"Lifes' Fragments - When Everything Change". Terminata: 8 capitoli (brevi racconti). Rating: arancione

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Pagine: 1, [2], 3
morrison79
00martedì 17 novembre 2009 16:08
mith...
solo poche parole.. perchè non riesco a vedere bene i tasti...
mi hai fatto piangere...
io non ho parole per descrivere l'emozione.. le sensazioni.. i sentimenti che ho provato leggendo questa storia...
è bellissimo..
dolcissimo...
triste...
ma nello stesso tempo dà speranza e fa pensare che davvero Mike sia vicino ad ognuno di noi a proteggerci...
non ho parole...
è meraviglioso...
grazie...
e credo che anche Mike ti ringrazi per queste storie che ci regali...
insieme a Giò e Polly... avete un dono...
grazie
MichaelInTheHeart
00martedì 17 novembre 2009 17:00
Re:
morrison79, 17/11/2009 16.08:

mith...
solo poche parole.. perchè non riesco a vedere bene i tasti...
mi hai fatto piangere...
io non ho parole per descrivere l'emozione.. le sensazioni.. i sentimenti che ho provato leggendo questa storia...
è bellissimo..
dolcissimo...
triste...
ma nello stesso tempo dà speranza e fa pensare che davvero Mike sia vicino ad ognuno di noi a proteggerci...
non ho parole...
è meraviglioso...
grazie...
e credo che anche Mike ti ringrazi per queste storie che ci regali...
insieme a Giò e Polly... avete un dono...
grazie



Morrison!!! [SM=g27836]
Oddio, da tempo aspettavo un tuo commento... [SM=x47963]
Grazie a te... ho scritto questi capitoli con il cuore... mi fa davvero piacere che la mia storia ti sia piaciuta...
beh, Giò e Polly sì, conosco le loro storie, e sono bravissime a scrivere... ma io... [SM=x47979]
sono solo una semplice fan che riporta scritto ciò che sente dentro... lo faccio per Michael, e - in particolar modo con quest'ultimo capitolo - per farvi stare meglio e farvi capire che LUI NON CI LASCERÀ MAI SOLI... [SM=g27827]
Vi voglio bene... [SM=x47938]
Orsola
BEAT IT 81
00martedì 17 novembre 2009 17:53
Oddio, sto facendo la fontana dal piangere...bellissimo...mi ha toccato il cuore, xò che mazzata rivivere quel giorno...Bravissima davvero!!!
marty.jackson
00martedì 17 novembre 2009 20:51
ho mio dio 6 fenomenaleee!!!ho letto adesso il 3° e il 4° capitolo sono fantastici!!
il 3°bellissimo molto dolce...il 4° stupendo ho pianto tuutto il tempo...
kmq te lo ripeto:BRAVAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA!!!!!
Micheal'sNewFan
00martedì 17 novembre 2009 21:55
Re: Re:
MichaelInTheHeart, 17/11/2009 15.46:



No, ti prego, non fare così... no non piangere... cavolo, ma perchè ho postato questo capitolo??? [SM=x47926]
Maledetta me, adesso tu stai male!!! No, non voglio che tu stia male, non voglio!!!!!!! [SM=x47964]




Tranquilla! [SM=g27822]
La tua FF è bellissima, e mi ha fatto sognare specialmente nell'ultima parte...tranquilla... [SM=x47938]
(angel66)
00martedì 17 novembre 2009 22:53
grazie l'ho copiata la leggero e poi ti diro i sentimenti che mi suscita un abbraccio
FaithMJfan
00mercoledì 18 novembre 2009 21:52
Re:
MichaelInTheHeart, 16/11/2009 18.51:

Grazie mille... *.*
Non sapete quanto mi rendano felice questi vostri commenti positivi... cavolo, e adesso vorrei tanto postare il prossimo... però poi non lascio quella "suspence" tipica degli scrittori... [SM=g27822] sese, una scrittrice io... [SM=x47954]
Vabbè, comunque grazie mille a tutti voi... siete meravigliosi, davvero, vi voglio un mondo di bene!!! :'] Beh, se questi vi hanno fatto piangere... voglio proprio vedere il prossimo... [SM=g27825]
Okay, non anticipo altro... solo una cosa: preparatevi mentalmente!
Un bacione!!! [SM=x47938]





Prima di leggere il 4° volevo farti sapere..che questo tuo 3° è stato il più bello che io abbia mai letto,di tutte le ff che son state scritte!! Mi sono piaciute TUTTE ma davvero.."3.BEN" nella sua semplicità è il più bello che ho letto fin'ora in assoluto!!! Mi hai fatto sorridere e piangere insieme..Grazie,veramente.. [SM=x47981] bellissimo..sinceramente,dal profondo del mio cuore,sei eccezionale! [SM=x47932]

Il 2°è stato duro,ma mi parso difficile credere che non fosse un romanzo..splendido..

E ora mi "tuffo" nel 4°.. [SM=g27835] ..Ho un pò paura di come mi potrei sentire dopo..! [SM=g27831] [SM=x47979]
FaithMJfan
00mercoledì 18 novembre 2009 22:38
Appena finito di leggere il 4°capitolo..
Bene.Le mie paure erano fondate..
MichaelInTheHeart non ho davvero parole.. [SM=g27831] ....Spero di trovarle presto,ma per il momento devo mandar giù questo nodo di emozioni che ho in gola..
Non ritenermi esagerata per questo,ma devo dirtelo,DEVI riconoscerlo..sei un'artista! [SM=g27836] Io sono allibita e scioccata..emozionata..come fai a essere così brava.. [SM=x47963] ..io non so veramente che dire,mi hai lasciato di stucco!!..
No non riesco a esprimermi per ora..è troppo,troppo bello quello che hai scritto..per il momento ti dico solo questo e arrivano dal mio cuore queste parole:Grazie,ti voglio bene [SM=x47938] [SM=x47938] [SM=x47938] [SM=x47938] [SM=x47938]
morrison79
00giovedì 19 novembre 2009 18:44
Re: Re:
MichaelInTheHeart, 17/11/2009 17.00:



Morrison!!! [SM=g27836]
Oddio, da tempo aspettavo un tuo commento... [SM=x47963]
Grazie a te... ho scritto questi capitoli con il cuore... mi fa davvero piacere che la mia storia ti sia piaciuta...
beh, Giò e Polly sì, conosco le loro storie, e sono bravissime a scrivere... ma io... [SM=x47979]
sono solo una semplice fan che riporta scritto ciò che sente dentro... lo faccio per Michael, e - in particolar modo con quest'ultimo capitolo - per farvi stare meglio e farvi capire che LUI NON CI LASCERÀ MAI SOLI... [SM=g27827]
Vi voglio bene... [SM=x47938]
Orsola




wow orsola..
mi fa davvero piacere che aspettassi così tanto un mio commento...
che dire...
ho detto la verità..
ciò che scrivi è bellissimo.. e l'ultimo racconto è davvero
non lo so.. non so come definirlo...
è da togliere il fiato...
sei un fenomeno davvero.. ti prego.. continua a scrivere!
MichaelInTheHeart
00giovedì 19 novembre 2009 20:55
Ragazze, davvero non so come ringraziarvi. I vostri commenti mi hanno semplicemente lasciata senza fiato... grazie, grazie mille a tutte voi: siete fantastiche e vi voglio bene ognuna, dal profondo del mio cuore... ed ora... il 5 capitolo!!! [SM=g27822]

05. BABY BE MINE

I Don’t Need No Dreams When I’m By Your Side
Every Moment Takes Me To Paradise
Darlin’, Let Me Hold You
Warm You In My Arms And Melt Your Fears Away
Show You All The Magic That A Perfect Love Can Make
I Need You Night And Day

So Baby, Be Mine (Baby You Gotta Be Mine)
And Girl I’ll Give You All I Got To Give
So Baby, Be My Girl (All The Time)
And We Can Share This Ecstasy
As Long As We Believe In Love


Guardavo quei pezzi di carta bianca come se fossero doni caduti dal cielo.
Beh, più o meno stavamo lì.
Il fatto era che non riuscivo ancora a credere che fosse vero.
-M…ma… sono pe-per me?-.
-Ovvio, Diane. Sono due. E puoi portarci chi vuoi-.
Per la prima volta da quando li avevo in mano guardai i miei genitori. I loro occhi erano puri, ma anche divertiti: di sicuro trovavano buffa la mia reazione.
-Non è una balla? State facendo sul serio?-, chiesi, titubante.
-Certo. Altrimenti non te li avremmo mai fatti vedere-, rispose mio padre calmo.
-No, aspettate un attimo-, dissi decisa a capire meglio quella situazione assurda.
Mi portai le mani nei capelli e tornai a guardare ciò che avevo in mano.
-Volete dire che voi mi avete regalato di vostra spontanea volontà due biglietti per il Dangerous Tour di Michael Jackson a Bucharest?-, domandai tutto d’un fiato, assumendo un’espressione shockata – che, d’altronde, avevo già dall’inizio di quella conversazione con i miei…
Loro si scambiarono degli sguardi.
-Oddio, di nostra spontanea volontà no, però… sì, alla fine hai avuto quello che desideravi-, rispose mia madre.
Io li guardavo come se fossi appena arrivata sulla Terra.
-Non ci posso credere… allora è tutto vero…-, mormorai.
Loro annuirono.
Sorrisi raggiante e li abbracciai.
-Grazie, mille volte grazie! Non so proprio che dire!-.
-Una cosa c’è: non ringraziare noi, ma tua zia Karol. È stata lei a convincerci-, disse mio padre.
Annuii.
-Ah, ecco, mi sembrava strano…-, mormorai.
Fortunatamente, i miei genitori non hanno mai fatto storie sul fatto che mi piacesse Michael… però non sopportavano le fissazioni, tra cui: ascoltare sempre le sue canzoni, comprare CD e gadget come spille o maglie, tappezzare i muri di suoi poster e foto e camminare per la strada cantando a squarciagola “Thriller”. Beh… per me quelle non erano fissazioni… erano la normalità.
Per cui, dovevo stare molto attenta a come mi comportavo: se mi facevo beccare inginocchiata mentre tentavo di ballare come lui, o a baciare lo schermo della televisione perché trasmettevano un suo video… altro che addio Michael: addio, mondo crudele!
-Stai pensando a chi devi portare con te?-.
La voce di mia madre mi riscosse dai miei pensieri e mi riportò alla realtà.
-E…ehm… veramente… non…-, farfugliai, spiazzata sia dalla domanda improvvisa sia dal fatto che non ci avevo mai pensato prima.
Riflettei sul fatto che i miei amici rispettavano i miei gusti ma non amavano Michael… e l’unica che lo amava non sarebbe potuta venire con me… no, non mi avrebbero accompagnata.
Riflettei sul fatto che i miei genitori sarebbero potuti venire con me… ma se fossi stata scelta per salire sul palco e abbracciare Michael… possibilità alquanto remota, ma se fosse successo… non me l’avrebbero permesso… mi avrebbero costretta a rimanere accanto a loro per tutta la serata.. senza muovermi… no, non mi avrebbero accompagnata.
Riflettei sul fatto che i miei cugini amavano altri tipi di canzoni… che non sopportavano Michael e che mi prendevano in giro tutte le volte che mi facevo scappare una parola di troppo su di lui… no, non mi avrebbero accompagnata.
Riflettei sul fatto che…
-Ma come cavolo ho fatto a non pensarci prima?-, esclamai. –Torno subito!-, e sfrecciai accanto al telefono.
-Io avrei un presentimento…-, mormorò mia madre mentre componevo il numero.
Dopo pochi secondi iniziò a squillare.
-Pronto?-, mi rispose una voce femminile dall’altro capo del filo dopo tre squilli.
-Ciao zia Karol, sono Diane!-, dissi, frizzante.
-Oh, ciao, Diane! Che cos…-.
-Grazie mille!-, urlai interrompendola.
Lei rimase qualche secondo in silenzio, per poi scoppiare a ridere.
-Ah, i tuoi ti hanno fatto vedere il mio regalo?-.
-Sì, sì! Non so davvero come ringraziarti!-, urlai (letteralmente).
-Oh, cara, ma non…-.
-Anzi, no!-, la interruppi ancora una volta. –So come ricambiare il favore!-.
Mia zia stette in silenzio.
Sospirai.
-Vuoi venire al live di Bucharest con me?-, chiesi.
In quel momento compresi appieno la frase: “Fa’ prima sedere la gente e poi dai loro delle notizie shockanti”.
Ah, e poi capii anche cosa significava perdere i timpani.
Se fino a poco tempo prima mia zia è stata muta il tempo necessario che il suo cervello registrasse meglio le mie parole, pochi secondi dopo dovetti staccare la cornetta dal mio orecchio, perché zia Karol iniziò ad urlare. Perfino i miei genitori sentirono le sue grida di gioia, e scuoterono la testa.
-Grazie, grazie mille! Non ci posso credere! E io che credevo che avessi portato qualche tua amica con te!-.
Io risi.
-Consideralo un ringraziamento per quello che tu hai fatto per me l’anno scorso… senza di te proprio non so come avrei fatto… sei speciale e indispensabile nella mia vita proprio come Michael-, le dissi, raggiante e grata. E fanculo i miei se mi sentivano nominare Mike: ero troppo felice per badare alle loro parole!
-Oh, cara, grazie! Mi fai commuovere!-, disse imbarazzata.
Sbuffai.
-Ma vaff…-, ma non finii la frase che ricordai dell’esistenza dei miei genitori, i quali mi stavano guardando di sbieco. -Ehm… volevo dire… ma no, non piangere!-.
-Ci sono i tuoi, vero?-.
-Eh, già-.
-D’accordo, allora vieni a casa mia che parliamo meglio-.
Sorrisi raggiante.
-Vengo subito!-, e agganciai.
Corsi nel bagno, mi lavai, mi pettinai e mi truccai. Poi indossai le scarpe, corsi nell’ingresso, presi le chiavi sul mobile accanto la porta e prelevai dall’appendiabiti una giacca nera con la fascia bianca sulla manica e un cappello completamente nero.
Mi guardai allo specchio.
Mancava solo una cosa.
Corsi di nuovo sopra e presi dal cofanetto sulla scrivania della mia stanza una bustina. Presi otto cerottini e li misi attorno le dita.
Ecco, ora sì che stavo bene.
Scesi di corsa le scale.
-Ciao, vado da zia Karol!-, gridai ai miei.
-Quando torni?-, mi chiese mia madre.
-Non so… forse rimango a mangiare lì… ti faccio sapere comunque, chiamerò dal telefono di zia, non preoccuparti! Ciao, a dopo!-, e uscii di fretta fuori.
La giornata era stupenda e respirai a fondo.
Volevo gridare, volevo far sapere a tutto il mondo che andavo al concerto del grande Michael, del mio Michael…
Improvvisamente, mi venne una canzone in mente, i miei piedi e la mia bocca si mossero da soli e mi ritrovai a saltellare e a cantare in mezzo alla strada “Black or White”.
Ero così felice, così allegra, così contenta che non me ne fregava un corno se la gente mi guardava e mi considerava una pazza: avrei finalmente incontrato il mio amore, l’unico della mia vita.
Saltavo e cantavo, cantavo e saltavo.
-If you’re thinking about my baby I don’t matter if you’re black or white!-, urlai.
Mi girai di spalle e iniziai a fare l’unico passo di danza di Michael che avevo imparato: il moonwalk.
Mi veniva davvero bene, e per farlo ancora meglio pensavo ai movimenti di Michael, e tentavo di imitarlo quanto più fedelmente possibile. Sapevo che non sarei mai riuscita ad eseguirlo come lui… simile sì, ma uguale mai. Come si fa ad eguagliare la perfezione? Lui è perfetto… unico… inimitabile… bono… cavolo, quest’ultimo termine mi sembra alquanto riduttivo… in pratica ogni volta che lo vedevo… che guardavo dritto nei suoi occhi…
Stump.
-Ahia!-.
-Ahi! Ma che…?-, esclamai.
Mi girai di scatto e vidi un ragazzo che si teneva il piede con una mano. Capii di aver travolto un povero innocente a passo di moonwalk.
-Oddio! Scusami!-, esclamai portandomi le mani sulla bocca. Il ragazzo alzò gli occhi, e incontrai delle splendide iridi di un tenero castano. Ne rimasi incantata per qualche secondo prima di accorgermi che mi guardava furioso… infine, tutta la mia ammirazione che provavo per quello sconosciuto solo guardandolo negli occhi svanì quando aprì bocca.
-E sta’ un po’ attenta a dove metti i piedi!-, esclamò acido.
Io non potei fare a meno di sentirmi offesa, ma tentai di fare la gentile.
-Mi dispiace, davvero, non ti avevo proprio visto!-.
-Me ne sono accorto... cavolo...-, mormorò lui, abbassandosi per massaggiarsi il piede destro.
-Ti ho fatto male?-, chiesi, preoccupata, avvicinandomi a lui.
Si scostò alzando il volto. Abbassò la testa, ma poi la rialzò. Mi osservò attentamente... anzi, osservava come mi ero vestita.
Inarcò un sopracciglio.
-Che oca...-, mormorò, per poi passare oltre e andarsene.
Quella volta mi offesi davvero.
-Ehi! Questo è perché ti ho chiesto scusa!-, gli esclamai dietro.
Lui non si girò. E io divenni ancora più furiosa.
-Ma vaffanculo, stronzo! Ucciditi!-, gli urlai, per poi girare i tacchi e incamminarmi verso la casa di mia zia.
Chiamarmi oca... ma come si permetteva?
Io che devo sorbire le calunnie, le prepotenze e le prese in giro dei miei conoscenti... io che devo camminare con questa consapevolezza che – nonostante Michael fosse un cantante affermato e famoso in tutto il mondo – chiunque poteva offendermi e farmi sentir male... no, quel bastardo non l’avrebbe vinta!
Mi girai di scatto.
E me lo trovai a pochi centimetri dal mio viso.
Rimasi per un momento bloccata, stupita dell’improvvisa vicinanza.
Mi guardava strano, come se tentasse di analizzarmi solo con lo sguardo.
Provai vergogna, fastidio e ribrezzo per quel ragazzo che non sapeva nulla di me e che mi guardava in quel modo.
Mi accigliai e gli mormorai sadica: -Io non sono oca. Sono solo una grande fan del meraviglioso Michael Jackson, costretta ogni giorno a sopportare maldicenze e commenti velenosi. Ma io vado avanti pensando che lui ha passato cose peggiori delle mie, che lui ha dovuto sopportare le botte del padre e i soprusi della gente e dei giornalisti, lui soffre di vitiligine, lui ha sofferto decisamente più di me e ha sempre sorriso, non si è mai lamentato, mai! Ma non mi va che mi si dia dell’oca, cosa che non sono mai stata, chiaro? Smettila di parlare così, e prova a conoscere le persone prima di giudicarle, bastardo-.
Lui non staccava gli occhi dai miei. Era assolutamente irritante essere fissata in quel modo, ma non staccai lo sguardo. Chi abbassa lo sguardo o cammina con la testa china è un vigliacco. E io non lo ero. Se quella era una sfida, allora l’avrei vinta.
Improvvisamente, si mosse. Si fece indietro e sospirò. Mi guardò ancora per due secondi e disse:
-Sei diversa-. Girò i tacchi e se ne andò.
Io rimasi impalata pensando ancora a quella frase misteriosa, e guardandolo allontanarsi. Ma che diavolo significava quella frase? Cosa voleva dire? Ma soprattutto, chi diavolo era quello?
Scossi la testa e, decisa a non pensarci, mi voltai nuovamente e presi per l’ennesima volta la strada verso casa di mia zia.

Il disco di “Thriller” girava per la milionesima se non la miliardesima volta e riempiva come al solito la mia stanza di note magiche.
Mi buttai di peso sul letto e mi portai il braccio davanti il viso.
Cavolo. Ma che diavolo mi era successo?
Non ero padrone delle mie azioni, ho offeso una tizia che non conoscevo e per giunta l’ho pure fissata come un demente dopo averla giudicata per il suo modo di vestire... uguale al mio, anche se lei non se n’era accorta... no, non si era accorta che condividevamo le stesse passioni, non si era accorta che i miei occhi esprimevano gratitudine e consapevolezza di ciò che stava dicendo, perché io provavo i suoi stessi sentimenti quando offendevano Michael Jackson, il mio mito. Non ne avevano il diritto, e dovevano smetterla di farlo.
Credevo che lei fosse un’altra delle solite, che si fermavano solo all’apparenza e non conoscevano la vera storia di Michael... ma mi sbagliavo. Lei non era come le altre. Lei non era una ragazza qualunque. L’avevo visto dalla sincerità, dall’affetto e dal dolore che trasparivano da quegli splendidi occhi verdi quando parlava di Michael... era come se provasse la stessa sofferenza che provava lui, e che con quei sentimenti gli desse man forte per fargli capire che lui non era solo...
Non ho mai visto nessuno come lei. Lei era diversa dalle altre, ne ero sicuro. E mi era bastato solo guardarla negli occhi... impressionante, certo... ma forse non dovevo fidarmi subito... forse non dovevo azzardare conclusioni affrettate...
Mi sedetti di scatto e guardai quei pezzi di carta sul comodino, l’unica ragione per cui ero ancora in vita: i biglietti per il Dangerous Tour Live a Bucharest. I miei genitori... unici.
Finalmente potevo dire che di Michael non ascoltavo solo le canzoni a tal punto da fondere i 48 giri di tutti i suoi album. Anch’io sarei stato testimone di uno dei più grandi spettacoli del mondo di cui si sentirà parlare negli anni avvenire.
Finalmente potevo vedere dal vivo l’uomo che per me era un amico oltre che un’icona. L’uomo sensazionale con cui condividevo lo stesso destino crudele.
-Christian? La cena è pronta!-, urlò mia madre.
-Arrivo!-, risposi, e mi alzai.
Mi guardai attorno e aprii l’armadio. Fissai il mio riflesso nello specchio. I capelli mori e gli occhi castani, quella pelle così chiara... c’era un motivo. Abbassai lo sguardo e guardai le mie mani. Tolsi i cerottini, e anche i guanti.
Le fissai a lungo.
-Lo stesso destino...-, mormorai. -...l’unica differenza è che tu sei un angelo... io un mostro dalla pelle screziata-.
Mi rimisi il guanto nero e i cerottini, per poi chiudere l’anta e togliere il disco di “Thriller”.

-...e se n’è andato, senza dire nient’altro. Non lo trovi strano?-.
Finii di raccontare la mia storia e guardai zia Karol. I suoi occhi azzurri mi fissavano attenti e un po’ ironici mentre parlavo continuando a sistemare una ciocca ribelle dei miei capelli dietro l’orecchio destro e a gesticolare come ero sempre abituata a fare durante i miei discorsi.
Avrà pensato che solo una pazza poteva preoccuparsi così tanto per una cosa talmente idiota.
Già, e se succedeva a lei non si sarebbe comportata allo stesso modo?
-Bah. Ma sei sicura di non averlo mai visto prima?-, mi chiese.
-Sicurissima-.
-E quindi non hai idea di cosa lo avrà spinto a comportarsi così...-.
-No-, risposi, esasperata.
Si portò le mani sul mento.
-E se fosse anche lui un fan?-, propose come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
Io la guardai scettica, e scoppiai a ridere.
Era talmente sciocco quello che diceva che non potei farne a meno.
Gli occhi mi lacrimavano e dovetti mantenermi la pancia.
-Perché stai ridendo?-.
La guardai con gli occhi ancora gocciolanti.
La sua espressione non accennava al minimo scherzo: era assolutamente seria.
Smisi di ridere e la fissai ancora più stupita di prima.
-Stai scherzando, spero!-, esclamai. –Mi ha chiamata oca! Capisci, zia? Oca. E lo sai perché? Perché ha visto come mi ero vestita. Mi ha offesa perché ho i pantaloni a sigaretta, il cappello, i cerottini, la fascia al braccio e le Ray-Ban. Un sacco di fans si vestono come Michael, e quelli che condividono la stessa loro passione non li offendono, ma li appoggiano. Chi lo offende sono solo le persone che odiano Mike e non possono proprio sopportarlo-.
-Beh, può darsi che abbia pensato sbagliato...-.
-In che senso?-, chiesi.
Scrollò le spalle.
-Forse credeva che la tua fosse una passione temporanea, che ti piace solo perché va di moda...-.
-Di moda?! Michael non è mai stato di moda! La moda passa, lui resterà per sempre-, filosofai assumendo un’aria saggia.
Zia Karol sbatté più volte le palpebre.
-Ooooh...-, esclamò fingendosi ammirata, -e da quando in qua ti dai anche alla filosofia?-.
Io risi.
-Hai mai sentito parlare di Effetto-Michael?-, risposi, ammiccando.
-Mmh... l’ho sentito nominare qualche volta...-, disse, per poi ridere insieme a me.
Era così bello parlare con lei... era la mia zia preferita, forse per il suo essere bambina nonostante avesse superato i trenta, forse perché era l’unica a capirmi, forse perché era talmente pazza che si era tinta i capelli biondo platino in rosa shocking... ricordai ancora la faccia di sua sorella – ovvero mia madre – quando la vide... mi viene a ridere tuttora solo al ricordo. O forse perché era così esuberante, ma dietro i suoi modi vispi c’era nascosta una ragazza dal cuore d’oro e dall’animo dolce che sapeva ascoltarmi e consolarmi come mai nessuno aveva mai fatto... o forse perché era stata lei, un anno prima, a farmi innamorare di Michael...

Il rumore di una macchina cattura la mia attenzione e mi affaccio alla finestra. Vedo solo che l’auto minuscola parcheggiata sotto casa mia è di un forte e spiccante giallo canarino, per poi precipitarmi fuori dalla mia stanza.
-È arrivata zia Karol!-, urlo, aprendo subito la porta.
Mi ritrovo davanti una donna con una camicia bianca aperta e una maglietta di cotone sotto sempre bianca, un paio di pantaloni a sigaretta neri con una cintura dello stesso colore, due mocassini neri con dei calzettoni bianchi di pailettes e una specie di guanto sul braccio destro.
Non so cosa mi piace di quel suo modo di vestire così strambo... fatto sta che rimango incantata dai suoi abiti.
-Salve, bella gente! Come va?-, chiede, guardando radiosa me e mia madre.
-Alla grande, ora che ci sei tu!-, esclamo, saltandole al collo.
Corriamo di gran carriera nella mia stanza e lei mi mostra un CD.
-Di chi è?-, le domando, guardando l’oggetto curiosa.
-Del cantante più bravo e meraviglioso del mondo... anzi, no, dell’universo intero!-, esclama con gli occhi che le luccicavano.
-Wow... non ti vedevo così contenta da quando hai scoperto che ti piaceva lo yoga...-.
Lei non perde quel suo luccichio negli occhi.
-Adesso è assolutamente diverso... questo rimarrà nel mio cuore per sempre...-.
-Cavolo, ma allora ti ho persa davvero!-, esclamo, ironica.
Lei sorride.
-È da quando sono piccola che lo conosco... ho vissuto con le sue canzoni nelle orecchie... e ora che è tornato un mese fa con questo nuovo disco... mi sono innamorata di nuovo-, dice estasiata.
Io la guardo a bocca aperta. Poi inizio a fare 2+2...
-Ed è per questo che ti sei vestita così oggi?-, chiedo, e il suo rossore confermò le mie supposizioni.
-In un video... dovessi vederlo!-, esclama, gli occhi che le luccicano. - farebbe fondere perfino i ghiacciai dell’Antartide!-.
-Se è per questo, ci sta già pensando il riscaldamento globale...-, ironizzo, e lei mi da un pizzicotto.
-Ahi! Guarda che mi hai fatta male!-, esclamo.
-Ma va’...-, risponde, e mette il CD nel lettore.
- Com’ è che si chiama, tanto per sapere?-.
Lei schiaccia sul pulsante “Play” e mi risponde con un luccichio negli occhi: -Michael Jackson-.
La prima cosa che sento di quella canzone è un rumore di vetri infranti.
Ed è subito amore.

Accendiamo la radio nella macchina sgargiante di zia Karol mentre facciamo un giro per le strade di Bucharest. Poco dopo l’abitacolo viene riempito delle note di “Bad”.
“Your butt is mine, gonna tell you right! Just show your face in broad daylight…!”
Urliamo a squarciagola le parole della canzone che avevo imparato a memoria durante quei due mesi, e molte persone si girano a guardarci.
-È fantastico! Mi sento viva!-, grido.
Mia zia ride.
-Ecco cosa provo io tutti i giorni!-, mi rispose.
-Ah, è per questo che ti vedo sempre così esuberante e solare-, esclamo, e lei annuisce.
-Michael mi ha proprio cambiato la vita…-.
Io sorrido. Ricordo quanto era malinconica zia dopo che Adam l’aveva lasciata… non usciva di casa, non parlava con nessuno, neanche con mia madre. Era come caduta in stato catatonico. Invece, da qualche tempo… beh, forse davvero Michael aveva davvero contribuito a renderla più felice…
Fu in quel momento che iniziò “Man in the mirror”. Non credevo che stessimo a girovagare per tutto quel tempo, e invece è proprio così.
Le note di quella canzone come al solito mi riempiono l’anima, e mi assale la malinconia… di nuovo.
-Spero che la cambi anche a me-, mi faccio sfuggire.
Mia zia non risponde, ma si gira verso di me.
Io non la guardo, ma so già quello che vuole dire il suo sguardo: -Solo perché non sono i tuoi veri genitori non significa che non ti vogliano bene-.
Infatti, sono proprio le parole che pronuncia.
Me lo aspetto, ma non posso fare a meno di non pensarci.
-Perché mi hanno abbandonata? Ero un peso per loro?-, domando, e le lacrime prendono a scorrere da sole.
Lei ferma la macchina e porta la mano alla radio.
-No, non chiudere!-, esclamo.
Lei mi guarda comprensiva e abbassa solo il volume in modo che si possa parlare senza urlare.
-Non eri un peso, e non lo sei mai stata. Forse non ce la facevano con i soldi… forse si aspettavano che tu vivessi una vita migliore…-, mi risponde.
Io continuo a piangere. Non m’importa di quello che dice mia zia, anche se ha ragione. Non avrei mai incontrato i miei genitori, e non avrei mai saputo perché mi avevano abbandonata…
-Non piangere, piccola… adesso hai una mamma e un papà… e poi ci sono anch’io… non sarai mai sola…-, mi consola, e io annuisco.
-Grazie-, mormoro, e lei mi abbraccia forte.
Riuscivo a sentire il suo cuore battere all’unisono con il mio. Non ci saremo mai separate.


-Diane! Mi è venuta un’idea grandiosa!-, esclamò improvvisamente mia zia facendomi sussultare e quasi volare via la forchetta che avevo in mano.
Fingo di guardarla stupita.
-Ah, e tu pensi pure?-, la prendo in giro.
Lei mi fulminò con lo sguardo e mi fece una boccaccia.
Io scoppiai a ridere.
-Ti adoro quando ti arrabbi! Vabbè che ti adoro sempre… comunque, sì, dì pure-, aggiungo vedendo che brandiva pericolosamente un coltello in mano, che – fortunatamente – posò sul tavolo.
Guardai i suoi occhi farsi maliziosi, troppo maliziosi, e iniziai seriamente a preoccuparmi.
-Vuoi venire a casa di certi miei amici? Hanno un figlio fan che conosco da quando è piccolo, ha la tua stessa età… anzi, no, ha due anni in più a te, 19. Potresti conoscerlo… sono sicura che vi divertirete un mondo insieme!-, ammiccò.
-Oh Dio…-, mormorai, portandomi la mano sugli occhi. –Vabbè, dai, andiamo. Sono sicura che non mi farà male conoscere qualcuno-.
Lei annuì.
-Fatti bella… stasera farai conquiste!-, esclamò lei alzandosi e uscendo dalla stanza.
-Sì, certo…-, mormorai. –Proprio una bella conquista…-.

La casa era molto carina.
Aveva due piani e una mansarda, ed era colorata di un tenue bianco perlato. Il giardino di fronte era ben curato e dal portone all’ingresso vi era un piccolo e breve sentiero; dalle finestre s’intravedevano delle tende, anch’esse bianche, tranne una di un rosso scarlatto che spiccava in mezzo a tutto quel chiaro.
Mi guardai attorno. Quella casa mi metteva soggezione, ma non sapevo perché.
-Sei pronta?-, mi chiese zia Karol.
Io la guardai ironica.
-Guarda che non devo mica andare nell’arena dei leoni!-, esclamai.
Lei fece una strana smorfia e spense la macchina. Scendemmo e bussammo.
-Chi è?-, chiese una voce femminile.
-Iosefina, sono Karol-.
-Karol! Sei arrivata! Un attimo, scendo subito!-, rispose la voce.
-Okay, ti aspettiamo-.
Poco dopo una sagoma nera avanzava verso di noi nel crepuscolo e aprì il portone.
La guardai sbigottita.
Era la più bella donna che avessi mai visto.
Alta e formosa, poteva avere una quarantina d’anni, ma ne dimostrava venti. I capelli ricci e neri le arrivavano alla vita; i grandi occhi di un profondo marrone scuro e le labbra carnose spiccavano sulla sua carnagione chiara. Le mani, affusolate e aggraziate, sembravano quelle di una pianista.
-Karol! Da quanto tempo!-, esclamò gettandosi come una bambina al collo di mia zia.
-Iona! Visto, finalmente sono venuta a trovarti! E ho portato anche un’altra ospite...-.
Si staccò dall’abbraccio e mi spinse delicatamente avanti in modo tale che la donna potesse vedermi.
-Iosefina, ti presento mia nipote Diane Alecsandri, quella di cui ti ho tanto parlato. Diane, lei è Iosefina Horia in Petrescu, una mia cara amica d’infanzia con cui ho mantenuto i contatti durante tutto questo tempo, ed è stata la stessa persona che mi ha fatto conoscere Michael, tanti anni fa-.
Io la guardai ammirata, incapace di spiccicare parola.
Fu lei a rompere il ghiaccio.
-Ah, tu sei la famosa Diane! Finalmente ti conosco, tua zia non ha fatto altro che parlare di te!-, esclamò raggiante. Io sorrisi timida maledicendo mia zia dentro di me.
-Molto piacere, Iosefina-, disse porgendomi la mano.
Gliela strinsi – stranamente – forte e le risposi: -Il piacere è tutto mio, signora Petrescu!-.
-Oh, non chiamarmi signora, ti prego! Mi fai sentire vecchia! Puoi chiamarmi Iona-.
Annuii, sorridente.
-Vada per Iona, allora!-.
Lei mi diede un pizzicotto sulla guancia.
-Brava. Adesso però entrate!-, e ci fece strada.

Se da lontano l’abitazione mi sembrava bella, l’interno era sconvolgente. Assolutamente meraviglioso.
Era tutto molto luminoso e pulito. A destra si apriva il salone stile etnico e a sinistra una cucina moderna. Di fronte una scala dello stesso legno scuro del portone conduceva al piano superiore, da cui proveniva una musica... davvero molto familiare...
Il cuore iniziò a battere velocemente.
-Ma questa... è “Baby be mine”!-, esclamai.
Iona e mia zia si girarono a guardarmi sorridenti.
-Esatto-, rispose Iona. –Vuoi perdonare mio figlio, ma quando ascolta Michael Jackson alza sempre il volume al massimo... dice che così si sente meglio...-, un’ombra di tristezza attraversò gli occhi di Iona. Zia non se ne accorse, ma io sì. Eccome.
-Vabbè, vado a chiamarlo, non sente alcun rumore quando mette i CD di Mike...-, si riprese Iona.
Io sorrisi e mia zia rise.
-Sì, possiamo immaginare-, disse lei.
Iona sorrise e si avviò sopra.
Dopo qualche secondo “Baby be mine” venne stoppata a metà del secondo ritornello e un rumore di passi ci annunciò che Iona e suo figlio scendevano le scale.
Io ero stranamente agitata, e mi tentai di distrarmi fissando le ciocche rosa scuro dei capelli di mia zia.
-Diane, ti presento mio figlio-, disse Iona.
Mi voltai lentamente.
-Christian, lei è Diane-.
Incrociai gli occhi marroni del ragazzo e...
Sgranai gli occhi e feci un passo indietro.
Lui mi imitò.
-Tu!-, esclamammo all’unisono, con l’unica differenza che il mio tono era arrabbiato, mentre il suo... semplicemente stupito.
Di fronte a me c’era lo stesso ragazzo che quel pomeriggio si era permesso di chiamarmi oca.
-Tu!- ripetei, irata. –Tu sei un fan di Michael Jackson! E mi hai offesa perché mi vesto come... come...-. Mi bloccai. Ora che lo guardavo bene... che guardavo i suoi vestiti... maglietta di cotone bianca... camicia nera... fascia sul braccio bianca... cerottini sulle dita... guanto lungo e bianco... pantaloni a sigaretta neri... mocassini neri... calzini bianchi...
Aprii e rinchiusi bocca.
-Tu... tu ti vesti come lui! Tu ti vesti come... come me! E... e ti permetti di dirmi che sono un’oca?!-, esclamai allibita e furiosa.
Lui non fiatava. Si limitava solo a guardarmi come un ebete. L’aria della stanza si era congelata.
-Perché non parli? Eh? Non ne hai il coraggio?-.
Continuava a stare zitto, e m’incazzai ancora di più.
-Scusa tanto, Iona, ma non posso stare qui. Zia, se vuoi accompagnarmi bene, altrimenti me ne vado a piedi. Arrivederci e scusate il disturbo-.
Girai i tacchi e mi diressi all’uscita.
-Sei diversa dalle altre-.
La sua voce mi giunse nelle orecchie e mi bloccò.
Mi voltai lentamente, tentando di frenare la mia rabbia.
-Continui a ripeterlo, ma non ho capito un cazzo di quello che dici. Addio-.
Aprii la porta e uscii fuori.
Bastardo.

Et voilà!!! Ecco la prima parte di questa storia... come vi sembra??
Ancora grazie a tutte quante voi, siete davvero uniche... mi fate emozionare... [SM=x47964] [SM=x47964]
Okay, basta!! *Orsola, torna in te...* ù_ù
Alla prossima!!! Don't worry: non vi farò aspettare molto!!! [SM=g27822]
Micheal'sNewFan
00giovedì 19 novembre 2009 21:22
Che bello questo capitolo! Bravissima! [SM=x47932]
Però mi hai lasciata sulle spine! Non vedo l'ora di leggere la continua!!! [SM=g27822]
MichaelInTheHeart
00giovedì 19 novembre 2009 21:46
Re:
Micheal'sNewFan, 19/11/2009 21.22:

Che bello questo capitolo! Bravissima! [SM=x47932]
Però mi hai lasciata sulle spine! Non vedo l'ora di leggere la continua!!! [SM=g27822]



Grazie!!! [SM=g27828]
Non preoccuparti, non dovrai attendere molto... [SM=g27822]
Un bacione!!! [SM=x47938]
Micheal'sNewFan
00giovedì 19 novembre 2009 22:02
Re: Re:
MichaelInTheHeart, 19/11/2009 21.46:



Grazie!!! [SM=g27828]
Non preoccuparti, non dovrai attendere molto... [SM=g27822]
Un bacione!!! [SM=x47938]




Bene, aspetto con molto piacere allora! [SM=g27822]
Un bacione a te! [SM=g27838]
MichaelInTheHeart
00venerdì 20 novembre 2009 19:49
BABY BE MINE (Parte seconda)

Ciò che amore può fare, amore osa tentarlo.
William Shakespeare
“Romeo e Giulietta” Atto II Scena 2



Me la vidi apparire davanti come se fosse un miraggio.
La pelle chiara… il viso ovale… le labbra sottili… i lunghi capelli lisci di un tenero rosso scuro… il naso piccolo e grazioso… quei suoi splendidi occhi verdi che mi guardavano confusi tentando di capire dove avessero già visto quel volto così familiare…
Tornai improvvisamente alla realtà, e fu quantomeno traumatico: ricordai le offese, il dolore che ha dovuto provare quando l’avevo chiamata oca, la rabbia e l’ira che bruciavano mentre difendeva Michael, e che ora vedevo materializzarsi nelle sue iridi smeraldo…
Trattenei il respiro e sgranai gli occhi.
Che ci faceva lei qui con Karol?!
-Tu!-, esalammo entrambi, ma – come immaginavo – il suo tono era di gran lunga più arrabbiato del mio.
-Tu! Tu sei un fan di Michael Jackson! E mi hai offesa perché mi vesto come… come…-, balbettò infine, scrutandomi dall’alto in basso con sguardo shockato.
“Come me?”, pensai.
-Tu… tu ti vesti come lui!-, esclamò.
Sì, Diane, è l’unico modo per farmi sentire a mio agio.
-Tu ti vesti come… come me!-.
Avrai finalmente capito che anch’io, come te, non vivo senza di lui?
-E… e ti permetti di dirmi che sono un’oca?!-.
Non sai quanto mi dispiace, piccola, non era mia intenzione offenderti…
Ma non parlo, non apro bocca per scusarmi e dirle quelle parole, rimango a fissarla mentre aspetta – invano – una mia reazione.
Forse credeva che le avessi chiesto scusa, che le avrei fornito delle spiegazioni, o che l’avrei cacciata di casa a calci nel sedere.
Qualunque fossero state le sue supposizioni, erano tutte sbagliate.
Non dissi nulla, rimasi a fissarla credendo che con il mio silenzio avrebbe capito che le davo ragione.
-Perché non parli? Eh? Non ne hai il coraggio?-.
Continuavo a guardarla, dicendole con gli occhi quello che con la bocca non riuscivo a cacciare fuori: “Hai ragione, perdonami”.
I suoi occhi divennero due fessure e disse con un tono che rasentava la furia: -Scusami tanto, Iona, ma non posso stare qui. Zia, se vuoi accompagnarmi bene, altrimenti me ne vado a piedi. Arrivederci e scusate il disturbo-.
Si voltò e si avviò verso la porta.
Rimasi basito: mi aspettavo che avrebbe continuato a sfogarsi, che sarebbe rimasta a casa mia tenendomi il broncio o ignorandomi fingendo che non esistessi per dimostrarmi che non le importava nulla di me…
Possibile che non chiedesse nemmeno una spiegazione?
“Forse tu le devi dare questa spiegazione”.
Saggia, la vocina nella mia testa.
Appariva quando meno me l’aspettavo, e mi era sempre tornata utile nei momenti in cui necessitavo di un consiglio ma nessuno era in grado di farlo. Ricordo quando una volta un mio amico…
“Smettila di blaterare, idiota, la pollastrella se ne sta filando!”.
“Non chiamarla pollastrella, il suo nome è Diane”.
Diane… Diane… che bel no…
“Insomma, ti sbrighi, bradipo intontito senza cervello?!”.
“Scusa”.
E, nella fretta di darle una spiegazione e nello stupore di parlare con una voce immaginaria nel mio cervello, pronunciai la prima frase che mi venne in mente: -Sei diversa… dalle altre-.
Lei si bloccò mentre stava per abbassare la maniglia, e si girò lentamente.
Per un attimo ho creduto di vedere stupore e gratitudine nei suoi occhi, ma mi sbagliavo ancora una volta.
Stupore sì, ma la sua espressione era più confusa e arrabbiata di prima.
-Continui a ripeterlo, ma non capisco un cazzo di quello che dici. Addio-.
E senza troppe cerimonie uscì fuori.
Rimasi impalato sulle scale per qualche secondo: la sua uscita teatrale mi aveva colto alla sprovvista.
“Davvero credevi che si sarebbe gettata al tuo collo ringraziandoti con le lacrime agli occhi?”.
Ancora una volta la vocina.
“Beh… forse un po’ ci speravo…”, pensai, incredulo delle mie stesse parole.
Ma in fondo era la verità, no?
“Allora non hai capito manco ‘na canna di quella ragazza, rimbecillito”.
Annuii, sempre mentalmente.
“Sì, lo so. Ma non chiamarmi rimbecillito, per piacere”.
Sbuffò, o forse era solo immaginazione.
D’altronde non è molto normale parlare con una voce immaginaria nel proprio cervello. Avrei dovuto farmi visitare da un buon psichiatra…
“Perché? È quello che sei”, replicò la voce.
“No”, risposi. “Non sono un rimbecillito. Sono solo un bastardo”, ammisi infine.
La vocina nella mia testa applaudì.


***

Non lo vidi più da quella sera.
In effetti non sarebbe stato difficile incrociarsi per la strada; Bucarest era una città grande, ma i punti d’incontro erano sempre gli stessi. A dirla tutta ero io che tentavo in ogni modo di non vederlo: evitavo per esempio i luoghi di raduno dei Jacksoniani – anche se non l’avevo mai visto da quelle parti, ma era meglio non rischiare –, i bar o i locali affollati, e di passare davanti casa sua, che non distava poi così tanto dalla mia, quindi da quella di mia zia.
Già, zia…
Non mi parlava mai di quello che era accaduto, ma notavo il suo dispiacere e la sua tristezza. Dapprima pensavo che queste sue emozioni fossero dovute alla brutta figura che aveva fatto davanti a Iona, oltre alla malinconia ormai diventata mia compagna, malinconia che non capivo da cosa fosse scaturita… ma dovetti ricredermi: lei sapeva tutto.
Quando le descrissi l’aspetto fisico del bastardo lei già aveva capito chi fosse. Ecco perché pronunciò quella frase: “E se fosse anche lui un fan?”.
Quando me lo disse – due giorni dopo quel venerdì sera – non potevo crederci.
-Avevo intuito che fosse Christian, e per confermare le mie supposizioni ti ho portata da Iona… la tua reazione ha spazzato via tutti i miei dubbi: ero sicura che fosse lui il misterioso ragazzo che ti aveva offesa-.
Io la guardai stupita e incredula.
Non diedi una risposta al suo sguardo addolorato: semplicemente mi alzai e me ne andai. Non seppi spiegare il perché, ma mi sentivo tradita.
Le tenni il broncio per cinque giorni, e ogni volta che il telefono squillava facevo rispondere i miei genitori; se era zia Karol le dicevano che ero uscita, o che riposavo, o che mi trovavo da una mia amica. Zia chiamava spesso – diciamo ogni cinque minuti –, ma io non intendevo risponderle comunque.
Capitò che alla ventesima chiamata del quinto giorno mia madre, scocciante, urlò: -Diane sta ascoltando a tutto volume Michael Jackson in camera sua e non vuole essere disturbata per alcun motivo!-. Attaccò e da allora zia non richiamò più.

Logorata dai sensi di colpa, decisi di smetterla di comportarmi da bambina viziata e andai a casa sua. Bussai col cuore in gola.
Nessuno si affacciò né rispose al citofono.
Bussai di nuovo.
Nessuna risposta.
Riprovai ancora, e per farmi sentire rimasi premuto l’indice sul bottone per un minuto intero.
Nulla.
Persi completamente la pazienza e iniziai a prendere a calci il portone.
-Apri!-, urlai. –Ho detto apri! Cazzo, zia, vuoi aprire?-. Ero in preda di una crisi isterica, cosa che negli ultimi tempi mi accadeva alquanto facilmente.
Fortunatamente non c’era nessuno in strada, altrimenti mi avrebbero trascinato di corsa e senza troppe cerimonie nel più vicino manicomio.
-Apri! Maledizione!-.
Nervosa e avvilita, scoppiai a piangere, appoggiando le spalle al portone e scivolando lentamente a terra, sull’asfalto. Affondai il volto fra le ginocchia, che strinsi fra le braccia.
Mi ero comportata malissimo con lei, e adesso non voleva più vedermi.
Aveva tutte le ragioni del mondo per farlo: l’avevo ignorata per un futile e infantile motivo, ovvio che adesso fosse adirata con me.
Per colpa del mio comportamento immaturo avevo perso l’unica persona che era in grado di capirmi e consolarmi, l’unica che condividesse le mie stesse emozioni e passioni, l’unica che davvero mi era stata vicina nei momenti di bisogno, l’unica che avesse mai saputo far allargare la mia bocca in un sorriso quando ero triste e giù di morale…
E nel mare di quelle sensazioni negative, sentii un leggero tocco sulla spalla.
-Diane?-.
Alzai gli occhi.
Mi asciugai frettolosamente le lacrime.
-Che vuoi?-, sputai, acida.
-Mi hai fatto preoccupare, ti ho vista seduta a terra e mi sono avvicinato per vedere cosa ti fosse successo-, rispose calmo Christian, senza fare una piega al mio tono.
Stavo per rispondergli per le rime, ma poi ricordai che era colpa del mio orgoglio se ora Karol non mi parlava più.
Aprii la bocca, poi la rinchiusi.
Lo guardai sconfitta e sospirai.
-Mia zia è arrabbiata con me. Fingevo di non trovarmi a casa quando lei chiamava, e adesso non mi apre neanche-, mormorai, mentre un’altra piccola lacrima ribelle solcava il mio volto.
Lui rimase qualche secondo in silenzio.
-Sei sicura che non sia uscita?-, propose, tentando (credo) di consolarmi.
Io indicai la vecchia Ford Anglia del 1967 (da lei ristrutturata e ricolorata) giallo canarino nel cortile di casa.
Lui seguì il mio dito, per poi sospirare.
Lo guardai.
-Le passerà, fidati. Fa sempre così-, mi disse.
Strano che, nonostante non lo potessi sopportare, quelle due semplici frasi furono in grado – anche se minimamente – di farmi calmare. C’era qualcosa nel suo tono che mi convinse dell’onestà delle sue parole.
Annuii, e sorrisi.
-Brava, così si fa. Sorridi perfino quando il tuo cuore prova dolore-, mi disse, poggiando delicatamente la mano destra sulla mia spalla.
Quel tocco non mi dava fastidio, anzi: sentivo che era ciò di cui avevo bisogno.
-Charlie Chaplin?-, domandai.
Lui annuì.
-Il mio mito, con Michael-, rispose.
Voltai il capo e feci una smorfia, al che lui sospirò.
-Mi dispiace-.
Trattenei il respiro, ma forse lui non se ne accorse.
-Non avevo alcun diritto di offenderti, sono stato un arrogante, un presuntuoso e…-.
-Un bastardo?-, gli suggerii alzando gli occhi verso di lui.
Il suo sguardo era davvero pentito.
-Sì… -, mormorò.
Mi morsi il labbro.
-Perdonami, ti prego. Pensavo che tu fossi come le altre, invece…-.
Una luce si accese nella mia mente spazzando via i dubbi.
-Per questo mi hai detto che sono diversa…-, mormorai, e la mia, più che una domanda, era una certezza.
-Perspicace…-, mormorò, e sorrisi. –Comunque sì. Intendevo diversa da coloro che lo fanno solo perché va di moda…-.
-Michael non è mai stato di moda: la moda passa, lui resterà per sempre-. Ripetei quella frase che già una volta avevo recitato solennemente davanti mia zia, e in quel contesto non ce n’era un’altra più azzeccata.
-Hai completamente ragione-, disse lui.
-Lo so-.
-Senza complimenti, eh…-.
-Oh sì, di modeste come me ce ne sono poche-.
Poi accadde ciò che speravo non accadesse mai.
Christian sorrise.
E rimasi folgorata.
I suoi denti erano bianchi e perfetti, e mi parve che il mio cuore fosse trafitto dalla luce che irradiavano.
Conoscevo solo una persona capace di far scatenare quella reazione in me: Michael.
Avvampai ai pensieri che mi riempirono la mente in quei pochi secondi di pazzia, e mi alzai di scatto.
-Sarà meglio che vada a casa ora, tanto zia non mi aprirà nemmeno se mi accampo qua-, dissi velocemente, utilizzando l’escamotage della pulizia del pantalone per nascondere il mio rossore.
Anche Christian si alzò.
-Vuoi un po’ di compagnia?-, chiese.
Lo fissai scettica.
-In che senso?-, domandai, e la mia mente malata già iniziava a fare strane congetture… Diane, ma che cavolo pensi??
Scrollò le spalle.
-Devo andare a comprare la videocassetta di “Capitan EO”… vuoi venire con me?-.
Tutte le mie supposizioni crollarono come castelli di carta al vento.
Non potevo credere alle sue parole. Possibile che lui…
-Non hai la videocassetta di “Capitan EO”?! E che razza di fan sei?-, esclamai.
Lui rimase spiazzato, e io scoppiai a ridere alla sua espressione.
-Scherzo!-, dissi in fretta, e lui si rilassò.
-Però mi sono vendicata-, aggiunsi maliziosa; lui si strinse nelle spalle e mi guardò di sottecchi.
Scoppiai a ridere: assomigliava proprio ad un bambino.
-Allora?-, chiese infine dopo che mi fui ricomposta con un tono che non ammetteva repliche. –Vuoi venire con me?-.
Io rimasi qualche secondo in religioso silenzio. Non che non volessi… ma mi sembrava tutto strano… troppo strano.
Oh, smettila di farti mille complessi mentali!, pensai.
In fondo non c’era nulla di male, no?
Annuii.
-D’accordo. Una passeggiata non mi farà certo del male-, risposi infine.
Lui mi abbagliò nuovamente con un suo sorriso.
Cazzo, Diane, smettila!, esclamai mentalmente, stupita di me stessa.
-Mi fa piacere che tu abbia accettato. Ah, la scorsa sera non ci siamo presentati…-.
-È vero!-, esclamai battendomi la fronte con la mano. –E siccome la colpa è stata solo mia… piacere, Diane-, dissi sorridente porgendogli la mano.
Lui la prese delicatamente guardandomi malizioso. Non so perché, ma quel piccolo contatto mi fece uno strano effetto.
-Christian. Incantato dalla vostra bellezza, madamigella-, e mi baciò la mano.
Sentii il cuore sciogliersi come un gelato al sole e le guance fondersi.
-Il piacere è tutto mio-, continuò languido, mentre però il suo sguardo malizioso si posava impertinente sul rossore del mio volto.
Io tentai di ricompormi alla bell’e meglio, ma fui capace solo di sorridere timidamente.

Sentii il citofono bussare. Controllai da dietro la tenda. Era Diane. Sorrisi, vittoriosa.
“Finalmente…”.
Sapevo che sarebbe stata questione di poco tempo prima che perdesse la pazienza, quindi corsi al telefono.
Dopo tre squilli rispose una voce maschile.
-Christian? chiesi. –Vieni qui da me, devo dirti una cosa. Ah, non dire a Diane che ti ho chiamato, è abbastanza nervosa-.
-D’accordo, Karol…-, rispose lui. –Ma sicura che va tutto bene?-.
-Sì, sì, però sbrigati. Ciao-.
-A dopo-, e attaccò.
Corsi nella stanza da letto e presi le cuffie. Tornai in cucina e le collegai allo stereo. Qualsiasi cosa dicesse Diane, non avrei potuto sentirla: le mie orecchie erano totalmente occupate dalla voce di Michael. Vidi Diane accasciarsi sull’asfalto; sembrava sfinita. Chissà cosa aveva combinato…
Poco dopo arrivò Christian. Parlarono, e alla fine Diane si decise ad alzarsi da terra. Vidi solo che mia nipote gli tende la mano, e il ragazzo gliela bacia.
Sghignazzai. “Proprio come immaginavo… Christian non si smentisce mai…”.
Dopo qualche minuto, la vidi andare via con lui.
“Sono un genio”, pensai, e in preda ad un’euforia che sembrava non mia, iniziai a saltellare per la stanza dalla gioia.


Trovammo la cassetta velocemente e ci concedemmo un lungo giro turistico per il centro commerciale – come se non lo conoscessimo già a memoria…
Quello fu uno dei pomeriggi più belli della mia vita.
Mi divertii come non mai, e grazie a Christian riuscii a dimenticare tutti i problemi che mi affliggevano. Quel ragazzo era capace di farmi sorridere ogni due minuti e cominciai seriamente a ricredermi su di lui. Insomma, mi aveva offesa, però mi ha chiesto scusa, no? E poi era così gentile, dolce, simpatico, divertente… e… beh, sì, e poi era anche carino con quegli occhi profondi e i capelli ribelli che non avevano né capo né coda…
Vabbè, a parte questo, c’era qualcosa che mi attraeva in lui, ma non sapevo cosa.
Forse quei suoi modi di fare così schietti e sinceri; o il suo sguardo puro e innocente, che celavano la saggezza che solo gli uomini maturi hanno. O forse quella misteriosa aura di malinconia che sembrava avvolgerlo completamente… ci avevo fatto caso dall’inizio: nonostante si fosse prodigato tutto il tempo per farmi sorridere, ogni tanto sembrava isolarsi dal mondo, e sul suo viso leggevo una profonda tristezza; i suoi occhi diventavano un baratro di silenziosi rimpianti, cupa inquietudine e… sì, quella che notavo – sebbene fosse nascosta per bene – era proprio autocommiserazione.
Ma per cosa?
-Qualcosa non va?-, chiesi all’ennesimo dei suoi black-out mentali che l’avevano costretto a lasciare il gelato che stava mangiando ad un tavolo del bar dove ci eravamo fermati.
Lui trattenne il respiro e si girò di scatto verso di me. Non avevo previsto la vicinanza dei nostri volti e dovetti fare i conti con la mia sbadataggine, perché le sue iridi sembravano volessero risucchiarmi. Sentii un brivido che dal collo attraversava tutta la mia schiena, per poi fermarsi dispettoso al basso ventre.
Lui si avvicinò di un millimetro – o forse fu solo frutto della mia immaginazione – e, d’istinto, mi ritrassi.
Sensazioni ingovernabili falciavano la mia mente e il mio petto, confondendomi e mozzandomi il respiro.
“Che diavolo mi sta succedendo?”, mi chiesi. “Perché tutte queste reazioni improvvise?”.
Evidentemente lui non si accorse di nulla, perché sorrise e rispose: -No, no, sto bene-.
Annuii, e mi sforzai di curvare le labbra all’insù, ma molto probabilmente fui capace solo di una smorfia indistinta. Mi voltai verso il frappé ancora intatto davanti a me. Ne presi un po’ e lo portai alla bocca, ma dopo averlo inghiottito mi venne la nausea: lo stomaco mi si era completamente chiuso.
Emisi un gemito e posai il cucchiaino sul fazzoletto.
-Non hai fame?-.
La voce di Christian era musica per le mie orecchie: sentivo di non poterne fare a meno.
Sgranai gli occhi.
“Ma che cazzo dici?”, esclamai mentalmente, ancora una volta in quel giorno anormale.
Scossi la testa e mi alzai.
Lui mi fissò meravigliato.
-Scusami, ho ricordato di avere un impegno importante, devo proprio andare! Grazie per la giornata stupenda, saprò ripagare. A presto, ciao!-, dissi tutto d’un fiato, e uscii di corsa dal bar.
Non riuscii a sentire cosa rispose: in meno di due minuti ero già nel parcheggio, ansimante e col cuore in gola. Ma non dalla corsa, no: bensì dalla potenza e dal fascino magnetico delle iridi di Christian.

Il giorno dopo mi ero ripresa, seppur leggermente. Mi diedi della stupida per il mio atteggiamento inspiegabile, e decisi di chiedergli scusa. Quindi lo chiamai. Scoprii che mia madre aveva il suo numero: gliel’aveva dato zia Karol quando andai per la prima volta a casa di Iona, nel caso in cui avesse voluto contattarci. Quando mi mostrò il biglietto non potei crederci e lo afferrai come una furia, nascondendolo in camera mia, in attesa del momento più propenso per effettuare la telefonata lontana da occhi indiscreti. La fortuna volle che i miei genitori proprio quel giorno dovessero uscire per un affare urgente, lasciandomi la casa libera. Di solito, quando accadevano questi inconvenienti (anche se io li chiamavo botte di cu… di vita! Le chiamavo botte di vita! XD ) me la davo alla pazza gioia, schizzando il volume dello stereo al massimo stile Macaulay Culkin nel video “Black or White”, e saltando sul divano nella cucina, tentando di imitare Michael.
Ma quel giorno fu diverso: appena l’auto sparì dietro il vialetto, presi il biglietto nascosto nella tasca del pantalone e composi il numero scritto sopra.
Uno squillo.
Due squilli.
Tre squilli.
Cavolo…
-Pronto, qui casa Petrescu. Chi parla?-.
La sua voce mi colse di sorpresa: mi aspettavo Iona, o il padre… ma non lui… e mi bloccai.
-Pronto?-, ripeté.
Rispondi, stupida, rispondi!, mi ordinai.
-C…ciao, Christian… sono Diane…-, balbettai.
Attimo di silenzio.
-Ciao, Diane-, rispose semplicemente.
Rimasi di stucco. Mi aspettavo un “Ehi, ciao, come va?”, oppure un “Ma che ti è preso l’altra volta?”, o anche “Finalmente, non vedevo l’ora di ascoltare nuovamente la tua voce angelica, capace di farmi venire i brividi e farmi volare fino al Paradiso, e…”.
Merda, non di nuovo! Smettila!
-Oh, ehm…-, mi portai una mano alla fronte. –Ciao, senti… volevo scusarmi per ieri, è che a casa avevano bisogno di me e l’avevo completamente dimenticato… scusami tanto, davvero, prometto che non succederà più…-. Le mie scuse suonavano patetiche, ma non me ne venivano in mente altre.
-Ma no, Diane, non preoccuparti, non mi sono offeso-, disse, rassicurante.
Sospirai di sollievo.
-Menomale… cavolo, per un attimo ho pensato che non mi avresti mai perdonata…-.
-Addirittura perdonata! Esagerata, dai!-.
-Uhm… forse hai ragione…-.
-Ma no, scherzo. Comunque sei carina a preoccuparti tanto per me… non so se lo merito, però…-. Ecco che ritorna quella tristezza smisurata nella sua voce.
No, no, no!
-Ovvio che te lo meriti! Diamine, senza di te non so proprio come sarei sopravvissuta a quella giornata!-.
-Grazie...-, mormorò.
-Guarda che non ho finito-, replicai.
Immaginai la sua faccia perplessa e sghignazzai.
-Ricordi quando ti dissi che ti avrei ripagato? Bene, è giunto il momento di farlo-.
Pausa di silenzio da entrambi.
-Vuoi venire a casa mia?-, chiesi. –Vediamo “Moonwalker” e ascoltiamo buona musica?-, chiesi.
Per qualche secondo non proferì parola.
Ma fu questione di un attimo.
-Mi farebbe molto piacere, soprattutto se la “buona musica” è ciò che penso io-, rispose.
Io sorrisi raggiante.
-Allora siamo telepatici, perché io intendo proprio lui-.
Christian rise, e io lo imitai.
-Tra un’ora?-, chiese.
-Anche adesso-, risposi.

Era la scena finale, la mia preferita.
Ogni volta che la vedevo cominciavo a piangere. Primo, perché il film stava per finire; secondo perché vedere Michael scomparire per poi tornare e dire che era vivo… beh, non sapevo bene il motivo, ma nella mia gola si formava un groppo troppo difficile da far svanire.
E anche il quel frangente le lacrime non mi risparmiarono.
-Che fai, piangi?-, chiese Christian, asciugandomi una guancia. Il suo tocco era vellutato e leggero, assomigliava al battito d’ali di una farfalla.
Io sorrisi mesta.
-Mi capita sempre quando vedo questo film, è più forte di me-, risposi, asciugando l’altra guancia.
-Su, dai, piccolina. Non c’è alcun bisogno di arrossire quei tuoi splendidi occhi verdi-.
Io sorrisi e lui mi carezzò una guancia.
-Grazie per il complimento-, risposi.
-E di che? Dico semplicemente la verità-, replicò lui.
Io arrossii.
Mi sentivo bene. Ero appagata, serena… felice.
Piangevo, ma qualcuno era vicino a me per consolarmi. Ridevo, e nessuno mi prendeva in giro per questo.
Ero Jacksoniana, e lo era anche lui.
Il film terminò, e tolsi la videocassetta.
-Cosa vuoi ascoltare?-, gli chiesi, prendendo dallo scaffale accanto la TV tutti gli album che avevo, da “Got to be there” a “Dangerous”. Quelli dei “Jackson 5” e dei “The Jacksons” non li comprai perché tutte le volte che ascoltavo determinate canzoni mi veniva in mente la brutta faccia di Joseph “Mostro” Jackson.
Christian sostenne il mento fra le mani.
-Scelta ardua… beh, siccome sono del parere che dopo aver pianto bisogna scatenarsi…-.
Prese uno dei CD centrali.
-Che ne dici di questo?-, chiese, mostrandomi la copertina.
-Un classico-, risposi.
-Il mio preferito-.
-Immaginavo. Da’ qua-.
Presi il CD e lo misi nello stereo.
Dopo qualche secondo partì “Wanna be startin’ something”.
Eccolo, il brivido.
L’adrenalina che scorreva nelle vene.
La voglia di far totalmente parte della musica e di fondermi con essa.
Non ebbi più il controllo dei miei arti, e iniziai a muovermi a ritmo. Non ballavo come Michael, anche se a volte improvvisavo un moonwalk, ma mi parve lo stesso di volare.
Christian si alzò e partecipò a quell’alchimia fra corpi e note con me.
Io lo fissai allibita.
-Cavolo, ma tu balli come lui! come fai?!-, esclamai, guardandolo ammirata.
-Lo faccio da sempre, sono cresciuto con lui e la sua musica. Ormai mi esce spontaneo. Oddio, non sarò uguale a lui, questo è ovvio: la perfezione non si eguaglia. Però devi ammettere che mi avvicino molto al suo modo di ballare-, mi disse ammiccando.
-Alla faccia dell’essere simile! Tu sei un grande!-, esclamai.
Lui rise.
-Grazie!-.
-Ma figurati!-, sbuffai, e ricominciai a volteggiare.
Tra una coreografia e un’altra parlavamo del più e del meno, e spesso di noi. Beh, più che altro parlavo io. Mi bombardò di domande, facendomi sentire come un criminale che confessa un delitto.
Quanti anni avevo, che scuola frequentavo, colore, fiore, materia preferiti… non mi dava il tempo di porne una anch’io, che già la sua mente elaborava i dieci quesiti successivi. Era frustrante, ma mi stavo divertendo: sentivo di aver bisogno di attenzioni, ed era quello che lui stava facendo; sembrava che Christian fosse in grado di leggermi dentro e scovare fra gli angoli più reconditi del mio animo tutti i segreti che portavo dentro.
O almeno, così credevo.
-Sei figlia unica?-, fu la sua centesima domanda.
Il sorriso sul mio volto si spense e un senso di oppressione mi pervase il cuore. Abbassai il capo e strinsi forte le braccia al petto.
-Sì…-, risposi.
I miei genitori adottivi non potevano permettersi un’altra adozione: sebbene il loro stipendio poteva far sì che questo sogno diventasse realtà, avevano preferito non rischiare, anche se immaginavano il mio dolore sapendo che non avrei potuto avere qualcuno con cui giocare e parlare che non fosse zia Karol.
-Qualcosa non va?-, mi chiese.
Io scossi la testa: -No, no, tutto bene…-.
-Sicura?-.
-Sì, grazie-.
Respirò profondamente.
-Perché non ti credo?-, replicò.
Mi morsi il labbro inferiore e mi passai una mano tra i capelli.
-Non lo so…-, risposi, scrollando le spalle.
Lui non disse nulla.
E io mi sentii in colpa per avergli raccontato una frottola.
-E va bene. Ti ho detto una bugia-.
Alza lo sguardo, e mi tuffai nella profondità dei suoi occhi neri. Non vidi rabbia, né rancore, né pena, né offesa. Solo comprensione. E capii che potevo fidarmi.
-Octav e Floarea non sono i miei veri genitori-, dissi.
Lui rimase in silenzio, ma nei suoi occhi passò una piccola scintilla.
Mi persi sulla forma perfetta delle sue ciglia, così incredibilmente lunghe…
-Loro non potevano avere figli, per cui decisero di adottare un bambino. Io ero nata in Francia, Tolosa, e quando arrivai per la prima volta in casa Alecsandri avevo appena quindici giorni di vita. Ho saputo che non ero la loro figlia biologica all’età di undici anni, e da allora cerco incessantemente i miei veri genitori-.
Il suo sguardo divenne curioso.
-Come mai?-, mi chiese.
Ripensai alla conversazione con zia Karol quella lontana sera d’estate di circa un anno prima, e tornò l’ormai familiare magone alla gola.
Io mi morsi un labbro, e sospirai, ricacciando indietro le lacrime.
-Voglio sapere perché mi hanno abbandonata, se l’hanno fatto perché erano poveri, oppure perché per loro ero un peso… se mi vogliono bene, o se me l’hanno voluto…-.
Abbassai il capo.
Non ce la facevo a continuare, e tutti i tentativi di lasciarmi quella storia alle spalle fallirono miseramente.
Lacrime silenziose caddero sulla coperta, lasciandovi dei piccoli aloni; lacrime che portavano con sé la storia di tutta una vita.
Diane, smettila. Non serve a nulla.
Ma come facevo? Dove trovavo la forza di non piangere?
Sentii una stretta che mi avvolse completamente, e una soffice carezza fra i capelli. Sgranai gli occhi quando capii che Christian mi stava abbracciando, ma non mi staccai.
Avvolsi il suo collo fra le mie braccia e scoppiai a piangere.
Rimanemmo così per mezz’ora minimo, durante la quale non feci altro che cacciare fuori tutto il dolore e la rabbia che avevo covato per 17 lunghi anni.
Quando finii, Christian staccò l’abbraccio e iniziò ad accarezzarmi la guancia.
-Non avrebbero mai potuto abbandonare una bambina dallo sguardo così significativo… e se l’hanno fatto avranno avuto di sicuro un motivo valido. Non pensare agli altri, lascia scorrere su di te tutto il resto, nessuno merita le tue lacrime-, mi sussurrò.
Io sorrisi.
-Grazie…-, mormorai, e lui mi abbracciò di nuovo.
Non opposi resistenza: il suo contatto mi faceva stare bene, non mi dava alcun fastidio.
-Di niente, piccola. E ricorda: se avrai bisogno di qualcuno con cui sfogarti potrai venire da me, saprò essere un ottimo ascoltatore e consolatore… se tu vorrai e me lo permetterai, ovviamente-.
Io lo guardai dapprima stupita, poi commossa, e infine grata.
-Certo-, risposi, annuendo.
Lui sorrise, e fu lo spettacolo più bello del mondo.
-Amici?-, chiese, porgendomi la mano.
Io la guardai come se fosse un insetto. Con un rapido gesto del braccio la scostai e strinsi forte Christian a me.
-Amici-, sussurrai.

Trascorsero all’incirca due settimane da quella “promessa”, e il nostro rapporto si consolidò sempre di più. Diventammo grandi amici, condividevamo tutto, e se avevamo bisogno di sfogarci trovavamo ognuno un punto di riferimento nell’altro. Con zia m’incontrai il giorno dopo, e confessò tutto.
-Di…dici sul serio?-, chiesi quando terminò di raccontarmi il suo piano per farmi incontrare con Christian.
Lei annuì.
Io non sapevo cosa dire: la guardavo stranita e basta.
Poi mi alzai.
Chiuse gli occhi, come se si aspettasse una mia sfuriata.
Una sfuriata che non arrivò mai.
Gridai di felicità e le saltai addosso; il mio fervore fu talmente grande che per poco non cadevamo dalla sedia.
-Grazie, zia, grazie!!-, esclamai, abbracciandola.
Lei rimase qualche secondo imbambolata, per poi iniziare a ridere come una matta e stringermi ancora più forte.
-Prego, piccolina-, rispose tra una risata e l’altra.
Mi staccai da lei e le porsi il mignolo.
Lei sorrise e lo strinse forte.
-Unite per sempre-, recitammo insieme, per poi scoppiare a ridere e saltare come due bambine sul letto di zia.

-Diane? È Christian!-, esclamò mia madre fuori la porta della mia stanza.
-Chi?-, chiesi, credendo di non aver sentito bene. Io e Christian non avevamo un appuntamento… o ricordavo male?
Mi alzai, ma prima che potessi toccare la maniglia, la porta si aprì.
Christian era davanti a me, e mamma lo guardava stupita da dietro.
Entrò senza tante cerimonie e si sedette sulla sedia di fronte la scrivania, per poi passarsi una mano fra i capelli.
-Non preoccuparti, mamma, va tutto bene, scendiamo tra un po’-, le dissi per rincuorarla e chiusi la porta.
Quando mi voltai, Christian ancora non aveva abbandonato la sua posizione.
-Cosa succede?-, gli chiesi.
Non c’era bisogno delle parole: quando c’era qualcosa che non andava lo intuivamo semplicemente dai nostri sguardi.
Lui alzò la testa e mi guardò a metà fra lo sconfitto e il timoroso.
-Io… io devo dirti una cosa, Diane…-, mormorò. –Una cosa… un po’ difficile da confessare… ma sento di potermi fidare di te, e… e ho deciso di dirtelo…-.
Mi avvicinai a lui e mi abbassai alla sua altezza.
-Dirmi cosa?-, chiesi.
Il suo sguardo divenne triste e sperduto. Assomigliava proprio ad un bambino… un bambino senza amore.
-Non so da dove cominciare…-, sospirò, afflitto.
Io sorrisi.
-L’inizio di tutto ti sembra troppo distante?-, chiesi e, presa una sedia, mi accomodai accanto a lui.
Lui abbassò il capo e sospirò.

Mi sentivo oppresso, per questo ero andato da lei. Lei doveva sapere la verità, lo meritava: mi era stata accanto nei momenti difficili, e ora mi toccava essere onesto in tutto e per tutto.
I suoi occhi vagavano preoccupati sul mio volto mentre tentavo di trovare le parole giuste. Le sue iridi mi risucchiavano in un vortice di emozioni che, per la prima volta nella mia maledetta vita, sentivo totalmente mie. Dovevo avere un aspetto orribile, perché la sua espressione era davvero preoccupata. Non potevo lasciarla in quello stato penoso, era arrivato il momento allo stesso tempo tanto temuto e tanto agognato. Ma il mio cervello era confuso, i miei nervi non riuscivano a collegarlo con la bocca per farle pronunciare quelle parole che premevano sul cuore da troppo tempo… e se mi avesse giudicato? Se la nostra amicizia fosse terminata?
Oh, ti prego, smettila di fare il melodrammatico e parla, idiota!
“Non ci riesco, merda, non ci riesco!”,.
Mi lasciai sfuggire un gemito, e lei mi carezzò un braccio.
-Calmati, non preoccuparti. Ci sono io qui…-, mormorò.
Rabbrividii, ma non seppi mai il perché:
Il contatto con la sua pelle era un toccasana per la mia agitazione: rasserenava i miei nervi e infondeva una pace in me mai provata prima.
“Forza, Christian…”, mi dissi. “Fidati di lei”.
Annuii mentalmente e presi un bel respiro.
-Quando ti vidi per la prima volta…-, cominciai, pensando che se proprio dovevo partire dall’inizio, allora il nostro incontro quel lontano pomeriggio di settembre era il momento ideale. –Beh, a parte il tuo look così simile al mio, ci fu qualcos’altro di te a colpirmi, e a farmi capire che non eri come le altre che avevo conosciuto fino ad allora-.
Alzai il capo e incontrai il suo sguardo curioso.
-I tuoi occhi-, continuai. –Così puri e cristallini da far vedere tutto ciò che hai dentro, con quel colore che li fa assomigliare a smeraldi incastonati nel tuo volto…-.
Lei arrossì, ma non disse nulla. Interpretai quel silenzio come un incoraggiamento, e continuai:
-Ogni tua parola, ogni tuo gesto erano testimoni della tua gentilezza e della bontà d’animo… non credo di aver mai visto una ragazza buona come te prima d’ora… a parte Karol… ma questo non c’entra…-.
Sospirai per l’ennesima volta e ripresi il racconto.
-È stato tutto questo a farmi capire che di te posso fidarmi… ed eccomi qui. Pronto a smascherarmi di fronte a te, Diane: l’unica che ha capito fin da subito quello che provavo. Ecco perché sono qui-.
Terminai quella prefazione tanto sofferta, e controllai se nelle sue iridi meravigliose c’era un minimo di turbamento o paura, o comunque qualche altra emozione che avrebbe potuto farmi cambiare idea all’istante e uscire da quella stanza. Solo pazienza e affetto. E dolcezza. Solo lei poteva avere uno sguardo così…
-Anch’io sono diverso, Diane. Ma in senso negativo… diverso dagli altri, eppure così simile al mio modello di vita… è difficile da spiegare… siamo accomunati dallo stesso destino, eppure c’è un baratro incolmabile che ci divide, e che mi fa sentire totalmente differente da lui…-.
Lei parve riflettere un attimo.
-Parli di Michael?-, chiese.
Io annuii, e la sua espressione divenne seriamente preoccupata. Forse dovevo smetterla di farla stare sulle spine.
-Dopo questa conversazione sarai libera di scegliere se continuare ad essere o meno mia amica, io non ti costringerò in nessun caso…-, le annunciai.
I suoi occhi divennero un mare di tristezza.
-Io non ti lascerò mai solo…-, mormorò, accorata e leggermente triste.
Io strinsi i denti. Sentirla dire quelle cose mi faceva male: non avevo alcun diritto di farla soffrire, non l’avrei mai avuto.
Mi alzai improvvisamente, stupendo ancor di più Diane.
-È arrivato il momento della verità. Ho deciso di aprirmi a te in tutto e per tutto, perché sei stata l’unica amica a non avermi giudicato… spero che tu continuerai a non farlo anche ora-, dissi.
Mi avvicinai a lei. La guardavo come per verificare il suo tasso di affabilità, ma lei non faceva una piega al mio sguardo: era pronta.
Alzai un braccio e mi tolsi i guanti e i cerottini alle dita. Alzai le maniche della camicia mostrandole la mia pelle.
La vidi ritrarsi e sgranare gli occhi.
-Capisci ora perché dico di avere il suo stesso destino?-, le chiesi, mentre inspirava profondamente alla vista delle macchie bianche sulla mia cute.
Quando aprì bocca, ne uscì solo una parola:

-Vitiligine-.

Io annuii.
-Esatto. Soffro della stessa malattia di Michael Jackson. Solo che lui si è potuto fare bianco per nasconderla… io non posso. Lui è amato da milioni di persone in tutto il mondo… io no. Lui è un angelo sceso dal cielo… io invece solo un mostro orribile. E i mostri sono continuamente tagliati fuori dagli altri. Scusami tanto per averti trascinata nel mare dei miei guai, Diane, ma d’ora in poi sarà diverso. Non ti darò più fastidio, né ti costringerò a fingere con me: ti provoco solo ribrezzo, e ne sono cosciente. Perdona il mio egoismo: ho sempre desiderato che tu mi vedessi in un’altra ottica, ma ora che sai la verità nulla sarà più come prima. Non voglio essere guardato ogni maledetto giorno della mia esistenza con pena e compassione. Io non ho bisogno di questo, né tanto meno voglio che tu mi guardi in tal modo. Quindi è meglio se me ne vado… per sempre. Addio, Diane-.
Ecco, l’avevo detto. Mi stavo lasciando alle spalle l’unica persona con cui non serviva mentire. Mi sentivo una merda, ma era la cosa più giusta da fare. Non avevo alcun diritto su di lei, non potevo costringerla a far parte di una vita dolorosa che non le apparteneva. E il distacco era l’unico modo per non farla soffrire. Un’occasione sprecata? Forse. La cosa più giusta? Ovviamente.
Ne sei sicuro?
La voce mi prese alla sprovvista, e inizialmente non feci caso a quello che mi accadeva intorno.
Fu solo dopo pochi secondi che mi accorsi di una figura di fronte a me.
E, prima che potessi metterla a fuoco, prima che avessi il tempo di reagire, sentii un dolore allucinante alla guancia sinistra. Mi ritrassi di colpo e mi portai una mano al viso dolorante.
Un misto di emozioni mi pervasero tutta una volta: tristezza, rabbia, rancore, malinconia, dispiacere… emozioni negative, come sempre. Emozioni che vennero annullate subito dopo, quando sentii una stretta calda che copriva tutto il mio corpo.
-Come puoi dire una cosa del genere, eh?-, esclamò Diane, e mi accorsi con rimpianto che piangeva. -Come puoi minimamente pensare che io non ti voglia accanto a me? Quando ho saputo della malattia di Michael non ho smesso di amarlo, eppure non l’ho mai conosciuto in vita mia. E adesso, solo perché tu, il mio migliore amico, hai lo stesso suo problema… io devo denigrarti? Ma stiamo scherzando! Per chi mi hai presa? Io non ho mai lasciato solo nessuno, neanche quelli che non meritavano la mia amicizia, e dovrei abbandonarti al tuo destino come i cani si abbandonano lungi i cigli delle strade? Mai, Christian, mai. E non m’importa se tu non mi vuoi accanto, io per te ci sarò sempre, perché…-.
Alzò la testa e mi guardò.
I suoi occhi gridavano muti una richiesta che non potevo rifiutare in alcun modo.
E fu allora che capii cosa fare.
Asciugai tutte le sue lacrime, per poi spostare la mia mano di lato, accarezzandole la parte sinistra del collo. Lei capì cosa stavo per attuare, ma non si ritrasse. Anzi, vedevo i suoi occhi indugiare sul mio volto e, per ultimo, sulla mia bocca. Abbassai leggermente il capo, annullando definitivamente la distanza fra noi.
Fu così che le nostre labbra s’incontrarono per la prima volta.
Non ci furono dubbi, né tentennamenti: entrambi sapevamo come comportarci, anche se non ci era mai capitato nulla di simile prima. Sentivo le sue braccia attorno al collo e la sua stretta che ogni secondo si faceva più intensa. Con una mano le sostenevo la nuca e con l’altra percorrevo il profilo della sua schiena.
Quando ci staccammo avevamo entrambi il fiatone.
Sorridemmo, felici di aver trovato quella cosa che cercavamo da una vita intera.
-Perché?-, chiesi io, ansioso di scoprire il continuo del suo discorso.

Non potevo negare la verità.
Dopo tutto quel tempo trascorso a nasconderla e a mentire a me stessa, era ormai arrivato il momento. Lui era stato onesto con me, ora dovevo ripagare.
Desideravo solo stare con lui, nient’altro. Desideravo vedere il suo sorriso che irradiava le mie giornate e mi metteva allegria, desideravo…
-Perché ti amo-, risposi.
Lui sorrise dolce e raggiante al tempo stesso.
-Anch’io-, disse, e poggiò di nuovo le sue labbra morbide e delicate sulle mie.
Desideravo amarlo, e l’avrei fatto.
Ora sapevo che non potevo più tornare indietro.
Oramai quel piccolo frammento di vita vissuto fino ad allora stava per cambiare. Ed era tutto merito di un bacio.



Saaaaaaaaaaaaalve!!!! Visto?? Non vi ho fatto attendere molto!!!^^
Per quanto riguarda questo chappy... la mia parte preferita è l'ultima... sì, esatto, quella del bacio... sarà che sono una romanticona nata... sarà che anch'io desidero riceverne uno così da... [SM=g27821] Eh, sì, ragazze, sono proprio innamorata e cotta a puntino... una mia amica ha ironizzato dicendo che è per questo che ho descritto così bene il bacio tra Diane e Christian... [SM=x47979] [SM=x47984] Beh, non so se sono stata brava... voi che ne pensate???? Un bacione e grazie ancora a tutti voi per i bellissimi commenti!!!!! [SM=x47938] [SM=x47938]
Micheal'sNewFan
00venerdì 20 novembre 2009 20:45
MichaelInTheHeart è semplicemente stupendo questo capitolo!
Hai saputo descrivere benissimo le emozioni dei due, bravissima.
Tantissimi complimenti!
E...la scena del bacio è stata descritta alla perfezione! [SM=g27822]

P.s. La storia dei ragazzi è troppo romanticaaaaa! [SM=g27821]
MichaelInTheHeart
00venerdì 20 novembre 2009 22:01
Re:
Micheal'sNewFan, 20/11/2009 20.45:

MichaelInTheHeart è semplicemente stupendo questo capitolo!
Hai saputo descrivere benissimo le emozioni dei due, bravissima.
Tantissimi complimenti!
E...la scena del bacio è stata descritta alla perfezione! [SM=g27822]

P.s. La storia dei ragazzi è troppo romanticaaaaa! [SM=g27821]




Grazie mille!!! Eh, sì, ma io sono una romanticona nata!!!!!! xDDDD!!! Grazie ancora!!! [SM=g27838] [SM=x47938]
lallamj
00venerdì 20 novembre 2009 22:05
evvai! pure te con la ff!!!!!!!!!!!!!!
avoia a legge qua!
lallamj
00venerdì 20 novembre 2009 22:11
ke bello!!!!!!!!!!
ho pianto come 1 fontana!!!
[SM=x47964] [SM=x47964] [SM=x47964] [SM=x47964] [SM=x47964]
BEAT IT 81
00lunedì 23 novembre 2009 01:09
Riporto su il topic ;-))))))....Bellissimo questo racconto, tropo romantico!!!!!!!!!!!!!!!!! Ancora ancora ;-))))
MichaelInTheHeart
00martedì 24 novembre 2009 21:41
7. WHEN EVERYTHING CHANGE



13 Febbraio 1997, Beverly Hills, California



Le pareti bianche dell’ospedale correvano veloci mentre sfrecciavo alacre nel corridoio, con il cuore in gola. Alle narici mi arrivava il classico tanfo di medicinali e strumenti antisettici; per via delle mie numerose visite mediche conoscevo ormai ogni minima sfaccettatura di quei lezzi… eppure ogni volta ne ero disgustato a tal punto da provocarmi – a volte – dei conati di vomito. Quel giorno, per mia fortuna, ero troppo preoccupato per farmi venire qualcosa. Non ero più io il protagonista: ne era un altro. Anzi, un’altra. La protagonista della mia vita.
-Signor Jackson!-.
Una voce maschile mi fece miracolosamente fermare e voltare. Davanti a me c’era il volto del dottor Evan Miller: era lui che mi aveva chiamato.
-Dov’è?-, chiesi.
-Di là-, rispose, indicando il corridoio alla mia sinistra.
Io annuii e imboccai quella strada correndo.
Non sentivo nulla dall’esterno: l’unico rumore che mi arrivava nelle orecchie era il battito accelerato del mio cuore e del respiro affannoso.
Cavolo, cavolo, cavolo, cavolo… fa’ che sia arrivato in tempo, fa’ che non sia successo nulla di brutto… cavolo, cavolo…
Poi davanti a me comparve una porta.
E da dove era sbucata?
Ma che te ne? Va’, entra!
Quella preziosa vocina nella mia testa… quanto la adoravo…
Gli occhi mi luccicarono quando mi ritrovai ad un passo dalla maniglia…
-Fermo!-, esclamò una voce riportandomi brutalmente nella realtà dal fantastico mondo dei sogni in cui mi ero rintanato… come al solito.
Mi voltai stralunato con la mano a mezz’aria che non attendeva altro che sentire il contatto del ferro freddo su di essa.
-Cosa c’è?-, chiesi al dottor Miller con un tono che rasentava la maleducazione.
-Deve indossare i guanti, la mascherina e il camice per poter entrare, signor Jackson-, mi ricordò con tono paziente.
Impiegai qualche secondo prima di registrare la frase.
Accidenti!
-Ha ragione, mi scusi…-, mormorai, ad un passo dal prendermi a schiaffi se non l’avesse fatto lui.
-Non importa-, mi rassicurò lui con un sorriso, che ricambiai dopo qualche secondo.
Mi disinfettai le mani e indossai tutto il necessario per entrare in sala operatoria.
-Pronto?-, mi chiese quando ebbi finito.
Mi si chiuse lo stomaco.
-Non lo so… lo spero-, ammisi, affranto.
Lui sorrise comprensivo.
-È la prima volta, vero?-, mi chiese.
Io annuii mordendomi il labbro inferiore.
Lui mi carezzò il braccio con la mano.
-Non si preoccupi: andrà tutto bene-.
Il contatto della sua mano e la frase che seguì servirono – anche se minimamente – a farmi rilassare.
-Speriamo…-.
Lui mi sorrise ancora una volta e mi fece un cenno con la mano: potevo entrare.
Io spostai lo sguardo da lui alla porta.
Sospirai.
Poi annuii.
Ci siamo, Michael. Fatti valere.
Abbassai la maniglia ed entrai.
La visuale che mi si presentò davanti agli occhi mi tolse il fiato.
Al centro della stanza c’era un letto… o almeno, mi sembrava tale da quel poco che s’intravedeva: era circondato da luci e da macchinari. Intorno ad esso, inoltre, vi erano alcuni infermieri e una dottoressa, affannati attorno ad una strana ed alta figura coperta da un telo, anch’esso bianco come tutto il resto. Mi guardai attorno, stordito. Che diavolo ci facevo lì?
-Signor Jackson!-.
Per la terza volta durante quella giornata cascai dalle nuvole udendo il mio nome.
Mi voltai con lo sguardo sperduto e intravidi tra la confusione della mia mente un’infermiera che mi veniva incontro.
-Finalmente è arrivato! Non faceva altro che chiedere di lei-, esclamò, trascinandomi di peso verso il letto.
Su di esso era distesa una donna dai capelli biondi, sudata e ansimante, coi capelli appiccicati sulla fronte e il volto contratto in una smorfia di dolore. La guardai per qualche secondo, prima che si accorgesse di me.
-Michael…-, sussurrò Debbie, mia moglie e fra poco futura madre del mio primo figlio.

-Ci siamo quasi, forza!-.
Le stringevo la mano convulsamente, tentando di infonderle coraggio. Avevo paura, ma ero anche eccitato: finalmente diventavo padre, il mio sogno stava per avverarsi.
Debbie era stremata, urlava e si contorceva come se la stessero crocifiggendo. Il suo dolore fu una fitta al petto: la vedevo patire e mi chiesi che cosa avesse fatto di male per meritarsi tutta quella sofferenza. E, per giunta, era colpa mia.
Maledizione, Michael, non farti venire questi assurdi pensieri in mente! Ne avete parlato molto, ne avete discusso, entrambi sapevate a cosa andavate incontro con questa scelta, soprattutto lei: non rovinare questo attimo.
Annuii mentalmente. “Voce, quanto ti adoro!”, pensai.
Mi feci coraggio e provai a destarlo anche in mia moglie.
-Dai, Debbie, non mollare, forza! Ci sono io qui con te, te lo giuro, sarò sempre accanto a te, non ti lascerò mai... tu non sarai mai da sola…-.
Debbie emise un gemito.
-Sì, lo so… ma dovevi proprio parlare di quella canzone?!-, esclamò fra un affanno e un altro.
La fissai allibito.
-Perché? Non ti piace “You are not alone”?-, chiesi, triste e spaesato.
Lei emise un altro urlo ed io le strinsi la mano ancora più forte.
-No, per niente!-, esclamò.
-E perché?-, replicai, offeso.
La stretta era così forte che per poco le sue unghie non mi facevano sanguinare. Inspirai profondamente per il dolore, ma non fiatai
-Perché nel video stavi con la tua ex-moglie!-, sbottò, per poi lasciarsi scappare un altro urlo.
Anche quella volta mi trattenei dal non prendermi a schiaffi.
Che idiota…
Mi abbassai all’altezza del suo volto e dissi: -Ma ora ci sei tu, non pensare a Lisa, stai per fare una cosa che lei non ha mai fatto: darmi un figlio… il regalo più bello che una donna possa dare all’uomo che ama. Adesso concentrati e impiega tutte le tue forze per far nascere il nostro piccolo, ok? Sei una super-mamma, lo sarai sempre ed oggi è venuto il momento di dimostrarlo. Forza, Debbie, continua così, ti amo!-.
Lei annuì, rossa in viso.
-Anch’io ti amo-, rispose.
-Spingi, Debbie, spingi!-, ripeteva Honey, un’infermiera sua amica.
Lei obbedì.
-No… non ci siamo, Debbie, non ci siamo! Dai, più forte! Il bimbo vuole nascere!-, la incitava Honey.
-Ci sto provando!-, replicò lei con voce stremata.
Io entrai nel panico.
Perché ci metteva così tanto, eh? Perché?
Oh, Signore”, pensai, “ti prego, fa’ che nasca, ti prego, fa’ che se la cavi… che se la cavino entrambi… farò qualunque cosa… qualsiasi… ma, ti scongiuro: fallo nascere!”.
Pregavo, pregavo per trovare un aiuto, pregavo guardando il crocifisso appeso al muro di fronte a me. Sapevo che mi stava ascoltando, me lo sentivo…
Ti prego!”.
Il problema era se avesse risposto…
Ti prego…
Guardavo mia moglie soffrire e urlare…
Farò qualsiasi cosa…”.
-Debbie, non mollare… ce la farai, basta che spingi più forte… ti prego, Debbie…-, le mormorai.
Lei reclinò la testa all’indietro digrignando i denti.
-Ci sto provando…-, ripeté.
-Brava, ma non è abbastanza. Più forte, tesoro, più forte-.
Lei strinse le labbra come se trattenesse qualcosa che voleva ma non poteva dire. Evidentemente la sua forza di volontà vacillò all’ultimo.
-Merda, lo sto facendo!-, urlò, e spinse.
Quella frase fu cruciale.
-Lo vedo! Lo vedo! Vedo i capelli!-, esclamò l’infermiera.
Io mi bloccai.
E sorrisi.
Oh, Dio, grazie! Grazie!”.
-Hai sentito, amore?-, le chiesi, -Hai sentito? Sta per uscire! Capisci? Sta per nascere! Però non ce la può fare senza il tuo aiuto: continua a spingere, ti prego, continua!-.
Lei annuì seguitando a gridare.
-Bravissima Debbie, così!-, esclamò Honey. –Eccolo!-.
Il mio cuore si fermò.
Per un attimo dimenticai che stavo vicino a mia moglie e feci un passo avanti, alla mia destra, verso l’infermiera. La mano di Debbie scivolò facilmente dalla mia presa. Mi resi conto della stranezza della situazione e mi voltai, guardandola interrogativo.
-Non preoccuparti per me-, rispose decifrando subito la mia espressione e cancellando via tutti i dubbi.
Un passo.
Due passi.
Tre passi.
Ed eccomi, accanto ad Honey.
Per un attimo rimasi sconvolto da quella vista.
L’apertura era ingrossata a dismisura e ricoperta di sangue scarlatto. Tutta quella quantità di rosso mi provocò delle leggere vertigini, seppure per un attimo.
No, Michael, non farti venire niente, ti prego.
Chiusi gli occhi e inspirai profondamente. Quando ebbi acquistato coraggio li aprii.
Guardai nuovamente.
Vidi della paglia.
Feci una smorfia.
Paglia?!
Guardai meglio.
Non era paglia.
Sussultai.
Erano capelli.
I capelli di mio figlio.
La prima cosa che vidi.
-Vai, Debbie, un’ultima spinta!-.
Fuoriuscì la fronte.
Forza, Debbie.
Ed eccola la testa.
Era enorme, come quella di mio nonno e di mio fratello Randy.
-Oh mio Dio…-, mormorai, vedendola.
-Bravissima, Debbie!-, esclamò Honey. -Michael? È il tuo turno-, mi chiamò.
-Eh?-, domandai, cascando dalle nuvole.
-È il tuo turno-, ripeté.
La guardai stranito per qualche secondo prima di capire le sue parole.
Sorrisi e mi avvicinai al bambino.
Piano, con delicatezza, lo afferrai nei punti indicatimi da Honey.
-Qui. Bravo, così. Piano… lascialo scivolare…-, diceva lei, guidandomi.
Io ero ansiosissimo, ma tentavo di mostrare quanto più coraggio e sangue freddo possibile.
Lentamente lo feci sgusciare fuori e, con un ultimo sforzo, lo strappai definitivamente dall’interiorità della madre per portarlo in vita.
Guardai quella sagomina che avevo appena estratto.
Era sporco e pieno di sangue, uno spettacolo che metteva i brividi.
Ma a me parve la cosa più bella del mondo.
Furono emozioni indescrivibili quelle che provai in quel momento. Neanche esibirsi in concerto può essere paragonabile alle mille emozioni che pervadevano il mio cuore.
Fu un rumore a farmi capire che ce l’avevo fatta.
Quell’unico, strano rumore.
O meglio, strana fu la mia reazione ad esso.
Mi era familiare, eppure mai come quella volta il pianto di un neonato mi scosse così profondamente e mi allargò il cuore come nessun altro bambino avesse mai fatto prima.
-Eccolo-, disse Honey. -Michael, vuoi tagliare il cordone ombelicale?-.
Guardai l’infermiera.
Sorrisi.
-Sì-, risposi. –Grazie-, continuai, con tono riconoscente.
Prese il piccolo e mi porse una forbice dalla foggia ambigua.
La guardai meglio, e scoppiai a ridere.
Era a forma di cicogna.
Misi il pollice e l’indice nei due buchi e mi avvicinai al piccolino.
Il cordone era di un rosso scuro, e c’erano anche alcune linee bianche e nere. Appoggiai l’utensile su di esso e lo chiusi con un gesto secco.
-Fatto-, annunciai, commosso.
L’infermiera avvolse il piccolo in un panno, per poi venire verso di me.
Credevo che stesse per darmelo in braccio, ma passò oltre, dirigendosi verso Debbie.
Glielo mostrò e fece per passarglielo.
-No-, disse lei.
La guardai allibito, e Honey mi imitò.
-Dallo a Michael-, continuò.
Trattenei il respiro e guardai dapprima Debbie, che aveva uno sguardo sicuro, poi Honey, nelle cui iridi c’erano dipinti solo stupore e smarrimento.
Allungai le braccia verso quel fagotto e Honey capì.
I’ll reach out my hand to you…
Venne verso di me, e pochi secondi dopo mi porgeva il piccolo.
I’ll have faith in all you do…
Era un batuffolo di seta sporco e piangente quello che stringevo forte al mio petto, incurante del fatto che potesse sporcarmi i vestiti.
Lo guardai negli occhi.
Erano impiastricciati, ma potevo vedere il loro colore: un azzurro chiaro e intenso.
Gli occhi di mio figlio, il mio piccolo fagottino morbidone.
-Come lo chiamate?-, chiese Honey mentre stringevo la mano del piccolo nella mia.
-Per me è uguale, decide Michael-, rispose Debbie,
Io la guardai allibito, felice e riconoscente.
-Davvero?-, mormorai, con la voce incrinata.
Lei annuì sorridendo, le occhiaie in bella mostra.
Tornai a guardare il fagottino.
-Il figlio del Re del Pop deve avere un nome degno di un principe-, iniziai io.
Gli accarezzai dolcemente quell’ammasso di sangue, acqua e paglia che erano i suoi capelli.
-Prince-, dissi. -Prince Michael Jackson-, aggiunsi.
Le due donne sorrisero.
-Un po’ troppo da principe, ma… sì, direi che va bene-, giudicò Honey.
-Il nome di tuo nonno materno…-, sussurrò Debbie.
Io la guardai sorridente e annuii.
-Aspetta, vediamo se gli piace-.
Guardai quel fagottino che piangeva ancora e lo chiamai: -Prince? Prince Michael Jackson, ti piace? Little Prince, Piccolo Principe, Piccolo Prince. Come ti sembra?-.
Mi guardò per un attimo e smise di piangere.
Just call my name and I’ll be there…
Sorrisi e una lacrima di gioia solcò la mia guancia.
Lo alzai e lo mostrai all’infermiera e a mia moglie, attento a non fargli del male.
-Prince Michael Jackson. Mio figlio-, decretai, raggiante.

Eravamo soli io e Debbie, nella sala.
Gli infermieri erano andati tutti a lavare Prince e il dottore invece doveva fare alcuni accertamenti.
Le asciugavo il sudore sulla fronte e la sistemavo.
-Grazie…-.
Mi guardò.
Le sorrisi, e lei fece lo stesso.
-Grazie per avermi dato un figlio… grazie per aver esaudito il mio più grande desiderio… grazie, Debbie-, mormorai.
Lei si alzò un po’ e mi carezzò la guancia sinistra.
Le presi la mano tra la mia e le baciai le dita; lei mi carezzò le labbra.
-Sapevo che lo desideravi da tempo, per questo l’ho fatto. Non ringraziarmi: il mio è un segno d’affetto-.
Io annuii.
-Posso portarlo a casa?-, domandai.
-Se è quello che desideri…-, rispose, scrollando le spalle.
Le sorrisi.
-Ti ringrazio-.
Honey entrò disparata bloccando quel momento di puro idillio. Si fermò accanto al letto guardandoci in modo grave.
-Che succede?-, le domandai.
Lei mi guardò tentando di mascherare – inutilmente – la sua preoccupazione.
-Beh… ecco… c’è… c’è un problema-, balbettò.
-Che tipo di problema?-, domandai, ansioso.
-Si tratta di Prince… non respira bene-, disse infine.
Io e Debbie ci guardammo angosciati.
-Dobbiamo portarlo urgentemente in terapia intensiva, oppure…-.
-Oppure?-, la spronai, nervoso.
Lei mi guardò afflitta.
-Oppure potrebbe non farcela-.
Quella frase mi colpì il cuore come una freccia.
No… no, ti prego, no…
-N… no… no… NO! Lui… lui… è appena nato… non può, non può… no…-, balbettavo, confuso e incredulo.
Mi alzai improvvisamente e raggiunsi correndo Honey.
-Voglio vederlo!-, esclamai.
-Non puoi, Michael, lo sai-.
-Non m’importa, voglio vederlo. Adesso!-.
-Michael, smettila di fare il bambino! Ora sei padre, tu devi accudire tuo figlio, non il contrario, chiaro?-.
Rimasi imbambolato a fissarla.
Quella frase mi aveva trafitto il petto come un dardo facendomi mancare il respiro. Iniziai a ricredermi seriamente sulle mie capacità di essere un genitore responsabile.
Il fatto che fosse stata Honey a pronunciare quelle parole mi stupì più del loro reale significato: eravamo amici, ci conoscevamo da tempo… per aver detto quelle cose avevo proprio esagerato. Aveva ragione, aveva completamente ragione.
Abbassai lo sguardo e mi morsi il labbro inferiore.
-Scusa…-, mormorai. -È che…-,
-No, Michael, scusami tu. Non avevo il diritto di dirti quelle cose. Siamo tutti nervosi, è normale. L’unica cosa da fare è aspettare e sperare in un miracolo-, disse lei.
Io annuii.
-Ora però non puoi restare qui: Debbie deve essere lavata-.
Mi voltai verso mia moglie, e mi accorsi che aveva gli occhi lucidi.
Le andai vicino e le carezzai i capelli, mentre asciugavo una lacrima sul suo volto.
-Andrà tutto bene, non temere-, la rassicurai.
Uscii fuori guardandola per un’ultima volta e mandandole un piccolo bacio con la mano. Mi diressi verso l’ufficio del dottor Miller, l’unico posto in cui non potevo essere disturbato: quei maledetti paparazzi erano riusciti quasi ad arrivare nella sala d’attesa. Fortunatamente, c’erano le forze dell’ordine e le guardie del corpo che erano riusciti a frenare la loro corsa prima che raggiungessero la saletta dove era ricoverata Debbie… ma per cautela gli addetti alla sicurezza mi avevano evitato di poter scorrazzare libero per l’ospedale, scusandosi ripetutamente per l’inconveniente e promettendomi che in futuro non ci saranno di questi problemi. Io potevo solo obbedire.
Alla faccia del Re del Pop…
Entrai nella stanza del dottore col cuore in gola come se stessi penetrando in un appartamento per derubare. Mi guardai attorno per accertarmi che non ci fosse nessuno; la stanza era gremita di libri di medicina: ce n’erano sugli scaffali, sulla scrivania di fronte a me, su una specie di mobiletto grigio chiaro e uno perfino sul davanzale della finestra che dava sul giardino nel retro.
Mi avvicinai ad essa e mi affacciai.
Il vento sottile scuoteva le fronde del salice.
Il salice…
Associato al mito lunare perché prediligono l’acqua, nel calendario celtico il Salice era il quinto mese, corrispondente a quello della grande madre… il salice è il simbolo della terra… dei fiori… della nascita…
Chiusi gli occhi.
Di fronte a me vedevo l’ombra delle foglie dell’albero che si muovevano a ritmo del vento…
Ascoltami…
…il loro fruscio…
Ascoltami…
Non so quanto tempo trascorsi in quella posizione. Ero così sereno…
Aprii di scatto gli occhi e mi precipitai fuori dalla stanza.
Sul mio tragitto non incontrai nessuno, e quei pochi che c’erano erano tutti impegnati nei loro affari per badare a me.
Raggiunsi l’uscita secondaria in poco tempo e mi trovai nel giardino.
Di fronte a me si ergeva in tutta la sua maestosità quel salice meraviglioso. Era forte e imponente, sebbene la sua chioma si abbassasse verso il suolo a mo’ di lacrime che scendono dagli occhi.
Mi ricordava molto il Colosseo, che vidi per la prima volta quasi dieci anni prima.
Lo guardai per non so quanto tempo, rapito dalla sua bellezza.
Lo contemplai rapito, incurante dello scrosciare di ogni minuto, di ogni secondo… ricordo solo che mi avvicinai lentamente ad esso con fare timoroso e posai delicatamente una mano sulla sua dura corteccia. Chinai il capo in segno di rispetto e sottomissione e toccai il tronco ruvido con la mia fronte.
Rimasi in quella posizione per un periodo di tempo indeterminato, per poi alzare lo sguardo.
Fa’ che viva…
Il vento mi carezzava il volto e mi faceva giungere alle orecchie lo splendido suono della voce del salice…
era calda…
serena…
rassicurante…
-Signor Jackson!-.
Può una semplice frase portarti via da uno stato di pura estasi quale quello che avevo vissuto fino a quel momento?
Sì, può.
Lo aveva appena fatto.
Mi voltai lentamente e mi ritrovai naso a naso con il dottor Miller.
-Le avevamo detto di non uscire!-, esclamò.
Sorrisi mesto.
-Lo so… ma ho visto questo splendido albero e non ho potuto fare a meno di recarmi qui… è un salice stupendo…-, mormorai con aria sognante girandomi a guardare l’oggetto dei miei miraggi.
Lui mi guardò attonito.
-Beh, ehm… sì, lo è… oh, ma che sto dicendo?!-, balbettò confuso. –Signor Jackson-, ripeté con tono perentorio, costringendomi – mio malgrado – a far incrociare le nostre iridi.
-Devo darle una notizia…-, continuò.
In un attimo ricordai perché mi ero recato nel giardino, il motivo alla mia preghiera silenziosa a quella maestosità che si ergeva alle mie spalle, il mio affanno e le mie preoccupazioni.
Il mio cuore fu di nuovo oppresso dall’ansia, crudele assassina della mia serenità.
-Suo figlio Prince…-.
Dimmi che è vivo… dimmi che ce l’ha fatta… ti prego…
-…può respirare. Sta bene. Ora si trova con la madre-, disse lui con un sorriso.
Senza parole, senza parole: ecco come mi fai sentire…
Ecco come mi sono sentito.
Senza parole.
Sorrisi e mi voltai verso il salice.
“Grazie…”, pensai.
Abbassai il capo e lasciai che una piccola lacrima solcasse la mia guancia.
-Wooo!-, urlai, per poi iniziare a correre per il giardino verso l’ospedale.
Mia moglie mi stava aspettando.
E con lei c’era mio figlio.

Il piccolo piangeva.
-No, Prince, per favore, non piangere…-, lo pregavo.
Ma non mi sentiva.
Eppure era strano: gli avevo dato da mangiare, l’avevo cambiato, avevo tentato di farlo addormentare, ma non voleva… che diavolo dovevo fare di più?
-Prince? Dai, smettila, principino… non piangere… dai, poi fai piangere anche me… e non vuoi che il tuo bel paparino pianga, vero?-.
Ma secondo te ti capisce? E poi “bel paparino”… mio Dio…
-Vedi? Mi hai fatto piangere, visto? Buaa!!-, esclamai, fingendo di piangere.
Ecco, ora stai dando i numeri.
Sbuffai.
“Colui che sa incantare milioni di persone nel mondo non riesce a far smettere di piangere suo figlio di tre mesi… il colmo…”, pensai.
Poi mi balenò un’idea in mente.
Era una follia, e avrei potuto passare per ridicolo, ma… insomma, ma chi mi vedeva? Stavo a casa mia, giusto? No paparazzi a Neverland. Assolutamente.
-Prince! Mio principe! Guarda papà che ti fa!-, esclamai.
Poggiai il piccolo nel sediolone e misi un CD nello stereo.
Mi piazzai di fronte a lui.
Dopo qualche secondo mostravo i miei famosissimi passi di danza a mio figlio sulle note di “Thriller”.
Fu questione di poco tempo.
Prince smise di piangere.
“Ci sono riuscito!”, esultai.
Dalla gioia feci una piroetta velocissima, mi gettai a terra e alzai le braccia verso il cielo gridando: “Aaow!”.
Un rumore caldo e rassicurante arrivò alle mie orecchie.
La risata di Prince.
Prince rideva.
Il mio piccolino rideva.
Rideva perché mi aveva visto ballare.
Rideva perché aveva visto il suo bel paparino ballare.
Rideva per me.
Lo guardai stralunato.
Mi alzai e andai verso di lui.
Aveva smesso di ridere e mi guardava sognante, aspettando la prossima coreografia.
Non poteva aver riso…
No, aspetta, adesso devo controllare…
Feci una mossa strana con le spalle e la testa.
Sentii ancora quel rumore.
Guardai Prince e vidi le sue gengive.
Rideva.
Stava ridendo.
Avevo fatto ridere tanti bambini nella mia vita, ma… no, quello che provai in quel momento fu indescrivibile. Impossibile da spiegare.
Insomma, mio figlio rideva! Rideva!
Il mio principino rideva… e lo faceva solo per me.
Solo per suo padre.

Ricordava quando il padre gli raccontò di quel giorno… i suoi occhi brillavano e la bocca era spesso propensa a tendersi in un dolce sorriso che riscaldava i cuori… un sorriso che non avrebbe mai più rivisto…
-Addio, papà-, mormorò Prince guardando per l’ultima volta quella bara dorata.






3 Aprile 1998, Los Angeles, California



Un cielo terso e un sole splendente, prati verdi e fiori dai mille colori, ruscelli e fiumi con tanti piccoli pesci, laghi profondi in cui potersi specchiare.
Correvo in quella bellezza, guardando le farfalle che danzavano sulla mia testa. Ogni tanto saltavo per prenderle, e talvolta una di loro si posava delicatamente sulla mia mano o sul mio naso.
Mi fermai e mi sdraiai sull’erba fresca, beato.
Una brezza morbida mi carezzava il viso e penetrava nella camicia; ero così rilassato…
Michael…”.
…così sereno…
Michael…”.
…così…
Michael…?”.
…così…
“MICHAEL!”.
Mi svegliai di botto, col cuore che stava per fuoriuscire dal petto e i polmoni in fiamme.
Mi guardai attorno.
Niente verde, niente fiori, niente ruscelli, niente brezza.
Ero nella buia stanza da letto, e gli unici rumori che sentivo era quello del mio respiro affannoso… e… acqua che gocciola?!
-Michael…-. Di nuovo quella voce.
Mi alzai e raggiunsi l’ombra di fronte il mio letto.
-Cosa succede?-, chiesi.
Debbie guardò prima me, poi il pavimento bagnato sotto i suoi piedi.
Sgranai gli occhi.
-Si sono rotte le acque-, mormorammo all’unisono.

-Pronto?-, rispose una voce femminile assonnata.
-LaToya!-, esclamai. –Debbie ha rotto le acque, stiamo arrivando all’ospedale, avvisa tutti!-.
-Quale acqua?-, domandò lei.
-L’acqua, l’acqua! L’acqua di Debbie!-, esalai, non ricordando il nome del liquido nell’utero. –Si è allagata!-.
-Vi siete allagati?! Ah, si sono rotti i tubi! E perché chiami me? Meglio un idraulico, no?-.
E attaccò.
Io rimasi a bocca aperta.
-Ma che…-, sbottai, bloccandomi all’ultimo, mentre componevo il numero di Janet.
Vai, Michael, dillo!
Uno squillo.
Forza, Michael, dillo!
Tre squilli.
“Ma che…”.
E dai, dillo!
Cinque squilli.
Serrai le labbra picchiettando insistentemente le dita sul comodino.
“…che…”.
Ma che ti costa? Dillo!
Sei squilli.
“…che…”.
La mia volontà si distrusse quando aprii bocca.
-Pronto?-, mormorò Janet.
-Che puttana!-, esclamai.
Attimo di silenzio.
-Michael?-, domandò sconcertata lei.
Mi sentii gelare.
-Janet! Cavolo, scusa, io… no, no, scusa, non ce l’avevo con te, sorellina! Scusa, scusa, scusa, scusa…!-, dissi d’un fiato, maledicendomi.
-Michael?-, ripeté. –Ti rendi conto del fatto che hai appena detto una parolaccia? Ciò che in quasi 40 anni non hai mai fatto?-.
Sospirai.
-Sì, lo so…-, mormorai. Poi scossi violentemente la testa. –Non è di questo che voglio parlare! Ascolta, Janet: Debbie ha rotto le acque. Sì, esatto, quelle acque-, dissi dopo una breve pausa. -Stiamo andando all’ospedale, vieni qui, okay? Sai Prince dorme… sì, lo so che c’è la tata, però con te mi sento più sicuro…-.
-Oh! Okay, io… vengo subito…-, balbettò.
-D’accordo, sorellina. A dopo, avvisa anche gli altri, okay? Ah, fammi un piacere: va’ da LaToya, dalle una martellata in testa e dille che gli unici tubi rotti sono quelli del suo cervello-.
-O…okay…-, rispose, basita.
-Grazie mille, a dopo-, e attaccai.
Mi voltai verso Debbie, che intanto aveva preso delle asciugamani e mi guardava.
-Andiamo-, dissi.

Stessa scena, stesso affanno, stesso corridoio albino. Solo la città cambiava, il resto era uguale.
Trasportavano Debbie su un lettino con le rotelle, e io le correvo dietro.
-Signor Jackson, si disinfetti, poi potrà entrare-, mi informò un infermiere mentre trasportavano mia moglie nella sala e la porta si chiudeva davanti a me.
Rimasi per qualche secondo immobile, prima di scuotere la testa nel tentativo di risvegliarmi dal momentaneo stato di torpore. Mi diressi a sinistra, dove il dottor Thompson mi aspettava; mi porse tutto il necessario. Lo indossai con velocità, preoccupato e idealmente già presente nella stanza.
-Pronto?-, mi chiese, quando ebbi finito di prepararmi.
-Spero di sì…-, risposi con un sorriso.
-È il primo figlio?-.
-Ehm… no, veramente è il secondo. Anzi, la seconda-, risposi.
-Oh. La facevo più giovane…-, disse lui.
-Ah. Ehm… grazie…-, mormorai, imbarazzato.
Mi voltai. Di fronte a me c’era la porta della sala di ricovero.
Il cuore mi batteva all’impazzata e le gambe mi tremavano. Però ero pronto. Sì, ce la potevo fare, se ci sono riuscito con Prince perché non sarebbe dovuto accadere lo stesso ora?
Ci siamo, Michael. Fatti coraggio.
Presi un bel respiro e abbassai la maniglia.
Era un dejà-vu.
Al centro della stanza troneggiava una figura bianca e indistinta e numerosi infermieri si affannavano attorno ad essa. Per un attimo mi sentii mancare: e se fosse accaduta la stessa cosa di Prince? Se la bambina non avesse potuto respirare?
-Michael!-.
Fu quella voce così familiare a riportarmi sulla Terra, ancora una volta.
Veniva verso di me la donna sorridente dai lunghi capelli color miele e gli occhi blu.
-Honey!-, esclamai, abbracciandola.
-Non puoi proprio fare a meno di me, eh?-, mi rimbeccò con tono falsamente di rimprovero.
-Eh, già…-, dissi solamente.
Mi prese per mano e mi condusse accanto a mia moglie. Affannava, sudava, il viso era contratto.
Sì, proprio tutto uguale.
Ogni minima cosa.
La mia stretta nella sua mano, l’ansia, le grida, gli incoraggiamenti, i pensieri belli e meno belli…
Sgranai gli occhi.
No, non sarebbe andata come con Prince. Non avrei sentito Honey che diceva: “C’è un problema”, non sarei stato in pena per cinque ore, non avrei sentito brutte notizie.
Ma dovevo escogitare un piano.
Dovevo portar via la bambina da quell’ospedale prima che me la strappassero via dalle braccia.
E intanto mia moglie strillava…
-Vai, Debbie, spingi!-.
Gridava…
-Forza, ci siamo quasi!-.
Soffriva…
Ti prego…
Un ultimo urlo, enorme, lancinante, entrò prepotente nella mia mente scuotendomi. Mi vennero i brividi ad ascoltarlo: era come se la natura avesse gridato all’uomo tutto il male che le aveva provocato in quei millenni.
Le mie orecchie erano frastornate da quello strillo, per un attimo i miei timpani smisero di funzionare.
Poi capii, dal rumore che seguì, che potevo ancora sentire. Che la natura non si era ribellata, ma che si stava mostrando in tutta la sua magnificenza.
Quel suono… quella musica sublime… era un pianto… ma mi parve una delle risate più gioiose che potessero esistere…
-Eccola…-, mormorò Honey.
You suddently appeared… it was cloudy before, now it’s so clear…
L’aveva estratta lei quella volta. D’altronde non potevo farlo sempre, no?
-Oh mio Dio…-, mormorai vedendo la bambina.
You took away the fear… and you brought me back to the light…
Era piccola, era sporca, era piena di sangue…
Era stupenda…
Era il mio sole…
You are the sun…
Era la mia luna…
You are the moon…
Era mia figlia.
You are my life…

Tagliai il cordone ombelicale anche quella volta (questo me lo potevo permettere!).
-La vuoi prendere in braccio?-, mi chiese Honey.
Annuii, le lacrime già pronte ad uscire.
-Come si chiama?-, mi chiese.
Guardai Debbie, che mi sorrise con coraggio.
Tornai a guardare la piccolina.
-Paris-Michael Katherine Jackson. Ti piace?-, le domandai.
Honey annuì.
-Bello… profondo. Sì, aggiudicato!-, esclamò.
Io la fissai ironico.
-Veramente dicevo alla bambina-, la informai, e lei arrossì.
-Ah… scusa-.
Risi.
-Macchè! Figurati…-. Il fagottino si guardava attorno con quei suoi occhi luccicanti impastati dal sangue e dal resto.
-Allora? Che ne dici? Paris e Katherine, come le tue nonne. E Michael come il tuo papà, così sarò sempre con te… ti piace?-.
E la piccolina, che fino a quel momento si guardava attorno spaesata e piangeva per l’aria che le bruciava i polmoni, si voltò verso di me e mi sorrise.
You are beautiful…
Bellissima.
You’re wonderful…
Meravigliosa.
Incredible…
Incredibile.
E con un impeto di affetto improvviso la strinsi forte a me per non lasciarla sfuggire mai.
I love you so…
-Ti voglio bene, Paris-.

-La porto a casa-.
Honey si fermò sbigottita mentre stava per prendere la bambina che tenevo in braccio.
-Eh?!-, esclamò.
-Ho detto che la porto a casa. La bambina. La porto con me. Non c’è bisogno che la lavi, lo farò io. Anzi, vieni anche tu così mi darai una mano-, dissi, sicuro di me stesso.
Honey sbatté più volte le palpebre. Poi alzò il braccio destro e mise la sua mano sulla mia fronte.
-Mike, sei sicuro di stare bene?-, domandò.
Sbuffai e la tolsi con un gesto secco.
-Smettila di scherzare-.
-No, smettila tu. Ti rendi conto di quello che mi hai appena chiesto?-.
-Certo-, risposi, scrollando le spalle.
Lei mi fissò per qualche attimo allucinata prima di scuotere la testa.
-Sei impossibile… non capisco chi tra lei e te sia il bambino-, mormorò, esasperata.
-Oh, allora? Vuoi aiutarmi o no?-, chiesi infine impaziente mentre Paris aveva ricominciato a lamentarsi.
Lei alzò gli occhi al cielo.
-Me ne pentirò amaramente un giorno, ma… uffa, e va bene, portala da te!-.
Io sorrisi raggiante.
-Grazie mille, Honey!-.
Lei scosse la testa.
-Muoviti, o le verrà qualcosa!-, esclamò.
Io annuii.
-Debbie?-, chiamai mia moglie.
Lei mi guardò stanca.
-Sai quello che penso-, fu la sua unica risposta.
Capii subito.
-Grazie-.

Era Natale.
Paris aveva tre anni, e per l’occasione la tata le aveva fatto indossare un bellissimo vestito di velluto rosso scuro. Era una bambola di porcellana con quei suoi riccioli che cascavano tenui sul collo accarezzandole la pelle lattea.
Vagava felice, allegra e spensierata per la casa sul suo nuovo triciclo che un mio amico le aveva regalato.
-Papà, papà!-, esclamava.
Io correvo e lei mi inseguiva, ridendo.
-Aiuto!-, fingevo, mentre scappavo dappertutto tentando di non farmi acciuffare dalla mia bambolina.
-‘Cappa, ‘cappa!-, urlava, mentre mostrava in tutta la loro magnificenza i suoi piccoli dentini brillanti.
Prince poi, preoccupato per la sorella minore – come se fosse più grande di qualche decina d’anni… – le correva dietro dicendo: -Paris, non veloce!-.
Per un attimo mi parve che il più maturo fra i tre fosse proprio lui.
Continuammo così per circa una mezz’oretta, fin quando Janet ci chiamò.
-Bambini? I biscotti sono pronti!-, esclamò.
I due tesori si voltarono di scatto con gli occhi lucidi verso la zia.
-Sììì!!-, esclamarono, correndo veloci verso il vassoio sul tavolo lasciando stare i giochi.
Io rimasi impalato al centro del corridoio con un’espressione ebete dipinta in faccia.
-Ehi! Ma noi stiamo facendo una gara!-, esclamai.
Janet mi guardò esasperata.
-Michael, è da quasi un’ora che continuate a “cacciarvi”… ergo, vieni qui e mangia!-, ordinò con un tono che non ammetteva obiezioni.
Sbuffai, falsamente contrariato.
-E va bene…-, mi arresi, sedendomi accanto ai miei gioielli.
Presi un biscotto dalla forma ad albero di Natale e lo assaggiai.
Gli occhi mi luccicarono.
-Ma sono buonissimi!-, esclamai.
-Li ho fatti io!-, disse raggiante Jen.
Lo sguardo che le lanciai fu uno di quanti più scettici e ironici avessi nel mio repertorio.
-Davvero? Allora lo poso-, continuai schifato.
Lei mi guardò offesa e agguantò un cuscino dal divano alle sue spalle, lanciandomelo dispettosa. Prevedendo la sua mossa, riuscii a schivarlo e le feci una boccaccia.
-Cilecca!-, esultai.
-Scemo-.
Io risi e corsi da lei abbracciandola forte.
-La mia piccola Trilli… -, mormorai.
Lei rise.
Poi sentii un singhiozzo.
Ma non era Janet.
Mi guardai attorno preoccupato.
Fu allora che vidi Paris piangere.
No…
Corsi da lei e le misi le mani sulle spalle.
-Piccola? Tesoro, cos’hai?-, le domandai.
Lei scosse la testa.
-Dai, dimmelo. Sono il tuo papà, no? Dimmi cosa ti è successo-.
Lei alzò la testa e le lacrime in quei suoi occhi così profondi mi colpirono il cuore.
Mi fissava triste e arrabbiata, come se avessi fatto qualcosa di male.
Bravo, Michael. Hai fatto piangere tua figlia.
“Ma io non ho fatto nulla…”, pensai. “Non le ho detto niente!”.
Trattenei il respiro.
Ma certo.
Ecco spiegato tutto.
Non le avevo detto nulla.
-No, amore mio, non piangere…-, mormorai accarezzandole i capelli. -Scusami tanto non volevo… piangi perché non ti ho chiamata “piccola Trilli”, vero?-.
Lei abbassò gli occhi.
Sospirai afflitto.
-Ma no, non fare così… scusa, dolce stella, non volevo farti diventare triste… dai, ti prego, poi piango anch’io!-.
Lei alzò la testa di scatto ed esclamò spaventata: -No, papà, non piangere!-.
Il mio cuore iniziò a battere velocemente e mi ritrovai Paris stretta al mio petto.
Allungai un braccio verso il bambino biondo accanto alla piccolina, che ci guardava felice.
Prince venne vicino a me e ci abbracciò forte, nascondendo il viso nel mio collo.
-Smile, though your heart is aching… smile, even though it’s breaking… when there are clouds in the sky, you’ll get by… if you smile though your fear and sorrow… smile, and maybe tomorrow you’ll find your life is still worth while… if you just… SMILE!-, cantai la “Smile” di Charlie Chaplin, che da sei anni era diventata “mia”.
Paris e Prince capirono, e sorrisero.
-Bravi, così si fa. Non smettetela mai di sorridere, è forse uno dei dono più belli che il Signore ci ha regalato nella nostra vita. Anzi, lo è di sicuro-.
I miei gioielli annuirono.
-Il mio principe…-, mormorai arruffando i biondi capelli del primogenito, facendolo ridere. Poi mi voltai verso la bambolina alla mia sinistra dagli occhi ancora arrossati. -… e la mia Trilli-, dissi.
Lei sorrise.
La mia bambina sorrise.
Trilli sorrise per il suo Peter Pan.


Sarebbe sempre rimasto il suo Peter, l’uomo che avrebbe amato più di chiunque altro, per sempre.
Ma Peter Pan era immortale… lui, invece, se n’era andato…
-Proteggici, papà…-, mormorò Paris, guardando verso il cielo, mentre i suoi zii portavano via la bara dorata.




28 Febbraio 2002, San Diego, California

-Sappi che non smetterò mai di ringraziarti… non sai quanto tu mi abbia reso felice, oggi-.
La donna dinanzi a me mi guardò con i suoi occhi neri così profondi.
Quando la vidi la prima volta seppi che solo lei sarebbe stata in grado di offrirmi quello che la mia ex moglie Debbie non avrebbe più dato: un altro figlio. Per cui avevo chiesto aiuto… e lei me l’aveva concesso.
Un utero in affitto.
Una mamma solo per i nove mesi e per il parto.
Avrei cresciuto io il bambino, l’avrei mantenuto a mie spese e l’identità della donna sarebbe stata mantenuta segreta. Lei non avrebbe avuto alcuna influenza sulla vita del piccolo… in cambio di soldi.
Molti soldi.
Fa niente.
-Non ringraziarmi… consideralo un piacere-, mi rispose.
Io annuii e uscii fuori, in attesa che sistemassero tutto.
Mi preparai, fisicamente e psicologicamente, ad affrontare un altro cambiamento.
Un altro figlio.
Un’altra responsabilità.
Ma ce l’avrei fatta.
L’avrei cresciuto come avevo fatto con Prince e Paris, sarebbe diventato grande e… no, cosa pretendevo? Che non chiedesse mai di sua madre? L’avrebbe fatto, e io avrei risposto alle sue domande.
Dovevo farlo: aveva il diritto di sapere.
-Pronto?-, chiese il dottore alla mia destra.
Mi voltai verso di lui.
La stessa domanda ripetuta tre volte.
Destino, un po’ di fantasia mai, eh?
-Per queste cose non si è mai pronti, dottor Hughes-, risposi sorridente.
Mi voltai, quella volta deciso e sicuro – anche se l’ansia era sempre presente – verso la porta.
Presi un respiro e aprii.

Il concepimento non fu molto lungo o difficoltoso. Tutt’al più un po’ sofferto, come gli altri due, del resto… ad ogni modo, io le fui vicina per tutto il tempo, senza lasciarla mai. Non voleva il mio appoggio, ma poco m’interessava: non le avrei stretto la mano per infonderle coraggio, ma alla nascita del mio terzo figlio non potevo mancare.
-Sta per uscire!-, esclamò l’infermiere.
Il cuore mi batté fortemente e le mie gambe si mossero da sole.
In un attimo mi ritrovai a fissare la testa scura di mio figlio che usciva dall’interiorità della madre.
-Oh mio Dio…-, mormorai per l’ennesima volta incantato dalla magnificenza di quello spettacolo.
Il piccolino venne fuori piangendo tra l’emozione generale.
Era un fagottino… proprio come i suoi fratelli, che ora lo stavano aspettando…
Gli infermieri gli tagliarono il cordone ombelicale mentre io mi limitavo a guardarlo con aria sognante.
-Posso?-, chiesi, indicando con la testa il piccolo e le mie braccia.
L’infermiera che lo manteneva mi guardò un attimo perplessa, per poi sorridere e annuire.
Me lo porse senza indugi.
Era leggero come una piuma e tutto sporco.
Era una meraviglia, una forza della natura.
Una ragione di vita.
Il mio piccolo principe.
-Ciao…-, mormorai.
Lui continuava a guardarsi intorno stordito, ma non piangeva più.
Nel momento in cui l’avevo preso in braccio aveva smesso di lamentarsi.
E ciò mi rese felice.
-Ehi, piccolino? Sono il tuo papà. Sì, proprio il tuo papà. Però non posso chiamarti sempre “piccolino” o “bambino” o “zuccherino”… insomma, dovrai pur avere un nome, no?-.
Lui mi fissò per qualche momento. Per un attimo mi illusi che potesse capire quel che dicevo.
-Mmh… che ne dici di “Prince Michael Jackson”? Secondo, però. C’è già tuo fratello con questo nome. Eh, sì, hai un fratello. E anche una sorella. Tutti più grandi. E stanno aspettando te, lo sai? Non vedono l’ora di conoscerti… ah, e avrai un soprannome, altrimenti dovrò chiamarti “Secondo” e non mi va… mmh… che ne dici di “Blanket”? ( “Coperta”)-.
Il piccolo si voltò nuovamente verso di me e mi sorrise.
Ed io mi sentii l’uomo più felice della Terra.
-Prince Michael Jackson II-.
Mio figlio.
Un nuovo figlio.
Ma ero pronto.
Io ero pronto.
L’avrei accolto nella mia famiglia e l’avrei protetto… costi quel che costi.

Eravamo a casa ed erano piazzate delle telecamere nella mia casa.
Il giornalista inglese Martin Bashir(*) mi aveva chiesto di intervistarmi sulla mia vita, ed io l’avevo accolto a Neverland. Sarebbe stata la mia occasione di rifarmi di fronte alla gente e smentire una volta per tutte le voci che circolavano sul mio conto.
Non ero un pedofilo, non lo ero mai stato e non lo sarò mai.
Prince II piangeva.
Gli avevo nascosto il volto con una coperta verde e tentavo di dargli la bottiglia di latte senza scoprirlo.
-Non riesce ad acchiappare il biberon-, osservò intelligentemente(**) Bashir.
Allungò le mani verso di lui per togliergli la coperta che lo avvolgeva. Io lo fermai giusto in tempo, alzandola solo sopra il naso. Non volevo che le telecamere lo vedessero. Era troppo piccolo, ci sarebbe stato tempo.
Gli diedi il biberon.
-Ecco qua, ce l’ha fatta!-.
Ma lui continuava a piangere.
No, piccolino, non versare lacrime…
Per calmarlo facevo degli strani versi con la bocca.
-Sì, Blanket! Blanket, Blanket!-, esclamavo, e smise di piangere. –Ti voglio bene, Blanket… sì, sì… ti voglio bene… ti voglio tanto bene…-.

Anche lui gli voleva tanto bene… ma tanto… non immaginava nemmeno… glielo diceva sempre…
-Papà, ti voglio bene…-.
Ma non gliel’avrebbe più ripetuto… quella bara sarebbe stata portata via per sempre…
-Mi mancherai, papà…-, sussurrò Blanket.


E quei pensieri volavano leggeri, fluttuavano dinanzi a me…
Tanti pensieri, pensieri di fans e parenti che mi arrivavano nelle orecchie…
Ma ce n’era uno…
Più forte…
Più sentito…
Più dolce…
Che mi dava la forza…



Ti vogliamo bene, papà…




(*) “Serpe”: uno dei tanti nomignoli dati a quel giornalista di merda che voleva mettere in cattiva luce Michael, e che dopo il 25 giugno ha detto: “Ho mentito”… ma tu e Chandler vi siete messi d’accordo, per caso? O_O
(**) Chi, tu un intelligente? Ma fammi il piacere… *sgrunt*

Rieccomi, cari lettori e lettrici! Perdonate il mio ritardo, ma prima non mi sono potuta liberare... un grazie sentito a tutti... soprattutto a BEATIT81 che ha avuto l'accortezza di far risalire il topic... grazie davvero!!! Vi voglio bene... [SM=x47938]
lallamj
00martedì 24 novembre 2009 21:46
GRAZIE!!!!!!!!!!!!!!!!!
KE BELLO!!!!!!!!!!!!!!!
BEAT IT 81
00martedì 24 novembre 2009 22:27
Grazie x il ringraziamento e prego [SM=g27811] ...che dire...se faccio qlc errore scusami, ma sto piangendo disperata, questo capitolo mi ha un po' devastata, leggere quelli che possono essere stati i pensieri di Prince, Paris e Blanket il giorno del funerale mi fa male e ricordare quel giorno mi fa ancora più male, xò il capitolo è bellissimo, davvero, la descrizione delle nascite dei tre tesori sono stupende...scusa x le mie parole, ma io sono molto sensibile e questo cappy mi ha colpito nel profondo, scusa ancora e continua così, davvero...stupendo!!! Baci
Micheal'sNewFan
00mercoledì 25 novembre 2009 15:01
MichaelInTheHeart, davvero complimenti...
Sei stata bravissima nel creare questo capitolo!
Sembra vero, tutto vero...sembra che tu fossi lì, nella testa di Michael e dei bimbi...sembra che tu abbia assistito a tutto ciò!
Bravissima... [SM=g27822]

P.S. La telefonata tra Michael e LaToya e quella con Janet mi hanno fatto troppo ridere! Troppo forte, brava! [SM=x47954]
lallamj
00mercoledì 25 novembre 2009 16:04
Re:
BEAT IT 81, 24/11/2009 22.27:

Grazie x il ringraziamento e prego [SM=g27811] ...che dire...se faccio qlc errore scusami, ma sto piangendo disperata, questo capitolo mi ha un po' devastata, leggere quelli che possono essere stati i pensieri di Prince, Paris e Blanket il giorno del funerale mi fa male e ricordare quel giorno mi fa ancora più male, xò il capitolo è bellissimo, davvero, la descrizione delle nascite dei tre tesori sono stupende...scusa x le mie parole, ma io sono molto sensibile e questo cappy mi ha colpito nel profondo, scusa ancora e continua così, davvero...stupendo!!! Baci




sono così immersa nella lettura ke anke se c' è qualke piccolo errore non ci faccio caso!
BEAT IT 81
00mercoledì 25 novembre 2009 16:09
Re: Re:
lallamj, 25/11/2009 16.04:




sono così immersa nella lettura ke anke se c' è qualke piccolo errore non ci faccio caso!




Ma io nn mi riferivo agli errori nella FF, mi riferivo ai miei errori, ieri sera quando ho scritto il commento stavo piangendo disperata e nn vedevo bene la tastiera del pc [SM=g27821]
lallamj
00mercoledì 25 novembre 2009 16:14
e io a quelli mi riferisco... un mio grande difetto è ke quando sto leggendo 1 cosa ke mi piace, non penso agli errori, non capisco più nulla... non penso alle parole come sonio scritte, tanto le capisco lo stesso... è un po' strano....
Allyss
00mercoledì 25 novembre 2009 17:11
bellissimoooo....

ho pianto come una fontana....davvero brava! mi sono davvero emozionata tanto, e nn posso pensare al dolore di quei tre angeli....
"Dangerous boy"
00mercoledì 25 novembre 2009 17:20
bellissimo :O
BEAT IT 81
00mercoledì 25 novembre 2009 17:48
Re:
lallamj, 25/11/2009 16.14:

e io a quelli mi riferisco... un mio grande difetto è ke quando sto leggendo 1 cosa ke mi piace, non penso agli errori, non capisco più nulla... non penso alle parole come sonio scritte, tanto le capisco lo stesso... è un po' strano....




Ops [SM=g27821] [SM=g27821] [SM=g27821] , scusa, nn ci siamo capite allora, scusami ancora... [SM=x47938]
lallamj
00mercoledì 25 novembre 2009 17:49
ma di ke!
[SM=x47938]
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