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In The Name Of Love (in corso). Rating: verde

Ultimo Aggiornamento: 08/09/2010 21:47
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31/05/2010 18:38
 
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Invincible Fan
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Un'altra mia fan fiction, per Michael, ambientata stavolta verso il periodo 1989-1995, pressochè. Joyce Lorelay Owen, giovane ragazza ventinovenne la quale, da un anno e poco più, da semplice maestra d’asilo si ritrova ad essere una delle più promettenti cantanti rock, pop, e r&b dell’epoca. Ragazza spigliata e determinata, nata e cresciuta in una piccola città marittima del Texas e con un passato da dimenticare, possiede un talento e una voce particolare che la distingue da tutti. Ora che il sogno di Joy di una vita sembra realizzato e che tutto sembra essere perfetto così come sembra, una persona entrerà nella sua vita. Un qualcuno che le cambierà per sempre la vita. Entrambi compieranno ognuno un viaggio nell’anima dell’altro, in un modo in cui nessuno abbia mai fatto profondo ed intenso. Due anime sole che cominceranno a conoscersi, ad interessarsi l’uno dell’altro, due semplici essere umani così diversi ma allo stesso tempo uguali... Un viaggio attraverso la mente di Joy, un racconto autobiografico dal suo punto di vista nel vedere il mondo. La lettura vi porterà a scoprire i sentimenti solo esclusivamente attraverso i suoi occhi e di come, una persona conosciuta dal nome Michael Jackson, abbia cambiato la sua vita.


CAPITOLO I

«...Per cui ti aspetta una serata lunga, esibirsi per prima da una parte ha i suoi difetti, ma darai il via alla serata... Un gran bel traguardo per un’artista con solo una carriera iniziata da più di un anno... Già...».

Pausa. Un attimo di blocco, prima di ripartire in un’esclamazione che il mio acuto sesto senso prevedeva.

«...Se solo non fossimo in un ritardo clamoroso!», continuò esclamando inquieto il mio manager, non risparmiando un’adrenalinica occhiata mista a rimprovero. Sapevo che prima o poi avrebbe tirato fuori quel discorso!

Si chiamava Lenard Edwards - per gli amici “Len”; era un uomo di mezza età, sulla quarantina passata, dai capelli brizzolati e occhi grandi e azzurri. In effetti era piuttosto affascinante come uomo... Ad ogni modo, era il mio manager, il primo fin dal giorno in cui avevo iniziato la mia scalata al successo da cantante da un anno e pochi mesi.
Era stato lui a scoprirmi e a far conoscere a tutti la mia voce, quella che lui mi aveva detto definisse “talento puro”; diceva che fossi sprecata per rimanere una semplice maestra d’asilo, e mi era sembrato sincero quando mi aveva detto di credere nelle mie potenzialità. Forse diceva così dato il fatto che, in vita mia, non avevo mai seguito corsi di canto, ecc.

«Eddai...», dissi con tono cauto e fermo, cercando in tutti i modi di non mettermi a ridere per la sua espressione e intenzionata a placare la sua irritazione. «Sei sempre così pessimista, vedrai che andrà tutto bene...»
«No, Joyce Lorelay Owen», pronunciò bloccando le parole prima che uscissero dalla mia bocca semiaperta. Stupita, sapevo che non era mai un buon segno quando mi chiamava con i due nomi e cognome di battesimo. «Non pensare di risparmiarti una ramanzina, perché questo è un caso serio!»

Ecco, ci mancava anche questa! Come se non fossi già abbastanza agitata e scombussolata di mio! L’ansia da panico pre-esibizione live - davanti a chissà quante persone! - mi bloccava lo stomaco in una morsa mortale, tenendo i miei muscoli irrigiditi come stoccafissi. Non era una bella sensazione, pur sapendo che fosse un ottimo “traguardo” per me.

«Questa sera è la serata dei tuoi primi “Soul Train Music Awards”, e credimi, per qualcuno ai tuoi livelli è una bellissima cosa, lo credo davvero, dopotutto se, precisiamo, è una categoria che a te non spetterebbe esibirti, visto il genere di musica “rockeggiante” - e a volte pop - che fai... Ma, per tua fortuna, la canzone “Beautiful Disaster” è un pezzo soul ed R&B, perciò è più che giusto! Non ti assicuro comunque che vincerai qualche premio...»

Continuava a parlare a raffica, gesticolando nervosamente, in ansia. Forse lo era più di me, me che da un momento all’altro mi sarei dovuta esibire dando inizio allo spettacolo e alle premiazioni che si sarebbero effettuate. Sembrava fosse lui a doversi esibire, non io. Detti un lieve sospiro rassegnata, voltando per un millesimo di secondo gli occhi verso le immagini fuori della limousine.

«...Ed eppure sembra che la cosa non ti interessi minimamente, visto che poco fa – invece che prepararti a dovere – ti stavi godendo la visione dei tuoi amati cartoni Disney... Come si chiama, Red & Toby...»
«Non era “Red & Toby”», precisai con disappunto, con una strana smorfia infastidita in volto. «Era “Oliver & Co.”, è dell’anno scorso e mi piace abbastanza... Be’, in realtà preferivo vedere “La Sirenetta”, il mio preferito! E comunque lo sai bene, te l’ho detto che quando sono nervosa non c’è cosa che più mi rilassi se non la visione di un bel cartone...»

Lui sbarrò i suoi occhi azzurri in un’espressione esterrefatta e scioccata. «A mezz’ora prima della partenza? È un miracolo che i truccatori e gli altri siano riusciti a sistemarti alla meglio, ma in compenso tardi! Farai una brutta figura, se arriverai proprio nel attimo in cui ti chiameranno sul palco!»
Sospirai di nuovo in tono paziente. «Tanto la figura di merda se la faccio, la faccio io. Non innervosirti così, lo so che mi rimproveri per il mio bene, e per questo ti ringrazio anche... », feci una pausa, per placare il mio stato d’animo. «Scusa se ti ho fatto arrabbiare...», dissi infine con voce mite e piena delle mie scuse.

Len mi stette ad osservare attentamente, poi strinse le labbra in un piccolo sorriso dispiaciuto. «No, scusa tu Joy, non devo metterti tutta questa agitazione. Però sono contento che tu abbia capito che lo faccio per il tuo bene, le mie intenzioni non sono cattive... Mi prometti che la prossima volta ti preparerai in anticipo e senza distrazioni?», chiese con lo stesso sguardo con cui ci si rivolge ad una bambina che ha appena trasgredito le regole del genitore.

«D’accordo, te lo prometto...», dissi con un sorriso furbesco. «La prossima volta non starò a guardare i cartoni poco prima della partenza per un evento importante come questo, lo giuro!». E così facendo segnai una croce sul cuore.

Lui sorrise con allegria spontanea, per poi accarezzarmi il capo con fare degno di un papà. Era molto bello il nostro rapporto: eravamo collaboratori di lavoro, eppure fra noi c’era una sintonia scherzosa degna di un padre con una figlia.
Più di una volta mi aveva detto che, secondo lui, dietro le mie spoglie da vissuta ventottenne e dietro quel mio aspetto da donna fiera e tenace, c’era invece solo una bambina bisognosa d’affetto. Era vero, infatti, e lui assomigliava un po’ alla figura paterna che mi era sempre mancata. Non nascondevo di essere felice per aver trovato un manager come lui, anche se erano più le prese in giro spesso e volentieri che i complimenti affettuosi.

Ma lui era fatto così; lui pretendeva molto da me, e ironizzava spesso anche le situazioni più complesse per me, per spronarmi a combattere e a lottare. Era un ottimo insegnante di vita oltre che manager, sebbene a volte abbastanza severo, e il suo lavoro ero sicura lo facesse perché lo amava. Chiedeva molto da me anche per dargli un motivo in più per starmi vicino ogni santo giorno, e ogni santo giorno gli davo la prova che ne valeva la pena.

D’altra parte, era quella una cosa bella di me: impegnarmi per raggiungere i miei obiettivi, dare il massimo in tutto, mai darsi per vinti. Non era da me lasciar perdere, data la mia determinazione e testardaggine, e ogni cosa che facevo la facevo dando il mio meglio. Non volevo deludere me stessa e le persone che ci tenevano a me. Ero una perfezionista, una irrimediabile ostinata di nome Joyce Brenda Owen che non voleva arrendersi alle difficoltà.

Purtroppo per me non ero sempre così determinata, anche io avevo i miei punti deboli, e quelli mi avevano aiutato in passato a rendermi più forte. Il mio passato mi aveva aiutato. Un passato vuoto e sofferente che, anche se con tanto dolore, dovevo abituarlo a convivere con il presente e il futuro. Len mi aveva detto così, ma non era facile... Non era per niente semplice lasciare quelle cose dietro, né facile accettarle.

Senza neanche accorgermene, mentre una luce vacua divagante il passato vagava nei miei occhi verde indefinito, la macchina cominciò a rallentare; subito mi drizzai dal sedile, con lo stomaco preso di nuovo in una nuova morsa di dolore, sentendo le urla provenire dalle persone all’esterno della limousine. I miei fan mi avevano aspettato...!

Non riuscivo a spiegare a me stessa la causa di tutto questo nervosismo – ero già stati agli Awards, ai Grammy, e avevo vinto già premi importanti e stupefacenti come “Best Rock Vocal Performance, Female”, “Best Female Video”, “Best New Artist Of The Year” – eppure ero... Nervosa. Tutta sotto sopra. Forse perché mi dovevo esibire davanti a tutti, cosa che ancora non avevo compiuto se non in tour del mio primo Cd “Breakaway”...
No, ero stata sempre così. L’emozione era quella, non si discuteva!

Sentivo i battiti possenti delle mani sulla limousine dei fan, di quelle persone che con un calore inestimabile urlavano a squarciagola il mio nome una volta e ancora un’altra volta. Sorrisi loro, nonostante l’agonia dentro di me, salutandoli con delicato cenno della mano, voltandomi da ogni parte per non lasciare neanche uno di loro a bocca asciutta.

Volevo bene ai miei fan, li amavo come loro amavano me, se non di più! Dovevo il mio essere là a loro, oltre che alle persone che avevano reso possibile quel sogno. Avevo così tanto bisogno di sentire il loro amore, di sentirmi chiamata con forti e striduli urli, poiché sapevo fossero una grande risorsa e forza per me e dentro me...!

«I tuoi fan ti amano a causa tua», disse improvvisamente Len. Mi voltai verso di lui, guardandolo come se mi avesse letta nel pensiero. Lo ritrovai che mi osservava con un sorriso soddisfatto. «Ringrazia anche te stessa e Dio per il grande dono che hai e che sei. Non è solo merito loro se sei qui, ma principalmente è tuo!»

Con imbarazzo tangibile – ero sempre senza parole quando qualcuno mi faceva un complimento, non sapevo mai cosa dire in quelle situazioni –, strinsi le mie labbra in un gesto secco, smorfia che assunse una strana specie di sorriso contratto e intimidito, e ritornai a salutare i miei fan portandomi una ciocca dei miei capelli lunghi dietro un orecchio. A quel gesto, le urla cominciarono a farsi più possenti, così tanto che ebbi paura che potessero spaccare i vetri dell’auto. Qualche volta avevo paura dei loro comportamenti troppo smaniosi e esagitati, ma erano comprensibili.

Man mano che ci avvicinavamo all’entrata dell’edificio dove, era chiaro, stavano per compiersi gli Awards, il fermento era palpabile anche nell’aria fuori da quell’abitacolo nel quale ero ancora rinchiusa. Lo sentivo muoversi nelle mie vene al posto del sangue, arrivare ad ogni capillare del corpo e navigarci e navigarci dentro insistentemente. Quelle emozioni erano le stesse provate anche agli Awards precedenti. Stessa agitazione, stessa adrenalina.
Delle guardie in nero cominciarono a difendere l’auto dagli assalti e, una volta fermata al tappeto che conduceva dentro l’edificio, il mio manager mi dette cenno di scendere. Con il cuore a mille, eseguii gli ordini, soffocando un respiro convulso, frattanto che il coraggio, invece che svanire, si faceva sempre più con vigore dentro la mia anima. Ero pronta per farmi valere. La fermezza non mi avrebbe abbandonato, non lo aveva mai fatto prima.

Ed eccomi scesa, il vestito sobrio ma elegante perfettamente indicato per la mia pelle ambrata, i miei occhi vacillanti sui fan e sull’entrata dell’edificio. Le grida erano in grado di riuscire a perforare la mia testa, ma mai quanto l’eccitazione; era come se mi fossi assunta di una sostanza stupefacente capace di inebriarmi i pensieri. Che magnifica sensazione, pregai perché non svanisse subito come il sonno...

Len, con una piccola corsetta, mi raggiunse dalla parte da cui ero scesa e mi prese il polso, dicendomi che era tardi. Al massimo qualche scatto di macchine fotografiche erano riuscite a colpirmi in viso, immortalandomi nelle foto delle varie fotocamere, poi niente. Non avevo neanche avuto il tempo di godermi la vista di quell’edificio, l’esterna edilizia... Pensai che, di sicuro, la prossima volta, non sarei di certo arrivata in ritardo!

Guidata e scortata da Len e alcune guardie del corpo e agenti verso corridoi e corridoi a me sconosciuti, giungemmo fino a dietro le quinte. Mentre venivo scortata verso il retro del palco, nascosta sotto gli occhi degli spettatori, notai con grande curiosità il daffare in cui erano coinvolte tutte le persone intorno a me. Da casa non puoi sapere quel che c’è dietro il lavoro di migliaia e migliaia di persone, e solo in situazioni come la mia potevi rendertene veramente conto. Ammiravo davvero tutte quelle persone che facevano il loro lavoro con assoluta discrezione e perfezione, scrutandole con attenzione e curiosità degna di una bambina piccola, nonostante fossi continuamente distratta dai truccatori di servizio intenti a sistemare il mio trucco.

«Cristo Santo, John...», disse Len col fiatone, non appena vide dietro le quinte un uomo che, per ovvietà di cose, conosceva bene. Magari era un tecnico... Non mi apprestai a chiedere niente, poiché ero troppo intenta a rimanere immobile per i truccatori. Non mi ero neanche accorta ci fossimo fermati da un pezzo in realtà. «Quanto manca prima dell’entrata in scena di Joy?»

Grazie al cielo avevo già fatto le prove di riscaldamento vocale in auto... Len si mise affianco del giovane uomo, il quale guardò me con sguardo attento – chissà perché, ma sembrava che tutti sapessero del mio ritardo eclatante, perfino il personale di servizio –, poi studiò una cartella che teneva in grembo, passando il dito fino in lungo e in largo fino a bloccarsi su un punto indefinito.

Nel frattempo che i due discutevano sottovoce fra loro, controllando la strana cartella, e mentre continuavo a guardarmi intorno nonostante il fastidio del pennello del fondotinta sulle mie guance, le mie orecchie furono attirate dagli applausi del pubblico al di fuori delle quinte. Ero così curiosa di vedere, a prima occhiata, chi ci fosse e che cosa si stesse discutendo. I miei occhi, incantati dall’enorme telo rosso che divideva il palco con i dietro scena, rimasero immobili anche quando un assistente di servizio mi porse l’acqua, porgendogli un “grazie” soffuso e lieve occhiata distratta non più lunga di due secondi.

Ogni volta sembrava la prima, quando ero in situazioni di salire sul palcoscenico. Forse perché ero abituata da solo un anno e poco più, o forse perché era un’emozione talmente unica che non poteva non ripetersi. D’altronde era così bello sentire il passare dei minuti scorrere lenti ed infiniti, in attesa di farmi vedere a tutti e fare quello che sapevo fare meglio: cantare. Cantavo perché amavo cantare. Come potevo fare una cosa che non amavo veramente?

Len mi si avvicinò a fianco e quasi non mi urlò nell’orecchio, dopotutto il casino che c’era intorno. «E’ ora, adesso tocca a te! Mi raccomando, dai filo da torcere a tutti i presenti e dagli da mangiare la tua polvere! Dimostra quello che veramente puoi fare e che possiedi!»
Io annuì, cercando d’ignorare quella eccitante emozione che mi faceva brillare gli occhi di combattività e coraggio. «Contaci, canterò con l’anima, come sempre! Non mi deluderò!»

«Questo volevo sentire!», esclamò con un sorriso gigantesco Len, porgendomi la mano in un’amichevole batti cinque e stretta d’incoraggiamento. Rivolsi i miei occhi verso il tendone e, non appena sentii gli applausi elevarsi nuovamente nell’aria, Len e altre persone sconosciute mi spinsero ad entrare. Ispirai ed espirai, poi mi feci avanti.

Gli applausi e le urla divennero possenti, miei fan che erano all’interno di quell’edificio gridavano insistentemente il mio nome in un canto scoordinato e imprevedibile. Con un sorriso entusiasta mi feci avanti vicino all’asta microfonica in mezzo al palco, accanto al pianoforte di soli pochi passi, posizionato accanto al ripiano dove i presentatori annunciavano i vincitori dei premi. Le grida continuavano ad andare avanti, ma io possedevo una voglia di essere lì che superava qualsiasi paura.

Forse qualcuno, se fosse stato là, mi avrebbe detto: “Ma come fai ad essere così temeraria? Non hai paura di tutte quelle persone?”. Io avrei risposto che non temevo niente e nessuno, fuorché me stessa nel deludere chi mi amava. Non avevo paura del palco, non ne avevo mai avuto paura, né temevo di mostrarmi davanti a tutti. Non avevo mai avuto timore di quest’idea – forse per questo ero sempre chiamata ai saggi di fine anno di scuola a cantare in teatro – e non mi sarei mai tirata indietro. Sul palco potevo essere chi ero, esibire un’energia che speravo potesse donare dei sentimenti a chi mi stava ad ascoltare. Quell’ansia che avevo provato fino a prima e che continuavo provare ancora a pochi istanti prima di cantare era solo pura e semplice adrenalina. Voglia di cantare.

Arrivata all’asta volsi il capo al piano, salutando con un cenno il pianista, Alan Johnsson, e di nuovo rivolsi il mio sguardo agli spettatori che ancora non avevano smesso di applaudire. Prima che potesse iniziare la musica, decisi che fosse meglio dire qualcosa come presentazione.

«Questa è “Beautiful Disaster”...», dissi con un sorriso emozionato, sapendo della luce di cui brillavano i miei occhi. Non scintillavano solo per le luci che illuminavano la mia figura e quella del pianoforte – dando un’aria di assoluta eleganza e raffinatezza all’ambiente – ma anche dalla felicità di essere là. Proprio lì, proprio in quel momento.

La lieve musica del pianoforte partì, proprio nell’attimo in cui la mia risata crebbe teneramente divertita per le reazioni del pubblico in sala. Abbassai gli occhi sul microfono e, preso un respiro, attesi il momento in cui partire.

«He drowns in his dreams , an exquisite extreme I know
He's as damned as he seems and more heaven than a heart could hold
And if I try to save him, my whole world would cave in?
It just ain't right ... It just ain't right»


Cantavo, pronunciavo quelle parole con devozione, con sentito sentimento proveniente dalla mia anima. Le mie palpebre abbassate, la voce che si modellava in modo perfetto al mio cuore e alla musica del piano, seguendo ogni sfaccettatura, ignorando quanto quelle parole potessero riuscire a commuovermi. Vocalizzai il ritornello, un’altra strofa di quella canzone scritta da me, in un giorno di tanti anni fa, nel tempo della mia passata adolescenza, quando ancora il mio mondo sembrava troppo oscuro per poter riuscire ad andare avanti.

Quando tutto sembrava essere in una dimensione di solitudine, di impotenza...

Per chi l’avevo scritta? Non lo sapevo nemmeno io. Erano parole che non avevano provenienza da alcuna esperienza se non dalle profonde segrete della mia anima. Frasi e sillabe che erano scivolate su un foglio a quadretti, scritte con grafia disordinata e dal colore blu, discorsi che potevano sembrare benissimo senza senso...

Forse con il tempo avrei capito, avrei inteso ogni parola. Forse mi sarei messa perfino a piangere, quel giorno. Avrei pianto per aver finalmente trovato la soluzione al dilemma, a quel pezzo di puzzle mancante al mio cuore. Un fragile e bellissimo frammento di cui necessitavo tanto, che se non controllato mi avrebbe portato al disastro.

«I'm longing for love and the logical, but he's only happy hysterical
I'm waiting for some kind of miracle waited so long
Waited so long...»


Applausi si levarono di nuovo dal pubblico, man mano che mi avvicinavo al margine del palcoscenico, e il mio cuore che cominciava a farsi più piccolo. Possibile che con una sola canzone le mie barriere avessero la capacità di rompersi?

«He's soft to the touch but frayed at the end he breaks
He's never enough... And still he's more than I can take...»

*


«Straordinario!», disse Len con sorriso a trentadue denti non appena arrivai nelle quinte, ad esibizione finita. Potei dire che anche il mio sorriso non era da meno del suo, e la contentezza anche, e con gesto impulsivo mi precipitai ad abbracciarlo. «Li hai fatti esultare tutti! Così si fa!...»

«Grazie, Len... Grazie!», dissi ancora abbracciata a lui, guardando con un enorme sorriso l’alto del soffitto. Lui mi prese il viso fra le mani e mi guardò con una ironica occhiata di rimprovero. «Ops, è vero... Devo ringraziare me...», risposi a quello sguardo con tono cupo e sardonico. Lui mi osservò e rise.

«Avanti, e ora a goderci lo spettacolo...», disse non appena una guardia mi pose la mia borsetta. Io ringraziai e, nel frattempo che Len mi scortava con una mano sulla spalla verso l’uscita da quel via vai di persone, il mio telefono prese a squillare. Lo capii perché sentii la musica che, per un altro attimo di sbadataggine, mi ero dimenticata di togliere.

Len si voltò ad osservare me e il mio traffico alla ricerca del telefono all’interno della borsetta, trafficando fra le varie cianfrusaglie disordinate e scombussolate. Quando lo ebbi fra le mani, purtroppo, smise di suonare. Sbuffai con impazienza e controllai i registri chiamate... Due chiamate perse, Ryan. Ryan...
Subito il mio cuore cominciò a palpitare d’agitazione, il timore m’attraversò le vene facendomi passare le peggiori pene dell’inferno che potessi mai provare, e lanciai un’occhiata preoccupata al mio manager. Non potevo ignorare quelle chiamate, dovevo richiamarlo. Poteva essere una cosa urgente, ma anche se non lo fosse stata non potevo deluderlo così... Ci tenevo troppo.

«Scusa, Len, ti raggiungo dopo... E’... E’ Ryan», dissi con il cuore a mille. Lui mi studiò con espressione d’improvviso compassionevole, ma ignorai lo sguardo e continuai a parlare a fremiti. «Magari ti raggiungo non appena danno la pubblicità, o più tardi... Davvero, scusa... Devo...»

Len mi sorrise dolcemente. «Stai tranquilla, farò attendere una guardia qua, frattanto che sarai al telefono, ad aspettare che finisca...», poi si guardò intorno e mi si avvicinò all’orecchio. «Alla mia destra c’è quella porta rossa che porta ai camerini e ai bagni delle star, ora di sicuro non ci sarà nessuno visto che sono tutti in sala. Ti conviene passare per di là».
«Grazie Len», dissi dirigendomi verso la porta da lui indicata con assoluta velocità. «Cercherò di non far troppo tardi, davvero»... E così mi diressi attraverso quella porta, lungo un infinito corridoio di marmo crema...

Il marmo era di perfette e lucide piastrelle, il corridoio illuminato da lampadari scintillanti di luce dal colore vagamente giallo, tappezzerie di lusso, e due cartelli al muro portavano a direzioni opposte. Non ci feci neanche caso, neanche mi sprecai di leggere le indicazioni, che il mio istinto mi portò a scegliere la strada alla mia sinistra. Intanto che detti un ultimo sguardo alla porta da cui ero entrata – nel tentativo di non scordarmela quando sarei tornata indietro – composi il numero di Ryan sul display del telefono. Oramai lo sapevo benissimo a memoria.

Mentre camminavo alla ricerca di un posto tranquillo – uno sgabuzzino, una toilette, qualunque cosa! – sentii dall’altro capo del cellulare qualcuno sollevare la propria cornetta. Un mancato battito insieme ad un sospiro trattenuto mi mancarono non appena lo sentii.

«Joy?», chiese la piccola voce con discrezione. Sospirai di sollievo. Per fortuna...
«Ryan, scusa se non ho potuto rispondere subito, davvero!... Ho appena finito di esibirmi ai Soul Train Awards, mi dispiace se mi sono dimenticata di dirtelo prima...». Ero preoccupata, ma il suo tono di voce sembrò placarmi.
«No, no, me lo avevi detto invece», rispose, per poi esclamare con tono entusiasta. «Ti ho visto, sei stata bravissima, mi hai commosso! Amo la tua voce...», mi disse con assoluta delicatezza.

Era un angelo, un angelo bambino. Un angelo che non aveva ricevuto giustizia dalla vita, che la malattia prima o poi avrebbe portato via... Il solo ricordo mi metteva una rabbia agonica, un’ira nei confronti del destino crudele, un dolore che speravo non arrivasse mai. Perché a lui? Perché a Ryan White?

«Oh, grazie», dissi con tono rotto dalla tenerezza e dalla commozione. «Ma così fai commuovere me... Davvero ti è piaciuta la canzone? Secondo te sono stata abbastanza capace?»

Con quelle parole d’improvviso timore, lasciai andare una soffocata nota d’imbarazzo fuoriuscire dalle mie labbra socchiuse, frattanto che i miei occhi viaggiavano alla ricerca di un angolo di pace. Quei corridoi sembravano non avere mai fine, o forse ero solo io che mi ero persa e non sapevo dove stavo andando.

«Sì, credimi! Almeno a me sei piaciuta tanto...». Attimo di silenzio. «Pensi che la prossima volta che ci incontreremo me la potrai cantare come hai fatto stasera?», chiese sottilmente. Parlare con lui rendeva tutto più puro, innocente... Come lui. Mi si fermò il cuore quando mi fece quella domanda.

«Certo, tutte le volte che vorrai...», dissi rallentando automaticamente il passo, fermandomi come uno stoccafisso in mezzo al corridoio. Per zittire l’angoscia dentro, dissi: «A proposito, che ne dici se un giorno di questi ci vediamo, ok?»
«Sì, mi piacerebbe molto! Aspetta...», soffocò rivolgendosi poi alla persona che, a rigor di logica, doveva essergli accanto. Attesi qualche istante, sentendo la voce fioca di Ryan risuonare piano nel telefono.

«Quando vuoi, Joy», concluse poi rivolgendosi di nuovo a me. «Questa settimana la scuola finisce domani, sarà l’ultimo giorno a causa di festività, perciò non ci andrò... Possiamo sentirci questo sabato, che ne dici?»
Sorrisi. «Senza dubbio! Adesso me lo segno nell’agenda... Non vedo l’ora!»
«Già, anche io...». Di nuovo un istante di pausa. «E proveremo a fare i biscotti al cioccolato come mi avevi detto?»
Mi sbilanciai in una risata divertita. «Certo, però sai che faremo il disastro, no? Al massimo manderemo a fuoco la cucina, se ci va bene... Poi però dobbiamo anche assaggiarli!»
«Ovvio, tutti e due!», esclamò con fare allegro ed entusiasta.

Andammo avanti a parlare del più e del meno per una mezz’oretta abbondante – il tempo sembrasse passare sempre troppo velocemente in quei momenti – ed entrambi raccontammo all’altro delle avventure del giorno; mi disse come andasse a scuola, che aveva fatto il pomeriggio, problemi che aveva riscontrato nei compiti per casa. Io feci lo stesso, dicendogli anche del rimprovero ricevuto per il ritardo prima dell’esibizione, e proposi di aiutarlo nelle materie in cui faceva più fatica. Ryan sembrò esserne tanto felice, e questo mise contentezza anche a me. Continuai a sorridere, ad ascoltare, a parlare con fluidità e dolcezza, con qualche sprizzo di felicità per renderlo più allegro.

Come un’idiota, mentre parlavo al telefono, mi ritrovavo a passeggiare piano e a volte veloce, avanti indietro senza una dannata meta, a volte fermandomi anche sulla parete del muro. Ignoravo gli sguardi strani che mi rivolgevano tutte le persone che passassero per la mia stessa strada, non guardandole neanche in viso e, per ovvio di cui, non sapendo nemmeno chi fossero.

Ad un certo punto, non appena sentii una voce femminile e bassa richiamare Ryan sottovoce, corrugai . Lui mi disse di attendere, poi dopo aver risposto – a quella che avrei dedotto fosse sua mamma – si rivolse a me amaramente.

«Senti, adesso devo andare a dormire Joyce...», mi disse tenue Ryan. «Domani devo andare a scuola...»
«Oh già, la scuola...», risposi con uno schiocco amaro sul palato. Mi dispiaceva concludere così presto... A volte ci stavo ore ed ore. «Allora ci sentiamo direttamente sabato, che ne dici? Verso che ora?»
«Oh, quando desideri tu, anzi aspetta...». Parlò con sua madre. «Verso le due, dopo mangiato. Così possiamo fare i biscotti con la calma, e guardare anche un cartone, o un film! Sarebbe bello!»
<br>«Sarà bellissimo», confermai con un sorriso mesto. «Ora però ti lascio, devi riposare per domani... Mi raccomando».
«Certo, a sabato Joyce»
«A sabato, ciao»
«Ciao...»
E la comunicazione finì.

Rimasi con il cellulare in mano, vicino al mio orecchio, senza contare il tempo che passava. Mille pensieri, aspettative, emozioni, mi attraversavano il cuore facendolo sobbalzare. Sapevo che quell’esperienza poteva provocarmi quasi lo stesso dolore di un tempo, ma lo stavo ignorando. Ho preso un rischio, me la sono voluta...

Dannazione a me. Stavo cominciando a pensare in nero. Soffocai un respiro convulso, dirigendomi di punto in bianco alla ricerca di una toilette. Avevo bisogno della mia immagine allo specchio, di vedere la persona indifesa che riuscivo ad essere solo in situazioni come quelle, in situazioni in cui ero di fronte all’innocenza di Ryan, alla sincerità di un bambino che non si sapeva nemmeno quanto sarebbe sopravvissuto.
Odiavo la malattia.

Aumentai passo per passo la mia andatura, finendo per far assumere alla mia “camminata” le sembianze di una corsa. Ignorai perfino le persone attorno, addirittura scontrandomi ad un certo punto addosso a due ragazzi. Non li guardai neanche negli occhi, seppi decifrare solo che uno era scuro di pelle e l’altro no. Soffocai un “Scusa” lieve, per poi dirigermi verso un corridoio a sinistra, dove - secondo quanto avevo visto dalle indicazioni al muro - c’erano le toilette.
<br>Stavo scappando da me stessa e dalle mie paure.

Arrivai alla prima porta che mi capitò alla vista e la aprii. Di sicuro la mia espressione si irrigidì, si trasformò in pietra, quando capii di essere capitata nella stanza sbagliata. Ero stata così <i>deficiente</i> da confondere le indicazioni?! Evidentemente quella era una risposta più che sufficiente, data la sbadataggine che si commentava da sola...
Bella figura di merda, soprattutto con la persona che mi stavo ritrovando di fronte. Già. Un idolo, la più grande diva del cinema dell’epoca d’oro, una persona brillante e grande donna... Dio, avevo di fronte a me Liz Taylor! Ero nel suo camerino! Con lei?!

La donna mi guardò subito con grandi occhi spalancati blu lavanda, esterrefatta, compreso l’uomo che le stava accanto, una persona dai capelli biondo castani e lunghi. Ella portava un abito nero, elegante, con magnifici disegni di rose rosse e viola su di esso, capelli a messa impiega perfetta; lui un semplice smoking nero, tirato a lucido.

«Mi dispiace, signorina, ma ha sbagliato camerino. Non può restare qua!», disse l’uomo con faccia seria. Lo guardai senza parole, a bocca sottilmente aperta, con una chiara ed evidente espressione da ebete che avrebbe fatto pietà a tutti! Cioè, non era facile ingranare la realtà dei fatti: avevo di fronte uno dei miei miti di sempre!

«Mi... Scusate... Pensavo di...». No, Joy, meglio non dire che avevi scambiato questa stanza per le toilette... «Scusate il disturbo, davvero...», ma non appena stetti per fare dietro front la voce di Liz Taylor mi bloccò come prima. Aiuto... Aiuto, aiuto... Stava davvero rivolgendosi a me o al signore?

«No, aspetta...», mi disse con un sorriso incuriosito, frattanto che fece un passo verso di me e io voltai il mio capo a scatti. «Tu sei la cantante di nome Joyce Owen? La stessa che sta facendo fuori tutte le classifiche di questo ultimo periodo?»
«Liz...», disse lui sottovoce, guardandola con occhi imploranti. Lei lo osservò senza emanare parola, bloccandolo con un gesto immediato del palmo aperto della mano destra. Dopodiché portò la chiuse a pugno e inclinò la testa, ancora con sorriso interessato, avvicinandosi verso me.

«Sì, sono io...», risposi alla domanda precedente a me fatta, a voce cauta e soffocata dall’emozione. Poi la mia fronte si aggrottò confusa. Strano che una diva del genere conoscesse una alle prime armi come me... Molto strano da comprendere più che da accettare.

Proprio mentre l’uomo stette per aprir nuovamente bocca, lei si propense a parlare. «Larry, lasciaci un momento da sole. Mi piacerebbe tanto scambiare qualche parola con questa ragazza, nel frattempo che attendo di salire sul palco», successivamente lo guardò con sguardo attento e osservatore. «Possiamo parlare una volta finito tutto».
Lui annuì e se ne andò a passo veloce, chiudendo la porta dietro di me lanciando un leggero “Arrivederci”.

Ora ero da sola nella stanza con lei, con quella donna tanto irraggiungibile quanto affascinante, che solo in pochi minuti mi ero trovata di fronte. Un sogno... Era tutto un sogno... Qualcosa non era come doveva andare, sarei dovuta tornare da Len, il mio manager, che di sicuro mi aveva mandato a cercare... Avrebbe pensato che mi fossi persa, o peggio, che sarei affogata nell’acqua del rubinetto della toilette...
Mi avrebbe sgridato se avesse saputo con chi ero veramente? Con la star con cui stavo per rivolgere parola?

«Joyce Owen... Sono molto grata di fare la tua conoscenza».




Eccomi qua, again :D Spero davvero che questa mia storia possa piacervi, e ammetto che è stata creata con immediata ispirazione! Chiedo scusa in anticipo se avete trovato qulche errore di tipo grammatico e lessicale, spero di aver usato un linguaggio abbastanza chiaro e conciso! Chiedo scusa anche per alcune pearole che vanno al di là del regolamento senza censura, se ci sono state... (Ma quando ci vuole ci vuole XD) Spero vi piaccia *W*

È difficile dir loro ciò che sento per te. Non ti hanno mai conosciuta, e non sanno come sei fatta. Come fanno a sapere il tuo mistero? Diamo loro un indizio.
Due uccelli sono su un albero. Uno mangia le ciliegie, mentre l’altro sta a guardare. Due uccelli volano nel cielo. Il canto di uno scende giù dal cielo come cristallo, mentre l’altro resta in silenzio. Due uccelli roteano al sole. Uno riflette la luce sulle sue piume argentate, mentre l’altro distende le sue ali invisibili.
Non è difficile capire quale dei due uccelli sia io, ma non riusciranno a capire chi sei tu. A meno che…
A meno che non sappiano cos’è un amore che non interferisce mai, che guarda da dietro, che respira libero nell’aria invisibile. Dolce uccellino, anima mia, il tuo silenzio è così prezioso. Quanto passerà prima che il mondo possa udire il tuo canto col mio?
Oh, come bramo quel giorno!


31/05/2010 19:55
 
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brava, bella storia [SM=x47932]
......aspetto il seguito....





31/05/2010 20:36
 
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Grazie mille :D Vedrò di aggiornare presto ^-^

È difficile dir loro ciò che sento per te. Non ti hanno mai conosciuta, e non sanno come sei fatta. Come fanno a sapere il tuo mistero? Diamo loro un indizio.
Due uccelli sono su un albero. Uno mangia le ciliegie, mentre l’altro sta a guardare. Due uccelli volano nel cielo. Il canto di uno scende giù dal cielo come cristallo, mentre l’altro resta in silenzio. Due uccelli roteano al sole. Uno riflette la luce sulle sue piume argentate, mentre l’altro distende le sue ali invisibili.
Non è difficile capire quale dei due uccelli sia io, ma non riusciranno a capire chi sei tu. A meno che…
A meno che non sappiano cos’è un amore che non interferisce mai, che guarda da dietro, che respira libero nell’aria invisibile. Dolce uccellino, anima mia, il tuo silenzio è così prezioso. Quanto passerà prima che il mondo possa udire il tuo canto col mio?
Oh, come bramo quel giorno!


31/05/2010 23:16
 
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Bellissimo questo primo capitolo!!!! Brava!!!! Continua così !!!

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The Dancer on the Moon - our Michael Jackson Blog.

01/06/2010 18:32
 
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Grazie mille anche a te, BEAT IT 81 ;D
Sposto fra poco ^-^

È difficile dir loro ciò che sento per te. Non ti hanno mai conosciuta, e non sanno come sei fatta. Come fanno a sapere il tuo mistero? Diamo loro un indizio.
Due uccelli sono su un albero. Uno mangia le ciliegie, mentre l’altro sta a guardare. Due uccelli volano nel cielo. Il canto di uno scende giù dal cielo come cristallo, mentre l’altro resta in silenzio. Due uccelli roteano al sole. Uno riflette la luce sulle sue piume argentate, mentre l’altro distende le sue ali invisibili.
Non è difficile capire quale dei due uccelli sia io, ma non riusciranno a capire chi sei tu. A meno che…
A meno che non sappiano cos’è un amore che non interferisce mai, che guarda da dietro, che respira libero nell’aria invisibile. Dolce uccellino, anima mia, il tuo silenzio è così prezioso. Quanto passerà prima che il mondo possa udire il tuo canto col mio?
Oh, come bramo quel giorno!


01/06/2010 18:43
 
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CAPITOLO II

Temetti di stare per svenire quando Liz Taylor mi porse la mano, per incrociarla con la mia e dando luogo alle cosiddette presentazioni. Se quella era un’illusione, allora che qualcuno mi avesse svegliato prima dell’iperventilazione!

«Il piacere è... È mio, Signorina Elizabeth Taylor», dissi con imbarazzo e sorriso timido, stringendo dolcemente la sua soffice mano... Aveva una stretta decisa, energica, delicata quanto quella di una donna di classe, ma comunque sciolta e disinvolta. Lei si aprì in una risata divertita non appena finita la frase fatta.

«Ti prego, non chiamarmi “Signorina Elizabeth Taylor”», rispose allegramente, incrinando le sopracciglia in un’espressione di divertimento. «Chiamami semplicemente Elizabeth, anzi no, solo Liz. Liz e basta. Non mi piacciono le formalità in occasioni come queste...»

Fintanto che pronunciava quelle parole, si avviò verso lo specchio alla scrivania al muro. Il mobile era quasi interamente coperto di trucchi, per non contare altri tanti oggetti d’oro e brillanti. Con perfetta discrezione, come se io non fossi presente, cominciò a smistare i suoi gioielli preziosi, in una grande scatola blu di velluto. Io, come una scema, stavo ferma nella posizione in cui ero immobile da circa cinque minuti abbondanti.

Non era da tutti i giorni incontrare una persona di quella importanza, e anche se non ero solita a ritrovarmi così spiazzata di fronte a qualcuno, quello era uno di quei casi. Spesso e volentieri ero disinvolta con tutti, riuscivo a creare situazioni che mettessero a proprio agio non solo chi avevo a che fare, ma anche me stessa. Non succedeva con tutti, ovvio, ma con chi sentivo di essere più naturale. Quella era una delle poche e rare situazioni in cui mi sentivo disorientata e stralunata, come se avessi bevuto vodka e alcool a manetta!

«Tu preferisci che ti chiamo Joyce?», chiese lanciandomi una fugace occhiata attraverso lo specchio. Io sobbalzai leggermente. «...O preferisci che ti chiamo Joy?»
«Joyce o Joy è indifferente in realtà... Chi non mi conosce bene solitamente mi chiama Joyce», risposi alzando a malapena le spalle in modo abbastanza sciolto, o almeno, più di prima. «In questo caso andrà benissimo solo Joy».

Lei sorrise attraverso lo specchio, in seguito voltò le spalle verso me. «Prego, Joy, siediti pure su quella poltrona. Non vorrai certo stare in piedi per tutto il tempo in cui parleremo, vero?... Oh, ti darei volentieri qualcosa da bere e mangiucchiare ma, uff... Purtroppo qua mancano determinati servizi di questo genere», disse con sguardo buffo, guardandosi intorno con espressione corrugata.

Trattenni sforzatamente una risata divertita e, dritta in direzione della poltroncina che Liz Taylor mi aveva indicato, mi sedetti. «Non fa niente, davvero, non penso di avere comunque spazio nella pancia... Tutti quegli applausi mi hanno saziato e deliziato fin troppo!», ammisi ridacchiando.

Solo quando mi sedetti, mi resi conto di non essermi ancora guardata veramente intorno... Minuziosamente, studiai tutto l’ambiente. Era una stanza abbastanza grande per essere un semplice camerino; una luce bianca proveniente da un lampadario in vetro al soffitto illuminava la stanza e, alla parete opposta dal mio punto di vista, c’era un enorme armadio aperto pieno di vestiti. C’erano tanti quadri di magnifici panorami appesi ai muri, non troppo grandi, e un gran tappeto crema a terra. Era una stanza accogliente, ma di una classe degna di una diva come lei!

«Oh, immagino», disse lei con lieve risata, riferita alla mia frase precedente. «Penso che te li sia meritati, perché è stata un’esibizione molto bella. Mi hai trasmesso molto, sai?...»
Poi voltò il capo verso di me con un gesto veloce e istantaneo.
«Posso chiederti una curiosità?». Io annuii, aspettando con interesse la domanda che aveva da pormi. Con un poco di imbarazzo da parte sua, con sguardo abbassato e sorriso concentrato, mi chiese: «L’hai scritta tu? O ti ha aiutato qualcuno?»

Non esitai a rispondere. «L’ho scritta io, all’età di 16 anni. Quando la proposi al discografico inizialmente non era molto convinto, poi sentendola cantare da me decise di farmela incidere il più presto possibile ed inserirla nel Cd...».
La mia voce divenne fioca, e senza riuscire a fermarmi continuai a parlare. «Molti mi hanno chiesto per chi l’avessi mai scritta, io non sapevo e non so ancora rispondere. L’ho scritta perché lo diceva il mio cuore...»

Mi vennero in mente gli stessi pensieri a cui riflettevo ogni volta che cantassi “Beautiful Disaster”, e mi bloccai. Rimasi a contemplare le mie mani unite appoggiate delicatamente alle ginocchia, a sguardo perso nel vuoto. Non mi accorsi nemmeno che Liz Taylor mi osservò con occhi seri e profondi, per chissà quanto tempo, e anch’ella abbassò gli occhi.

«A volte il nostro cuore contiene molti più sentimenti che la mente non possa mai riuscire a formulare, io la penso così. Un giorno credo che riuscirò a capire fino in fondo quelle emozioni... Forse ho passato troppe poche esperienze nella mia vita ancora...», continuai guardando la donna negli occhi, nella voce una nota di cruccio.

Rimanemmo occhi negli occhi a guardarci, per un tempo che non seppi definire. Mi studiò con apprensione, attraverso quegl’occhi blu lavanda intensi e profondi, ed ebbi l’impressione che mi stesse scrutando dentro l’anima. Tuttavia non mi sentii di dissolvere lo sguardo – sapevo che gli occhi erano lo specchio del cuore di una persona – e nonostante non sapessi che sfaccettatura avessero preso i miei rimasi a contemplarla, come lei stava facendo con me.

Le sue labbra si aprirono in un sorriso dolce. «Oh, Joy, invece sei molto saggia e matura per l’età che penso tu possieda», titubò un secondo e poi riparlò. «Se posso chiedertelo – altra mia curiosità – se non sono maleducata... Quanti anni hai?»
«Ventinove, ne faccio trenta il 24 aprile», risposi. Liz mi osservò curiosamente stupita, di certo perché immaginava non possedessi affatto quegl’anni, e si appoggiò con lentezza alla scrivania con la mano stretta a pugno.

«Sai, difficilmente ho incontrato una ragazza così giovane in un’occasione del genere e possedente una maturità intellettuale come la tua; credimi, non è da tutti fare questi ragionamenti, soprattutto se ne parli ad un’estranea quale sono io. Non so come, ma qualcosa in te m’ispira...», disse inclinando il capo.

Non feci tempo ad arrossire o dire qualcosa, che si sentì bussare alla porta con due colpi ben secchi della mano. Sia io sia Liz voltammo i nostri visi verso la porta, la quale venne aperta solo al permesso di Elizabeth. Da essa comparve un uomo scuro di pelle, vestito in nero, con una faccia da me ben nota. E come se non lo era! Era Eddie Murphy!
No... Tutte a me in una sola sera...! E si che ne avevo incontrate di persone famose in quel periodo, ma proprio dovevo beccare due dei miei preferiti quella notte? Non era che forse c’era lo zampino di Len? No perché io ero a rischio infarto... Prima Liz – l’attrice che fin da bambina veneravo e desideravo essere – e ora Eddie Murphy.

«Oh, scusa Elizabeth», disse lui con viso sporgente da oltre la porta socchiusa, lanciandomi un’occhiata fugace, in seguito guardando lei negl’occhi. «E’ ora di salire sul palco e dare l’Heritage Award...»
«Arrivo subito, aspettami pure fuori Eddie», rispose lei a tono pacato. Lui annuì, rigettando di nuovo uno sguardo su di me curioso, e poi chiuse la porta. Rimasi ad osservare la porta ad occhi spalancati, fino a quando Liz non attirò nuovamente la mia attenzione su ella.

«Senti cara, adesso devo salire sul palcoscenico, perciò mi sa tanto che dovremo concludere qua la nostra discussione», feci per pronunciare parola, frattanto che mi rialzai, ma lei continuò il discorso. «Vorrei tanto parlare con te ancora, sono molto curiosa di rendere più profonda la nostra conoscenza...»
«Dice sul serio?», chiesi, sbattendo le palpebre degli occhi come se fossi stata accecata dai potenti fari di una macchina. Lei voleva approfondire il nostro incontro? Perché? Che cosa avevo di speciale?

«Vedi, attraverso i tuoi occhi ho visto molta sincerità, o almeno io penso di averla vista. Non posso giudicare subito che tipo di persona tu sia, ma se quello che ho dedotto di te è vero, allora forse potremmo diventare buone amiche...», continuò sorridente di dolcezza. «E, per prendere l’occasione giusta al momento giusto, vorrei invitarti dopodomani alla mia festa di compleanno, venerdì sera. Ti andrebbe venirci?»

Che domande... Avrei mai rinunciato all’opportunità di diventare amica della mia grande star preferita? Che se ne fregava se avevo degli appuntamenti quella sera, avrei rinunciato! Da una vita desideravo conoscerla, parlarle, vedere se veramente le mie opinioni sulla persona che era erano corrette... Se era davvero quella persona dolce che io pensavo lei fosse... Di certo non mi sarei fatta pregare!

«Sì!... Certo, se le fa piacere che venga...». Lei alzò un sopracciglio. Ops... Dovevo correggere per caso le formalità della mia frase? «Cioè, se ti fa piacere, senza dubbio non mancherò».
Lei sorrise soddisfatta. «Bene, ne sono felice!... Oh, hai per caso un numero di telefono? O un foglio? Così posso dirti tutte le indicazioni per arrivare a casa mia, quel giorno, e l’ora in cui inizierà la festa...»
Immediatamente presi il cellulare, andai nella sezione messaggi e ne aprii uno nuovo, che successivamente avrei salvato in bozze. «Dimmi pure, le salvo qua sul telefono in men che non si dica», risposi con un sorriso.

Dicendo ciò lei si propense a darmi indirizzo della casa, numero di telefono e ore in cui si sarebbe tenuto il party. Poco dopo entrambe uscimmo dalla porta, scoprendo ancora un Eddie Murphy appoggiato al muro ad aspettare la diva guardando il soffitto. Lui allora continuò ad osservarmi con curiosità, ma con una indifferenza degna di Joyce Lorelay Owen che ero, feci la finta tonta. Prima che le nostre strade si dividessero, Liz mi salutò con una calorosa occhiata.

«Ci vediamo venerdì allora, Joy. Ti aspetto con trepidazione», e così se ne andò, con quel sorriso così puro e sincero che mi aiutava a convincermi, sempre più, che quella donna era come avevo sempre dedotto che fosse: unica.

Quando tornai da Len, in un posto in platea, durante lo spazio pubblicitario, egli mi fece un sacco di domande, neanche fossimo in questura. Dovetti lasciarlo sfogare un po’ prima di spiegargli tutta la situazione e, una volta che gli raccontai tutto, sottovoce, dovetti a stento cercare di placarlo da una crisi di euforia. Mi disse che ero fortunata, che però dovevo stare attenta con chi avrei parlato e di cosa, e mi fece ogni tipo di raccomandazione possibile.

«Lo so, non ti preoccupare... Sai quanto sono diffidente, e che non mi lascerò andare nelle mie intimità del cuore facilmente. I miei segreti ormai ho imparato a tenerli veramente segreti...», dissi con voce bassa, proprio mentre lo spazio pubblicitario finì e lo spettacolo riprese.

Sul palco, Liz Taylor ed Eddie Murphy. Quasi dovetti trattenermi dal saltare sulla poltrona nella quale ero seduta.<br>
«Signore e Signori, l’Heritage Award del 1989 e premio Sammy Davis Jr. va, secondo me, al vero Re del Pop, Rock e Soul...», disse Liz, con sorriso sulle labbra. «...Il signor Michael Jackson».

Oh cielo. C’era anche lui? Lui! No, un momento, questo voleva dire che aveva visto la mia esibizione?
Come tutti, mi alzai dalla poltroncina rossa con scatto fulmineo, applaudendo vigorosamente.

Michael Jackson era un personaggio molto importante, questo lo sapevo bene, e sentire parlare di lui, soprattutto in quel periodo, in uno strano modo, mi emozionava e faceva battere il mio cuore a mille. Lo ammiravo realmente tanto, per la sua storia, per la sua carriera prematura... Ero sua ammiratrice da una vita, collezionavo tutti i suoi album e tutti avevano fatto parte, anche se spesso indirettamente, di un pezzo preciso della mia esistenza.

Avevo sentire tante cose su di lui dai tabloid – come il fatto che volesse diventare bianco, che negasse il colore nero della sua pelle, che dormisse in una camera iperbarica,... – ma non ne avevo mai tenuto conto.
Ero curiosa di sapere la verità, e da un lato anche di conoscerlo. Sembrava così composto, così educato, e anche tanto dolce. Timido sì, però non cattivo. C’era un qualcosa in lui che mi affascinava, talmente tanto da farmi letteralmente impazzire ogni volta che mi capitava di vederlo sullo schermo. Era bellissimo...

Sentii tutto il suo discorso – parola per parola, frase per frase, sillaba per sillaba – senza perdermi niente. La sua voce candida mi dava i brividi, sembrava la stessa voce innocente che possiede un bambino. I suoi occhi erano un qualcosa di splendido da osservare, come il sorriso. Lui in generale era bello. Le prove di queste mie constatazioni le avevo avute in tutti i suoi video e nel film “Moonwalker”, di cui oramai avevo consumato di già.

Chissà se avrei incontrato anche lui alla festa di Liz Taylor... Evidentemente sì, avevo letto che quei due erano amici – che informata, eh? – perciò era probabile ci fosse. Ci avrei parlato, faccia a faccia... Wow... E già questo mi metteva ansia da panico? Sì, anche se molto più panico e meno ansia.

Avrei visto tante persone famose, alcune forse avrebbero parlato con me, ma non conoscevo nessuno là... Be’, sarei stata in un angoletto, tranquilla, a godermi il rinfresco – se ci fosse stato, o magari avrei incontrato qualcuno con cui scambiare qualche parola. Non ero così complessata all’idea di sentirmi un pesce fuor d’acqua, poiché quel ruolo lo ero sempre ogni giorno, con gli altri... Soltanto sul palco non mi sentivo sola e diversa.

Dopo la premiazione di Michael Jackson la serata proseguì lenta, vigorosa di applausi ogni qualvolta si nominasse il vincitore di un Award. Ovviamente io non ne vinsi – io facevo musica rock, talvolta anche pop in realtà, e non soul. La cosa non mi dispiaceva, anzi, mi permetteva di vivere la serata con più tranquillità.

Io, a differenza di tanti altri, non pensavo a quanti premi vincere; mi interessava solo sentirmi amata dai fan. Quella ragazza di nome Joyce non desiderava essere al di sopra degli altri, ma solamente emozionare. Joy la conoscevano in pochi, nessuno era riuscito mai a capirla veramente: nessuno aveva mai voluto andare oltre la barriera di spigliatezza e caparbietà, si erano solo fermati a guardare la Joyce famosa. E il mio cuore nessuno lo voleva conoscere?

Forse Liz sì, e forse almeno una persona fra quelle migliaia presenti era la più interessata a me. Se, come diceva lei, voleva conoscere la vera e sincera Joyce, allora l’avrebbe capita subito attraverso i suoi occhi; perché erano quelli l’unica via con cui potevo capire che quel qualcuno mi aveva capito dentro fino in fondo.

Era difficile leggere dentro il mio cuore per chiunque l’avesse mai fatto. Che fosse per via del mio strano colore di occhi? In effetti quella poteva essere una cosa...

O forse era perché, come mi ero appena detta, la ragione era perché nessuno veramente s’interessava di me?

***


Il campanello suonò due volte, con un suono acuto e cristallino che lo potevo percepire io fin dentro le mura di quella grande villeggiatura. Alla faccia della casa!, quella era una gran villa di lusso!
Sembrava Versailles...

Oltre il cancello enorme che dava un taglio alle altre mura che circondavano la villa, dentro si potevano vedere enormi giardini verdi e, in alcune parti, variopinti dei mille colori di tanti diversi fiori e alberi. Un viale a ciottoli guidava verso l’enorme villa, affiancato appunti dai grandi giardini, due dei quali – uno opposto all’altro – possedevano due fontane. La casa, color crema, possedeva un sacco di finestre, terrazzi e un portone di legno scuro.

Sembrava la casa delle meraviglie, la reggia della regina Marie Antoniette, il posto in cui ogni ragazza dai sogni principeschi desiderava di vivere. Io da bambina, stranamente, non avevo mai sognato di essere una principessa... Ero troppo impegnata dal uscire da quello che, un giorno, sarebbe stato il mio “passato da dimenticare”.

Quando ti mancano certe cose dell’infanzia, le puoi riacquistare solo quando sei grande... Se non hai per lo meno perso quel poco di purezza bambinesca che finisce per scomparire in ogni adulto.

La grande porta di legno si aprì con maestosità e, da esso, comparve una sorridente Liz Taylor, vestita in pantaloni di velluto nero e maglia azzurra. Io, invece, portavo un bel vestito di seta rosata. In confronto, sembravo io quella che doveva festeggiare una festa!

Strano... Forse ero io ad aver sbagliato orario. Era troppo presto per i miei gusti: farmi arrivare solo alle 17.30 di pomeriggio, quando un party inizia solitamente verso tardi... E quando, solitamente, è tutto pieno di via vai di macchine sfarzose e tirate a lucido!
Certo che, se avevo sbagliato, avevo davvero fatto una gran figura del diavolo!

«Ti aspettavo Joy, sei in perfetto orario!», disse prendendomi calorosamente la mano con entrambe le sue. Ero confusa, e lo capì anche lei data la mia fronte corrugata con lieve piega.
«Liz... Penso di aver sbagliato ora... Sono le 17.30...»
«Oh no, invece, sei in perfetto orario!», rispose a getto. «Ti ho fatta venire prima perché volevo che parlassimo un po’, nel frattempo che mi aiutassi a scegliere l’abito per la serata!»

Adesso capivo. Mi aveva fatto venire prima apposta. Non avrei mai pensato che le cose sarebbero andate a finire così; insomma, io mi ero fatta ormai l’idea che mi invitasse e stop! Invece lei mi aveva proprio voluto vedere addirittura ore prima... Prima o poi le avrei chiesto perché io fra tutte le persone famose d’America!

«Entra, avanti, abbiamo parecchie cose da fare e di cui parlare!», disse facendosi in parte e lasciandomi lo spazio per passare senza troppa fatica. Io, con estrema cortesia, entrai soffocando un lieve “Permesso”. La vidi girare gli occhi verso l’altro, ed in seguito chiudere la porta e raggiungermi alla mia sinistra.

«Seguimi, abbiamo le prove vestiti e prove trucco da adempiere. Avrei voluto invitarti addirittura alle 16.00, così saresti rimasta anche per la tazza di tè del pomeriggio, ma avevo tante cose da sistemare ancora, e ti avrei annoiato».
«Stai tranquilla, e poi è meglio così, evitavo di essere un impiccio per i preparativi», risposi ammiccando una risata soffusa. Lei mi guardò con occhi blu lavanda per alcuni minuti abbondanti.
«Non penso saresti stato un impiccio», disse lei contraddicendo quello che avevo appena detto. «E poi se ti ho invitato per chiederti dei consigli da donna a donna vuol dire che ci tengo».

Con quelle parole mi spiazzò completamente. Rimasi a guardarla in viso – nonostante lei sorridente guardava avanti – e valutai mentalmente ogni sillaba espressa. Ero abbastanza sveglia e acuta da arrivare al principio di quella che, secondo me, la sua era una prova/studio per valutare ancora di più il mio carattere. Ed infatti, con più del 50% di probabilità, avevo ragione.

Seguimmo un tragitto veramente complesso per arrivare alla sala degli abiti e dei trucchi: non appena entrata in casa, senza neanche poter contemplare quella reggia delle favole, tutta lusso e classe, seguii Liz lungo una delle due rampe di scale di marmo bianco, ognuna a lato della grande hall, già ricolma di tavoli di ristoro e decorazioni, opposte a loro. Salita quella grande scalinata, ci ritrovammo a seguire un maestoso corridoio alla nostra destra, continuando a camminare senza sosta per un bel paio di metri. D’altronde, quella villa enorme come non poteva essere altrimenti?

Durante il tragitto lei si ritrovò a parlare con tantissimi inservienti, i quali le chiedevano il suo consenso e consiglio per l’arredamento di quella occasione speciale. Era sensazionale vedere come tutti le girassero intorno e lei, senza perdere la pazienza, rispondeva con pacatezza ad ognuno di loro. Sinceramente, se fossi stata in lei, avrei già dato di testa.

«Quindi, tornando a noi, al discorso dell’altro giorno... Tu hai scritto “Beautiful Disaster”», disse lei rompendo il ghiaccio una volta che gli inservienti se ne andarono a compiere le proprie faccende per il party. «Hai scritto anche tutte le altre del Cd?»
«Sì, ma diciamo che ho ricevuto un aiuto prezioso anche da altre persone», risposi. «Sono molto contenta del lavoro che ho compiuto, soprattutto perché sta dando i suoi frutti».
«Che facevi prima di diventare una persona famosa?», chiese curiosamente.
«La maestra d’asilo. Finita l’università, trovai subito lavoro come maestra delle elementari e, successivamente, maestra dei bambini alla scuola d’infanzia. Mi piaceva di più lavorare coi bambini più piccoli».
Lei rimase meravigliata, tant’è che spalancò d’impeto i suoi grandi occhi. «Ti piacciono i bambini?»

«Da morire!», risposi con voce emozionata. «Vivo stando con loro. Provo tutto quello che mi è mancato, tutte le sensazioni bellissime che trasmette l’innocenza. Sono attratta dalla loro purezza, gioco e mi diverto, ed insegno loro il rispetto e la bontà necessari per vivere in questo mondo. Aiutarli mi illumina dentro...»
«E anche gli occhi...», disse lei guardandomi con occhi dolcissimi. «Si vede che li ami, quando parli di loro ti si illuminano di una luce meravigliosa. Sono sicura che ti volevano bene tantissimo anche loro».
«Già... Ora che ho acquistato una certa fama non posso più tornare da loro, vivere come prima», dissi amareggiata, a voce incrinata dal dispiacere. «Ora aiuto i bambini malati negli ospedali, dando continuamente fondi per riuscire ad aiutarli e a volte andandoli a trovare, ma non stare quotidianamente con loro come tanto tempo fa, be’, mi fa un po’ star male. Mi fa sentire vuota...»

«...Ti manca la tua vita di prima?», chiese Liz in seguito ad un carico attimo di silenzio. I suoi occhi erano posati suoi miei, i quali guardavano dritti il vuoto, e sembravano essere capaci di entrarmi dentro nel cuore.
Aggrottai la fronte, per poi ricambiare lo sguardo con i suoi occhi.

«Un po’, ma penso sia naturale. I bambini erano l’unica cosa che riuscivano a farmi star bene ma per il resto, in confronto adesso, mi sento più appagata con me stessa. È difficile da spiegare... Prima vivevo esclusivamente per i bambini, sola nel mio mondo ma comunque capace sempre di tirare avanti, nonostante un vuoto incolmabile. Ora che canto mi sento bene, primo perché ho sempre amato cantare, secondo per l’amore che ricevo...»

Liz sorrise tenera. «Capisco... Perciò ora ricevi altrettanto amore da ripagare la tua solitudine precedente?»
«No, non proprio», dissi storcendo la bocca in una smorfia pensierosa. «Non penso ci sia amore o persona che possa aiutarmi. Ora sono più felice perché faccio musica, riesco ad unire i cuori delle persone nonostante le razze e le differenze. Con la musica posso sperare di rendere il mondo migliore... La solitudine comunque resta».

Liz strinse le labbra in un sorriso stirato, sviando la nostra intensa connessione occhi a occhi, guardando avanti. Poco dopo emise un breve sospiro, seguito da parole che pronunciò con un ché di rammarico e curiosità assieme.
«Conosco una persona come te, che pensa le stesse cose che pensi tu... Chissà se gli farebbe piacere conoscerti...».
«Chi è?», chiesi con interesse confuso.
«Lo vedrai più tardi», e così dicendo si limitò a sorridere soddisfatta. «Oh, siamo arrivati».

Liz aprì la porta di legno bianco e mi indicò d’entrare. Eseguii e quello che ritrovai all’interno fu magnifico. Tantissime file di indumenti, ognuno appesi a migliaia di appendi abiti, disposti a tre file lunghe e ben disposte, ognuna divisa in categoria in base ai colori di ciascuno. La stanza, enorme e color bianco crema, aveva una grande finestra a balcone che portava direttamente ad una terrazza esterna, che dava al giardino posteriore all’entrata della villa. Ad ognuno dei due lati liberi della stanza ci stava uno grande specchio e due camerini accanto ad esso, per cambiarsi, e all’angolo della parete destra, vicino alle finestre, una porta di legno scura.

«Ti piace questa stanza Joy?», mi chiese Liz sorridente. Evidentemente la mia espressione non bastava a confermarle la bellezza maestosa dell’ambiente circostante. Quegl’abiti era tanti e belli come quelli delle principesse!
«E’ bellissima! Sono senza parole», risposi guardandola a bocca aperta. Lei rise e, con un cenno del capo, mi incitò a seguirla lungo una delle tre file di indumenti.

Per una mezz’ora abbondante rimasi ad osservare ogni indumento, fila per fila, sempre più incantata da ogni varietà di abbigliamento possibile ed immaginabile. Alcuni erano larghi, altri stretti – il che considerai appartenessero a lei fin dagl’anni della sua giovinezza –, e tutti uno più bello dell’altro. Blu, rosa, viola, nero, bianco... Tutti i colori!
Ad un certo punto il mio sguardo s’impuntò su un abito, di quella che sembrava la mia misura, rosso. Arrivava circa ai piedi e un legamento in Swarovski, proprio sotto il seno, divideva la candida seta rossa del vestito in due. Il seno era tenuto stretto da due fasce divise di stoffa rossa più chiara, andante al rosso corallo le quali erano legate fra loro grazie ad un collare brillante al collo a V. La schiena era libera.

«Vedi, sarei molto indecisa fra questi due tipi di abiti», disse Liz arrivandomi accanto, senza neanche che ne accorgessi, nel frattempo che il mio sguardo venerava ancora quel vestito. «Tu che mi consiglieresti?»
«Oh», voltai subito gli occhi, per non farle vedere il mio interesse verso l’indumento rosso. Valutai entrambi i due vestiti. Entrambi stupendi, uno era di seta rosa e l’altro lilla, entrambi di stoffa pregiata.
«Mmh... A dir il vero sono belli entrambi. Dipende molto se vuoi incentrarti su un abito eccentrico e galante o piuttosto su uno semplice e di classe...», dissi nel frattempo che i miei occhi erano presi a studiarli entrambi.
«A mio parere personale, preferisco quello lilla. Valorizza i tuoi occhi, soprattutto se sugl’occhi poi viene messo dell’ombretto viola scuro, che sta per ovvietà di cose in tinta anche con l’abito», sputai la sentenza.

Lei mi osservò con un sorriso.
«Mmh... Ottimo consiglio... Adesso lo provo e poi mi sai dire», disse con tono vivace ed entusiasta. Io le sorrisi di rimando e, proprio nel secondo in cui stavo per tornare a contemplare l’abito cremisi, lei parlò.
«E tu hai visto per caso qualcosa di bello da indossare per te?», chiese da dietro la tenda celeste del camerino. Io rimasi a guardare verso lei sbigottita, scioccata da quella domanda: o aveva visto le mie occhiate adoranti al vestito oppure mi stava proponendo spontaneamente da mettere di suo!

«Ma Liz... Io sto già indossando il vestito per la serata. E poi mi sentirei in debito...», disse mite.
La sua voce spuntò acuta da dietro la cabina. «In debito? Joy, ti prego, perché dovresti sentirti in debito? Ti sto facendo un favore perché mi va di farlo, capirei se me lo avessi chiesto direttamente tu...»
«Non mi sento di accettare, davvero», dissi convinta, nonostante la voglia matta di indossare il vestito rosso. «Neanche se sei tu a propormelo».
«D’accordo», disse lei spuntando con la testa fuori dalla tenda. «Allora te lo ordino».
«Cosa?», esclamai sconvolta. Non era possibile... Qua si stava andando oltre ogni logica normale...
«Ti ordino, volente o nolente, di metterti qualcosa di mio. Sei in casa mia, a quel paese i sensi di colpa!», una pausa per osservare il mio sguardo sconvolto, poi risparì dietro la tenda. «Quando esco voglio vederti con un bel completo fra le mani, altrimenti te lo scelgo io!»

Rimasi a guardare il vuoto con occhi sbarrati. Avevo incontrato Liz Taylor ed ero a casa sua per la prima volta, e quello era già abbastanza incredibile da credere, ma che quella sera indossassi anche un suo vestito... Forse ero finita in una dimensione aliena, dove tutto ruota al contrario, e dove io sono l’unica ad andare controcorrente. Non era tanto il fatto che fosse un vestito della grande Liz, ma soprattutto scioccava il fatto che lo volesse prestare ad una come me!

Nella mia vita avevo continuato ad andare avanti con il principio che nessuno dava mai o prestava mai niente per niente. Il mondo dello spettacolo non era diverso dalla realtà di tutti i giorni. Le persone egoiste e indifferenti c’erano ad ogni angolo del mondo, pronte a colpirti alla spalle una volta riponevi in loro la tua fiducia o il tuo cuore.
Perché Liz Taylor dava così tanto ad una ragazza come me? Non pensava che potessi avere secondi fini?

Quando Liz tornò fuori, fu uno splendore vederla. L’abito lilla era perfetto, avevo ragione: le stava divinamente.
«Penso proprio che tu abbia avuto ragione, è un abito che merita! Davvero bellissimo...», mi disse lei guardandosi allo specchio. Successivamente si girò verso me. «Hai scelto l’abito?»
«Liz... Posso farti una domanda?», chiesi mordendomi un labbro inferiore. Lei annuì con serietà. «Perché io?»

Lei soffocò una mezza risata, gettandomi una lancinante occhiata dolce. «Non lo so. A volte è l’istinto a guidare le nostre scelte, anche se a volte possono essere sbagliate. Parlare è l’unica cosa che può farmi valutare che tipo sei, se sei sincera o no, se ti interessa stare qua solo per acquistare più fama. E non solo parlare, anche gli occhi sono utili...»
Con passi lenti si avvicinò a me. «Vuoi sapere cosa ho percepito dalla tua anima? Ho visto una ragazza determinata, spigliata, che dalla vita vuole l’amore che non ha ricevuto. Devi aver passato un brutto passato...»

Non so che cosa accadde, so solo che due lacrime rigarono silenziose le mie guance. Quello che aveva detto... Il passato... Era come se fosse stata capace in quello che tante persone non erano riuscite. In pochi istanti aveva visto quello che gli altri non avevano notato. Aveva visto la cosa che più si nascondeva dentro di me, nascosta fra tutte le altre cose che si potevano trovare rovistando dentro gli occhi: il passato.

Liz mi prese il volto fra le mani, asciugandomi con delicatezza quelle lievi gocce salate.
«Avanti, non piangere... Questo bel viso non ha bisogno di lacrime, altrimenti fai piangere anche zia Liz», disse a fronte aggrottata e occhi di un rimprovero divertito. Io soffocai una risata e lei allora mi sorrise, tenendomi con delicatezza una mano. «Dai, adesso scegliamo questo bellissimo vestito per te e finiamo di prepararci».

Tutto il resto del tempo lo passammo a prepararci – come c’era da aspettarselo, alla fine mi arresi alle volontà del vestito scarlatto –, a scioglierci in commenti disinvolti, una a proprio agio con l’altra. Era come avere una amica... Un’amica vera che non avevo veramente mai avuto in tutta la mia esistenza. Parlavamo di un po’ di tutto, cercando di scoprire una e più cose dell’altra. Era simpatica, sciolta... Quella, era Liz Taylor.

*


«Siamo perfette ora», mi disse Liz una volta finito tutti i preparativi, con le mani appoggiate sulle mie spalle, entrambe ad ammirarci una volta per tutte allo specchio per la valutazione finale. «Tu che ne dici?»

Che dicevo? Che non potevo credere ai miei occhi! Il vestito rosso mi stava alla perfezione, il trucco sebbene sembrasse quasi invisibile mi faceva il viso più marcato e faceva risaltare quei miei occhi dal colore indescrivibile. E poi, Liz era meravigliosa; il vestito lilla le stava d’incanto e, sull’abito e al collo, si potevano scorgere scintillare di pietre Swarovski e perle bianche. Sembravamo tutt’ed due uscite da uno di quei film tutto lustro e raffinatezza.

La porta bussò due volte, dietro di noi, e al permesso di Liz entrò una donna dai capelli corvini. «Signorina Liz Taylor, gli ospiti stanno arrivando quasi tutti. La aspettano tutti nella hall in attesa di vederla».
«Arrivo subito, grazie Jodie», rispose l’altra con fare educato.

La porta si chiuse prima del piccolo inchino dell’inserviente e Liz si rivolse nuovamente a me, sorridente. «Io intanto scendo giù, a salutare ogni ospite in arrivo, ti va di venire con me?»
«Meglio che ti raggiungo fra poco, devo fare ancora un po’ di lezioni alla mia autostima...», dissi storcendo le labbra in una smorfia buffa. Liz rise e, accarezzandomi la nuca, si avviò verso la porta.

«A più tardi, ti aspetto».

È difficile dir loro ciò che sento per te. Non ti hanno mai conosciuta, e non sanno come sei fatta. Come fanno a sapere il tuo mistero? Diamo loro un indizio.
Due uccelli sono su un albero. Uno mangia le ciliegie, mentre l’altro sta a guardare. Due uccelli volano nel cielo. Il canto di uno scende giù dal cielo come cristallo, mentre l’altro resta in silenzio. Due uccelli roteano al sole. Uno riflette la luce sulle sue piume argentate, mentre l’altro distende le sue ali invisibili.
Non è difficile capire quale dei due uccelli sia io, ma non riusciranno a capire chi sei tu. A meno che…
A meno che non sappiano cos’è un amore che non interferisce mai, che guarda da dietro, che respira libero nell’aria invisibile. Dolce uccellino, anima mia, il tuo silenzio è così prezioso. Quanto passerà prima che il mondo possa udire il tuo canto col mio?
Oh, come bramo quel giorno!


01/06/2010 20:39
 
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uuuuuu ho finito di leggere solo ora....complimenti... chissa se conoscera Mike.... io credo proprio di si!! iihihi comunque sto morendo dalla curiosità... posta presto
un bacio!!
01/06/2010 21:00
 
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bellissima la tua storia!! mi piace come scrivi!! brava!!! non vedo l'ora di leggere il seguito sono curiosissima!

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01/06/2010 23:26
 
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Re:
marty.jackson, 01/06/2010 21.00:

bellissima la tua storia!! mi piace come scrivi!! brava!!! non vedo l'ora di leggere il seguito sono curiosissima!



Ringrazio molto anche te [SM=x47984] Sono felice ti piaccia come scrivo, tutto questo mi rende molto orgogliosa di quello che faccio! Spero che non ti deluda ;D

°CucciolaJackson°, 01/06/2010 20.39:

uuuuuu ho finito di leggere solo ora....complimenti... chissa se conoscera Mike.... io credo proprio di si!! iihihi comunque sto morendo dalla curiosità... posta presto
un bacio!!



Grazie di cuore per i complimenti :D Per quanto la "suspance" ci possa rendere curiosi e confusi, non posso negare di dirti che non si incontreranno; non dico come, anche se è possibile immaginare ;D Un bacio anche a te! :*

È difficile dir loro ciò che sento per te. Non ti hanno mai conosciuta, e non sanno come sei fatta. Come fanno a sapere il tuo mistero? Diamo loro un indizio.
Due uccelli sono su un albero. Uno mangia le ciliegie, mentre l’altro sta a guardare. Due uccelli volano nel cielo. Il canto di uno scende giù dal cielo come cristallo, mentre l’altro resta in silenzio. Due uccelli roteano al sole. Uno riflette la luce sulle sue piume argentate, mentre l’altro distende le sue ali invisibili.
Non è difficile capire quale dei due uccelli sia io, ma non riusciranno a capire chi sei tu. A meno che…
A meno che non sappiano cos’è un amore che non interferisce mai, che guarda da dietro, che respira libero nell’aria invisibile. Dolce uccellino, anima mia, il tuo silenzio è così prezioso. Quanto passerà prima che il mondo possa udire il tuo canto col mio?
Oh, come bramo quel giorno!


03/06/2010 19:03
 
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brava continuaaaaaaaaaaaaaaaaa





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