelle che si possono definire “una su un milione”. Il suo sorriso più mi avvicinavo più cominciava a risplendere, un misto fra imbarazzo e entusiasmo, di una brillantezza capace di accecare perfino i raggi del sole che lo aiutavano a scintillare.

Sapevo che lui mi aveva fissato, studiato come le precedenti volte che ci eravamo incontrati, ma feci finta di niente, sentendomi nonostante la mia temerarietà osservata a tal punto da inciampare sui miei stessi piedi. Perché niente mi metteva in subbuglio, nessuno mi rendeva meno la mia spontaneità nei movimenti e nei pensieri se non lui. Ero stata davanti a milioni e milioni di persone, avevo incontrato alcune persone davvero importante in quei quasi due anni di carriera, ma non mi sentivo mai in soggezione. Malgrado ciò lui era colui che dava l’eccezione alla regola di routine.

Arrivai accanto a loro e, proprio mentre credetti che il mio respiro stesse per cessare in gola, Ryan mi rivolse la sua dolce voce assieme ad un sorriso felice. Probabilmente però mi voleva solo aiutare a iniziare il discorso.
«Finalmente, Joy! Sono felice che tu sia qui! Sei in ritardo però di una abbondante decina di minuti...», mi disse con voce camuffata da finto rimprovero. Io distolsi lo sguardo da Michael, colui che per qualche istante aveva invaghito i pensieri della mia mente, facendo finta di niente e atteggiandomi come al solito.
«In realtà sono arrivata in perfetto orario, ho guardato l’ora, ed erano le due e dodici secondi esatti quando sono entrata dentro i cancelli di Neverland!», risposi con orgoglio divertito. Poi soffocai un sospiro. «Mi sono solo persa nelle meraviglie di questo paesaggio...»
Così dicendo rivolsi i miei occhi di nuovo a Michael, il quale mi osservava sempre con occhi osservatori ma con una punta in più, questa volta, di luccichio in essi. Mi sentivo in dovere di dargli i miei ringraziamenti, soprattutto perché essi erano sinceri e senza alcuna presenza di ipocriticità.
«Grazie per aver deciso di far venire anche me in questo luogo, non ho parole, ho fatto solo pochi metri e ne sono ancora abbagliata!... Ti sono grata per la grande premura per aver deciso di avermi invitato, ancora».

Sapevo che il mio sguardo si sarebbe illuminato a quelle parole, ma non m’importava molto. La grande gioia per essere là e i miei grazie a lui erano infiniti, perché mai mi sarei aspettata un tale e così gentil gesto da una persona che neanche mi conosceva bene per quella che ero.
Pronunciando quelle frasi di gratitudine mi ero guardata intorno, sorridendo, e spalancando un po’ le braccia a mo’ di arresa a quell’incantevole Isola che non c’è. Anche i suoi occhi s’illuminarono di più, mostrando un senso di timidezza e allo stesso tempo esultanza per il mio giudizio. Il suo sorriso si fece allora molto più grande di quello precedente.

«Oh, no, non ringraziarmi!», disse con voce teneramente candida. «Sono contento che questo posto ti possa piacere così tanto, ma non hai ancora visto nulla! Ci sono una varietà enorme di svago e divertimento... Spero davvero che alla fine questa giornata ti possa essere soddisfacente...»
Le sue gote s’arrossarono allora riservate, lasciando posto ad una speranza nella sua espressione che era lo specchio del desiderio di volermi far contenta. Intuii che non aveva intenzione di deludere le mie aspettative, e gli schioccai un’occhiata che desiderava intendere che lo ero già con così poco.
«Appunto!», intervenne Ryan, prendendomi la mano e sviandomi dal intenso momento psichico con Michael, gettandogli uno sguardo d’attesa. «Michael mi aveva promesso che ci avrebbe portato a fare un giro col treno, e che poi ci avrebbe fatto provare alcune delle sue giostre...»
«Ma che aspettiamo?», esclamai ironicamente, alzando la mano libera, al posto di quella che già tenevo stretta a quella di Ryan. «Voglio proprio vedere tutte queste bellezze! Non ce la faccio più a rimanere qua, sotto il sole cocente. Ma, ehm... Treno?»

Rivolsi uno sguardo abbastanza confuso a Michael, come a chiedergli spiegazioni, ma lui semplicemente sorrise, con le braccia conserte, fissando Ryan in attesa che avesse proprio lui l’onore di spiegarmi la situazione a me indecifrabile. L’altro non esitò un solo secondo.

«Sì, proprio così!», e mentre spiegò c’incamminammo verso il posto predestinato. «C’è, dove siamo diretti adesso, una piccola stazione ferroviaria – hai presente i trenini quelli del Luna Park, no? Ecco, tipo così è. In pratica con quello daremo “un’occhiata” all’ambiente, fino ad arrivare al punto nel quale scenderemo, che sarà appunto il luogo dove si trovano la maggior parte delle giostre del Ranch. Ho spiegato bene, Michael?», chiese infine, dopo quella lunga e dettagliata spiegazione, fissando l’amico sorridente.
«Perfettamente direi!», disse Michael orgogliosamente soddisfatto, portandosi gli occhiali da sole davanti agli occhi. Forse incondizionatamente, mi apprestai a fare quel gesto anche io, sorridendo tutta allegra per quella mia avventura del pomeriggio.

A passi tranquilli ci dirigemmo pian piano verso la stazione, a volte parlando del più e del meno, a volte restando nel silenzio più pacifico e mai imbarazzante che si potesse mai immaginare; spesso era Ryan a tirare fuori le parole dalla nostra bocca, raramente io o Michael, forse per timidezza da parte sua e attrazione del ranch da parte mia, ma quando arrivava il momento di ammirare qualche cosa in particolare del posto vicino e io ero la prima a esclamare “Noo che belloo!”. Proprio come una bambina in un negozio di giocattoli! Entrambi se la ridevano di gusto vedendo il mio volto brillare e i miei occhi spalancarsi alle meraviglie tutto intorno, soprattutto se questi trattavano decorazioni floreali.

Una cosa che non si potesse dire di Neverland, era che non possedesse fiori o giardini pieni di colori accesi e maestosi. Io avevo sempre amato i fiori, ogni tipo senza eccezioni, fin da quando la mia giovane memoria poteva ricordare. Per me vedere tutti quei colori era uno spettacolo di luci ed emozioni dalle tonalità più scure alle più chiare, ed ogni sguardo ad essi suscitava in me un soffio al cuore e un volto da completa imbecille!

Stava di fatto che quei due se la ridevano di gusto, così di gusto che mi incitavano con il dito indicandomi ogni cosa nuova ai miei occhi. Mi sentivo trattata come una bambina piccola, ma in fondo lo ero. Come non si poteva non esserlo in un mondo come quello? Anche Ryan e soprattutto Michael cominciarono a sciogliersi nella delicata bellezza dello svago infantile, trasformando il nostro trio in un gruppo di bambini divertiti e stupefatti.
Solo stando al ranch, le persone potevano capire la vera bellezza del tornare piccoli: chi non viveva quelle emozioni, forse non sarebbe stato in grado di capire realmente a fondo quanto è bello essere bimbi.
Dimenticai perfino il senso di timidezza verso Michael, il quale scordò anche lui stesso, rivolgendomi calde occhiate e sorrisi di enorme divertimento e gioia. Era in quei momenti là che mi sentivo libera di essere me stessa.

La camminata durò molto più presto di come me l’ero immaginata - sebbene avessimo fatto un gran pezzo di strada infinito e avessimo passato tre buoni quarti d’ora per arrivare alla stazione centrale - ma il tempo quel giorno non era destinata ad esistere. Con il trenino attraversammo quasi metà di Neverland - impiegando quasi una mezz’oretta e forse più, visto la velocità con cui ci dirigevamo - fino a quando non si fermò alla zona giostre: per me, quella era una delle zone più belle di tutto il vasto territorio!

Attrazioni d’ogni tipo, dalla ruota panoramica ai seggiolini volanti, dai caroselli agli autoscontri; maestose costruzioni che riportavano ogni adulto, anziano o bambino che sia alla bellissima infanzia, dandoti quelle emozioni che solo da piccoli si possono provare.
Ero nel mondo dei sogni, pensai all’inizio, e non era possibile che ogni cosa lì fosse veramente reale. Io non potevo essere là, ma, fin quando il sogno sarebbe durato, me lo sarei vissuta con tutta l’anima.

«Joyce, hai visto?», mi chiese Ryan, anche lui eccitato, stringendo la mia mano sempre più forte – stretta che io ricambiai con altrettanto furore. Io sorrisi, ma ero troppo accecata dallo sbalordimento per distogliere gli occhi da tutte quelle meraviglie.

«E’ stupendo...», seppi solo dire, dando conferma che le mie emozioni erano reali. Mi venne perfino da piangere e il perché io lo sapevo; qualcuno avrebbe detto che era una cosa superfluamente ovvia, ma invece no: era emozione nostalgica e soffocante che si liberava nell’aria come un peso soffocante dal mio cuore.

Io tutte quelle cose non le avevo mai potute godere, ma solo sentite raccontare o viste nelle fotografie. Io in un Luna Park o alle giostre non ci ero mai andata. Mai. Le avevo sempre osservate da lontano, come se io fossi stata per tutto quel tempo rinchiusa in una gabbia, senza aver perciò avuto la possibilità di godermi la loro stupenda magnificenza. Nella mia infanzia non c’erano stati parchi divertimento, ma i miei sogni infantili erano governati da essi. C’era un motivo per cui non ci ero mai stata. Il motivo era la famiglia, il mio passato... Un’infanzia così gelida e deserta da non desiderare l’invidia di nessuno, ma solo costernazione e finta desolazione.

Lasciai che quel peso se ne volasse via assieme al mio stesso respiro, in aria, libero finalmente, lasciandolo trasformare in un misero cumulo di polvere invisibile. Il blocco di non essere mai stata in un posto come quello se ne era andato, ma sapevo che solo tornata a casa le lacrime si sarebbero fatte sentire.

«Allora, quale sarà la prima giostra su cui andremo?», chiese Michael, destandomi di colpo dai malinconici pensieri che mi avevano sfiorato la mente. Lo guardai e capii quanto anche lui potesse essere felice della nostra compagnia; era così contento che ne rimasi impressionata. Il suo volto sprigionava tutta la chiara felicità che provava dentro e io, ovviamente, non potevo non esserne abbagliata.

Io e Ryan ci guardammo.
«Io direi di scegliere una giostra ciascuno, uno alla volta...»
I due annuirono.
«Parti tu, Ryan? Quale sarà la nostra prima giostra del pomeriggio?», domandai con un sorriso.
«Mmh...», ci stette un po’ a pensare, guardandosi intorno con le labbra stirate in un’espressione pensierosa. «Facciamo prima il carosello, quello là!»

E la prima giostra fu quella. Ogni momento me lo vissi a pieno, soprattutto in quella costruzione così bella e ben costruita, che ne osservai ogni singolo dettaglio fotografandolo nella mente. Salii su un bianco cavallo, mentre Ryan e Michael decisero di prendere assieme una carrozza. Osservai spesso senza farmi vedere quei due parlare, seri, sottovoce – anche se non avrei potuto sentirli comunque, visto la musica da carillon che ci circondava -, e mi chiesi che cosa avessero tanto da bisbigliare. Ammetto di essere stata leggermente gelosa, di entrambi, ma ero troppo impegnata a divertirmi piuttosto che a farmi ambigui pensieri di possessività.

Finito il giro in quella meravigliosa giostra fu Michael a scegliere. «Proviamo lo “Spider”, vi va?»
«Ehm... Qual è lo “Spider”?», domandai ingenua e senza capire a quale si riferisse.
«Quello là!», disse, indicando quel grande marchingegno nero che dava tanto l’impressione di assomigliare veramente ad un ragno. Era enorme, c’erano circa dodici cabine che giravano su sé stesse, in aria, a volte abbassandosi e altre alzandosi fino in alto nel cielo.
«Andiamo!», esclamò Ryan correndo subito verso essa, seguito da Michael e infine da me.

Mentre però i due non vedevano l’ora di salire, io ne rimasi al momento titubante. Non avevo mai provato una cosa del genere, perciò non sapevo nemmeno se dopo mi sarei sentita male o meno. Da una parte avevo paura – a vederlo da vicino sembrava una cosa quasi gigantesca! – ma dall’altra non vedevo l’ora di provarci.
Ma sì, mi dissi, non penso che starò male.
Infatti non mi sentii male, se non peggio!

Inizialmente ero eccitata nel fare quello che stavamo per fare; il ragno, una volta saliti, cominciò ad alzarsi in aria, muovendosi pian piano per poi diventare sempre più veloce! Giravi su te stesso senza capire bene che diavolo stessi facendo, lasciando cadere ogni pensiero che non fosse quello di smettere di girare fino a farti venir da vomitare!

Non so come facemmo a stare in tre su una cabina da due, ma ci stemmo. Risi come una matta, assieme a Michael e Ryan che mi seguivano a ruota – Michael per di più con la sua risata mi contagiava, portandomi al più totale mal di pancia da riso che potessi aver mai avuto! – e fin quando non scesi potei definirmi ok. Quando invece toccai per terra, scesa dalla cabina, i giramenti di testa mi sballarono completamente il cervello.

Lasciai scendere prima loro e per ultima scesi io, nonostante la testardaggine di Michael volesse che scendessi io per prima. Un inserviente dovette prendermi per un braccio per far sì che non perdessi immediatamente l’equilibrio, il quale preoccupato mi chiese come stessi. <br>Soffocai parole confuse e determinate al meglio, dicendo “tutto ok, tutto ok”. Invece sentivo la testa girarmi, un mal di testa improvviso offuscarmi la vista, mentre il mio stomaco vuoto richiamava silenziosamente la mia attenzione trasandata.

Ryan e Michael fecero qualche passo avanti di me ignorando il mio stato di salute, fin quando d’improvviso Michael si voltò verso di me. Il suo sorriso allegro scomparve e prese posto un’occhiata preoccupata e spaventata.
Tutto bene, Joyce, mi richiamai mentalmente, di che va tutto bene...
Istintivamente poco dopo si voltò anche Ryan, quest’ultimo divenne subito inquieto.

«Joyce!», mi chiamò Ryan, venendomi incontro assieme all’altro. «Che cosa c’è? Non stai bene?»
Ingoiai la saliva prima di rispondere a tonalità udibile. «Sì... Sì, sì... Non preoccupatevi, solo un lieve giramento di testa, mi passa, mi passa...», ma in realtà era come se stessi cercando di convincere me stessa.
«No, Joy, non stai bene! Sei... Sei pallida!», esclamò un po’ spaventato. Guardò Michael, come a chiedergli “Cosa facciamo adesso?”, e lui mantenne uno sguardo serio e intimorito, non distogliendo gli occhi dai miei perennemente abbassati al terreno sotto i miei piedi.
«Ryan, vai a prenderle qualcosa da bere nel bar, quello in fondo. Io intanto la porto in una panchina...», quando a quelle parole alzai gli occhi, lui mi rivolse un’occhiata teneramente comprensiva. «E’ meglio che ti siedi un momento, su una panchina all’ombra, che ne dici?...»
«No, no, davvero! Sto bene, non ho bisogno di...»

Stetti per fare un passo indietro ma mi bloccai, sbattendo gli occhi e poi sentendo l’equilibrio mancare sotto i piedi. Mi sentivo la testa scoppiare dal senso di vuoto, ma prima che cadessi all’indietro entrambi furono veloci da prendermi ognuno per un braccio. Rimasi per un istante abbondante fissa sul pensiero delle mani di Michael, una che mi teneva il braccio e l’altra nascosta dietro la mia schiena. Non arrossii perché per mia fortuna non ne avevo le forze.

«Tu non stai affatto bene, Joyce...», mi disse sofficemente Michael, mentre continuò a guardarmi con occhi premurosi.
«Vado a prenderti subito un tè freddo, va bene Joy?», mi chiese Ryan, nel frattempo che io gli annuii fissando il vuoto. Subito egli corse via verso un bar lontano – la luce mi accecava gli occhi non protetti dagli occhiali da sole.
«Ce la fai a camminare un po’?», domandò Michael stringendomi a mala pena il braccio in una presa più ferrea.
«P-penso di sì... Sarà la gravità, forse... A farmi venire questi mancamenti d’equilibrio...», risposi con tutta l’intenzione di sembrare più "ripresa" dalla situazione, in cerca di chissà quale scusa per sorvolare il mio stato di salute.
«Mmh...», sentii soffocare lui in un sospiro sospeso. Gli rivolsi i miei occhi incuriositi, un po’ vaghi a causa del mal di testa, mentre lui sembrò assorto per qualche secondo nelle sue riflessioni.

Di nuovo all’improvviso sentii la terra sotto i piedi mancarmi, tanto che legai forte le mie mani strette alla sua camicia rossa nel tentativo di non cadere giù, chiudendo gli occhi. Invece poco dopo mi accorsi che mi stavo muovendo, senza toccare per terra, e li riaprii di scatto. Guardai il basso e m’accorsi che Michael mi teneva fra le sue braccia, come se fossi una libellula. Mi stava portando in braccio fino alla panchina. Non osai guardarlo in viso, al momento non seppi dire qualcosa di sensatamente corretto e giusto da pronunciare.

Era bello stare in quella posizione, soprattutto perché non mi aspettavo sarebbe riuscito a tenermi su senza grande fatica. Io non ero proprio una piuma, ero di corporatura giusta, almeno finché non mangiavo troppo. Dovevo stare attenta alla mia linea, perché se mangiavo qualcosa che mi faceva male tendevo a buttare su qualche chilo che mi avrebbe pesato forse più sulla coscienza che sul mio corpo!

Inoltre, al mal di testa s’aggiungeva il batticuore. Per capirmi, bisognava provare a essere fra le braccia di Michael! Mi consolai con il gusto di sentirmi fortunata per quell’evento, ma in contemporanea sentivo il cuore battermi in petto come un forsennato. Lui mi stava portando in braccio? Sogno troppo bello per essere vero, neanche fra un centinaio di anni avrei immaginato che quello stava capitando proprio a me! Lui era il mio idolo fin da quando ero piccolissima, da adolescente e anche in quel periodo; essere in tal situazione - con il suo volto poco distante dal mio, il suo respiro soffice sfiorarmi, il suo profumo invadermi dentro -, era tanto incredibile quanto sbalorditivo!

«Ecco... Adesso ti appoggio giù...», disse lui a voce fioca, mettendomi delicatamente seduta su una panchina all’ombra di un grande albero. «Vieni, distenditi dritta...», continuò pochi istanti più tardi.
Avevo ancora la fronte corrugata dal mal di testa e la pelle d’oca dovuti al suo tocco soffice sulla mia pelle, ma in compenso quel senso di svenimento era più o meno passato.
«Non ce n’è bisogno, credimi...», soffocai lieve, guardandolo esitante. «Mi sento già molto meglio anche seduta...»
Ma lui scosse la testa, piano ma deciso. «No, sei ancora debole! Distenditi», m’ordinò con voce totalmente soave.
«E tu? Dove ti siedi? Davvero... Sto bene ora!», esclamai decisa. Eravamo due testardi entrambi. Non ero affatto propensa a rinunciare alle mie idee! Ci fissammo intensamente negl’occhi e a lui venne da sorridere.
«Non riuscirai a spuntarla...», e mi fece un cenno del capo per incitarmi a stendermi. «Mi siedo qua a terra, guarda!», disse sedendosi a terra, con le gambe incrociate come un bambino. «Ora distenditi, non voglio che tu stia male!»
Un altro lungo sguardo intenso, lui sorridente e io pensierosa. Sbuffai, alzai gli occhi al cielo e feci una strana smorfia con le labbra... E mi arresi. Odiavo perdere, ma siccome ero stata colpita dalle sue parole decisi d’assecondarlo.

Portai le gambe sopra la panchina e, accompagnata dalle mani di lui a reggermi il capo, mi stesi pian piano e lasciai il mio corpo adagiarsi al cemento fresco. I miei occhi fissarono l’alto, osservando i raggi del sole che attraversavano non omogeneamente le foglie dell’enorme albero. Rimasi incantata da quel gioco di luci e ombre per un po’ di tempo, fin quando il “sesto senso” mi spinse a fissare Michael, sentendo a pelle il suo sguardo su di me.

«Ti viene da rimettere?», mi chiese non spostando lo sguardo dai miei occhi. Quasi incantata dissentii col capo.
Lui annuii piano, si umettò le labbra e abbassò quelle infinite e intense profondità scure che mi guardavano. Quasi fossimo d’accordo, in contemporanea abbassai gli occhi anche io. Era così tenera la sua preoccupazione nei miei confronti che mi faceva arrossire, così tenera quanto adorabilmente dolce.

«Mi dispiace di averti causato questo contrattempo...», dissi mordendomi il labbro inferiore. Davvero mi sentivo in colpa! «Non era mia intenzione, è solo che...»
«No, non chiedere scusa!», esclamò lui dolce, sorridendo amabile, per poi farsi di nuovo serio. «La colpa è mia, se solo avessi saputo che questo era l’effetto che aveva su di te quella giostra non l’avrei nemmeno proposta...»
«Non potevi saperlo...», dissi stringendo le labbra in un sorriso stirato. «E nemmeno io, d’altronde...»


Non doveva chiedere scusa lui al posto mio. Se fossi stata intelligentemente più cauta, avrei detto la verità dicendo che non ero mai stata in un parco giochi come quello e che non sapevo perciò che effetto potesse avere lo “Spider” su di me e sul mio organismo! Invece ero stata impulsiva e avevo accettato, anche se titubante, la proposta di provare. Non avevo pensato molto ai pro e i contro, nè come avrei dovuto fare, e il risultato di quel mio atto “furbesco” era ceduto come un castello di sabbia bagnato dall’acqua del mare.

Lo fissai irresoluta e lo scoprii guardarmi con una nota interrogativa in pieno viso, con le sopracciglia scure aggrottate e gli occhi puntati su me con quella loro brillante luce accecante. Non mi servivano le parole per “captare” la domanda nel suo volto corrugato e dubbioso. Imbarazzata, m’apprestai ad introdurre e chiudere il discorso con una piccola frase ambigua.

«Non sono... Non sono mai andata in un Luna Park, ecco...», pronunciai velocemente, tornando con gli occhi a fissare per terra, verso le sue ginocchia. Non ero in realtà volenterosa di studiare la sua espressione...
Ed ecco che gli istinti repressi sul “non guardarlo in volto” disubbidirono ai miei comandi mentali.

I suoi occhi mi fissavano, un misto fra stupore e mestizia, fra shock e curiosità. Sentii a malapena il caldo avvampare sulle guance, segno di un’imminente segreto che facevo fatica a rivelare. Perché cavolo mi imbarazzavo proprio non riuscivo a concepirlo. Perché lui? Solo lui riusciva a farmi venire in testa queste stupide domande retoriche!

Prima che potesse chiedermi qualunque cosa Ryan s’avvicinò a noi, con in mano una bottiglia fresca di tè, proprio del gusto che piaceva a me! Aveva un po’ il fiatone e guardò entrambi con sguardo curiosamente serio ed interessato.
«Eccoti il tè... Joyce...», mi disse soffocando le parole coi respiri ansiosi. Michael, che penso non si fosse accorto all’inizio, si voltò verso lui, nel frattempo che io detti a Ryan un sorriso di sincera gratitudine.
«Grazie Ryan... Ti sono davvero molto grata!», e così mi tirai su, sempre aiutata dalle mie due “quasi guardie del corpo” Ryan e Michael e mi apprestai a bere il tè.

Mi ci volle qualche minuto prima che riuscissi a sentirmi meglio e qualche altro secondo perché riprendessi il mio colorito abbronzato naturale. Anche gli altri due se ne accorsero, perciò spiegai loro che il mio era probabilmente un calo di zuccheri, visto che ne soffrivo spesso. Se non acquisivo gli zuccheri o vitamine necessari, il mio corpo era più propenso a soffrire di mancamenti e giramenti di testa. Con il caldo e il sole, poi le cose tendevano a peggiorare e perciò dovevo stare ancora più attenta. Così con quella bevanda zuccherata il mio stato di salute cominciò a migliorare, fino a tornare quello di una mezz’oretta prima!
E proprio mentre stavamo per alzarci e dirigerci verso una giostra più tranquilla, una macchina si fermò sulla strada accanto al parco divertimenti. Era grigio metallizzata, e tutte e tre sapevamo benissimo a chi appartenesse. Dall’auto scese la madre di Ryan. Per lui era già ora di andare.

«Come così presto?», esclamò sua madre. «Sono già le cinque passate! E ti avevo detto che dovevamo andare ad una visita medica di controlli, no? Continuerai il giro un’altra volta, stanne certo tesoro, almeno se Michael sarà così gentile da dire di sì...», disse la donna rivolgendo un gran sorriso a quest’ultimo. Lui ricambiò e io sorrisi rimanendo a guardarlo mentre lui s’affrettava a rispondere di sì.

Mi piaceva osservarlo. Era interessante, dolce, e molto, molto gentile. Vidi la sincerità con cui lui diceva – anzi pregava! – che Ryan tornasse di nuovo là a trovarlo e che non troppo tardi si sarebbero rivisti. Ryan fu felice di quella risposta e lo abbracciò. Mi si sciolse il cuore. Letteralmente. Dopodichè abbracciò anche me e se ne andò, a malincuore, con l'auto della madre, facendoci gesti di saluto da dietro i finestrini dell'automobile. Sia io che Michael ricambiammo il saluto.
Era ora che andassi anche io. Perciò, con una fitta al cuore, mi apprestai a parlare. In quel momento capii i sentimenti di Ryan al pensiero di andarsene così presto. Io non potevo godere di tutta questa gentilezza, era già stato troppo generoso con me, non potevo approffitare. Strinsi le labbra in una stretta dispiaciuta e gli rivolsi i miei occhi dalle nascoste ombre malinconiche.

«Forse è meglio che vada a casa anche io...», dissi lievemente, nel frattempo che lui mi rivolse uno sguardo interrogativo. A quell'occhiata mi sentii soffocare dal dispiacere e dentro di me urlavo "Impediscimi di andare, impidiscimi di andare!". «Grazie per avermi ospitato, te ne sarò sempre riconoscente...»
«Non andare...», disse.
Lo guardai scioccata, senza emettere fiato per respirare. Lui ricambiò arrossendo sulle guance, senza però perdere la serietà e preghiere che trasparivano dai suoi occhi scuri.
«Non voglio che tu stia male, aspetta un po'... Forse durante il viaggio potresti sentirti di nuovo poco bene e io...», fece una pausa, abbassò gli occhi su terra e ritornò a guardarmi, mentre con gli arti delle mani e del viso compiva gesti imbarazzati e nervosi. «Mi piacerebbe molto restassi ancora un po'».

E io, ingenua e incapace mentalmente, accettai.


(angel66)
00venerdì 18 giugno 2010 13:53
fantastici brava
tati-a4ever
00venerdì 18 giugno 2010 13:58
Grazie angel :D
ludo.94
00venerdì 18 giugno 2010 14:22
bellissimo tati!!!! e ora che si diranno questi due!!mmmm.... aspetto il prossimooo!! un bacio,ludo
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