Mi scuso per il mio tremendo ritardo T____T Grazie a tutte per il vostro appoggio. Vi voglio bene!
PUNTO DI VISTA: MICHAEL
Capitolo VII
Ero indeciso. Suonavo o no il campanello? E se la disturbavo? Le avrei dato fastidio?
Battevo il piede destro a terra, agitato, mordendomi il labbro inferiore, incapace di decidere sul da farsi. Sentivo della musica – che avrei scommesso fosse Whitney Houston - provenire dall’interno di quella stanza di appartamento e mi chiesi se, anche chiamando, mi avrebbe comunque sentivo. Be’, tanto valeva la pena almeno provarci.
Suonai il campanello, ma la musica non cessò. Rimasi immobile ad aspettare e notai che, effettivamente, il volume era sceso. Mi accostai con l’orecchio alla porta, cauto, per sentirne i rumori all’interno. Poi una voce, quella calda di Sharon, sovrastò la musica che risuonava.
«Arrivo!», la sentii dire, e tirai un sospiro di sollievo. Almeno aveva sentito, fortunatamente. Sentii dei rumori di serratura provenire da dentro la stanza, e optai alla soluzione che fosse lei ad aprire la porta.
La porta si socchiuse, e la visione che mi parve di fronte fu un’imbarazzata Sharon dai capelli bagnati, poiché riuscivo a vederne solo il volto. Arrossii leggermente e capii che, in effetti, non avevo proprio scelto il momento giusto.
Certo, le avevo detto che sarei arrivato in anticipo… Già, in anticipo di un’ora e mezza. Come facevo a dirle che non vedevo l’ora di passare un po’ di tempo con lei, in realtà? La verità era che quando ci parlavo, per quel poco che ne avessi avuto la possibilità in quei giorni, io mi sentivo bene. Mi sentivo me stesso senza bisogno di mentire e negare chi io non ero, per quanto cercassi di non fidarmi degli altri.
«Michael…», mi disse lei, impacciata e scarlatta in volto. «Non pensavo che arrivassi così presto, mi fa piacere!», dopodiché un sorriso illuminante le comparì in volto, risaltando la luce dei suoi occhi.
«Oh, ehm…», dissi, spostando lo sguardo verso quei suoi capelli bagnati. Lei si accorse del mio volto preoccupato e arrossendo si propense a rispondermi, questa volta più frettolosa.
«Oh, scusa. Aspetta, adesso ti faccio entrare solo che…», continuò lei, aggrottando la fronte. «Un attimo che raggiungo la doccia. E solo che… Non pensavo arrivassi così in anticipo, tutto qui. Ehm… Aspetta».
Impacciata, distogliendo lo sguardo dal mio, se ne andò, lasciandomi la porta socchiusa. Io, senza parole, aspettai una sua conferma sul lasciarmi entrare. Cercai di non arrossire e una volta sentita la sua voce che mi dava il permesso, avanzai all’interno della stanza, prudente. Chiusi la porta e mi propensi ad osservare curiosamente quel piccolo ma accogliente ambiente nel quale Sharon abitava.
«Ho quasi finito, non ti preoccupare… Oh, non badare al casino che vedi, non ho avuto proprio il tempo di mettere tutto apposto. Puoi comunque dare un’occhiata in giro, se sei curioso, che a me non disturba affatto. Spero solo non ti perda in quel caos», riprese soffocando una risata, nel frattempo che sentii lo scroscio dell’acqua della doccia.
«Non vorrei dare fastidio…», risposi, riferito al fatto della “curiosità”. Non potevo non dire che non fossi preso, poiché avrei mentito. Volevo saperne di più di lei, e osservare ogni dettaglio dell’appartamento mi avrebbe aiutato per quel poco. Intanto, allo stereo cominciò a risuonare la canzone “Where Are You”, di Whitney Houston.
«Tu fastidio? Figurati! Fai come se fossi a casa tua», rispose, mentre nel mio volto comparve un sorriso. Presi l’occasione al balzo e cominciai a camminare per il salotto, osservando le cose che mi interessavano. Nonostante fosse piccolo, quel ambiente mi dava una sensazione di calore. Mi ricordava un po’ la casa a Gary, e fui preso da una morsa del passato.
C’erano dei mobili di legno non molto vecchi, scuri, alcuni con vetrate di vetro per mostrare il loro interno. Un tavolino di vetro stava di fronte al divano a tre piazze, con sopra qualche telecomando della televisioni e alcuni libri di lettura. C’era anche un quaderno per appunti, il quale osservai non aveva titolo. Trattenni la curiosità e passai ad osservare i muri bianchi e puliti.
Dietro il grande divano c’era una finestra che dava sulla strada, e riconobbi la mia auto. Era una stanza al terzo piano, perciò la vista era gradevole. Mille luci trasparivano dagli edifici delle città e nel cielo tinto di blu scuro risplendeva la luna piena. Tornai a guardare all’interno della stanza, dopo essermi tolto quella pesante sciarpa e cappello da travestimento, e i miei occhi furono attratti da due scaffali.
Entrambi erano al muro, e in questi si trovavano in uno dei libri, in un altro dei Cd di musica. Erano tutti divisi in categorie specifiche e ordinate, e sia libri che dischi erano intatti, trattati con la massima cura. Mi complimentai per come tenesse le sue cose, e lei mi rispose con una risata e un grazie imbarazzato. Non sentii più l’acqua scorrere, e capii che evidentemente aveva già finito la doccia.
Osservai ripiani e ripiani, ogni dettaglio – dai vasi presenti nella stanza, dai quadri appesi al muro, dai tappeti sul parquet di legno – e intuii che fosse una ragazza con un gusto fine per le cose, ordinata, classica ma comunque elegante, per quel poco che potevo capire possedeva.
C'erano, fra i Cd, dischi di Steve Wonder, Tina Turner, Whitney Houston, James Brows, Lisa Stanfield... Notai che c’erano anche miei Cd, alcuni perfino dei Jackson 5, dischi con copertina molto vecchia e fragile ma tenuti perfetti. Avevano si e no qualche ammaccatura sulla copertina, ma ero trattati con riguardo. C’erano tutti… Anche il Cd “Bad”, in primis rispetto agli altri, segno che lo ascoltava spesso.
Sorrisi compiaciuto e osservai che un’anta di un armadio era semi aperta. Indeciso, alla fine mi propensi ad osservare l’interno, sperando non ci fossero cose private.
Rimasi impressionato. In quel mobile, una schiera di cassette Disney erano presenti. Il mio sorriso si allargò, stupefatto, e notai che alcune cassette non erano tutte in inglese. Erano di una strana lingua di cui non riconoscevo fosse il nome e constatai che, a rigor di logica, quella deve essere stata appunto la sua lingua madre. Un dubbio sul dove provenisse mi lasciò il segno.
«Hai scoperto i miei tesori», disse Sharon, portando il mio sguardo di nuovo verso il suo. Sorridente e imbarazzata mi osservava, avanzando a braccia conserte verso di me. Non mi ero neanche accorto che si era già asciugata i capelli, sebbene ancora leggermente umidi sulle punte. Le ricambiai il sorriso, rivolgendo di nuovo lo sguardo sulle cassette; c’erano Cenerentola, Bambi… Peter Pan. Tutti.
«Ho sempre amato i cartoni Disney, fin da piccola», disse sottovoce, con un sorriso dolce sulle labbra, guardando quei suoi tesori. «I miei preferiti erano La Bella Addormentata Nel Bosco e Peter Pan. Li guardavo sempre, non mi stancavo mai».
«Anche a me piacciono molto, Peter Pan soprattutto», dissi con un grande sorriso sulle labbra che ricambiò. Un’altra passione in comune. Per me Walt Disney era un personaggio da ammirare, da sempre, e adoravo incondizionatamente i suoi cartoni. Erano speciali.
«Sai, per me sono stata la fonte maggiore che mi ha aiutato a tener duro…». Guardai Sharon serio, mentre il suo sorriso si faceva sempre più lieve e con una nota di tristezza. Si tirò su dalla posizione accucciata – dato che le cassette erano in uno sportello in basso – e si avviò lenta verso la finestra, con lo sguardo perso nel vuoto della grande città.
Un senso di solitudine, nelle parole che aveva pronunciato, cominciò a far pian piano parte di me. La guardai fisso, sperando che continuasse quel suo discorso. Guardava fuori, con sguardo triste e assente, pensierosa, e io la osservavo senza staccarle i miei occhi di dosso. Non potevo. O almeno, non ci riuscivo. Potevo percepire la sensazione che traspariva dal suo sguardo.
Soffocò una risata, ma non divertita, poi scosse lentamente la testa. «I cartoni Disney, la musica, il ballo, perfino il canto… Erano gli unici metodi per combattere. Mi portano ad un’infanzia che non ho mai vissuto…», pronunciò lei, con amarezza.
Alla parola “infanzia” sentii il mio cuore farsi piccolo, ma una forza sconosciuta in me mi portò a farle una fatidica domanda improvvisa. «Hai… Hai avuto un’infanzia difficile?»
Lei annuii, facendo comparire un sorriso di rammarico in volto. Guardava sempre fuori, in un punto vuoto, e con calma mi alzai anch’io dritto, per poi fare qualche passo verso di lei. Emise un sospiro lento, calmo nonostante qualche tremore, chiuse gli occhi e rispose.
«Diciamo che fra non avere un’infanzia e averne una come la mia, non so quale sia la scelta migliore. Non ho mai avuto una vita facile», mi rispose, sottovoce. Appoggiò il capo alla finestra, per poi guardare me.
«Che ti è successo?», chiesi con voce debole, piena di comprensione. Volevo capire se anche lei, come me, aveva passato veramente un’infanzia orribile, inesistente. Senza accorgermene, avanzai di un passo.
Tornò a guardare fuori e rispose. «Sono stata isolata. Non ho avuto mai amici. Nessuna persona accanto che ci tenesse veramente a me. Non ho avuto la gioia di condividere i miei sogni con nessuno, poiché nessuno mi capisce».
No, Sharon… Io ti capisco. Non sai quanto ti capisco… So come ci si sente a sentirsi incompresi e soli, con nessuno accanto. Con nessuno che capisce quello che provi… So come ti senti.
«Da piccola venivo da tutti i miei coetanei lasciata in un angolo, a piangere lacrime silenziose per qualcuno che speravo un giorno mi fosse accanto. Vedevo i bambini giocare, da lontano, in qualche parco o in strada, e desideravo essere con loro. Ma piangevo, perché sapevo che in realtà nessuno voleva stare con me. Con il tempo ho capito che devo dipendere da me. Li guardavo, e sognavo sogni irrealizzabili».
Qualcosa dentro di me si mosse. Tristezza, compassione, realizzazione. Non riuscivo a descrivere. Sapevo solo che provava quello che provavo io, e l’immagine di lei che guardava i bambini da lontano mi portava di nuovo al passato. Un passato fatto solo di lavoro e senza un’infanzia degna e sufficiente per la crescita di un bambino. Lei capiva cosa significa essere soli e senza nessuno accanto.
La guardai e vidi una silenziosa lacrima scenderle sulla guancia destra, messa in risalto dalle luce della città. Quando si accorse che mi ero avvicinato e sfiorato un braccio con dolcezza, si asciugò la goccia di tristezza appena caduta dal suo volto con il palmo sinistro della mano. Evitò di guardarmi, sapendo che la osservavo con occhi lucidi e il cuore riempito di un dolore rievocato.
«Scusa… Non volevo… Non è facile per…», poi, sentendo il calore della mia mano sulla sua guancia, altre due lacrime le scesero copiose dagli occhi. Con l’altra mano mi appresi ad asciugare anche l’acqua salata sull’altra guancia, avvicinando senza pensare le mie labbra alla sua fronte.
«Tranquilla… E’ tutto apposto… Non piangere, per favore». La mia voce si fece implorante, una volta che i suoi singhiozzi si fecero più udibili. Mi chiesi se avesse ancora i genitori, ma non era il momento per chiedere. Dovevo esserle vicina, non farla sentire sola.
«Io… Io so quello che si passa. Anche io non ho avuto un’infanzia. Il mio lavoro ha sempre risentito sul bambino che ero, non sai quanto mi sia sentito solo. Nemmeno io ho mai pensato che qualcuno riuscisse a capirmi, né penso di incontrare un giorno una persona che mi ama per come sono…»
Il suo pianto, alle mie parole, cominciò a cessare. Con la fronte appoggiata al mio mento e le mie guance sulle sue, ora sembrava più tranquilla. Era una sensazione di appagamento. Nonostante il dolore che rifioriva, sentivo uno stato di benessere. Forse non ero poi così solo, forse non ero l’unico a soffrire per un’infanzia mai avuta, sebbene i nostri passati non fossero simili.
«Tu troverai chi ti ama…», rispose Sharon, guardandomi negli occhi. Tolsi le mie mani dalle sue guance lievemente, quasi per paura di farle mane, e intanto il nostro sguardo s’incatenava. I suoi occhi neri si incorniciavano perfettamente con la sua pelle mulatta.
«Forse tutto il dolore che si passa ne varrà la pena…», dissi, sottovoce. Lei sorrise, mentre la luce del pianto faceva risaltare di più quella dei suoi occhi, e il contatto con lei si spense definitivamente.
Il Cd era arrivato alla fine ed entrambi non ce ne eravamo accorti. Quando anche le ultime note la musica scomparve, Sharon si girò a guardare lo stereo. Io feci lo stesso, in sincrono perfetto.
«A proposito… Io, be’, non so tu… Hai già cenato?», chiese, guardandomi con curiosità. In effetti non avevo mangiato. Ero arrivato apposta in anticipo per invitarla da me a mangiare qualcosa.
«No, veramente», dissi sorridendo. Lei allargò allora anche il suo di sorriso. Anche cenare da lei era una soluzione. Ovviamente a me andava bene tutto, perciò alla sua proposta di rimanere accettai.
«Vuoi che ti aiuti a cucinare?», dissi, nel frattempo che lei tirava fuori pentole e piatti da apparecchiare sul tavolo. Me ne stavo appoggiato allo stipite della porta, e non desideravo si sentisse osservata.
Lei sorrise. «Puoi farmi da assistente, se vuoi. Il posto di maître purtroppo è già occupato», esclamò con divertimento. Decisi senza ombra di dubbio di stare al suo gioco.
«Mi andrà bene anche fare da cameriere, capo», risposi avvicinandomi a lei, aiutandola ad appoggiare alcuni piatti e bicchieri. Lei sorrise di nuovo e non potei che fare lo stesso anch’io.
www.youtube.com/watch?v=1KjpyHX7X-o
Passammo la serata così, a comportarci come due bambini che giocavano insieme, come all’asilo. Ora sia io e sia lei sentivamo un’affinità più chiara e senza barriere, dopo aver capito di avere un passato pieno di tristezza alle nostre spalle. Non sentivo più del riguardo con me. Non ero più Michael Jackson, solo Michael, e tutto questo mi appagava.
Più spesso ero io, durante la cucina, quello che faceva i dispetti e gli scherzi, magari nascondendole qualche posata o qualche ingrediente, e finiva sempre per cascare nei miei tranelli. Le facce che le spuntavano fuori mi facevano morire dal ridere, e quando veniva il suo turno dei giochi toccava a lei ridere.
Quando rideva era così spontanea... Era simpatica, divertente. Mi piaceva il fatto che ironizzasse su se stessa, ma soprattutto mi piacevano le espressioni che il suo volto cambiava e assumeva. Era dolce, non aveva problemi a dire quello che pensava. Era sincera.
Fu uno dei momenti più belli della serata. Forse perfino della mia vita.
Cenammo parlando del più e del meno, facendoci domande suoi nostri hobby o generi di musica, film e molto altro. Non vedevo l’ora sorridesse per poter godermi quella sensazione di calore che faceva trasparire dal suo sorriso. Discutemmo di tutto e di più, a volte giocandoci su come se fossimo due bambini piccoli. Scegliemmo anche il Cd da mettere come sottofondo, durante la cena.
Alla canzone “Greatest Love Of All” di Whitney Houston la vidi bloccarsi con lo sguardo sullo stereo, presa come per magia da quella canzone. Io la osservai interessato.
«La tua canzone preferita?», chiesi, nel frattempo che lei riabbassò di nuovo il suo sguardo sul tavolo. Annuì e cominciò a cantare il motivo, come se io non ci fossi.
«
I believe that children are our future. Teach them well and let them lead the way, show them all the beauty they possess inside…». Si alzò dalla sedia nella quale era seduta e venne verso di me, il quale la guardai incantato. Mi porse la mano, e con un cenno del capo mi invitò a ballare.
Ci dirigemmo verso il salotto, in uno spazio abbastanza vuoto per ballare tranquilli, e poggiai le mie mani sui suoi fianchi morbidi. Continuò a cantare, nonostante a bassa voce, con le sue mani sulle mie spalle, e al ritornello l’accompagnai. Sorrise sentendo la mia voce, sorpresa che anche io sapessi quella canzone.
I nostri sguardi erano ormai incatenati in una stretta che nemmeno un terremoto imminente avrebbe distolto, e non era mia intenzione lasciarla andare. Desideravo solo rimanere così per un po’ di tempo, sentire di nuovo il profumo naturale della sua pelle, il contatto insistente con i suoi occhi.
Chi avrebbe mai detto che un giorno avrei incontrato qualcuno di non famoso, qualcuno che mi avrebbe fatto sentire solamente il Michael che ero? Quella ragazza era lei. Lei stava riuscendo e poteva trascinarmi fuori da quel mondo di possibile solitudine che mi gravitava attorno.
Sentivo di potermi perdere in quelle oscure profondità dei suoi occhi. Affogare in quel suo sguardo non mi avrebbe provocato dolore, anzi, mi sollevava... Qualcosa di irreale e miracoloso mi portava in un mondo che non era quello.
Ballavamo lenti, lasciando trascinarci da quel ritmo senza regole e quieto.
Una volta finita la canzone, ci fermammo, poco prima di farle fare un lento giro guidata dalla mia mano. Rimanemmo ad osservarci, ignorando la canzone successiva.
«Capisco perché ami quella canzone. La amo anche io…». Lei accennò al rossore, assieme ad un sorriso. Io feci lo stesso di rimando, lasciandomi per la prima volta andare.
Con Sharon non avevo bisogno di essere nessun’altro al di fuori che me stesso. Stare insieme a lei era sentirsi più felici, dimenticavo i brutti pensieri e lasciavo il passato alle spalle. Mi concentravo solo a farla sorridere, a passare quel poco a disposizione al meglio.
Qualcosa, ad un certo punto, nel suo sguardo accese un piccolo fuoco dentro di me. I suoi occhi profondi e caldi mi facevano sudare e brividi mi attraversarono la schiena. Come facevo a pensare a qualcosa di concreto, se continuavo a guardarla in quegli occhi neri? Come faceva ad incantarmi fino a quel punto?
Sharon, illuminata da una luce su un mobile del salotto, risultava più bella. Una strana adrenalina mi coinvolse in un attimo e un timore convulso allo stesso tempo: non potevo innamorarmi, non di qualcun'altro che non sapevo se mi avrebbe recato ulteriore sofferenza. Eppure non potevo cercare di reprimere quell'istinto. Non ci riuscivo.
Ad un certo punto il suo sguardo puntò verso un orologio a muro e rimase sbigottita. Quando mi voltai, vidi che erano le 20,16. Erano in ritardo. In fretta e furia chiuse lo stereo, nel frattempo che mi rimettevo il travestimento. Scendemmo e ridendo ci avviamo verso l’auto, pronti per le prove di quella serata.