BABY BE MINE (Parte seconda)
Ciò che amore può fare, amore osa tentarlo.
William Shakespeare
“Romeo e Giulietta” Atto II Scena 2
Me la vidi apparire davanti come se fosse un miraggio.
La pelle chiara… il viso ovale… le labbra sottili… i lunghi capelli lisci di un tenero rosso scuro… il naso piccolo e grazioso… quei suoi splendidi occhi verdi che mi guardavano confusi tentando di capire dove avessero già visto quel volto così familiare…
Tornai improvvisamente alla realtà, e fu quantomeno traumatico: ricordai le offese, il dolore che ha dovuto provare quando l’avevo chiamata oca, la rabbia e l’ira che bruciavano mentre difendeva Michael, e che ora vedevo materializzarsi nelle sue iridi smeraldo…
Trattenei il respiro e sgranai gli occhi.
Che ci faceva lei qui con Karol?!
-Tu!-, esalammo entrambi, ma – come immaginavo – il suo tono era di gran lunga più arrabbiato del mio.
-Tu! Tu sei un fan di Michael Jackson! E mi hai offesa perché mi vesto come… come…-, balbettò infine, scrutandomi dall’alto in basso con sguardo shockato.
“Come me?”, pensai.
-Tu… tu ti vesti come lui!-, esclamò.
Sì, Diane, è l’unico modo per farmi sentire a mio agio.
-Tu ti vesti come… come me!-.
Avrai finalmente capito che anch’io, come te, non vivo senza di lui?
-E… e ti permetti di dirmi che sono un’oca?!-.
Non sai quanto mi dispiace, piccola, non era mia intenzione offenderti…
Ma non parlo, non apro bocca per scusarmi e dirle quelle parole, rimango a fissarla mentre aspetta – invano – una mia reazione.
Forse credeva che le avessi chiesto scusa, che le avrei fornito delle spiegazioni, o che l’avrei cacciata di casa a calci nel sedere.
Qualunque fossero state le sue supposizioni, erano tutte sbagliate.
Non dissi nulla, rimasi a fissarla credendo che con il mio silenzio avrebbe capito che le davo ragione.
-Perché non parli? Eh? Non ne hai il coraggio?-.
Continuavo a guardarla, dicendole con gli occhi quello che con la bocca non riuscivo a cacciare fuori: “Hai ragione, perdonami”.
I suoi occhi divennero due fessure e disse con un tono che rasentava la furia: -Scusami tanto, Iona, ma non posso stare qui. Zia, se vuoi accompagnarmi bene, altrimenti me ne vado a piedi. Arrivederci e scusate il disturbo-.
Si voltò e si avviò verso la porta.
Rimasi basito: mi aspettavo che avrebbe continuato a sfogarsi, che sarebbe rimasta a casa mia tenendomi il broncio o ignorandomi fingendo che non esistessi per dimostrarmi che non le importava nulla di me…
Possibile che non chiedesse nemmeno una spiegazione?
“Forse tu le devi dare questa spiegazione”.
Saggia, la vocina nella mia testa.
Appariva quando meno me l’aspettavo, e mi era sempre tornata utile nei momenti in cui necessitavo di un consiglio ma nessuno era in grado di farlo. Ricordo quando una volta un mio amico…
“Smettila di blaterare, idiota, la pollastrella se ne sta filando!”.
“Non chiamarla pollastrella, il suo nome è Diane”.
Diane… Diane… che bel no…
“Insomma, ti sbrighi, bradipo intontito senza cervello?!”.
“Scusa”.
E, nella fretta di darle una spiegazione e nello stupore di parlare con una voce immaginaria nel mio cervello, pronunciai la prima frase che mi venne in mente: -Sei diversa… dalle altre-.
Lei si bloccò mentre stava per abbassare la maniglia, e si girò lentamente.
Per un attimo ho creduto di vedere stupore e gratitudine nei suoi occhi, ma mi sbagliavo ancora una volta.
Stupore sì, ma la sua espressione era più confusa e arrabbiata di prima.
-Continui a ripeterlo, ma non capisco un cazzo di quello che dici. Addio-.
E senza troppe cerimonie uscì fuori.
Rimasi impalato sulle scale per qualche secondo: la sua uscita teatrale mi aveva colto alla sprovvista.
“Davvero credevi che si sarebbe gettata al tuo collo ringraziandoti con le lacrime agli occhi?”.
Ancora una volta la vocina.
“Beh… forse un po’ ci speravo…”, pensai, incredulo delle mie stesse parole.
Ma in fondo era la verità, no?
“Allora non hai capito manco ‘na canna di quella ragazza, rimbecillito”.
Annuii, sempre mentalmente.
“Sì, lo so. Ma non chiamarmi rimbecillito, per piacere”.
Sbuffò, o forse era solo immaginazione.
D’altronde non è molto normale parlare con una voce immaginaria nel proprio cervello. Avrei dovuto farmi visitare da un buon psichiatra…
“Perché? È quello che sei”, replicò la voce.
“No”, risposi. “Non sono un rimbecillito. Sono solo un bastardo”, ammisi infine.
La vocina nella mia testa applaudì.
***
Non lo vidi più da quella sera.
In effetti non sarebbe stato difficile incrociarsi per la strada; Bucarest era una città grande, ma i punti d’incontro erano sempre gli stessi. A dirla tutta ero io che tentavo in ogni modo di non vederlo: evitavo per esempio i luoghi di raduno dei Jacksoniani – anche se non l’avevo mai visto da quelle parti, ma era meglio non rischiare –, i bar o i locali affollati, e di passare davanti casa sua, che non distava poi così tanto dalla mia, quindi da quella di mia zia.
Già, zia…
Non mi parlava mai di quello che era accaduto, ma notavo il suo dispiacere e la sua tristezza. Dapprima pensavo che queste sue emozioni fossero dovute alla brutta figura che aveva fatto davanti a Iona, oltre alla malinconia ormai diventata mia compagna, malinconia che non capivo da cosa fosse scaturita… ma dovetti ricredermi: lei sapeva tutto.
Quando le descrissi l’aspetto fisico del bastardo lei già aveva capito chi fosse. Ecco perché pronunciò quella frase: “E se fosse anche lui un fan?”.
Quando me lo disse – due giorni dopo quel venerdì sera – non potevo crederci.
-Avevo intuito che fosse Christian, e per confermare le mie supposizioni ti ho portata da Iona… la tua reazione ha spazzato via tutti i miei dubbi: ero sicura che fosse lui il misterioso ragazzo che ti aveva offesa-.
Io la guardai stupita e incredula.
Non diedi una risposta al suo sguardo addolorato: semplicemente mi alzai e me ne andai. Non seppi spiegare il perché, ma mi sentivo tradita.
Le tenni il broncio per cinque giorni, e ogni volta che il telefono squillava facevo rispondere i miei genitori; se era zia Karol le dicevano che ero uscita, o che riposavo, o che mi trovavo da una mia amica. Zia chiamava spesso – diciamo ogni cinque minuti –, ma io non intendevo risponderle comunque.
Capitò che alla ventesima chiamata del quinto giorno mia madre, scocciante, urlò: -Diane sta ascoltando a tutto volume Michael Jackson in camera sua e non vuole essere disturbata per alcun motivo!-. Attaccò e da allora zia non richiamò più.
Logorata dai sensi di colpa, decisi di smetterla di comportarmi da bambina viziata e andai a casa sua. Bussai col cuore in gola.
Nessuno si affacciò né rispose al citofono.
Bussai di nuovo.
Nessuna risposta.
Riprovai ancora, e per farmi sentire rimasi premuto l’indice sul bottone per un minuto intero.
Nulla.
Persi completamente la pazienza e iniziai a prendere a calci il portone.
-Apri!-, urlai. –Ho detto apri! Cazzo, zia, vuoi aprire?-. Ero in preda di una crisi isterica, cosa che negli ultimi tempi mi accadeva alquanto facilmente.
Fortunatamente non c’era nessuno in strada, altrimenti mi avrebbero trascinato di corsa e senza troppe cerimonie nel più vicino manicomio.
-Apri! Maledizione!-.
Nervosa e avvilita, scoppiai a piangere, appoggiando le spalle al portone e scivolando lentamente a terra, sull’asfalto. Affondai il volto fra le ginocchia, che strinsi fra le braccia.
Mi ero comportata malissimo con lei, e adesso non voleva più vedermi.
Aveva tutte le ragioni del mondo per farlo: l’avevo ignorata per un futile e infantile motivo, ovvio che adesso fosse adirata con me.
Per colpa del mio comportamento immaturo avevo perso l’unica persona che era in grado di capirmi e consolarmi, l’unica che condividesse le mie stesse emozioni e passioni, l’unica che davvero mi era stata vicina nei momenti di bisogno, l’unica che avesse mai saputo far allargare la mia bocca in un sorriso quando ero triste e giù di morale…
E nel mare di quelle sensazioni negative, sentii un leggero tocco sulla spalla.
-Diane?-.
Alzai gli occhi.
Mi asciugai frettolosamente le lacrime.
-Che vuoi?-, sputai, acida.
-Mi hai fatto preoccupare, ti ho vista seduta a terra e mi sono avvicinato per vedere cosa ti fosse successo-, rispose calmo Christian, senza fare una piega al mio tono.
Stavo per rispondergli per le rime, ma poi ricordai che era colpa del mio orgoglio se ora Karol non mi parlava più.
Aprii la bocca, poi la rinchiusi.
Lo guardai sconfitta e sospirai.
-Mia zia è arrabbiata con me. Fingevo di non trovarmi a casa quando lei chiamava, e adesso non mi apre neanche-, mormorai, mentre un’altra piccola lacrima ribelle solcava il mio volto.
Lui rimase qualche secondo in silenzio.
-Sei sicura che non sia uscita?-, propose, tentando (credo) di consolarmi.
Io indicai la vecchia Ford Anglia del 1967 (da lei ristrutturata e ricolorata) giallo canarino nel cortile di casa.
Lui seguì il mio dito, per poi sospirare.
Lo guardai.
-Le passerà, fidati. Fa sempre così-, mi disse.
Strano che, nonostante non lo potessi sopportare, quelle due semplici frasi furono in grado – anche se minimamente – di farmi calmare. C’era qualcosa nel suo tono che mi convinse dell’onestà delle sue parole.
Annuii, e sorrisi.
-Brava, così si fa. Sorridi perfino quando il tuo cuore prova dolore-, mi disse, poggiando delicatamente la mano destra sulla mia spalla.
Quel tocco non mi dava fastidio, anzi: sentivo che era ciò di cui avevo bisogno.
-Charlie Chaplin?-, domandai.
Lui annuì.
-Il mio mito, con Michael-, rispose.
Voltai il capo e feci una smorfia, al che lui sospirò.
-Mi dispiace-.
Trattenei il respiro, ma forse lui non se ne accorse.
-Non avevo alcun diritto di offenderti, sono stato un arrogante, un presuntuoso e…-.
-Un bastardo?-, gli suggerii alzando gli occhi verso di lui.
Il suo sguardo era davvero pentito.
-Sì… -, mormorò.
Mi morsi il labbro.
-Perdonami, ti prego. Pensavo che tu fossi come le altre, invece…-.
Una luce si accese nella mia mente spazzando via i dubbi.
-Per questo mi hai detto che sono diversa…-, mormorai, e la mia, più che una domanda, era una certezza.
-Perspicace…-, mormorò, e sorrisi. –Comunque sì. Intendevo diversa da coloro che lo fanno solo perché va di moda…-.
-Michael non è mai stato di moda: la moda passa, lui resterà per sempre-. Ripetei quella frase che già una volta avevo recitato solennemente davanti mia zia, e in quel contesto non ce n’era un’altra più azzeccata.
-Hai completamente ragione-, disse lui.
-Lo so-.
-Senza complimenti, eh…-.
-Oh sì, di modeste come me ce ne sono poche-.
Poi accadde ciò che speravo non accadesse mai.
Christian sorrise.
E rimasi folgorata.
I suoi denti erano bianchi e perfetti, e mi parve che il mio cuore fosse trafitto dalla luce che irradiavano.
Conoscevo solo una persona capace di far scatenare quella reazione in me: Michael.
Avvampai ai pensieri che mi riempirono la mente in quei pochi secondi di pazzia, e mi alzai di scatto.
-Sarà meglio che vada a casa ora, tanto zia non mi aprirà nemmeno se mi accampo qua-, dissi velocemente, utilizzando l’escamotage della pulizia del pantalone per nascondere il mio rossore.
Anche Christian si alzò.
-Vuoi un po’ di compagnia?-, chiese.
Lo fissai scettica.
-In che senso?-, domandai, e la mia mente malata già iniziava a fare strane congetture…
Diane, ma che cavolo pensi??
Scrollò le spalle.
-Devo andare a comprare la videocassetta di “Capitan EO”… vuoi venire con me?-.
Tutte le mie supposizioni crollarono come castelli di carta al vento.
Non potevo credere alle sue parole. Possibile che lui…
-Non hai la videocassetta di “Capitan EO”?! E che razza di fan sei?-, esclamai.
Lui rimase spiazzato, e io scoppiai a ridere alla sua espressione.
-Scherzo!-, dissi in fretta, e lui si rilassò.
-Però mi sono vendicata-, aggiunsi maliziosa; lui si strinse nelle spalle e mi guardò di sottecchi.
Scoppiai a ridere: assomigliava proprio ad un bambino.
-Allora?-, chiese infine dopo che mi fui ricomposta con un tono che non ammetteva repliche. –Vuoi venire con me?-.
Io rimasi qualche secondo in religioso silenzio. Non che non volessi… ma mi sembrava tutto strano…
troppo strano.
Oh, smettila di farti mille complessi mentali!, pensai.
In fondo non c’era nulla di male, no?
Annuii.
-D’accordo. Una passeggiata non mi farà certo del male-, risposi infine.
Lui mi abbagliò nuovamente con un suo sorriso.
Cazzo, Diane, smettila!, esclamai mentalmente, stupita di me stessa.
-Mi fa piacere che tu abbia accettato. Ah, la scorsa sera non ci siamo presentati…-.
-È vero!-, esclamai battendomi la fronte con la mano. –E siccome la colpa è stata solo mia… piacere, Diane-, dissi sorridente porgendogli la mano.
Lui la prese delicatamente guardandomi malizioso. Non so perché, ma quel piccolo contatto mi fece uno strano effetto.
-Christian. Incantato dalla vostra bellezza, madamigella-, e mi baciò la mano.
Sentii il cuore sciogliersi come un gelato al sole e le guance fondersi.
-Il piacere è tutto mio-, continuò languido, mentre però il suo sguardo malizioso si posava impertinente sul rossore del mio volto.
Io tentai di ricompormi alla bell’e meglio, ma fui capace solo di sorridere timidamente.
Sentii il citofono bussare. Controllai da dietro la tenda. Era Diane. Sorrisi, vittoriosa.
“Finalmente…”.
Sapevo che sarebbe stata questione di poco tempo prima che perdesse la pazienza, quindi corsi al telefono.
Dopo tre squilli rispose una voce maschile.
-Christian? chiesi. –Vieni qui da me, devo dirti una cosa. Ah, non dire a Diane che ti ho chiamato, è abbastanza nervosa-.
-D’accordo, Karol…-, rispose lui. –Ma sicura che va tutto bene?-.
-Sì, sì, però sbrigati. Ciao-.
-A dopo-, e attaccò.
Corsi nella stanza da letto e presi le cuffie. Tornai in cucina e le collegai allo stereo. Qualsiasi cosa dicesse Diane, non avrei potuto sentirla: le mie orecchie erano totalmente occupate dalla voce di Michael. Vidi Diane accasciarsi sull’asfalto; sembrava sfinita. Chissà cosa aveva combinato…
Poco dopo arrivò Christian. Parlarono, e alla fine Diane si decise ad alzarsi da terra. Vidi solo che mia nipote gli tende la mano, e il ragazzo gliela bacia.
Sghignazzai. “Proprio come immaginavo… Christian non si smentisce mai…”.
Dopo qualche minuto, la vidi andare via con lui.
“Sono un genio”, pensai, e in preda ad un’euforia che sembrava non mia, iniziai a saltellare per la stanza dalla gioia.
Trovammo la cassetta velocemente e ci concedemmo un lungo giro turistico per il centro commerciale – come se non lo conoscessimo già a memoria…
Quello fu uno dei pomeriggi più belli della mia vita.
Mi divertii come non mai, e grazie a Christian riuscii a dimenticare tutti i problemi che mi affliggevano. Quel ragazzo era capace di farmi sorridere ogni due minuti e cominciai seriamente a ricredermi su di lui. Insomma, mi aveva offesa, però mi ha chiesto scusa, no? E poi era così gentile, dolce, simpatico, divertente… e… beh, sì, e poi era anche carino con quegli occhi profondi e i capelli ribelli che non avevano né capo né coda…
Vabbè, a parte questo, c’era qualcosa che mi attraeva in lui, ma non sapevo cosa.
Forse quei suoi modi di fare così schietti e sinceri; o il suo sguardo puro e innocente, che celavano la saggezza che solo gli uomini maturi hanno. O forse quella misteriosa aura di malinconia che sembrava avvolgerlo completamente… ci avevo fatto caso dall’inizio: nonostante si fosse prodigato tutto il tempo per farmi sorridere, ogni tanto sembrava isolarsi dal mondo, e sul suo viso leggevo una profonda tristezza; i suoi occhi diventavano un baratro di silenziosi rimpianti, cupa inquietudine e… sì, quella che notavo – sebbene fosse nascosta per bene – era proprio autocommiserazione.
Ma per cosa?
-Qualcosa non va?-, chiesi all’ennesimo dei suoi black-out mentali che l’avevano costretto a lasciare il gelato che stava mangiando ad un tavolo del bar dove ci eravamo fermati.
Lui trattenne il respiro e si girò di scatto verso di me. Non avevo previsto la vicinanza dei nostri volti e dovetti fare i conti con la mia sbadataggine, perché le sue iridi sembravano volessero risucchiarmi. Sentii un brivido che dal collo attraversava tutta la mia schiena, per poi fermarsi dispettoso al basso ventre.
Lui si avvicinò di un millimetro – o forse fu solo frutto della mia immaginazione – e, d’istinto, mi ritrassi.
Sensazioni ingovernabili falciavano la mia mente e il mio petto, confondendomi e mozzandomi il respiro.
“Che diavolo mi sta succedendo?”, mi chiesi. “Perché tutte queste reazioni improvvise?”.
Evidentemente lui non si accorse di nulla, perché sorrise e rispose: -No, no, sto bene-.
Annuii, e mi sforzai di curvare le labbra all’insù, ma molto probabilmente fui capace solo di una smorfia indistinta. Mi voltai verso il frappé ancora intatto davanti a me. Ne presi un po’ e lo portai alla bocca, ma dopo averlo inghiottito mi venne la nausea: lo stomaco mi si era completamente chiuso.
Emisi un gemito e posai il cucchiaino sul fazzoletto.
-Non hai fame?-.
La voce di Christian era musica per le mie orecchie: sentivo di non poterne fare a meno.
Sgranai gli occhi.
“Ma che cazzo dici?”, esclamai mentalmente, ancora una volta in quel giorno anormale.
Scossi la testa e mi alzai.
Lui mi fissò meravigliato.
-Scusami, ho ricordato di avere un impegno importante, devo proprio andare! Grazie per la giornata stupenda, saprò ripagare. A presto, ciao!-, dissi tutto d’un fiato, e uscii di corsa dal bar.
Non riuscii a sentire cosa rispose: in meno di due minuti ero già nel parcheggio, ansimante e col cuore in gola. Ma non dalla corsa, no: bensì dalla potenza e dal fascino magnetico delle iridi di Christian.
Il giorno dopo mi ero ripresa, seppur leggermente. Mi diedi della stupida per il mio atteggiamento inspiegabile, e decisi di chiedergli scusa. Quindi lo chiamai. Scoprii che mia madre aveva il suo numero: gliel’aveva dato zia Karol quando andai per la prima volta a casa di Iona, nel caso in cui avesse voluto contattarci. Quando mi mostrò il biglietto non potei crederci e lo afferrai come una furia, nascondendolo in camera mia, in attesa del momento più propenso per effettuare la telefonata lontana da occhi indiscreti. La fortuna volle che i miei genitori proprio quel giorno dovessero uscire per un affare urgente, lasciandomi la casa libera. Di solito, quando accadevano questi inconvenienti (anche se io li chiamavo botte di cu… di vita! Le chiamavo botte di vita! XD ) me la davo alla pazza gioia, schizzando il volume dello stereo al massimo stile Macaulay Culkin nel video “Black or White”, e saltando sul divano nella cucina, tentando di imitare Michael.
Ma quel giorno fu diverso: appena l’auto sparì dietro il vialetto, presi il biglietto nascosto nella tasca del pantalone e composi il numero scritto sopra.
Uno squillo.
Due squilli.
Tre squilli.
Cavolo…
-Pronto, qui casa Petrescu. Chi parla?-.
La sua voce mi colse di sorpresa: mi aspettavo Iona, o il padre… ma non lui… e mi bloccai.
-Pronto?-, ripeté.
Rispondi, stupida, rispondi!, mi ordinai.
-C…ciao, Christian… sono Diane…-, balbettai.
Attimo di silenzio.
-Ciao, Diane-, rispose semplicemente.
Rimasi di stucco. Mi aspettavo un “Ehi, ciao, come va?”, oppure un “Ma che ti è preso l’altra volta?”, o anche “Finalmente, non vedevo l’ora di ascoltare nuovamente la tua voce angelica, capace di farmi venire i brividi e farmi volare fino al Paradiso, e…”.
Merda, non di nuovo! Smettila!
-Oh, ehm…-, mi portai una mano alla fronte. –Ciao, senti… volevo scusarmi per ieri, è che a casa avevano bisogno di me e l’avevo completamente dimenticato… scusami tanto, davvero, prometto che non succederà più…-. Le mie scuse suonavano patetiche, ma non me ne venivano in mente altre.
-Ma no, Diane, non preoccuparti, non mi sono offeso-, disse, rassicurante.
Sospirai di sollievo.
-Menomale… cavolo, per un attimo ho pensato che non mi avresti mai perdonata…-.
-Addirittura perdonata! Esagerata, dai!-.
-Uhm… forse hai ragione…-.
-Ma no, scherzo. Comunque sei carina a preoccuparti tanto per me… non so se lo merito, però…-. Ecco che ritorna quella tristezza smisurata nella sua voce.
No, no, no!
-Ovvio che te lo meriti! Diamine, senza di te non so proprio come sarei sopravvissuta a quella giornata!-.
-Grazie...-, mormorò.
-Guarda che non ho finito-, replicai.
Immaginai la sua faccia perplessa e sghignazzai.
-Ricordi quando ti dissi che ti avrei ripagato? Bene, è giunto il momento di farlo-.
Pausa di silenzio da entrambi.
-Vuoi venire a casa mia?-, chiesi. –Vediamo “Moonwalker” e ascoltiamo buona musica?-, chiesi.
Per qualche secondo non proferì parola.
Ma fu questione di un attimo.
-Mi farebbe molto piacere, soprattutto se la “buona musica” è ciò che penso io-, rispose.
Io sorrisi raggiante.
-Allora siamo telepatici, perché io intendo proprio lui-.
Christian rise, e io lo imitai.
-Tra un’ora?-, chiese.
-Anche adesso-, risposi.
Era la scena finale, la mia preferita.
Ogni volta che la vedevo cominciavo a piangere. Primo, perché il film stava per finire; secondo perché vedere Michael scomparire per poi tornare e dire che era vivo… beh, non sapevo bene il motivo, ma nella mia gola si formava un groppo troppo difficile da far svanire.
E anche il quel frangente le lacrime non mi risparmiarono.
-Che fai, piangi?-, chiese Christian, asciugandomi una guancia. Il suo tocco era vellutato e leggero, assomigliava al battito d’ali di una farfalla.
Io sorrisi mesta.
-Mi capita sempre quando vedo questo film, è più forte di me-, risposi, asciugando l’altra guancia.
-Su, dai, piccolina. Non c’è alcun bisogno di arrossire quei tuoi splendidi occhi verdi-.
Io sorrisi e lui mi carezzò una guancia.
-Grazie per il complimento-, risposi.
-E di che? Dico semplicemente la verità-, replicò lui.
Io arrossii.
Mi sentivo bene. Ero appagata, serena… felice.
Piangevo, ma qualcuno era vicino a me per consolarmi. Ridevo, e nessuno mi prendeva in giro per questo.
Ero Jacksoniana, e lo era anche lui.
Il film terminò, e tolsi la videocassetta.
-Cosa vuoi ascoltare?-, gli chiesi, prendendo dallo scaffale accanto la TV tutti gli album che avevo, da “Got to be there” a “Dangerous”. Quelli dei “Jackson 5” e dei “The Jacksons” non li comprai perché tutte le volte che ascoltavo determinate canzoni mi veniva in mente la brutta faccia di Joseph “Mostro” Jackson.
Christian sostenne il mento fra le mani.
-Scelta ardua… beh, siccome sono del parere che dopo aver pianto bisogna scatenarsi…-.
Prese uno dei CD centrali.
-Che ne dici di questo?-, chiese, mostrandomi la copertina.
-Un classico-, risposi.
-Il mio preferito-.
-Immaginavo. Da’ qua-.
Presi il CD e lo misi nello stereo.
Dopo qualche secondo partì “Wanna be startin’ something”.
Eccolo, il brivido.
L’adrenalina che scorreva nelle vene.
La voglia di far totalmente parte della musica e di fondermi con essa.
Non ebbi più il controllo dei miei arti, e iniziai a muovermi a ritmo. Non ballavo come Michael, anche se a volte improvvisavo un moonwalk, ma mi parve lo stesso di volare.
Christian si alzò e partecipò a quell’alchimia fra corpi e note con me.
Io lo fissai allibita.
-Cavolo, ma tu balli come lui! come fai?!-, esclamai, guardandolo ammirata.
-Lo faccio da sempre, sono cresciuto con lui e la sua musica. Ormai mi esce spontaneo. Oddio, non sarò uguale a lui, questo è ovvio: la perfezione non si eguaglia. Però devi ammettere che mi avvicino molto al suo modo di ballare-, mi disse ammiccando.
-Alla faccia dell’essere simile! Tu sei un grande!-, esclamai.
Lui rise.
-Grazie!-.
-Ma figurati!-, sbuffai, e ricominciai a volteggiare.
Tra una coreografia e un’altra parlavamo del più e del meno, e spesso di noi. Beh, più che altro parlavo io. Mi bombardò di domande, facendomi sentire come un criminale che confessa un delitto.
Quanti anni avevo, che scuola frequentavo, colore, fiore, materia preferiti… non mi dava il tempo di porne una anch’io, che già la sua mente elaborava i dieci quesiti successivi. Era frustrante, ma mi stavo divertendo: sentivo di aver bisogno di attenzioni, ed era quello che lui stava facendo; sembrava che Christian fosse in grado di leggermi dentro e scovare fra gli angoli più reconditi del mio animo tutti i segreti che portavo dentro.
O almeno, così credevo.
-Sei figlia unica?-, fu la sua centesima domanda.
Il sorriso sul mio volto si spense e un senso di oppressione mi pervase il cuore. Abbassai il capo e strinsi forte le braccia al petto.
-Sì…-, risposi.
I miei genitori adottivi non potevano permettersi un’altra adozione: sebbene il loro stipendio poteva far sì che questo sogno diventasse realtà, avevano preferito non rischiare, anche se immaginavano il mio dolore sapendo che non avrei potuto avere qualcuno con cui giocare e parlare che non fosse zia Karol.
-Qualcosa non va?-, mi chiese.
Io scossi la testa: -No, no, tutto bene…-.
-Sicura?-.
-Sì, grazie-.
Respirò profondamente.
-Perché non ti credo?-, replicò.
Mi morsi il labbro inferiore e mi passai una mano tra i capelli.
-Non lo so…-, risposi, scrollando le spalle.
Lui non disse nulla.
E io mi sentii in colpa per avergli raccontato una frottola.
-E va bene. Ti ho detto una bugia-.
Alza lo sguardo, e mi tuffai nella profondità dei suoi occhi neri. Non vidi rabbia, né rancore, né pena, né offesa. Solo comprensione. E capii che potevo fidarmi.
-Octav e Floarea non sono i miei veri genitori-, dissi.
Lui rimase in silenzio, ma nei suoi occhi passò una piccola scintilla.
Mi persi sulla forma perfetta delle sue ciglia, così incredibilmente lunghe…
-Loro non potevano avere figli, per cui decisero di adottare un bambino. Io ero nata in Francia, Tolosa, e quando arrivai per la prima volta in casa Alecsandri avevo appena quindici giorni di vita. Ho saputo che non ero la loro figlia biologica all’età di undici anni, e da allora cerco incessantemente i miei veri genitori-.
Il suo sguardo divenne curioso.
-Come mai?-, mi chiese.
Ripensai alla conversazione con zia Karol quella lontana sera d’estate di circa un anno prima, e tornò l’ormai familiare magone alla gola.
Io mi morsi un labbro, e sospirai, ricacciando indietro le lacrime.
-Voglio sapere perché mi hanno abbandonata, se l’hanno fatto perché erano poveri, oppure perché per loro ero un peso… se mi vogliono bene, o se me l’hanno voluto…-.
Abbassai il capo.
Non ce la facevo a continuare, e tutti i tentativi di lasciarmi quella storia alle spalle fallirono miseramente.
Lacrime silenziose caddero sulla coperta, lasciandovi dei piccoli aloni; lacrime che portavano con sé la storia di tutta una vita.
Diane, smettila. Non serve a nulla.
Ma come facevo? Dove trovavo la forza di non piangere?
Sentii una stretta che mi avvolse completamente, e una soffice carezza fra i capelli. Sgranai gli occhi quando capii che Christian mi stava abbracciando, ma non mi staccai.
Avvolsi il suo collo fra le mie braccia e scoppiai a piangere.
Rimanemmo così per mezz’ora minimo, durante la quale non feci altro che cacciare fuori tutto il dolore e la rabbia che avevo covato per 17 lunghi anni.
Quando finii, Christian staccò l’abbraccio e iniziò ad accarezzarmi la guancia.
-Non avrebbero mai potuto abbandonare una bambina dallo sguardo così significativo… e se l’hanno fatto avranno avuto di sicuro un motivo valido. Non pensare agli altri, lascia scorrere su di te tutto il resto, nessuno merita le tue lacrime-, mi sussurrò.
Io sorrisi.
-Grazie…-, mormorai, e lui mi abbracciò di nuovo.
Non opposi resistenza: il suo contatto mi faceva stare bene, non mi dava alcun fastidio.
-Di niente, piccola. E ricorda: se avrai bisogno di qualcuno con cui sfogarti potrai venire da me, saprò essere un ottimo ascoltatore e consolatore… se tu vorrai e me lo permetterai, ovviamente-.
Io lo guardai dapprima stupita, poi commossa, e infine grata.
-Certo-, risposi, annuendo.
Lui sorrise, e fu lo spettacolo più bello del mondo.
-Amici?-, chiese, porgendomi la mano.
Io la guardai come se fosse un insetto. Con un rapido gesto del braccio la scostai e strinsi forte Christian a me.
-Amici-, sussurrai.
Trascorsero all’incirca due settimane da quella “promessa”, e il nostro rapporto si consolidò sempre di più. Diventammo grandi amici, condividevamo tutto, e se avevamo bisogno di sfogarci trovavamo ognuno un punto di riferimento nell’altro. Con zia m’incontrai il giorno dopo, e confessò tutto.
-Di…dici sul serio?-, chiesi quando terminò di raccontarmi il suo piano per farmi incontrare con Christian.
Lei annuì.
Io non sapevo cosa dire: la guardavo stranita e basta.
Poi mi alzai.
Chiuse gli occhi, come se si aspettasse una mia sfuriata.
Una sfuriata che non arrivò mai.
Gridai di felicità e le saltai addosso; il mio fervore fu talmente grande che per poco non cadevamo dalla sedia.
-Grazie, zia, grazie!!-, esclamai, abbracciandola.
Lei rimase qualche secondo imbambolata, per poi iniziare a ridere come una matta e stringermi ancora più forte.
-Prego, piccolina-, rispose tra una risata e l’altra.
Mi staccai da lei e le porsi il mignolo.
Lei sorrise e lo strinse forte.
-Unite per sempre-, recitammo insieme, per poi scoppiare a ridere e saltare come due bambine sul letto di zia.
-Diane? È Christian!-, esclamò mia madre fuori la porta della mia stanza.
-Chi?-, chiesi, credendo di non aver sentito bene. Io e Christian non avevamo un appuntamento… o ricordavo male?
Mi alzai, ma prima che potessi toccare la maniglia, la porta si aprì.
Christian era davanti a me, e mamma lo guardava stupita da dietro.
Entrò senza tante cerimonie e si sedette sulla sedia di fronte la scrivania, per poi passarsi una mano fra i capelli.
-Non preoccuparti, mamma, va tutto bene, scendiamo tra un po’-, le dissi per rincuorarla e chiusi la porta.
Quando mi voltai, Christian ancora non aveva abbandonato la sua posizione.
-Cosa succede?-, gli chiesi.
Non c’era bisogno delle parole: quando c’era qualcosa che non andava lo intuivamo semplicemente dai nostri sguardi.
Lui alzò la testa e mi guardò a metà fra lo sconfitto e il timoroso.
-Io… io devo dirti una cosa, Diane…-, mormorò. –Una cosa… un po’ difficile da confessare… ma sento di potermi fidare di te, e… e ho deciso di dirtelo…-.
Mi avvicinai a lui e mi abbassai alla sua altezza.
-Dirmi cosa?-, chiesi.
Il suo sguardo divenne triste e sperduto. Assomigliava proprio ad un bambino… un bambino senza amore.
-Non so da dove cominciare…-, sospirò, afflitto.
Io sorrisi.
-L’inizio di tutto ti sembra troppo distante?-, chiesi e, presa una sedia, mi accomodai accanto a lui.
Lui abbassò il capo e sospirò.
Mi sentivo oppresso, per questo ero andato da lei. Lei doveva sapere la verità, lo meritava: mi era stata accanto nei momenti difficili, e ora mi toccava essere onesto in tutto e per tutto.
I suoi occhi vagavano preoccupati sul mio volto mentre tentavo di trovare le parole giuste. Le sue iridi mi risucchiavano in un vortice di emozioni che, per la prima volta nella mia maledetta vita, sentivo totalmente mie. Dovevo avere un aspetto orribile, perché la sua espressione era davvero preoccupata. Non potevo lasciarla in quello stato penoso, era arrivato il momento allo stesso tempo tanto temuto e tanto agognato. Ma il mio cervello era confuso, i miei nervi non riuscivano a collegarlo con la bocca per farle pronunciare quelle parole che premevano sul cuore da troppo tempo… e se mi avesse giudicato? Se la nostra amicizia fosse terminata?
Oh, ti prego, smettila di fare il melodrammatico e parla, idiota!
“Non ci riesco, merda, non ci riesco!”,.
Mi lasciai sfuggire un gemito, e lei mi carezzò un braccio.
-Calmati, non preoccuparti. Ci sono io qui…-, mormorò.
Rabbrividii, ma non seppi mai il perché:
Il contatto con la sua pelle era un toccasana per la mia agitazione: rasserenava i miei nervi e infondeva una pace in me mai provata prima.
“Forza, Christian…”, mi dissi. “Fidati di lei”.
Annuii mentalmente e presi un bel respiro.
-Quando ti vidi per la prima volta…-, cominciai, pensando che se proprio dovevo partire dall’inizio, allora il nostro incontro quel lontano pomeriggio di settembre era il momento ideale. –Beh, a parte il tuo look così simile al mio, ci fu qualcos’altro di te a colpirmi, e a farmi capire che non eri come le altre che avevo conosciuto fino ad allora-.
Alzai il capo e incontrai il suo sguardo curioso.
-I tuoi occhi-, continuai. –Così puri e cristallini da far vedere tutto ciò che hai dentro, con quel colore che li fa assomigliare a smeraldi incastonati nel tuo volto…-.
Lei arrossì, ma non disse nulla. Interpretai quel silenzio come un incoraggiamento, e continuai:
-Ogni tua parola, ogni tuo gesto erano testimoni della tua gentilezza e della bontà d’animo… non credo di aver mai visto una ragazza buona come te prima d’ora… a parte Karol… ma questo non c’entra…-.
Sospirai per l’ennesima volta e ripresi il racconto.
-È stato tutto questo a farmi capire che di te posso fidarmi… ed eccomi qui. Pronto a smascherarmi di fronte a te, Diane: l’unica che ha capito fin da subito quello che provavo. Ecco perché sono qui-.
Terminai quella prefazione tanto sofferta, e controllai se nelle sue iridi meravigliose c’era un minimo di turbamento o paura, o comunque qualche altra emozione che avrebbe potuto farmi cambiare idea all’istante e uscire da quella stanza. Solo pazienza e affetto. E dolcezza. Solo lei poteva avere uno sguardo così…
-Anch’io sono diverso, Diane. Ma in senso negativo… diverso dagli altri, eppure così simile al mio modello di vita… è difficile da spiegare… siamo accomunati dallo stesso destino, eppure c’è un baratro incolmabile che ci divide, e che mi fa sentire totalmente differente da lui…-.
Lei parve riflettere un attimo.
-Parli di Michael?-, chiese.
Io annuii, e la sua espressione divenne seriamente preoccupata. Forse dovevo smetterla di farla stare sulle spine.
-Dopo questa conversazione sarai libera di scegliere se continuare ad essere o meno mia amica, io non ti costringerò in nessun caso…-, le annunciai.
I suoi occhi divennero un mare di tristezza.
-Io non ti lascerò mai solo…-, mormorò, accorata e leggermente triste.
Io strinsi i denti. Sentirla dire quelle cose mi faceva male: non avevo alcun diritto di farla soffrire, non l’avrei mai avuto.
Mi alzai improvvisamente, stupendo ancor di più Diane.
-È arrivato il momento della verità. Ho deciso di aprirmi a te in tutto e per tutto, perché sei stata l’unica amica a non avermi giudicato… spero che tu continuerai a non farlo anche ora-, dissi.
Mi avvicinai a lei. La guardavo come per verificare il suo tasso di affabilità, ma lei non faceva una piega al mio sguardo: era pronta.
Alzai un braccio e mi tolsi i guanti e i cerottini alle dita. Alzai le maniche della camicia mostrandole la mia pelle.
La vidi ritrarsi e sgranare gli occhi.
-Capisci ora perché dico di avere il suo stesso destino?-, le chiesi, mentre inspirava profondamente alla vista delle macchie bianche sulla mia cute.
Quando aprì bocca, ne uscì solo una parola:
-
Vitiligine-.
Io annuii.
-Esatto. Soffro della stessa malattia di Michael Jackson. Solo che lui si è potuto fare bianco per nasconderla… io non posso. Lui è amato da milioni di persone in tutto il mondo… io no. Lui è un angelo sceso dal cielo… io invece solo un mostro orribile. E i mostri sono continuamente tagliati fuori dagli altri. Scusami tanto per averti trascinata nel mare dei miei guai, Diane, ma d’ora in poi sarà diverso. Non ti darò più fastidio, né ti costringerò a fingere con me: ti provoco solo ribrezzo, e ne sono cosciente. Perdona il mio egoismo: ho sempre desiderato che tu mi vedessi in un’altra ottica, ma ora che sai la verità nulla sarà più come prima. Non voglio essere guardato ogni maledetto giorno della mia esistenza con pena e compassione. Io non ho bisogno di questo, né tanto meno voglio che tu mi guardi in tal modo. Quindi è meglio se me ne vado… per sempre. Addio, Diane-.
Ecco, l’avevo detto. Mi stavo lasciando alle spalle l’unica persona con cui non serviva mentire. Mi sentivo una merda, ma era la cosa più giusta da fare. Non avevo alcun diritto su di lei, non potevo costringerla a far parte di una vita dolorosa che non le apparteneva. E il distacco era l’unico modo per non farla soffrire. Un’occasione sprecata? Forse. La cosa più giusta? Ovviamente.
Ne sei sicuro?
La voce mi prese alla sprovvista, e inizialmente non feci caso a quello che mi accadeva intorno.
Fu solo dopo pochi secondi che mi accorsi di una figura di fronte a me.
E, prima che potessi metterla a fuoco, prima che avessi il tempo di reagire, sentii un dolore allucinante alla guancia sinistra. Mi ritrassi di colpo e mi portai una mano al viso dolorante.
Un misto di emozioni mi pervasero tutta una volta: tristezza, rabbia, rancore, malinconia, dispiacere… emozioni negative, come sempre. Emozioni che vennero annullate subito dopo, quando sentii una stretta calda che copriva tutto il mio corpo.
-Come puoi dire una cosa del genere, eh?-, esclamò Diane, e mi accorsi con rimpianto che piangeva. -Come puoi minimamente pensare che io non ti voglia accanto a me? Quando ho saputo della malattia di Michael non ho smesso di amarlo, eppure non l’ho mai conosciuto in vita mia. E adesso, solo perché tu,
il mio migliore amico, hai lo stesso suo problema… io devo denigrarti? Ma stiamo scherzando! Per chi mi hai presa? Io non ho mai lasciato solo nessuno, neanche quelli che non meritavano la mia amicizia, e dovrei abbandonarti al tuo destino come i cani si abbandonano lungi i cigli delle strade? Mai, Christian, mai. E non m’importa se tu non mi vuoi accanto, io per te ci sarò sempre, perché…-.
Alzò la testa e mi guardò.
I suoi occhi gridavano muti una richiesta che non potevo rifiutare in alcun modo.
E fu allora che capii cosa fare.
Asciugai tutte le sue lacrime, per poi spostare la mia mano di lato, accarezzandole la parte sinistra del collo. Lei capì cosa stavo per attuare, ma non si ritrasse. Anzi, vedevo i suoi occhi indugiare sul mio volto e, per ultimo, sulla mia bocca. Abbassai leggermente il capo, annullando definitivamente la distanza fra noi.
Fu così che le nostre labbra s’incontrarono per la prima volta.
Non ci furono dubbi, né tentennamenti: entrambi sapevamo come comportarci, anche se non ci era mai capitato nulla di simile prima. Sentivo le sue braccia attorno al collo e la sua stretta che ogni secondo si faceva più intensa. Con una mano le sostenevo la nuca e con l’altra percorrevo il profilo della sua schiena.
Quando ci staccammo avevamo entrambi il fiatone.
Sorridemmo, felici di aver trovato quella cosa che cercavamo da una vita intera.
-Perché?-, chiesi io, ansioso di scoprire il continuo del suo discorso.
Non potevo negare la verità.
Dopo tutto quel tempo trascorso a nasconderla e a mentire a me stessa, era ormai arrivato il momento. Lui era stato onesto con me, ora dovevo ripagare.
Desideravo solo stare con lui, nient’altro. Desideravo vedere il suo sorriso che irradiava le mie giornate e mi metteva allegria, desideravo…
-Perché ti amo-, risposi.
Lui sorrise dolce e raggiante al tempo stesso.
-Anch’io-, disse, e poggiò di nuovo le sue labbra morbide e delicate sulle mie.
Desideravo amarlo, e l’avrei fatto.
Ora sapevo che non potevo più tornare indietro.
Oramai quel piccolo frammento di vita vissuto fino ad allora stava per cambiare. Ed era tutto merito di un bacio.
Saaaaaaaaaaaaalve!!!! Visto?? Non vi ho fatto attendere molto!!!^^
Per quanto riguarda questo chappy... la mia parte preferita è l'ultima... sì, esatto, quella del bacio... sarà che sono una romanticona nata... sarà che anch'io desidero riceverne uno così da...
Eh, sì, ragazze, sono proprio innamorata e cotta a puntino... una mia amica ha ironizzato dicendo che è per questo che ho descritto così bene il bacio tra Diane e Christian...
Beh, non so se sono stata brava... voi che ne pensate???? Un bacione e grazie ancora a tutti voi per i bellissimi commenti!!!!! [SM=x47938] [SM=x47938]