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In The Name Of Love (in corso). Rating: verde

Ultimo Aggiornamento: 08/09/2010 21:47
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14/06/2010 13:17
 
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Il capitolo nuovo è bellissimo!!!!!!!!! Lo scherzo che Joy fa a Ryan e Mike è troppo divertente e la loro reazione pure. Io rimango convinta che fra Joy e Mike scatterà la scintilla, le emozioni già ci sono e anche l'Amore nell'aria ;-)))))) , sbaglio? Bravissima!!!!!! Aspetto già il capitolo nuovo ;-)))) . Baci Sara

It's all for Love...L-O-V-E - Michael Jackson




The Dancer on the Moon - our Michael Jackson Blog.

14/06/2010 14:09
 
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bellissimoo!! lo scherzo di joice mi ha fatto morire dalle risate!! [SM=x47979] sono sicura che tra Michael e Joice succederà qualcosa veeeero??? aspetto con anzia il prossimo!!
kiss [SM=x47938]

If you wanna make the world a better place take a look in yourself than make a change~Michael Jackson

'Cause nothin' lasts forever and we both know hearts can change and it's hard to hold a candle in the cold November rain~Guns n' Roses

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I'm just the pieces of the man I used to be,too many bitter tears are raining down on me~Queen

And I will love you, baby Always and I'll be there forever and a day always~Bon Jovi

Come as you are,as you were,as I want you to be as a friend,as a friend,as an old enemy~Nirvana

Rock ’n’ roll ain’t noise pollution Rock ’n’ roll ain’t gonna die~ACϟDC

There's a lady who's sure all that glitters is gold and she's buying a stairway to heaven~Led Zeppelin
14/06/2010 14:44
 
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Re:
BEAT IT 81, 14/06/2010 13.17:

Il capitolo nuovo è bellissimo!!!!!!!!! Lo scherzo che Joy fa a Ryan e Mike è troppo divertente e la loro reazione pure. Io rimango convinta che fra Joy e Mike scatterà la scintilla, le emozioni già ci sono e anche l'Amore nell'aria ;-)))))) , sbaglio? Bravissima!!!!!! Aspetto già il capitolo nuovo ;-)))) . Baci Sara



Grazie di cuore, sono felice ti piaccia! [SM=g27838] Lo scherzo è stato unico di Joyce, e riguardo alla scintilla... Per il momento, non dico niente ;D Ma posso dire una cosa: il settimo capitolo sarà speciale! E con questo ti lascio i dubbi... [SM=g27828]
Bacioni!

marty.jackson, 14/06/2010 14.09:

bellissimoo!! lo scherzo di joice mi ha fatto morire dalle risate!! [SM=x47979] sono sicura che tra Michael e Joice succederà qualcosa veeeero??? aspetto con anzia il prossimo!!
kiss [SM=x47938]



Grazie Marty! [SM=g27819] Lo scherzetto è piaciuto molto anche a te, sono mucho felice [SM=x47979] Anche a te do la risposta di prima: non dico niente riguardo la situazione fra Michael e Joyce, ma... Be', il capitolo sette sarà importante per la nostra storia! ;D
Bacioni!

È difficile dir loro ciò che sento per te. Non ti hanno mai conosciuta, e non sanno come sei fatta. Come fanno a sapere il tuo mistero? Diamo loro un indizio.
Due uccelli sono su un albero. Uno mangia le ciliegie, mentre l’altro sta a guardare. Due uccelli volano nel cielo. Il canto di uno scende giù dal cielo come cristallo, mentre l’altro resta in silenzio. Due uccelli roteano al sole. Uno riflette la luce sulle sue piume argentate, mentre l’altro distende le sue ali invisibili.
Non è difficile capire quale dei due uccelli sia io, ma non riusciranno a capire chi sei tu. A meno che…
A meno che non sappiano cos’è un amore che non interferisce mai, che guarda da dietro, che respira libero nell’aria invisibile. Dolce uccellino, anima mia, il tuo silenzio è così prezioso. Quanto passerà prima che il mondo possa udire il tuo canto col mio?
Oh, come bramo quel giorno!


16/06/2010 22:29
 
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bellissimo, cosa aspetti a postare il capitolo sesto, perchè sono curiosa del settimo.... cosa ci sarà di cosi importante e poi qsta storia mi piace
baci





17/06/2010 14:26
 
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Re:
dirtydiana66, 16/06/2010 22.29:

bellissimo, cosa aspetti a postare il capitolo sesto, perchè sono curiosa del settimo.... cosa ci sarà di cosi importante e poi qsta storia mi piace
baci




Grazie dirtydiana66 :D Sposterò questo pomeriggio, adesso cerco di finire il settimo una volta per tutte :3 Bacioni!

È difficile dir loro ciò che sento per te. Non ti hanno mai conosciuta, e non sanno come sei fatta. Come fanno a sapere il tuo mistero? Diamo loro un indizio.
Due uccelli sono su un albero. Uno mangia le ciliegie, mentre l’altro sta a guardare. Due uccelli volano nel cielo. Il canto di uno scende giù dal cielo come cristallo, mentre l’altro resta in silenzio. Due uccelli roteano al sole. Uno riflette la luce sulle sue piume argentate, mentre l’altro distende le sue ali invisibili.
Non è difficile capire quale dei due uccelli sia io, ma non riusciranno a capire chi sei tu. A meno che…
A meno che non sappiano cos’è un amore che non interferisce mai, che guarda da dietro, che respira libero nell’aria invisibile. Dolce uccellino, anima mia, il tuo silenzio è così prezioso. Quanto passerà prima che il mondo possa udire il tuo canto col mio?
Oh, come bramo quel giorno!


17/06/2010 19:44
 
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18/06/2010 13:40
 
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CAPITOLO VI

«Davvero Michael Jackson ti ha invitato a Neverland? Quando?», mi chiese Len, spalancando gli occhi da sembrare più sconvolto che emozionato. «Come è successo? Non avrai mica fatto la figura della impertinente, spero...»

Era venuto a casa mia per parlarmi di affari, e dagli affari eravamo passati a quella discussione. Quasi una settimana era passata dal giorno in cui - a casa di Ryan - avevo visto anche Michael, e mi era sembrato giusto farlo sapere a Len; eppure Ryan non mi aveva ancora telefonato per darmi alcuna conferma del quando sarei dovuta andare là...

«Ancora è passato un anno da quando ci conosciamo, e tu hai questa opinione di me, Len» Sbuffai rassegnata, alzandomi dalla poltrona del mio salotto per raggiungere le grandi vetrate della stanza. Mi piaceva stare ad osservare il di fuori da quelle grandi finestre: mostravano la grande veranda e il giardino al di fuori, piscina inclusa. «E poi non so nemmeno se ci andrò...»

«Vuoi dire che dirai di no?», chiese Len confuso, non sapendo più che cosa aspettarsi dalle mie vaghe risposte. Io voltai il capo verso di lui, alzando un sopracciglio e un angolo delle labbra in un un’espressione tanto ironica quanto contrariata.
«Non ho detto questo», dissi mostrando un sorriso tirato. «Ryan non mi chiama da una settimana, il che mi fa intendere o che hanno cambiato idea riguardo l’invito, o che c’è qualche possibile impegno che non si può rimandare...», e con queste ultime parole mi riferivo chiaramente al signor Jackson.

Non c’era momento che mi chiedevo e richiedevo che cosa avesse pensato lui di me; quando meno me lo aspettavo, la sua immagine mi ripiombava in testa, regalandomi quei pochi ricordi dei nostri due incontri durati troppo poco e non tanto loquaci quanto avrei desiderato in realtà. Certo, era stata una fortuna incontrarlo per ben due volte, però la fortuna nei miei confronti non era mai compassionevole! In qualche irragionevole modo, pensavo che non l’avrei incontrato una terza volta.

Era importante per me la sua opinione, non sapevo nemmeno io il perché. Ero così curiosa di sapere che cosa avesse capito della mia personalità che facevo fatica a restare calma al pensiero che, se l’avrei rivisto di nuovo, non sarei riuscita a trattenermi dal chiederglielo. Ma qualcosa – sperai mi sbagliassi – mi diceva che non lo avrei incontrato così presto come speravo. Avrei dovuto mettermi il cuore in pace e lasciare che il tempo scorresse, prima di avere un’altra possibilità come quella.

Che cosa mi portava a pensare quelle cose? Il fatto che Ryan era puntuale, con le sue chiamate, nell’avvisarmi di qualcosa di importante come quello. Eppure, in quei giorni in cui l’avevo sentito, non mi aveva benché minimamente accennato dell’appuntamento al Neverland Ranch, né il giorno, né la data, né l’ora... Niente di niente.
Era possibile che notasse la mia irrequietezza nella voce ogni volta che parlassi con lui, perché tentavo sempre all’opportunità di fargli quella dannatissima domanda: “Ryan, allora quand’è che andremo a Neverland?”. Ma io non ero così maleducata da chiederlo, anche se dentro provassi una grande dose di adrenalina e attesa che non potevo colmare col silenzio. Credetemi quando dico che non ero mai stata così impaziente in tutta la mia vita!

Len rimase ancora seduto sul divano, fermo immobile, con una mano adagiata all’appoggio sinistro dell’enorme sofà nel quale era adagiato, tenendo gli occhi sbarrati ancora per un po’ di secondi. Evidentemente mai si sarebbe aspettato una fortuna del genere, sembrava sbalordito, anche se era troppo presto per dire quale fosse la sua opinione precisa su quella faccenda; non che me ne importasse un granché, anche perché volente o nolente, se l’opportunità ci sarebbe stata, avrei detto sì mille volte, anche se non era d’accordo!

«Sei davvero sicura? Sì, insomma, è Michael Jackson... Non so se ti rendi conto...», borbottò impettito, aggrottando percettibilmente le sopracciglia. Mi venne da ridere alla sua affermazione: se sapevo io chi era? Mi stava prendendo in giro, non c’era alcun dubbio.

«Oh, ehm, , me ne rendo conto! Michael Jackson, nato a Gary, Indiana, il 29 agosto 1958, famoso già da bambino per esser stato membro dei Jackson 5 assieme ai fratelli, che lo rese famoso ed un vero e unico talento fin da piccolo; successivamente, anni dopo, intraprese la carriera solista, creando celebri album come “Off The Wall”, “Thriller” e “Bad”. Difatti, “Thriller” è tutt’ora l’album più famoso che creò, con famosi singoli come lo stesso “Thriller”, “Beat It” e “Billie Jean”, che gli dettero una fama incomparabile ad altri. Negli anni scrisse anche una biografia, “Moonwalk”, e anche un film di sua creazione fantastica, “Moonwalker”. La Moonwalk è un suo famoso passo di danza che lo rese celebre in tutto il mondo e...»

«Ok, ok...», disse Len, spalancando le mani a mo’ d’arresa, un po’ sbigottito. «Ho capito l’antifona... E’ chiaro che sai molto bene chi è Michael Jackson, su questo non ho dubbi...».
Sorrisi.
«Ma lo sai anche tu delle tante cose che vengono dette su di lui? Il fatto del cambiamento del colore della pelle, la camera iperbarica...»

Tac! Era arrivato proprio dove volevo non arrivasse.
«Sì che so di queste cose», dissi diventando d’improvviso seria in volto, mentre un fastidio represso vagava vorticosamente nel mio stomaco. «E so anche che queste cose non sono vere. Tutti e due sappiamo che cosa può fare la stampa, dato che non dicono stupidaggini solo di lui... Se forse non hai letto i giornali, cominciano a spuntare sentenze ridicole anche su di me...»

Len sbarrò gli occhi a quella notizia, diventando più paonazzo in volto. Probabilmente non aveva letto i giornali come me, e non aveva letto le prime cazzate che venivano dette sul mio conto. Un esempio, era il fatto che avevo intenzione di acquistare un famoso diamante del valore di ben 20 milioni di dollari. Figurarsi. Che cosa me ne facevo io poi di quel diamante? Lo rompevo, ne facevo gioielli, e poi creavo una gioielleria? Piuttosto avrei speso quei soldi per darli a chi ne aveva <i>davvero</i> bisogno!

«Ma non è questo il punto», disse lui, come a giustificare più me e meno lui. «Insomma, non sai che persona è. Potrebbe essere un pazzo, o uno squinternato... Io non mi fido molto, sinceramente, Joy... Sarei un po’ preoccupato».

Il suo tono era così accusatorio e allo stesso tempo difensivo che mi fece accapponare la pelle dal malessere di quelle parole. Mi dava fastidio sentire quelle parole su di lui, e non solo perché ero fan di Michael: non mi piacevano quelle cose, quelle parole dette così, senza nemmeno conoscerlo! Io non giudicavo Michael a tal modo... Perciò, cercai di controllare la mia voce e ripresi con un tono più calmo di quanto dessi a vedere.

«Io non lo sarei, Len. Mi dispiace, ma io non vedo proprio di che hai da preoccuparti! Avanti, mica mi mangia! Anzi, io sono 100 volte – ma che dico, un milione di volte! – più propensa a credere a Michael Jackson che a tutti i giornali del mondo! Non vedo perché non dovrei andare», poi, dopo una piccola pausa, continuai. «Me lo dici sempre, no?, “Joy devi provare, altrimenti non lo saprai mai!”. E io infatti, se me lo chiederà, andrò a Neverland tutte le volte che vorrà!»
«Joyce, non è questo che intendo...», ma lo bloccò la suoneria del mio telefono prima di dire qualche altra parola. Lo presi dal comodino accanto al divano e vidi dal nome sulla schermata che era Ryan. To’, la casualità del destino, no?

«Scusa, devo rispondere. È Ryan», e così dicendo, con un cenno del capo di scuse, accesi la comunicazione telefonica. In realtà, non ero affatto dispiaciuta per quella interruzione: non mi andava di discutere con Len, soprattutto di quel argomento che mi rendeva abbastanza irascibile.

«Joyce?», chiese una voce piccola e mite, quasi avendo paura di essere indiscreta. Sorrisi, avanzando verso le grandi vetrate di vetro e aprendone una con un gesto rapido del polso, facendo scattare la serratura della manipola in un colpo solo.
«Sì, Ryan, eccomi. Scusa se non ho potuto rispondere subito, ma non trovavo più il telefono...», dissi inventandomi una bugia sul momento. Se avesse saputo la realtà dei fatti, avrei causato qualche domanda alla quale non volevo chiaramente rispondere. Scoccai un’occhiata a Len, il quale a parole mute mi disse che doveva andare; annuii soltanto, lasciandolo uscire dalla sala, mentre io mi dirigevo fuori nella veranda.
«Oh ok. Senti, volevamo avvisarti, io e Michael, se domani potessimo andare tutti e tre a Neverland, come avevamo proposto tempo fa». Due attimi di silenzio. «Ovviamente se per te non è un disturbo».

Ebbi un fremito. Qualcosa nella mia testa – forse una lampadina di avviso – s’accese, procurandomi uno strano dubbio in testa a cui non volevo in realtà vederci chiaro. Aveva usato il plurale, primo di ogni cosa, e inoltre quei pochi secondi di silenzio erano stati decisivi. Ero brava ad usare l’intuito, soprattutto quando mi decidevo ad ascoltarlo, e qualcosa mi diceva che con Ryan ci fosse anche qualcun altro.

«C’è lui con te?», chiesi a voce quasi mancante.
Subito dopo aver enunciato quella domanda mi sentii arrossare dalla consapevolezza di aver fatto la figura dell’idiota e mi morsi il labbro inferiore nervosamente. Che cosa avrebbe significato quella domanda? Che mi interessava forse sapere se anche anch’egli era lì con lui? Se avrebbe sentito, chissà che figura di...
«Sì, c’è anche lui con me!»
...Ecco, per l’appunto. Sperai non...
«Metto il vivavoce, aspetta!»
Perfetto. Volevo pregargli perché non lo facesse, ma in contemporanea ringraziai il cielo perché non avesse sentito le mie parole e il mio silenzio imbarazzante! Feci un sospiro inudibile, mentre mi accorsi che stavo passeggiando avanti e indietro per il porticciolo come un’emerita imbecille! Neanche fosse una conferenza stampa!

«Ecco fatto!», disse Ryan poco dopo alcuni maneggi del telefono, fino ad arrivare al benedetto tasto del vivavoce. Ohsacrosantoiddio... Joy, mi dissi, stai calma e non agitarti! Ti agiti più in una conversazione telefonica che nel vederlo davanti ai tuoi occhi? Forse è questo l’effetto della lontananza post traumatica...
«Ad ogni modo», disse l’interlocutore al telefono, con fare più disinvolto di me – su questo non c’era dubbio! «Se ti andrebbe bene, potremmo vederci verso le due del pomeriggio a Neverland; Michael ha detto che per lui non c’è alcun problema, che ci farà visitare tutto il ranch se vorremo! Che ne dici?»
«Nessun problema!», esclamai cercando di sembrare più tranquilla e serena possibile, portandomi una ciocca dei miei capelli lisci e castano chiaro dietro l’orecchio sinistro. Il mio sorriso a trentadue denti, se qualcuno soltanto lo avrebbe visto, avrebbe dato una netta sensazione di sconcerto. Si sarebbe pensato “Sicuramente questa si è fatta di eroina”.
«Oh, ehm...», dissi poi, stringendo le labbra in un sorriso percettibile e timido. «Grazie ad entrambi, a te Ryan, e anche a te, Michael...»
Cavolo, cavolo, cavolo... Avevo detto quelle parole senza neanche pensarci su, come se fosse la cosa più naturale del mondo, rendendomi poi conto delle conseguenze: avrei sentito la sua voce!
«Grazie a te, Joyce», sentii una voce fioca e lieve rispondere al ringraziamento. Non c’era bisogno di tante riflessioni e richiami mentali per capire chi potesse essere. «Grazie mille per aver accettato...!»

Le mie gambe divennero quasi due stoccafissi non appena sentii pronunciare il mio nome, e, in egual modo, io ad essere riuscita ad enunciare il suo. In contemporanea, mi resi conto che quella era la prima ed effettiva volta che ci avevamo chiamati per nome, in tutte le occasioni che avevamo avuto a disposizione. I miei occhi si paralizzarono nel vuoto, immaginando di vedere gli occhi dell’altro. Stavo diventando troppo ossessionata... Pure troppo di quanto già lo ero come fan!

«A domani Joy, a Neverland», rispose Ryan, interrompendo il piccolo silenzio che si era formato nel frattempo. Io sorrisi, ancora un po’ frastornata.
Ci vediamo», dissi un po’ impacciata, per poi aspettare che fossero quegl’altri due a buttare giù la conversazioni per primi. Quando lo fecero, subito dopo feci lo stesso con il mio telefono; senza neanche guardarlo, ancora poco distante dall’orecchio dove lo avevo tenuto appoggiato, lo chiusi meccanicamente con scatto rumoroso.

***

Quando scesi dall’auto nera non avevo abbastanza controllo di me stessa per misurare le mie emozioni. Era troppo bello per essere vero, e troppo vero per essere un’illusione. Ero nel posto dove avevo sempre sognato andare, dove i bambini potevano essere loro stessi con la loro semplicità e meravigliosa innocenza.
Quella era l’Isola che non c’è. La Neverland di Michael. L’Isola dei bimbi sperduti e di Peter.

Erano le due precise quando arrivai ma mi ci vollero parecchi minuti perché fossi nelle mie piene facoltà mentali e non. Tuttavia, lo incredulità di quel paesaggio aveva preso il posto dell’eccitazione per essere là; se in macchina, attimi prima, ero stata sull’orlo si scoppiare ad urlare dall’emozione, poco dopo mi ero ritrovata senza parole e non “urlante” come presumevo sarebbe stato fattibile.

Rimasi con una mano appoggiata alla portiera del guidatore – visto che avevo pensato di venire da sola, senza essere scortata da guardie del corpo e manager – mentre con l’altra mi apprestavo a togliere gli occhiali da sole, come se cercassi di vedere meglio quello che c’avevo davanti, agganciandoli per un bottone della camicia. La giornata era una delle più soleggiate che avessi mai goduto in pieno Marzo a LA e il caldo non tardava ad arrivare: perciò, per l’occasione, mi ero vestita in modo fresco e sobrio, con un paio di jeans chiari lunghi fino a poco più del ginocchio e una camicia di seta a mezze maniche, arancione, un po’ sbottonata, lasciando intravedere a malapena la scollatura. Nonostante l’abbigliamento abbastanza primaverile-estivo, ero stata prudente nel decidere di indossare bianche scarpe da ginnastica. Non mi ero truccata chissà ché né pettinata alla perfezione, mi ero solo messa la matita nera e legati i capelli in una coda fatta alla bel meglio.

Una stradina di piccoli sassolini divideva la strada in tre diverse direzioni, c’erano maestosi alberi tutto intorno e già l’accoglienza ai cancelli sembrava una delle più belle avessi mai ricevuto. Ero entrata dentro Neverland, lasciando sempre più posto alla meraviglia che alla confusione, calorosamente invitata a lasciare la mia auto in mano a due inservienti, che mi dissero l’avrebbero portata in un posto meno confusionale di quello e più tranquillo, fino a quando non avrei deciso di andarmene.
Entrambi si presentarono, mi sorrisero cordiali e furono gentilissimi nel rivolgermi parola; no atti di superbia, no atti da snob, niente che potesse sembrare irrispettoso.

Si chiamavano uno Jack e l’altro Edward: il primo aveva capelli corti, chiari, occhi nocciola, mentre il secondo aveva capelli castano scuro e occhi scuri; entrambi dovevano essere sulla trentina, pressoché. Detti a Edward le chiavi della mia auto, lasciandogli la libertà di portarla nel parcheggio dove avevano accennato prima, in un luogo di cui sapevano solo loro dove fosse, e con Jack mi diressi nel luogo nel quale Michael e Ryan mi aspettavano.
I due – mi disse Jack – mi attendevano poco meno da cinque minuti di anticipo, poco più in là del centro benvenuti.

Mentre camminavamo però ero molto più propensa a guardarmi in giro piuttosto che ascoltarlo; ovviamente annuivo diligente con il capo, mostrando una faccia interessata da buona e brava ascoltatrice, ma in realtà metà delle frasi che mi rivolgeva entravano da un orecchio e si perdevano nella stupefazione che aleggiava nella mia testa, scomparendo poi come polvere sottile.

Neverland era una distesa immensa, un vasto territorio collinare, e sapevo che quello che stavo vedendo in quel momento non era niente in confronto a quello che poi avrei osservato. Passeggiavamo su una stradina di piccoli ciottoli di sassi, il verde era un colore tipico del paesaggio, tutto il ranch era pieno di alberi, e migliaia di statue di bambini di bronzo e ottone rendevano tutto l’ambiente più meraviglioso e strabiliante ai miei occhi.
Non c’era stradina dove non ne trovassi una, e tutte raffiguravano scene o immagini diverse e dal significato profondamente misterioso.

Dopo circa una decina abbondante di minuti – sebbene per me il tempo si fosse fermato non appena avevo passato oltre il confine dell’entrata al ranch – Jack ed io arrivammo ad un altro incrocio di strade, nel quale si trovavano anche gli altri due con i quali avevo appunto un appuntamento. Li vidi da lontano, entrambi propensi a parlare, e appena decifrarono anche loro la mia presenza sorrisi.

Abbassai inizialmente lo sguardo, ogni metro che si riduceva fra me, Ryan e Michael sentivo mi procurava un brivido lungo la schiena, austero e dirompente, e arrossii di poco sulle gote. Se proprio avrei dovuto spiegare perché ero così scarlatta, avrei inventato la scusa del caldo, ma pensai che sarebbe stata davvero poco credibile.
Soprattutto se incrociavo i suoi occhi. Anche se fossimo distanti di alcuni metri oramai, gli avevo già fatto il check-up completo – come anche lui del resto!

Lui. Michael. Era bellissimo, estremamente carismatico, come sempre. Portava pantaloni neri, camicia rossa – chissà come mai, ma in quel periodo pensai che nel suo guardaroba ci fosse solo il colore rosso e nero –, un cappello dei suoi nel capo, mocassini neri classici, e i miei tanto amati Ray Ban agganciati alla camicia che lo facevano sembrare sempre e sempre più figo! I lineamenti del viso e del corpo in sé lo facevano sembrare una di quelle statue che creano solo i grandi artisti, una volta solo così nella loro vita creativa, una di quelle che si possono definire “una su un milione”. Il suo sorriso più mi avvicinavo più cominciava a risplendere, un misto fra imbarazzo e entusiasmo, di una brillantezza capace di accecare perfino i raggi del sole che lo aiutavano a scintillare.

Sapevo che lui mi aveva fissato, studiato come le precedenti volte che ci eravamo incontrati, ma feci finta di niente, sentendomi nonostante la mia temerarietà osservata a tal punto da inciampare sui miei stessi piedi. Perché niente mi metteva in subbuglio, nessuno mi rendeva meno la mia spontaneità nei movimenti e nei pensieri se non lui. Ero stata davanti a milioni e milioni di persone, avevo incontrato alcune persone davvero importante in quei quasi due anni di carriera, ma non mi sentivo mai in soggezione. Malgrado ciò lui era colui che dava l’eccezione alla regola di routine.

Arrivai accanto a loro e, proprio mentre credetti che il mio respiro stesse per cessare in gola, Ryan mi rivolse la sua dolce voce assieme ad un sorriso felice. Probabilmente però mi voleva solo aiutare a iniziare il discorso.
«Finalmente, Joy! Sono felice che tu sia qui! Sei in ritardo però di una abbondante decina di minuti...», mi disse con voce camuffata da finto rimprovero. Io distolsi lo sguardo da Michael, colui che per qualche istante aveva invaghito i pensieri della mia mente, facendo finta di niente e atteggiandomi come al solito.
«In realtà sono arrivata in perfetto orario, ho guardato l’ora, ed erano le due e dodici secondi esatti quando sono entrata dentro i cancelli di Neverland!», risposi con orgoglio divertito. Poi soffocai un sospiro. «Mi sono solo persa nelle meraviglie di questo paesaggio...»
Così dicendo rivolsi i miei occhi di nuovo a Michael, il quale mi osservava sempre con occhi osservatori ma con una punta in più, questa volta, di luccichio in essi. Mi sentivo in dovere di dargli i miei ringraziamenti, soprattutto perché essi erano sinceri e senza alcuna presenza di ipocriticità.
«Grazie per aver deciso di far venire anche me in questo luogo, non ho parole, ho fatto solo pochi metri e ne sono ancora abbagliata!... Ti sono grata per la grande premura per aver deciso di avermi invitato, ancora».

Sapevo che il mio sguardo si sarebbe illuminato a quelle parole, ma non m’importava molto. La grande gioia per essere là e i miei grazie a lui erano infiniti, perché mai mi sarei aspettata un tale e così gentil gesto da una persona che neanche mi conosceva bene per quella che ero.
Pronunciando quelle frasi di gratitudine mi ero guardata intorno, sorridendo, e spalancando un po’ le braccia a mo’ di arresa a quell’incantevole Isola che non c’è. Anche i suoi occhi s’illuminarono di più, mostrando un senso di timidezza e allo stesso tempo esultanza per il mio giudizio. Il suo sorriso si fece allora molto più grande di quello precedente.

«Oh, no, non ringraziarmi!», disse con voce teneramente candida. «Sono contento che questo posto ti possa piacere così tanto, ma non hai ancora visto nulla! Ci sono una varietà enorme di svago e divertimento... Spero davvero che alla fine questa giornata ti possa essere soddisfacente...»
Le sue gote s’arrossarono allora riservate, lasciando posto ad una speranza nella sua espressione che era lo specchio del desiderio di volermi far contenta. Intuii che non aveva intenzione di deludere le mie aspettative, e gli schioccai un’occhiata che desiderava intendere che lo ero già con così poco.
«Appunto!», intervenne Ryan, prendendomi la mano e sviandomi dal intenso momento psichico con Michael, gettandogli uno sguardo d’attesa. «Michael mi aveva promesso che ci avrebbe portato a fare un giro col treno, e che poi ci avrebbe fatto provare alcune delle sue giostre...»
«Ma che aspettiamo?», esclamai ironicamente, alzando la mano libera, al posto di quella che già tenevo stretta a quella di Ryan. «Voglio proprio vedere tutte queste bellezze! Non ce la faccio più a rimanere qua, sotto il sole cocente. Ma, ehm... Treno?»

Rivolsi uno sguardo abbastanza confuso a Michael, come a chiedergli spiegazioni, ma lui semplicemente sorrise, con le braccia conserte, fissando Ryan in attesa che avesse proprio lui l’onore di spiegarmi la situazione a me indecifrabile. L’altro non esitò un solo secondo.

«Sì, proprio così!», e mentre spiegò c’incamminammo verso il posto predestinato. «C’è, dove siamo diretti adesso, una piccola stazione ferroviaria – hai presente i trenini quelli del Luna Park, no? Ecco, tipo così è. In pratica con quello daremo “un’occhiata” all’ambiente, fino ad arrivare al punto nel quale scenderemo, che sarà appunto il luogo dove si trovano la maggior parte delle giostre del Ranch. Ho spiegato bene, Michael?», chiese infine, dopo quella lunga e dettagliata spiegazione, fissando l’amico sorridente.
«Perfettamente direi!», disse Michael orgogliosamente soddisfatto, portandosi gli occhiali da sole davanti agli occhi. Forse incondizionatamente, mi apprestai a fare quel gesto anche io, sorridendo tutta allegra per quella mia avventura del pomeriggio.

A passi tranquilli ci dirigemmo pian piano verso la stazione, a volte parlando del più e del meno, a volte restando nel silenzio più pacifico e mai imbarazzante che si potesse mai immaginare; spesso era Ryan a tirare fuori le parole dalla nostra bocca, raramente io o Michael, forse per timidezza da parte sua e attrazione del ranch da parte mia, ma quando arrivava il momento di ammirare qualche cosa in particolare del posto vicino e io ero la prima a esclamare “Noo che belloo!”. Proprio come una bambina in un negozio di giocattoli! Entrambi se la ridevano di gusto vedendo il mio volto brillare e i miei occhi spalancarsi alle meraviglie tutto intorno, soprattutto se questi trattavano decorazioni floreali.

Una cosa che non si potesse dire di Neverland, era che non possedesse fiori o giardini pieni di colori accesi e maestosi. Io avevo sempre amato i fiori, ogni tipo senza eccezioni, fin da quando la mia giovane memoria poteva ricordare. Per me vedere tutti quei colori era uno spettacolo di luci ed emozioni dalle tonalità più scure alle più chiare, ed ogni sguardo ad essi suscitava in me un soffio al cuore e un volto da completa imbecille!

Stava di fatto che quei due se la ridevano di gusto, così di gusto che mi incitavano con il dito indicandomi ogni cosa nuova ai miei occhi. Mi sentivo trattata come una bambina piccola, ma in fondo lo ero. Come non si poteva non esserlo in un mondo come quello? Anche Ryan e soprattutto Michael cominciarono a sciogliersi nella delicata bellezza dello svago infantile, trasformando il nostro trio in un gruppo di bambini divertiti e stupefatti.
Solo stando al ranch, le persone potevano capire la vera bellezza del tornare piccoli: chi non viveva quelle emozioni, forse non sarebbe stato in grado di capire realmente a fondo quanto è bello essere bimbi.
Dimenticai perfino il senso di timidezza verso Michael, il quale scordò anche lui stesso, rivolgendomi calde occhiate e sorrisi di enorme divertimento e gioia. Era in quei momenti là che mi sentivo libera di essere me stessa.

La camminata durò molto più presto di come me l’ero immaginata - sebbene avessimo fatto un gran pezzo di strada infinito e avessimo passato tre buoni quarti d’ora per arrivare alla stazione centrale - ma il tempo quel giorno non era destinata ad esistere. Con il trenino attraversammo quasi metà di Neverland - impiegando quasi una mezz’oretta e forse più, visto la velocità con cui ci dirigevamo - fino a quando non si fermò alla zona giostre: per me, quella era una delle zone più belle di tutto il vasto territorio!

Attrazioni d’ogni tipo, dalla ruota panoramica ai seggiolini volanti, dai caroselli agli autoscontri; maestose costruzioni che riportavano ogni adulto, anziano o bambino che sia alla bellissima infanzia, dandoti quelle emozioni che solo da piccoli si possono provare.
Ero nel mondo dei sogni, pensai all’inizio, e non era possibile che ogni cosa lì fosse veramente reale. Io non potevo essere là, ma, fin quando il sogno sarebbe durato, me lo sarei vissuta con tutta l’anima.

«Joyce, hai visto?», mi chiese Ryan, anche lui eccitato, stringendo la mia mano sempre più forte – stretta che io ricambiai con altrettanto furore. Io sorrisi, ma ero troppo accecata dallo sbalordimento per distogliere gli occhi da tutte quelle meraviglie.

«E’ stupendo...», seppi solo dire, dando conferma che le mie emozioni erano reali. Mi venne perfino da piangere e il perché io lo sapevo; qualcuno avrebbe detto che era una cosa superfluamente ovvia, ma invece no: era emozione nostalgica e soffocante che si liberava nell’aria come un peso soffocante dal mio cuore.

Io tutte quelle cose non le avevo mai potute godere, ma solo sentite raccontare o viste nelle fotografie. Io in un Luna Park o alle giostre non ci ero mai andata. Mai. Le avevo sempre osservate da lontano, come se io fossi stata per tutto quel tempo rinchiusa in una gabbia, senza aver perciò avuto la possibilità di godermi la loro stupenda magnificenza. Nella mia infanzia non c’erano stati parchi divertimento, ma i miei sogni infantili erano governati da essi. C’era un motivo per cui non ci ero mai stata. Il motivo era la famiglia, il mio passato... Un’infanzia così gelida e deserta da non desiderare l’invidia di nessuno, ma solo costernazione e finta desolazione.

Lasciai che quel peso se ne volasse via assieme al mio stesso respiro, in aria, libero finalmente, lasciandolo trasformare in un misero cumulo di polvere invisibile. Il blocco di non essere mai stata in un posto come quello se ne era andato, ma sapevo che solo tornata a casa le lacrime si sarebbero fatte sentire.

«Allora, quale sarà la prima giostra su cui andremo?», chiese Michael, destandomi di colpo dai malinconici pensieri che mi avevano sfiorato la mente. Lo guardai e capii quanto anche lui potesse essere felice della nostra compagnia; era così contento che ne rimasi impressionata. Il suo volto sprigionava tutta la chiara felicità che provava dentro e io, ovviamente, non potevo non esserne abbagliata.

Io e Ryan ci guardammo.
«Io direi di scegliere una giostra ciascuno, uno alla volta...»
I due annuirono.
«Parti tu, Ryan? Quale sarà la nostra prima giostra del pomeriggio?», domandai con un sorriso.
«Mmh...», ci stette un po’ a pensare, guardandosi intorno con le labbra stirate in un’espressione pensierosa. «Facciamo prima il carosello, quello là!»

E la prima giostra fu quella. Ogni momento me lo vissi a pieno, soprattutto in quella costruzione così bella e ben costruita, che ne osservai ogni singolo dettaglio fotografandolo nella mente. Salii su un bianco cavallo, mentre Ryan e Michael decisero di prendere assieme una carrozza. Osservai spesso senza farmi vedere quei due parlare, seri, sottovoce – anche se non avrei potuto sentirli comunque, visto la musica da carillon che ci circondava -, e mi chiesi che cosa avessero tanto da bisbigliare. Ammetto di essere stata leggermente gelosa, di entrambi, ma ero troppo impegnata a divertirmi piuttosto che a farmi ambigui pensieri di possessività.

Finito il giro in quella meravigliosa giostra fu Michael a scegliere. «Proviamo lo “Spider”, vi va?»
«Ehm... Qual è lo “Spider”?», domandai ingenua e senza capire a quale si riferisse.
«Quello là!», disse, indicando quel grande marchingegno nero che dava tanto l’impressione di assomigliare veramente ad un ragno. Era enorme, c’erano circa dodici cabine che giravano su sé stesse, in aria, a volte abbassandosi e altre alzandosi fino in alto nel cielo.
«Andiamo!», esclamò Ryan correndo subito verso essa, seguito da Michael e infine da me.

Mentre però i due non vedevano l’ora di salire, io ne rimasi al momento titubante. Non avevo mai provato una cosa del genere, perciò non sapevo nemmeno se dopo mi sarei sentita male o meno. Da una parte avevo paura – a vederlo da vicino sembrava una cosa quasi gigantesca! – ma dall’altra non vedevo l’ora di provarci.
Ma sì, mi dissi, non penso che starò male.
Infatti non mi sentii male, se non peggio!

Inizialmente ero eccitata nel fare quello che stavamo per fare; il ragno, una volta saliti, cominciò ad alzarsi in aria, muovendosi pian piano per poi diventare sempre più veloce! Giravi su te stesso senza capire bene che diavolo stessi facendo, lasciando cadere ogni pensiero che non fosse quello di smettere di girare fino a farti venir da vomitare!

Non so come facemmo a stare in tre su una cabina da due, ma ci stemmo. Risi come una matta, assieme a Michael e Ryan che mi seguivano a ruota – Michael per di più con la sua risata mi contagiava, portandomi al più totale mal di pancia da riso che potessi aver mai avuto! – e fin quando non scesi potei definirmi ok. Quando invece toccai per terra, scesa dalla cabina, i giramenti di testa mi sballarono completamente il cervello.

Lasciai scendere prima loro e per ultima scesi io, nonostante la testardaggine di Michael volesse che scendessi io per prima. Un inserviente dovette prendermi per un braccio per far sì che non perdessi immediatamente l’equilibrio, il quale preoccupato mi chiese come stessi. <br>Soffocai parole confuse e determinate al meglio, dicendo “tutto ok, tutto ok”. Invece sentivo la testa girarmi, un mal di testa improvviso offuscarmi la vista, mentre il mio stomaco vuoto richiamava silenziosamente la mia attenzione trasandata.

Ryan e Michael fecero qualche passo avanti di me ignorando il mio stato di salute, fin quando d’improvviso Michael si voltò verso di me. Il suo sorriso allegro scomparve e prese posto un’occhiata preoccupata e spaventata.
Tutto bene, Joyce, mi richiamai mentalmente, di che va tutto bene...
Istintivamente poco dopo si voltò anche Ryan, quest’ultimo divenne subito inquieto.

«Joyce!», mi chiamò Ryan, venendomi incontro assieme all’altro. «Che cosa c’è? Non stai bene?»
Ingoiai la saliva prima di rispondere a tonalità udibile. «Sì... Sì, sì... Non preoccupatevi, solo un lieve giramento di testa, mi passa, mi passa...», ma in realtà era come se stessi cercando di convincere me stessa.
«No, Joy, non stai bene! Sei... Sei pallida!», esclamò un po’ spaventato. Guardò Michael, come a chiedergli “Cosa facciamo adesso?”, e lui mantenne uno sguardo serio e intimorito, non distogliendo gli occhi dai miei perennemente abbassati al terreno sotto i miei piedi.
«Ryan, vai a prenderle qualcosa da bere nel bar, quello in fondo. Io intanto la porto in una panchina...», quando a quelle parole alzai gli occhi, lui mi rivolse un’occhiata teneramente comprensiva. «E’ meglio che ti siedi un momento, su una panchina all’ombra, che ne dici?...»
«No, no, davvero! Sto bene, non ho bisogno di...»

Stetti per fare un passo indietro ma mi bloccai, sbattendo gli occhi e poi sentendo l’equilibrio mancare sotto i piedi. Mi sentivo la testa scoppiare dal senso di vuoto, ma prima che cadessi all’indietro entrambi furono veloci da prendermi ognuno per un braccio. Rimasi per un istante abbondante fissa sul pensiero delle mani di Michael, una che mi teneva il braccio e l’altra nascosta dietro la mia schiena. Non arrossii perché per mia fortuna non ne avevo le forze.

«Tu non stai affatto bene, Joyce...», mi disse sofficemente Michael, mentre continuò a guardarmi con occhi premurosi.
«Vado a prenderti subito un tè freddo, va bene Joy?», mi chiese Ryan, nel frattempo che io gli annuii fissando il vuoto. Subito egli corse via verso un bar lontano – la luce mi accecava gli occhi non protetti dagli occhiali da sole.
«Ce la fai a camminare un po’?», domandò Michael stringendomi a mala pena il braccio in una presa più ferrea.
«P-penso di sì... Sarà la gravità, forse... A farmi venire questi mancamenti d’equilibrio...», risposi con tutta l’intenzione di sembrare più "ripresa" dalla situazione, in cerca di chissà quale scusa per sorvolare il mio stato di salute.
«Mmh...», sentii soffocare lui in un sospiro sospeso. Gli rivolsi i miei occhi incuriositi, un po’ vaghi a causa del mal di testa, mentre lui sembrò assorto per qualche secondo nelle sue riflessioni.

Di nuovo all’improvviso sentii la terra sotto i piedi mancarmi, tanto che legai forte le mie mani strette alla sua camicia rossa nel tentativo di non cadere giù, chiudendo gli occhi. Invece poco dopo mi accorsi che mi stavo muovendo, senza toccare per terra, e li riaprii di scatto. Guardai il basso e m’accorsi che Michael mi teneva fra le sue braccia, come se fossi una libellula. Mi stava portando in braccio fino alla panchina. Non osai guardarlo in viso, al momento non seppi dire qualcosa di sensatamente corretto e giusto da pronunciare.

Era bello stare in quella posizione, soprattutto perché non mi aspettavo sarebbe riuscito a tenermi su senza grande fatica. Io non ero proprio una piuma, ero di corporatura giusta, almeno finché non mangiavo troppo. Dovevo stare attenta alla mia linea, perché se mangiavo qualcosa che mi faceva male tendevo a buttare su qualche chilo che mi avrebbe pesato forse più sulla coscienza che sul mio corpo!

Inoltre, al mal di testa s’aggiungeva il batticuore. Per capirmi, bisognava provare a essere fra le braccia di Michael! Mi consolai con il gusto di sentirmi fortunata per quell’evento, ma in contemporanea sentivo il cuore battermi in petto come un forsennato. Lui mi stava portando in braccio? Sogno troppo bello per essere vero, neanche fra un centinaio di anni avrei immaginato che quello stava capitando proprio a me! Lui era il mio idolo fin da quando ero piccolissima, da adolescente e anche in quel periodo; essere in tal situazione - con il suo volto poco distante dal mio, il suo respiro soffice sfiorarmi, il suo profumo invadermi dentro -, era tanto incredibile quanto sbalorditivo!

«Ecco... Adesso ti appoggio giù...», disse lui a voce fioca, mettendomi delicatamente seduta su una panchina all’ombra di un grande albero. «Vieni, distenditi dritta...», continuò pochi istanti più tardi.
Avevo ancora la fronte corrugata dal mal di testa e la pelle d’oca dovuti al suo tocco soffice sulla mia pelle, ma in compenso quel senso di svenimento era più o meno passato.
«Non ce n’è bisogno, credimi...», soffocai lieve, guardandolo esitante. «Mi sento già molto meglio anche seduta...»
Ma lui scosse la testa, piano ma deciso. «No, sei ancora debole! Distenditi», m’ordinò con voce totalmente soave.
«E tu? Dove ti siedi? Davvero... Sto bene ora!», esclamai decisa. Eravamo due testardi entrambi. Non ero affatto propensa a rinunciare alle mie idee! Ci fissammo intensamente negl’occhi e a lui venne da sorridere.
«Non riuscirai a spuntarla...», e mi fece un cenno del capo per incitarmi a stendermi. «Mi siedo qua a terra, guarda!», disse sedendosi a terra, con le gambe incrociate come un bambino. «Ora distenditi, non voglio che tu stia male!»
Un altro lungo sguardo intenso, lui sorridente e io pensierosa. Sbuffai, alzai gli occhi al cielo e feci una strana smorfia con le labbra... E mi arresi. Odiavo perdere, ma siccome ero stata colpita dalle sue parole decisi d’assecondarlo.

Portai le gambe sopra la panchina e, accompagnata dalle mani di lui a reggermi il capo, mi stesi pian piano e lasciai il mio corpo adagiarsi al cemento fresco. I miei occhi fissarono l’alto, osservando i raggi del sole che attraversavano non omogeneamente le foglie dell’enorme albero. Rimasi incantata da quel gioco di luci e ombre per un po’ di tempo, fin quando il “sesto senso” mi spinse a fissare Michael, sentendo a pelle il suo sguardo su di me.

«Ti viene da rimettere?», mi chiese non spostando lo sguardo dai miei occhi. Quasi incantata dissentii col capo.
Lui annuii piano, si umettò le labbra e abbassò quelle infinite e intense profondità scure che mi guardavano. Quasi fossimo d’accordo, in contemporanea abbassai gli occhi anche io. Era così tenera la sua preoccupazione nei miei confronti che mi faceva arrossire, così tenera quanto adorabilmente dolce.

«Mi dispiace di averti causato questo contrattempo...», dissi mordendomi il labbro inferiore. Davvero mi sentivo in colpa! «Non era mia intenzione, è solo che...»
«No, non chiedere scusa!», esclamò lui dolce, sorridendo amabile, per poi farsi di nuovo serio. «La colpa è mia, se solo avessi saputo che questo era l’effetto che aveva su di te quella giostra non l’avrei nemmeno proposta...»
«Non potevi saperlo...», dissi stringendo le labbra in un sorriso stirato. «E nemmeno io, d’altronde...»


Non doveva chiedere scusa lui al posto mio. Se fossi stata intelligentemente più cauta, avrei detto la verità dicendo che non ero mai stata in un parco giochi come quello e che non sapevo perciò che effetto potesse avere lo “Spider” su di me e sul mio organismo! Invece ero stata impulsiva e avevo accettato, anche se titubante, la proposta di provare. Non avevo pensato molto ai pro e i contro, nè come avrei dovuto fare, e il risultato di quel mio atto “furbesco” era ceduto come un castello di sabbia bagnato dall’acqua del mare.

Lo fissai irresoluta e lo scoprii guardarmi con una nota interrogativa in pieno viso, con le sopracciglia scure aggrottate e gli occhi puntati su me con quella loro brillante luce accecante. Non mi servivano le parole per “captare” la domanda nel suo volto corrugato e dubbioso. Imbarazzata, m’apprestai ad introdurre e chiudere il discorso con una piccola frase ambigua.

«Non sono... Non sono mai andata in un Luna Park, ecco...», pronunciai velocemente, tornando con gli occhi a fissare per terra, verso le sue ginocchia. Non ero in realtà volenterosa di studiare la sua espressione...
Ed ecco che gli istinti repressi sul “non guardarlo in volto” disubbidirono ai miei comandi mentali.

I suoi occhi mi fissavano, un misto fra stupore e mestizia, fra shock e curiosità. Sentii a malapena il caldo avvampare sulle guance, segno di un’imminente segreto che facevo fatica a rivelare. Perché cavolo mi imbarazzavo proprio non riuscivo a concepirlo. Perché lui? Solo lui riusciva a farmi venire in testa queste stupide domande retoriche!

Prima che potesse chiedermi qualunque cosa Ryan s’avvicinò a noi, con in mano una bottiglia fresca di tè, proprio del gusto che piaceva a me! Aveva un po’ il fiatone e guardò entrambi con sguardo curiosamente serio ed interessato.
«Eccoti il tè... Joyce...», mi disse soffocando le parole coi respiri ansiosi. Michael, che penso non si fosse accorto all’inizio, si voltò verso lui, nel frattempo che io detti a Ryan un sorriso di sincera gratitudine.
«Grazie Ryan... Ti sono davvero molto grata!», e così mi tirai su, sempre aiutata dalle mie due “quasi guardie del corpo” Ryan e Michael e mi apprestai a bere il tè.

Mi ci volle qualche minuto prima che riuscissi a sentirmi meglio e qualche altro secondo perché riprendessi il mio colorito abbronzato naturale. Anche gli altri due se ne accorsero, perciò spiegai loro che il mio era probabilmente un calo di zuccheri, visto che ne soffrivo spesso. Se non acquisivo gli zuccheri o vitamine necessari, il mio corpo era più propenso a soffrire di mancamenti e giramenti di testa. Con il caldo e il sole, poi le cose tendevano a peggiorare e perciò dovevo stare ancora più attenta. Così con quella bevanda zuccherata il mio stato di salute cominciò a migliorare, fino a tornare quello di una mezz’oretta prima!
E proprio mentre stavamo per alzarci e dirigerci verso una giostra più tranquilla, una macchina si fermò sulla strada accanto al parco divertimenti. Era grigio metallizzata, e tutte e tre sapevamo benissimo a chi appartenesse. Dall’auto scese la madre di Ryan. Per lui era già ora di andare.

«Come così presto?», esclamò sua madre. «Sono già le cinque passate! E ti avevo detto che dovevamo andare ad una visita medica di controlli, no? Continuerai il giro un’altra volta, stanne certo tesoro, almeno se Michael sarà così gentile da dire di sì...», disse la donna rivolgendo un gran sorriso a quest’ultimo. Lui ricambiò e io sorrisi rimanendo a guardarlo mentre lui s’affrettava a rispondere di sì.

Mi piaceva osservarlo. Era interessante, dolce, e molto, molto gentile. Vidi la sincerità con cui lui diceva – anzi pregava! – che Ryan tornasse di nuovo là a trovarlo e che non troppo tardi si sarebbero rivisti. Ryan fu felice di quella risposta e lo abbracciò. Mi si sciolse il cuore. Letteralmente. Dopodichè abbracciò anche me e se ne andò, a malincuore, con l'auto della madre, facendoci gesti di saluto da dietro i finestrini dell'automobile. Sia io che Michael ricambiammo il saluto.
Era ora che andassi anche io. Perciò, con una fitta al cuore, mi apprestai a parlare. In quel momento capii i sentimenti di Ryan al pensiero di andarsene così presto. Io non potevo godere di tutta questa gentilezza, era già stato troppo generoso con me, non potevo approffitare. Strinsi le labbra in una stretta dispiaciuta e gli rivolsi i miei occhi dalle nascoste ombre malinconiche.

«Forse è meglio che vada a casa anche io...», dissi lievemente, nel frattempo che lui mi rivolse uno sguardo interrogativo. A quell'occhiata mi sentii soffocare dal dispiacere e dentro di me urlavo "Impediscimi di andare, impidiscimi di andare!". «Grazie per avermi ospitato, te ne sarò sempre riconoscente...»
«Non andare...», disse.
Lo guardai scioccata, senza emettere fiato per respirare. Lui ricambiò arrossendo sulle guance, senza però perdere la serietà e preghiere che trasparivano dai suoi occhi scuri.
«Non voglio che tu stia male, aspetta un po'... Forse durante il viaggio potresti sentirti di nuovo poco bene e io...», fece una pausa, abbassò gli occhi su terra e ritornò a guardarmi, mentre con gli arti delle mani e del viso compiva gesti imbarazzati e nervosi. «Mi piacerebbe molto restassi ancora un po'».

E io, ingenua e incapace mentalmente, accettai.



È difficile dir loro ciò che sento per te. Non ti hanno mai conosciuta, e non sanno come sei fatta. Come fanno a sapere il tuo mistero? Diamo loro un indizio.
Due uccelli sono su un albero. Uno mangia le ciliegie, mentre l’altro sta a guardare. Due uccelli volano nel cielo. Il canto di uno scende giù dal cielo come cristallo, mentre l’altro resta in silenzio. Due uccelli roteano al sole. Uno riflette la luce sulle sue piume argentate, mentre l’altro distende le sue ali invisibili.
Non è difficile capire quale dei due uccelli sia io, ma non riusciranno a capire chi sei tu. A meno che…
A meno che non sappiano cos’è un amore che non interferisce mai, che guarda da dietro, che respira libero nell’aria invisibile. Dolce uccellino, anima mia, il tuo silenzio è così prezioso. Quanto passerà prima che il mondo possa udire il tuo canto col mio?
Oh, come bramo quel giorno!


18/06/2010 13:53
 
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fantastici brava
18/06/2010 13:58
 
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Grazie angel :D

È difficile dir loro ciò che sento per te. Non ti hanno mai conosciuta, e non sanno come sei fatta. Come fanno a sapere il tuo mistero? Diamo loro un indizio.
Due uccelli sono su un albero. Uno mangia le ciliegie, mentre l’altro sta a guardare. Due uccelli volano nel cielo. Il canto di uno scende giù dal cielo come cristallo, mentre l’altro resta in silenzio. Due uccelli roteano al sole. Uno riflette la luce sulle sue piume argentate, mentre l’altro distende le sue ali invisibili.
Non è difficile capire quale dei due uccelli sia io, ma non riusciranno a capire chi sei tu. A meno che…
A meno che non sappiano cos’è un amore che non interferisce mai, che guarda da dietro, che respira libero nell’aria invisibile. Dolce uccellino, anima mia, il tuo silenzio è così prezioso. Quanto passerà prima che il mondo possa udire il tuo canto col mio?
Oh, come bramo quel giorno!


18/06/2010 14:22
 
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bellissimo tati!!!! e ora che si diranno questi due!!mmmm.... aspetto il prossimooo!! un bacio,ludo


I wish I was a camera sometimes
so I could take a picture in my mind
and put in a frame for you
to see how beautiful Y O U really are to me.
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