tati-a4ever
00lunedì 14 giugno 2010 09:17
CAPITOLO V
«In effetti, noi abbiamo già fatto conoscenza presso la festa di compleanno di Liz Taylor», soggiunsi dopo un breve attimo di silenzio, lasciando trasparire dalle mie labbra un percettibile sorriso divertito e impacciato.
Un altro attimo di silenzio palpabile, i due mi fissavano.
«Più o meno, insomma...», intervenni infine, come a concludere una questione da lasciar perdere.
Avere di fronte per una seconda volta Michael Jackson era dopotutto un’emozione. Mi era impossibile credere che non stavo immaginando e che il destino mi aveva dato un’ulteriore opportunità per incontrarlo. Tutto potevo immaginare fuorché quello che stava succedendo. Che fosse il fato o un’assurda casualità della situazione io non potevo saperlo. E nemmeno lui. Credo.
Eravamo distanti di quasi due metri e Ryan divideva lo spazio fra noi rivolgendoci sguardi curiosi e sinceramente stupiti. Chissà cosa stava pensando. Sembrava sinceramente sorpreso per quel fatto. Io avevo gli occhi fissi su Michael, in volto il mio lieve sorriso soffocava il batticuore frenetico del momento. A discapito di questo fatto, però, non ero né agitata né nervosa.
Anch’egli mi osservava. Il suo sguardo era enigmatico, un misto fra curiosità, interdizione e timidezza. Batteva le punte dei piedi lentamente sul pavimento, senza staccare le piante dei piedi dal pavimento, le mani tenute dietro la schiena con una presa d’acciaio. Sembrava essere tranquillo, ma una luce nei suoi occhi mi parlava e diceva che era stato colto alla sprovvista dalla mia presenza.
«Oh beh, allora niente presentazioni!», esclamò d’impeto Ryan, il quale mi si rivolse in seguito. «Michael può restare con noi, vero?». La sua occhiata era speranzosa e tenera, non potevo non dire no...
«Non importa, davvero», s’intromise l’altro prima che potessi parlare io. Lo studiai con le labbra semiaperte, segno che mi aveva beccato in contropiedi prima che io potessi spiccicare parola di risposta. «Posso tornare un altro giorno. Anzi, la colpa è mia per non aver avvisato...»
Le sue gote cominciarono ad arrossire sotto i miei occhi verdi puntati su di lui, tant’è che abbassò segretamente i suoi e li ripose verso Ryan. D’istinto, arrossii anch’io, ma non staccai lo sguardo da egli. Sentii un formicolio leggero alla testa.
«Ryan, è ovvio che per me può restare!», dissi rivolgendomi a quest’ultimo, anche se tuttavia sembrava stessi parlando con Michael. Entrambi mi fissarono – uno felice, l’altro silenziosamente stupito – e io sorrisi sincera. «Come potrebbe essere altrimenti?»
Anche i due dinanzi a me sorrisero, Ryan allegramente, Michael grato del mio gesto. A quest’ultimo lanciai uno sguardo duttile, sereno. Dopotutto non sarebbe stato male passare un po’ di tempo anche con lui; era un ottimo modo per conoscerlo e si sapeva: io ero molto curiosa della psicologia umana, anche se talvolta per nulla soddisfacente!
«Abbiamo appena finito di cucinare dei biscotti, sai?», disse Ryan a Michael ad occhi sfavillanti di gioia. L’altro gli si rivolse alzando le sopracciglia dalla curiosità. Ryan mi rivolse un’occhiata furbesca. «Joy ne stava proprio per assaggiare uno...»
«In realtà, ha tutte le intenzioni di farmi venire un’intossicazione alimentare», mi sentii di dire, alzando un indice della mano in alto. I due sogghignarono a bassa voce, uno più tenero dell’altro, e ci dirigemmo piano verso la mensola della cucina. Quasi non mi pareva vero di vivere quella situazione!
«Ecco la famigerata teglia di biscotti!», esclamò Ryan, appoggiandosi con le mani sul bordo della mensola. Michael continuò a sorridere, allargando maggiormente il suo sorriso. «Che te ne pare? Ti sembrano mangiabili?»
L’altro rise. «Secondo me sì... Qual è il parere della degustatrice?», rispose lanciandomi un’occhiata ironica e furbesca, in attesa di una mia interessante risposta.
Ma si divertivano così tanto a provocarmi o, più che altro, alle mie smorfie “simpatiche”?
Io restituii lo sguardo con un sopracciglio alzato e con un ché da finto tonto. «Oh be’, fin quando qua non assaggio io, nessuno rischia!», risposi alzando lievemente le spalle. Notai il sorriso di Michael farsi sempre più grande.
«Dai, assaggia Joyce!», mi propose Ryan rivolgendosi con la stessa furbizia dell’amico poco distante da lui. «Voglio il verdetto... Oh, a proposito, quali sono le tue ultime parole in caso non ce la facessi a vivere?»
«Certo che non vedete l’ora di sbarazzarvi di me!», esclamai compiendo un gesto secco col capo come a dire “Tanto cosa vuoi che sia, no?!”, a mani congiunte sui fianchi e testa leggermente inclinata a sinistra. Poi stetti al gioco come una bambina di cinque anni o meno...
«Mm... Vediamo... Aspetta, hai carta e penna? Così te lo segni, dato che farà direttamente da mio testamento!»
Ryan prese un foglio e una matita poco lontano dallo scaffale vicino e si mise in posa di scrittura, dicendomi: “Parti!”. Intanto, l’altro se ne stava divertito con una mano sulle labbra, godendosi la scena, interessato e divertito come non mai. Gli piaceva godersi lo spettacolo, e io glielo avrei dato!
«Allora... “Io sottoscritta Joyce Lorelay Owen, 29 anni, nata il 24 aprile 1959, lascio le mie adorate cassette Disney – patrimonio di cui vado molto fiera! – a tutti i bambini bisognosi di cartoni animati del mondo...»
Passammo una decina di minuti abbondanti nel scrivere il mio cosiddetto “testamento”, all’insegno di risate e commenti vari sulle stupidaggini che inventavo! Solo io potevo pensare a delle cose assurde come quelle che stavo riferendo ad alta voce, e in più punti dovetti cercare anch’io di trattenermi dallo scoppiare a ridere.
A mio confronto, gli altri due non si sprecavano nemmeno a trattenersi: ridevano e basta! Come pazzi! Era così bello vedere quei due ridere, ed era ulteriormente bella quella situazioni da portarmi a pensare, per un solo ed importante istante, che, in fondo, noi tre eravamo solo bambini non cresciuti!
E, mentre Michael mi osservava con le lacrime agl’occhi, non riusciva a constatare da egli stesso che una più vaga luce in quelle profondità scure mi avrebbe portato alla sconnessione di rete che agganciava ogni mio sano neurone alla mia sanità mentale!
Una cosa che dedussi subito, nella sua personalità spiccante, fu la sua dote di osservazione; non distoglieva quasi mai lo sguardo dal mio viso – sembrava fosse ipnotizzato – ed io pensai che fosse curioso di scoprire il mio carattere. Era una persona molto attenta, esaminatrice in un certo senso, e in quel giorno tanto particolare mi sentii l’oggetto principale delle sue attenzioni.
Anche io ero interessata, completamente presa nel conoscere che tipo fosse, ma, in confronto a lui, lo davo meno a vedere. Se tanto dovevo studiarlo, pensavo, era meglio lo facessi quando lui si distraesse un attimo da me, quando non avrei rischiato di fargli scoprire la mia reale natura curiosa, casomai fossi stata invece giudicata come un’impertinente.
Contrariamente da ogni mia previsione, lui era sempre attento su ogni mio gesto o parola che emettevo, perciò, ahimè, ero più disposta a rivolgergli fugaci occhiate esaminatrici. Una bella cosa, però, era la mia capacità di visualizzare con solo un veloce scambio d’occhi i sentimenti che trasparivano dal viso di una persona.
Ma lui per me era un caso patologico. Un caso che non sapevo risolvere.
Ero cieca di fronte a lui, e per cui ero obbligata a prendere le mie considerazioni sul suo vero carattere “con le pinze”. In un modo tutto suo, riusciva a sfasarmi. La mia bravura nel leggere dentro la mente delle persone e ogni lezione di psicologia presa all’università sembrava non essere in grado di resistere di fronte ad egli.<br>
Colpa mia o sua? Questo, inizialmente, fu un mistero per me, un grande e colossale enigma da risolvere.
«Bene,» dissi battendo un colpo con le mani. «Ora posso anche assaggiare! Addio, ci rivedremo in Paradiso, se Dio solo mi vuole accettare... Forse, se è misericordioso, rinuncerà alla gravità di stress che solo io posso portargli!»
«Posso abbracciarti prima che te ne vada per sempre?», disse Ryan con fare pregante. Io, per ovvietà di cose, mi sciolsi in un’occhiata che significasse “Ohh... Che tenero, grazie!”. Per intenderci, la stessa che assumevo quando guardavo i bambini piccoli o i cuccioli!
Lo abbracciai teneramente, quasi fosse un fragile pezzo di cristallo, e gli scoccai un bacio sciolto e disinvolto sulla tempia destra. Mi venivano naturali quei innati gesti d’affetto, perché li sentivo da dentro il cuore, e ogni volta che se presentava l’effettiva opportunità non rinunciavo a quello che il cuore mi comandava di fare!
In contemporanea, mentre sentivo la mia anima sollevarsi di qualche metro, nella mia testa gravava la consapevolezza nascosta di quello che sarebbe successo. Un giorno, il futuro mi avrebbe riportato a contatto con il passato, una volta che Ryan non ci sarebbe stato più, e quello sarebbe stato uno dei ricordi più importanti, insieme a molti altri che conservavo dei nostri momenti assieme...
Quel gesto, da divertente ed ironico che mi era semplicemente sembrato all’inizio, una semplice fonte di ironia, stava diventando una fonte di brutti pensieri. Ryan forse non ci pensò in quel momento, ma io sì. Perciò, una volta che venne sciolto quella stretta di soli pochi secondi, la mia espressione mutò di nuovo; durante l’abbraccio il mio volto aveva assunto un carattere pensieroso e rammaricato, e quando ritornai di fronte al suo viso cercai di riacquistare energia e positività.
Ero quasi sicura che Michael si fosse accorto di tutto quello che stavo provando io dentro di me. Non avevo il coraggio di osservarlo dritto negli occhi, nemmeno quando io e Ryan ci eravamo presi tra le braccia dell’altro, perché sapevo – dentro di me – che in quelli avrei trovato il lieve riflesso delle mie emozioni amareggiate.
Finalmente mi accinsi a portarmi un biscotto alle labbra e mangiarlo. E, tanto per fare un po’ di scena, nella mia mente risi della mia idea diabolica di far venire un bello spavento ad entrambi. Ero crudele, ma mi divertivo qualche volta nell’essere cattiva!
Masticai con lentezza, sotto gli occhi interessati dei due, uno più attento dell’altro, e feci mutare ad ogni secondo le sensazioni che trasparivano dai lineamenti del mio volto. Inizialmente corrugai d’istinto le sopracciglia, in modo tale da dar loro un’idea piuttosto confusa e pensierosa, poi i miei occhi cominciarono a divenire più impauriti e timorosi; con un arte scenica perfetta, aumentai pian piano il respiro nel petto e il battito cardiaco, e mi portai una mano al petto, fino a salire all’incirca nella stessa posizione dove si trovava la trachea.
Ammisi, fra me e me, di essere un’attrice perfetta in un caso del genere!
«Joyce... Che succede?», disse Ryan con tanto di preoccupazione e paura. S’avvicinò lentamente, prendendomi sofficemente il braccio, e Michael fece lo stesso, situandosi accanto al mio fianco destro libero. Entrambi sembravano in procinto di chiamare qualcuno ad aiutarli con la situazione ed io, portando avanti la scena, cominciai a tossicchiare.
Mi meravigliai con me stessa su come non fossi riuscita ancora a scoppiare dalle risate! D’altra parte, i biscotti erano tutt’altro che disgustosi, perciò dovevo considerarmi ulteriormente brava nel far finta che invece fossero orribili ed immangiabili!
«Joyce?», mi chiamò Michael. Era la prima volta che mi chiamava col mio nome, perciò mi sentii lunghi fremiti attraversarmi di getto la schiena e la nuca, perfino il braccio dove il suo polso mi aveva stretto con fare apprensivo. Sembrava così sinceramente impensierito ed ansioso da farmi venire voglia di guardarlo dritto negl’occhi per cogliere ogni sua sfaccettatura.
Ma non fermai comunque la mia recitazione. M’appoggiai con finto affanno sul bordo della mensola della cucina, e, mentre i capelli mi accarezzavano dolcemente il viso, lasciai trapelare un sorriso di sincero divertimento.
Michael mi mise una mano sulla schiena, lungo un fianco, cercando di trattenermi nel caso io fossi caduta sul serio. Ed in effetti rischiavo veramente, con tutti quei brividi di emozioni convulse che mi stava provocando!
«Oh mio Dio, Michael... Aiutiamola...», disse Ryan. «Joy...»
«Forse davvero sono orribili...», disse l’altro con voce sempre più agitata, anche se la sua agitazione era riferita a me più che ai biscotti e al loro gusto. «Ryan, vai a chiamare tua madre, io intanto... Ma che...»
Non ce la feci più. Un grugnito nasale mi portò a scoppiare letteralmente in risate e lacrime di spasso assoluto!
Mi lasciai trascinare a terra, piegando le ginocchia ed appoggiando il capo al mobile della cucina nel quale prima mi ero appoggiata. Stavo ridendo come una scema rincoglionita, ma riuscii ad alzarmi in piedi e batter un colpo a mani unite alle espressioni scioccate e confuse dei due spettatori. Feci due passi indietro, tanto per coglier bene ogni loro accenno di emozioni in viso, con una mano che mi copriva le labbra per cercare di trattenermi. Ero. Letteralmente. In. La-cri-me!
Ryan mi rivolse un’occhiata sempre più rassegnata e allo stesso tempo sconcertata, mentre l’altro ancora mi guardava ad occhi aperti e senza parole. In seguito emise un sospiro rassicurato, voltando il capo da un’altra parte con un sorriso scettico e, anche se lo nascondeva, era rallegrato.
«Non... Non ci posso credere!», esclamò Ryan, a bocca aperta nel vero senso della parola. «Tu stavi solo facendo finta di star male Joy? No, aspetta, davvero stavi facendo finta?»
Annuii e, con grande difficoltà, riuscii ad emettere parola; «Dovreste... Dovreste aver visto le vostre facce!», esclamai con sillabe confuse e acute da una risata che non riuscii di nuovo a contenere. E giù, che ritornai a piangere dal divertimento!
Ryan fissò Michael a lungo, il quale aveva ancora gli occhi puntati su di me inflessibili, questa volta visibilmente lucenti di sensazioni miste e caotiche. Essi davano la completa e chiara impressione che stesse ridendo dentro, sebbene mostrasse una facciata molto seria e impassibile.
L’altro compagno non seppe per un po’ cosa dire, poi si voltò verso di me che ero quasi riuscita a calmarmi dalle convulsioni del riso.
«Joyce, stavo per morire d’infarto! Ci hai fatto seriamente preoccupare, che non ti salti più in mente, per favore! Pensavo ti avessi avvelenata veramente... Michael, ti prego, dille qualcosa!», e così si rivolse a quest’ultimo spalancando le braccia, a mo’ di pretesa.
Michael, che teneva lo sguardo basso, mi rivolse una veloce occhiata anomala. Io rimasi a fissarlo, a bocca semiaperta, col mezzo sorriso che se ne stava lentamente andando dal volto. Il suo sguardo era grave, davvero allarmante, e mordendosi il labbro inferiore mi si avvicinò a passi calmi, calmi. Teneva le mani appoggiate ai fianchi, come me, solo con le nocche tenute in una ferrea stretta. Dapprima spostò lo sguardo verso il pavimento, poi tornò a scrutarmi senza più distoglierlo.
Per un lungo arco di tempo che variò dai tre ai sei secondi rimasi in completa trepidazione; mi sentivo un po’ in colpa, perché pensavo potesse pensare che avessi fatto un gesto in considerevole, e in parte avevo temevo in una sua sgridata che mi avrebbe fatto venire innumerevoli sensi di colpa e riflessioni agoniche. Mi dispiaceva se mi avrebbe fatto pesare quella cosa, soprattutto per il valore che aveva potuto essere considerato grave da parte di Ryan.
«Questa veramente non me la sarei mai aspettata...», disse lui con un tono di lieve rimprovero, ma qualcosa mi disse che stava per cambiare totalmente visione delle cose. Le sue sopracciglia s’inarcarono in una smorfia di divertimento, poi i suoi occhi s’illuminarono d’improvviso di giocondità e compiacimento immensi. «Sei stata emozionante!, ma come hai avuto l’idea di uno scherzo così geniale?»
Da quell’attimo anche il mio viso s’illuminò di gioia!
Sapere che non voleva farmi una ramanzina che mi avrebbe soltanto procurato uno spiacevole senso di colpa mi faceva sentire davvero bene, e mi faceva sentire ancora più sollevata il fatto delle belle parole che mi aveva detto; ero stata emozionante per lui – il che mi faceva toccare il cielo con un dito immotivatamente – era poco in confronto a come aveva denominato il mio scherzo: geniale.
«Davvero lo pensi?», chiesi sorridendo a trentadue denti.
«Ma sicuramente!», rispose con la sua adorabile voce. «E’ stato unico! Una cosa che non te lo potevi mai aspettare!»
«Sono felice di averti stupito positivamente, mi rende orgogliosa questo fatto! Che ne pensavi della mano sul petto? Era abbastanza reale da sembrare che stessi per rimettere?»
«Dio! Era sensazionale! Hai fatto proprio una faccia da: “Oddio, non respiro!”. Ti giuro, ci stavo credendo veramente! E l’appoggiarsi alla mensola è stata un’azione di stile...»
Ero così presa da tutta quella discussione fra me e Michael – come due bambini che vedono per la prima volta il loro cartone preferito e lo commentano con devozione fra loro – che nemmeno c’accorgemmo dell’espressione sbigottita e la posizione paralizzata di Ryan. Ci guardava entrambi con occhi spalancati dalla confusione e dallo shock, così si sentì in dovere di interromperci in quella eccitante discussione.
«Michael!», esclamò lui, richiamando entrambi la nostra attenzione su di lui, straniti. Lui gli fece un cenno che stava a dire “Allora? Non la rimproveri?”, e io e Michael ci fissammo negl’occhi.
Tutti e tre ci rivolgemmo occhiate serie l’uno con l’altro, facendo continuamente vagare i nostri occhi da un compagno all’altro, in attesa di chissà che cosa. Ma, dopodiché, insieme scoppiammo a ridere come dei bambini! Con quei due stavo bene. Bene sul serio.
«Si può sapere che succede qua dentro?», arrivò in stanza sua madre, armata di stracci e detersivi, reduce da una pulizia generale dalla casa, con in volto un sorriso teneramente divertito, per poi alzare gli occhi al cielo. «Vi ho sentito allarmati poco fa, e ora ridere come matti!»
«Lo sai, mamma, Joyce mi ha fatto uno scherzo imperdonabile!», disse Ryan fingendosi arrabbiato e offeso. <br>La madre si diresse verso alcune mensole della cucina, rimettendo a posto le varie cose che aveva fra le mani negli appositi scaffali. C’era qualcosa in sua madre che mi portava incondizionatamente a stimarla dal profondo della mia anima.
«Oh, davvero Joyce? Che tipo di scherzo?», disse lanciandomi un’occhiata allegra.
Io sorrisi e risposi, mentre gli altri due comari mi fissavano uno sorridendo, l’altro mezzo imbronciato. «Ho fatto finta di soffocare con i nostri biscotti, in effetti! Non può nemmeno immaginare che facce avevano assunto i loro volti!...»
«Guarda, mamma!», disse Ryan, avvicinandosi a lei e mostrandole un foglio di carta a quadretti bianco. «Ha fatto perfino il testamento in caso di morte certa! Poi dopo aver mangiato un biscotto ha fatto finta di soffocare, sembrava davvero che stesse per morire davanti ai nostri occhi!...»
La donna si ritrovò a ridere di cuore, leggendo attentamente fra le righe di quel foglio stropicciato. Io, un po’ arrossita sulle guance, mi apprestai a ricambiare quel riso leggermente, mentre il mio sguardo vagava di continuo tra la madre del ragazzo, Ryan, e Michael. Quest’ultimo sorrideva compiaciuto, quasi soddisfatto; nei pochi secondi in cui lui non m’osservava, rimasi incantata dal suo sorriso lucente. Era così grandemente sfavillante che m’abbagliava!
«Oh be’, davvero complimenti per la recitazione allora, Joy! Peccato per essermela persa...»
«Mamma!», rispose Ryan alla madre. «Così non m’aiuti!»
Tutti e quattro tornammo a ridere, stavolta, e di seguito la donna ci si rivolse con fare autorevolmente dolce.
«Ora andate in sala, mi sa che dovrò sistemare io la cucina e il disastro che avete procurato! Ryan, aspetta che metto i biscotti in un vassoio più carino, così almeno potrete mangiarli senza prenderli da una teglia scottante! Potrete rischiare di bruciarvi le dita!»
Poco dopo, io, Ryan e Michael ci avviammo diligenti, con un vassoio di biscotti belli ed invitanti, verso il salotto, attraversando il piccolo corridoio di legno che univa cucina, sala pranzo, sala, bagno di servizio e scale del piano superiore. Una volta entrati, chiudemmo la porta dietro di noi e ci sedemmo sul grande divano della stanza.
Il salotto era un posto dall’aspetto sicuramente classico, ma con un certo tocco di eleganza. Le pareti giallo crema davano una visione più sobria dell’ambiente, il pavimento era di legno; nella stanza c’erano un divano bianco – quello dove noi tre eravamo seduti – e ai suoi due lati, poco distanti, in posizione una opposta all’altra, c’erano due poltrone, sempre di color bianco.
Un tappeto stava proprio sotto il divano, coprendo gran parte del parquet, ed era ricamato con decorazioni bianche e andanti ad ogni tonalità di rosso. Di fronte al sofà, dinanzi di circa trenta centimetri, c’era un tavolino in legno scuro, con vari oggetti appoggiati fra cui un vaso antico e alcune tazzine da servizio da tè.
Ancora più distante c’era un mobile dello stesso colore del tavolino, diviso in tanti ripiani e vetrate, in cui in uno c’era lo spazio dove era adagiata la tv. Nelle varie mensole dalle ante in vetro, si potevano scorgere libri, oggetti di valore antico, foto e articoli di porcellana. Nella stanza c’erano anche due grandi finestre che davano al giardino esterno, con graziose tendine a fiori arancioni, che lasciavano trasparire la luce fioca dei raggi di sole.
Una volta ben comodi e seduti, rimanemmo indecisi sul da farsi.
«E ora che facciamo qua in salotto?», chiese Ryan guardando prima Michael poi me. Io alzai lo sguardo verso il soffitto, emettendo un lieve soffio dalle labbra socchiuse, per poi stringerle in una stretta ferrea. Gran bel dilemma.
«Beh, seguiamo il consiglio della tua mamma, ossia quello di guardare qualcosa alla tv... Voi che ne dite?», dissi rivolgendomi ad entrambi, lanciando loro un’occhiata con la coda dell’occhio. Ryan aveva un’espressione confusa e pensierosa, mentre l’altro... Inutile dire che gli piaceva osservarmi. Ricambiai lo sguardo per mezzo secondo, fin quando la connessione non venne interrotta nuovamente da Ryan con il suo dolce tono di richiesta.
Probabilmente Michael non lo sapeva, ma ogni volta che mi guardava riusciva sempre a mettermi sotto sopra... Pensai che fosse un effetto tipico che suscitava, soprattutto per le donne cui era a conoscenza, specialmente con quelle che conosceva da poco tempo. Ad esempio, quelle come me.
In effetti era noto a chi mi conoscesse bene che avevo una specie di “mania” verso di lui. Lo sapevano i miei bambini delle elementari, che per il saggio di Natale o fine anno facevo sempre ballare una coreografia di Michael, ed era altrettanto certo che lo sapesse chiunque mi fosse stato abbastanza amico; bastava poter osservare la mia reazione ad ogni sua canzone, i miei continui intenti di imitare i suoi passi, fare i suoi urletti tipici come “Aow”, ecc., e impazzire ogni volta che il suo ritmo diventava abbastanza ballabile da poter passare per una da ricovero.
Dopotutto potevo ritenermi una fan quasi al completo, considerando la mia vasta collezione dei suoi Cd fino in tenera età, e tenendo anche conto delle innumerevoli volte che mi ero letta la sua biografia, vista i suoi video e rivista, per chissà quante volte, “Moonwalker”. Ormai avevo consumato la cassetta! D’altra parte, come potevo non rimanere ammagliata dal suo fascino? Insomma, provate voi a guardare quel film di seguito per sedici volte, e vedrete se non ho ragione io a dire che, più lo guardavo, più m’infatuavo di lui!
Era bello – ma forse “bello” era un termine troppo riduttivo per quello che lui era veramente -, su questo non avevo mai dubitato, ma vi assicuro che non era un bene per il mio povero cuore vederlo sempre e continuamente in tv, figuriamoci nella realtà!, con tutto quello charme addosso! Era chiaro che ne fossi ossessionata – come sua fan come potevo non esserlo? – e, soprattutto, che fossi presa da attacchi di iperventilazione!
Quel giorno in cui l’avevo visto agli Awards, oppure durante la festa... In confronto a quel momento, quegl’attimi erano puri e semplici ricordi d’un giorno prima. Quello che stavo vivendo, in quel salotto, era un sogno ad occhi aperti! Io la credevo così, tanto che per un istante mi ero semplicemente detta di godermi quel tempo fino a quando non mi sarei svegliata!
Chi è stato fan come me di sicuro avrebbe capito come potevo sentirmi, e forse ero considerata anche abbastanza auto controllata da non essere corsa subito, dal primo momento in cui l’avevo visto, ad abbracciarlo. L’istinto l’avrei avuto, ma dovevo ringraziare anni e anni di duro lavoro psicologico nell’essere stata così brava!
Più e più volte Michael aveva fatto parte della mia vita – a volte scatenando troppo i miei fragili ormoni femminili, a volte semplicemente facendomi emozionare – grazie a lui e al suo genio musicale. La musica mi era sempre stata vicino, soprattutto la sua. Mi ricordo che ebbi associato spesso alcuni periodi della mia esistenza a sua canzoni, per la maggior parte delle volte. Anche se dall’altra parte del mondo, io lui lo sentivo dentro, come se qualcosa mi dicesse: “Joyce, lui è veramente speciale. Non riuscirai mai ad abbandonarlo”.
Credevo in passato che non sarei riuscita a controllarmi se l’avessi incontrato – avevo progettato un sacco di cose da chiedergli e tante altre cose di cui discutere, mi ero fantasticata in testa un miliardo di volte la scena di un nostro fatidico quanto impossibile incontro – ed essendo là, quel giorno, mi resi conto che nessuna delle mie previsione si era avverata come avevo tanto concepito con fantasia. Mai avrei pensato di essere in grado di rivolgermi a lui con naturalezza, ma in fondo dovevo ringraziare soprattutto quella sera a casa di Liz.
Se lui non fosse stato là a chiedermi quale fosse il mio problema, probabilmente non gli avrei mai detto nulla, né a lui né a nessun altro; se non fosse stato così persuasivo e dolce da indurmi incondizionatamente a rivelargli anche il mio dolore più profondo, senza alcuna paura di fidarmi della persona sbagliata, forse mai mi sarei rivolta a lui con quella spontaneità semplice e inconcepibile. Chissà, magari per me sarebbe stato sempre e solo un modello da seguire, un idolo magnifico e irraggiungibile, e io sarei rimasta solo una fan che, vedendolo, sarebbe andata in crisi ormonale!
Decidemmo infine per vedere un film, e insieme tutt’e tre programmammo di vedere “Chi ha incastrato Roger Rabbit”; adoravo davvero tanto quel film, mi piaceva moltissimo, e anche agli altri due non sembrava dispiacergli. Sì, mi piaceva, fin quando non scoprii, il giorno dopo la festa di Liz Taylor, che colei che cantava la parte di Jessica Rabbit era Amy Irving. Perfetta coincidenza, non vi pare? La voce cantata era la stessa di quella donna con cui avevo parlato la sera prima. Be’, quella scena famosa nella quale la femme fatale cantava fu abbastanza comica quanto irritabile.
Stavamo in tre sul divano, io alla sinistra, Ryan in centro e Michael alla destra; d’improvviso arrivò la scena nella quale la sensuale Jessica se ne entra ballando e cantando nel bar, movimentando gli ormoni degli uomini presenti al locale notturno. Ero a braccia conserte in grembo, con un sopracciglio leggermente alzato, e con un sorriso ironico sulle labbra, mentre gli altri due guardavano lo schermo con una tale apprensione e incanto che mi stava per far morire dal ridere e, allo stesso tempo, mi procurava un tantino di gelosia verso il fascino di quel “personaggio”.
Ero ridicola, lo sapevo bene, ad essere gelosa di solo un “modello” inventato, però non potevo fare a meno in contemporanea di ammirare quel gran bel fisico; certo si erano molto sbizzarriti i creatori, creando un personaggio così bello e formoso, così sexy. Ma anche se ero un po’ gelosa del gran “caos ormonale” procuratosi a Ryan e Michael – e qualche volta mi scappasse l’occhio nell’intenzione di vedere le loro occhiate – ero incantata dal fascino di Jessica Rabbit. Quel che era vero era vero: era una grande gnocca per essere un cartoon!
Per tutto il film le nostre risate e il nostro affiatamento come gruppetto da tre s’affiatò; soprattutto, era bello vedere i miei due amici ridere. Michael mi rivolgeva uno sguardo davvero dolce e divertito, tanto da riuscire a farmi un po’ arrossire sulle gote abbronzate, e più passava il tempo più speravo che non finisse. Sapevo che quella occasione sarebbe durata non più di tanto, che la magia presto sarebbe finita, perciò cercavo di tenere ben conservati nella mia testa quei momenti.
Durante quel poco di tempo, Michael si dimostrò una persona sempre più sciolta e gentile; il suo animo era timido – forse ero anche io che lo mettevo in difficoltà, dato che non mi conosceva bene – ma stando a ridere e gioire la situazione cambiava. Sembrava che tutto quello che era successo la sera della festa di compleanno di Liz all’inizio non fu fatto mai accaduto, dato il suo silenzio e sguardo osservatore su me e Ryan, ma durante la visione del film si era dimostrato una persona veramente sociale.
Mi sorrideva, mi parlava allegramente, e forse mi concedeva persino il suo sguardo quando ero abbastanza presa dal film per non capirlo. Ma mi bastava solamente guardarlo negli occhi per capire l’intesa; forse d’altra parte le parole non servivano, non quanto lo sguardo almeno. Mi piaceva ancora di più di prima, soprattutto perché avevo intuito che fosse una persona spontanea e sincera più di quanto si desse a vedere attraverso gli schermi della tv o nel live di un concerto.
Ero contenta come una bambina al pensiero che non avevo torto nel averlo sempre giudicato un bravo ragazzo. Può darsi che avrei dovevo aspettare a giudicarlo, perché non lo conoscevo così bene da dire come fosse in realtà. Avevo imparato per esperienze personali a cercare di non credere mai in quello che si vede al di fuori, nel bene e nel male, e soprattutto nel male più spesso erravo; il mio cuore aveva sanguinato abbastanza durante la mia vita. Mi ero fidata spesso e volentieri di persone che pensavano solo a ferirmi, e ne avevo risentito parecchio.
A fine del film, perciò, venne il momento del saluto. Michael disse che aveva un impegno per quella sera, e che doveva andarsene via prima; erano quasi le sei del pomeriggio, dopotutto. Io quella sera sarei rimasta a cena da Ryan e sua madre, perciò non avevo grandi impegni se non divertirmi con il mio migliore amico.
Io e Ryan allora lo accompagnammo fino fuori dal cancello di casa White, e poco prima che stette per salire in macchina lui e Ryan si salutarono confidenzialmente, con una tenerezza da farmi sciogliere su due piedi.
«Quando verrai a trovarmi, Michael, la prossima volta?», chiese tenendo strette con le mani due lunghi steli di ferro del cancello. Michael si girò ad osservarlo – con i suoi occhiali da sole appena messi su anche quando era sera – e ci rimase un pochino a pensare.
«Oh, beh, sarai tu la prossima volta a venire da me, a Neverland. Ho instaurato delle nuove giostre molto divertenti, ci sono tanti tipi di negozi di dolciumi e leccornie varie, e soprattutto gli autoscontri sui quali mi hai detto vorresti andare...», disse aprendosi in un sorriso.
Non appena sentii nominare “Neverland” drizzai orecchie e schiena, spalancando i miei occhi verdi in un’espressione di divinazione per quel luogo di cui avevo tanto sentito parlare. La Neverland dei sogni, dove i bambini possono sognare, fantasticare e desiderare; l’isola che non c’è di tutti i bambini sperduti che non sono mai diventati grandi, proprio come Peter Pan. Chissà che posto doveva essere dal vivo...
Neanche mi avesse letto nella mente, che Michael e Ryan mi fissarono per un attimo interminabile. Io guardai entrambi con sorpresa, poi facendo finta di niente e cercando di allontanare la lucentezza che, di sicuro, aveva illuminato i miei occhi. Stetti per voltarmi dall’altra parte col capo, in direzione contraria ai due, che Michael mi rivolse dolcemente la sua parola.
«Ti piacerebbe venire, Joyce?», i miei occhi si spalancarono alle sue parole, lasciandomi senza parole da dire. Lui aumentò l’ampiezza del suo sorriso, un po’ timido e un po’ entusiasta. «Saresti la benvenuta, sul serio!»
«Vieni, Joy!», mi disse Ryan, implorando con lo sguardo. «Ci sono tante cose che ti piacerebbero, ne sono sicuro! Ci sono montagne russe, giostre di ogni tipo, negozi di caramelle, servizi d’ogni genere... Tutto per noi bambini! E tu ami queste cose! Sei bambina quanto noi due! Avanti...»
«Io...», dissi sbattendo un po’ le palpebre in uno sguardo a dir poco confuso. Io: a Neverland? Nelle giostre? Con i bambini? Con tutte quelle meraviglie? Non poteva essere vero! «Io non saprei... Sarei d’impiccio per i vostri divertimenti, non ho intenzione di rovinarmi quella futura giornata...»
Era vero, pensavo davvero di riuscir causare loro del disturbo, soprattutto a Michael, e anche se invece avevo una gran voglia matta di mettermi ad urlare “Sì!”, la mia coscienza non mi permetteva di essere in tal modo maleducata o, peggio, una grande rottura. E viceversa quegl’altri due sembravano volermi veramente vedere con loro quel giorno!
«Ma cosa dici, Joy?», mi chiese Ryan impensierito.
«No, non dirlo nemmeno, non disturberai!», esclamò Michael scuotendo la testa e spalancando le braccia con fare altruista e generoso.<br>
Poi Ryan sorrise e disse: «...Abbiamo bisogno di una fatina magica, fra tutti quei bimbi sperduti!»
Io allora mi lasciai andare in una risata intenerita, e sotto gli sguardi insistenti di Ryan e amorevoli di quelli di Michael, annuii col capo. Mi bastavano quelle occhiate e parole dolci per sciogliermi? Sì. La risposta era assolutamente sì! Alzai le spalle come una bimba e, inclinando il capo, detti ulteriore conferma.
«...Se allora la mettiamo così, non posso proprio permettermi di negare ai bimbi la loro Tinkerbell!»