Any Dream Can Become True (in corso). Rating: verde

Ultimo Aggiornamento: 22/06/2011 17:01
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13/07/2010 14:14
 
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marty.jackson, 10/07/2010 20.59:

che bello Ambra!! sento che succederà qualcosa tra i due...vero?? che romantica la parte in cui ballano [SM=g27836] e poi con quella canzone!!è stupenda! quando posti il prossimo? non vedo l'ora di sapere cosa succederà dopo!
bacii [SM=x47938]



Grazie Marty, ormai non so più che dire per ringraziarti dei complimenti [SM=x47938] Se succederà qualcosa non posso dirlo, non ora. ^-^ Il tempo risponderà al posto mio <3 Bacioni!

BEAT IT 81, 11/07/2010 23.20:

Oddio Tati, occhi a cuore a mille, la scena del "ballo della mattonella" poi è così romantica.....che sogno!!!! Lo sapevo che Cupido aveva colpito, me lo sentivo ;-))))) , speriamo bene, xè Sharon e Mike insieme sono troppo belli :-))))))) . Bravissima come sempre e ottima scelta musicale direi ;-)))))))). Bacione Sara



Sono riuscita ad emozionarti così tanto? Mio Dio, sono orgogliosa di me stessa! Pienamente orgogliosa di me stessa! [SM=x47964] Cupido in questa storia ha già colpito, manca solo affondare i due nella consapevolezza che si amano reciprocamente. ;D Grazie per il complimento sulla scelta musicale ^-^ Bacioni!!!

minamj, 12/07/2010 9.55:

Fantastica!!!!
Mi hai rapita con questa puntata [SM=g27823]
Si,ho visto un Michael sereno e libero di
poter essere se' stesso!!
Sharon ha tutte le qualita' per renderlo
felice.Vero Ambra? [SM=x47928]
Dimmi che sara' cosi'. [SM=g27811]

Aspetto la prossima puntata

[SM=x47932] [SM=x47932]



Mina, tu mi onori! [SM=x47963] Spero di "rapirti" anche coi prossimi capitoli, perchè spero saranno abbastanza emozionanti da continuare a conquistare! Sharon ha le qualità per renderlo felice, sì, vediamo però se riusciranno a superare tutti gli ostacoli... Ma questo è un segreto per ora! [SM=g27824] Alla prossima, tanti baci! [SM=x47938]


huhu91, 12/07/2010 11.59:

vogliamo il continuo vogliamo il continuo vogliamo il continuo vogliamo il continuo vogliamo il continuo vogliamo il continuo [SM=x47918] [SM=x47918]



[SM=x47979] lo sposterò domani se riesco a finire entro oggi il capitolo dell'altra storia, dato che è moooolto lungo. [SM=x47982]
bacioni! [SM=g27828]

dirtydiana66, 12/07/2010 12.41:

vogliamo il continuo, grazie



entro domani sarà pronto probabilmente! [SM=g27823]

mimma58, 12/07/2010 12.49:

che romanticismo,il seguito per favore



domani se faccio in tempo sposterò [SM=g27829] grazie mimma per il complimento!

È difficile dir loro ciò che sento per te. Non ti hanno mai conosciuta, e non sanno come sei fatta. Come fanno a sapere il tuo mistero? Diamo loro un indizio.
Due uccelli sono su un albero. Uno mangia le ciliegie, mentre l’altro sta a guardare. Due uccelli volano nel cielo. Il canto di uno scende giù dal cielo come cristallo, mentre l’altro resta in silenzio. Due uccelli roteano al sole. Uno riflette la luce sulle sue piume argentate, mentre l’altro distende le sue ali invisibili.
Non è difficile capire quale dei due uccelli sia io, ma non riusciranno a capire chi sei tu. A meno che…
A meno che non sappiano cos’è un amore che non interferisce mai, che guarda da dietro, che respira libero nell’aria invisibile. Dolce uccellino, anima mia, il tuo silenzio è così prezioso. Quanto passerà prima che il mondo possa udire il tuo canto col mio?
Oh, come bramo quel giorno!


13/07/2010 14:21
 
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Certo che sei riuscita ad emozionarmi, la parte del "ballo della mattonella" è così intensa, romantica e piena d'amore che il mio animo da super romanticona nn poteva nn restare colpito ;-))))). Evvai, stavolta ho avuto ragione!!!!! Speriamo allora che i due ragazzi si diano una svegliata, forza Sharon e Mike, qui è nato l'Amore, quello vero, nn fatevelo sfuggire!!!!!! Nn vedo già l'ora di leggere il seguito ;-)))))). Bacione Sara

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19/07/2010 13:24
 
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Toc toc? C'e' nessuno?
Ambra? [SM=x47948]
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25/07/2010 20:47
 
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[SM=x47963] [SM=x47963] ti prego posta





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Taty, ma che fine hai fatto? Ti prego, posta!!!!!

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28/08/2010 15:22
 
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Madonna mia, ti prego posta ke è bella la tua ff!!!
15/09/2010 20:41
 
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Ambra tutto bene?
Che succede?
Un abbraccio

20/05/2011 23:05
 
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Come ho già detto in un topic di presentazione, sono tornata. Vi chiedo scusa dal profondo del mio cuore - sia per avervi lasciato senza una spiegazione sia per non essermi comportata nel modo migliore.
Voglio ricominciare a frequentare il sito con maggior frequenza, lasciando alle spalle la crisi che mi ha allontanato da questo sito mesi fa... e posso ricominciare facendovi leggere la fine di questa storia, come mi ero ripromessa tempo fa.
Grazie immensamente per il vostro sostegno anche durante la mia assenza... il vostro amore mi commuove. Grazie...

È difficile dir loro ciò che sento per te. Non ti hanno mai conosciuta, e non sanno come sei fatta. Come fanno a sapere il tuo mistero? Diamo loro un indizio.
Due uccelli sono su un albero. Uno mangia le ciliegie, mentre l’altro sta a guardare. Due uccelli volano nel cielo. Il canto di uno scende giù dal cielo come cristallo, mentre l’altro resta in silenzio. Due uccelli roteano al sole. Uno riflette la luce sulle sue piume argentate, mentre l’altro distende le sue ali invisibili.
Non è difficile capire quale dei due uccelli sia io, ma non riusciranno a capire chi sei tu. A meno che…
A meno che non sappiano cos’è un amore che non interferisce mai, che guarda da dietro, che respira libero nell’aria invisibile. Dolce uccellino, anima mia, il tuo silenzio è così prezioso. Quanto passerà prima che il mondo possa udire il tuo canto col mio?
Oh, come bramo quel giorno!


21/05/2011 23:58
 
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CAPITOLO OTTO
PUNTO DI VISTA: SHARON VILLA


Finalmente Michael! Stavo cominciando a preoccuparmi per voi!», disse l’assistente coreografo di Michael, Jonathan, un uomo alto e scuro di pelle, sui trent’anni.
Quando arrivammo in sala di prove io e Michael eravamo sfiniti, ansimanti dalla corsa appena svolta, in ritardo di ben mezz’ora di lezione persa. Non sapevamo se ridere o cercare di respirare invece, vedendo le poche facce che stupite e scioccate ci guardavano. Alcuni evidentemente se ne erano già andati, visto il numero di persone ridotto rispetto al giorno prima.
Ma il ritardo ne valeva la pena. Ne era valso la pena. Quella sera era stata una delle più belle passate nella mia vita, non mi ero mai sentita così felice. Con Michael ero riuscita a tornare per alcuni momenti una bambina, e poco dopo un’adulta. Capiva il mio dolore d’infanzia, poiché credevo fosse veramente sincero. Chissà come, non riuscivo a non aprirmi.
Il ricordo della sua mano sulle mie guance, il suo respiro soffocato sulla mia fronte, il contatto soffice con la sua pelle… Questi piccoli dettagli aumentavano i brividi sul mio corpo, e se pensavo alla nostra attività di cuochi mi venne da ridere. Con lui non avevo limiti. Le mie barriere cedevano e si frantumavano in mille pezzi grazie ai suoi occhi e al suo sorriso.
Michael e io ci guardammo, con un’occhiata d’intesa e furbesca, nascondendo un sorriso. «Devi scusarci Jonathan, c’era traffico… Abbiamo cercato di fare più presto possibile».
Soffocò poi una risata, e lo sguardo del suo assistente si posò su di me. Chissà come mai mi dava l’impressione che pensava fossi io il motivo principale, ma rispose con un sorriso ed un’espressione esasperata. Sorrisi di rimando, poggiando i miei occhi di nuovo verso Michael, il quale m’osservo curioso.
«Certo che sei una cosa impossibile», disse una voce fuori dal coro, e dalla postazione accanto a La Toya – la quale mi scrutava attentamente con lieve sorriso – avanzò una ragazza, scura di carnagione, con una finta espressione arrabbiata e stressata. Michael la osservò, per poi sorridere felice.
«…Per una volta che vengo a vederti ballare, ora tu arrivi in ritardo?», disse la giovane, avvicinandosi pericolosamente a lui. Sentii una morsa allo stomaco.
«Janet…», disse Michael, correndole incontro. Santo cielo, sua sorella! Si abbracciarono, così strettamente che una morsa di gelosia mi attanagliò. Come potevo essere gelosa di lei?
L’abbraccio durò pochi secondi, poiché lo sguardo di Janet svoltò curioso verso di me. Io sorrisi, timida, e lei guardò suo fratello perplessa, quasi confusa.
«Oh, ti presento Sharon…», disse Michael, avvicinandosi con sua sorella verso me. «Sharon, questa è mia sorella Janet, la più piccola della nostra famiglia. E’ una peste…».
Subito Janet si illuminò, ignorando le parole del fratello. «Sharon? È un piacere davvero conoscerti! Mio fratello ha parlato molto di te…», rispose, ammiccando uno sguardo fulmineo al fratello, il quale spalancò gli occhi.
Lo guardai sorpresa, mentre lui arrossato si affrettò a rispondere. «Sì, ok, Janet…», intendendo con quella frase che doveva stare zitta. Subito la sorella si affrettò a guardarmi, facendomi l’occhiolino.
Risposi a quel gesto con un sorriso, nel frattempo che Michael mi guardava preoccupato. Mi sentii onorata del fatto che lui ne avesse parlato, poiché forse questo era un segno che probabilmente non ero invisibile almeno per Michael. Questo poteva avere il suo significato nascosto. A quel pensiero, un’improvvisa emozione di benessere mi contagiò ogni cellula del corpo.
«Michael, che ne dici, facciamo lezione?», chiese il coreografo, interrompendo il discorso. Tutti gli sguardi si posarono su di lui, il quale valutò silenzioso la situazione e le persone presenti.
«Be’, è tardi ormai… Se avete qualche altro impegno forse è meglio chiudere qui. Mi dispiace solo avervi fatto perdere tempo…», disse Michael, con tono di sincere scuse.
Tutti acconsentirono all’idea, dicendo di non scusarsi, e rimanemmo in sala solo io, Michael, Janet, l’assistente coreografo e due ragazze, fra cui La Toya e un’altra mora. Rimasi perplessa sull’ultima, poiché il giorno prima alle prove non l’avevo vista. Forse probabilmente era una ballerina che era mancata alle prove di ieri.
Michael andò a discutere con Jonathan riguardo alla coreografia e alla sistemazione delle prove necessarie da risistemare nei vari orari di lezione, e la sorella, Janet, mi si avvicinò lenta, con un sorriso aperto e curioso che ricambiai senza esitare. Aveva quasi lo stesso sorriso di Michael, perfino alcune sue stesse espressioni, ma mai paragonabile a quello del fratello.
«Quindi tu sei la sensazionale ballerina che emana un’energia e un’adrenalina strabiliante quando balla? Michael ci ha detto che sei stata magnifica al provino!»
Mi sentii avvampare d’imbarazzo, soffocando una risata. «Be’… Non sono così brava». Non mi sbilanciai a commenti, siccome non volevo pensasse che fossi qualcuno che non ero, prontamente cauta.
«Michael ha detto il contrario. Secondo lui sei meravigliosa!», esclamò Janet, guardandomi negli occhi curiosa della mia reazione. «Una volta voglio proprio vederti ballare!»
Io avvampai ancora di più, annuendo, nel frattempo che la ragazza mora si avvicinò a noi e La Toya ci salutò, dicendo che se ne andava per conto suo a causa di un appuntamento. La ragazza mora mi si fece avanti con un sorriso e si presentò, cauta.
«Ciao Sharon, io sono Vanessa Russell. La scorsa lezione non ero presente, perciò colgo l’occasione per presentarmi», disse, con aria gentile. «E’ davvero un piacere conoscere la ragazza protagonista del video di Mike. Non vedo l’ora che diventiamo amiche io e te».
Primo: la sua voce così vellutata era troppo soft, in confronto all’espressione dei suoi occhi inespressiva. Secondo: chiamava Michael con il nome Mike, e dato che neanche il suo coreografo l’avevo mai sentito chiamarlo così, forse dovevo dedurre fossero più di semplici amici. E terzo: quando una – a mia esperienza – dice che non vede l’ora di diventare mia amica, è una bugia.
In ogni modo, sperando che le mie supposizioni fossero infondate, sorrisi cordiale, ormai abituata col tempo a lasciar scorrere. Con gli anni avevo imparato a trascurare situazioni o persone che non meritavano la mia attenzione, in questo caso cercai di non lasciarmi influenzare dalle mie malignità.
Ci stringemmo la mano, poi la nostra attenzione venne attirata da Jonathan, il quale ci salutò e si diresse anch’egli fuori dalla sala. Rimanemmo solo in quattro, e lentamente Michael si avvicinò a noi tre. Povero, non avrei voluto essere nella sua situazione: circondato da ben tre donne, e lui, l’unico uomo. Mi venne da ridere, tanto che dovetti trattenere un’evidente smorfia divertita.
«Senti Michael», disse Vanessa, guardandolo con occhi blu intenso e attenti, dando appena appena le spalle a me e a Janet. «Hai impegni per questa sera?»
Sentii il mio respiro bloccarsi per un secondo, un tempo così perenne da sembrare di soffocare. Lo sapevo. Lo sapevo! C’era qualcosa che non mi quadrava, ed avevo ragione. Guardai con occhio cupo prima lei, poi Michael. Lui mi rivolse un’occhiata fulminea, preoccupato riguardo alla reazione. Feci finta di non aver sentito e mantenni un’espressione neutrale.
«In realtà dovrei accompagnare a casa Sharon…», rispose, fissandomi. Mi accorsi, nello stesso tempo in cui Vanessa mi schioccò un’occhiata finta perplessa, che Janet mi osservava con cura.
«Oh… Be’, una volta accompagnata a casa possiamo…», non disse oltre, poiché la interruppi subito. Non volevo sentire più una parola pronunciata con quella voce da ochetta giuliva.
«Puoi portarmi direttamente a lavoro, Michael. Mi faranno bene degli straordinari». Sentivo che la mia voce era cupa, ma in quel momento non mi preoccupava affatto la loro reazione.
Michael mi guardava fra lo sbalordito e il pensieroso, e un sorriso lieve comparve fra le labbra di Janet. Vanessa spalancò lieve la bocca, poi disse: «Lavori? Dove?»
Storsi la bocca in una smorfia di dubbio e riflessione, intuendo che se avessi detto che lavoravo ad un locale, lei avrebbe sicuramente proposto quel luogo come “posto da appuntamento”. Purtroppo, a malincuore, dovetti dire la realtà dei fatti. Non dovevo mostrarmi gelosa. No. Mai. Io non ero gelosa…
«Lavoro in un locale…», dissi, lanciando uno sguardo inquisitorio verso Michael, il quale irrigidito sul posto mi fissava con fare perplesso. Intanto, gli occhi di Janet erano un vagare fra me e Michael.
«Allora siamo fortunati! Che ne dici, Mike? Ci andiamo anche noi?». Quanto avrei voluto ucciderla. Lei e quella sua voce tanto innocente quanto perfida… Peggio di Gloria e Jenny e di Mrs. Phillips.
Michael sospirò sottile, per poi guardare Vanessa. «D’accordo. Come vuoi tu». Lo strozzavo. Giuro che l’avrei ucciso. Trattenni il fiato per evitare un urlo soffocato.
Perché aveva accettato? Perché non aveva rifiutato cortesemente quell’invito? Dentro di me una vocina diabolica mi chiedeva se fosse il caso di prendere entrambi e gettarli giù dal piano più alto dell’edificio. Un volo non sarebbe stato poi così male, rispetto al fuoco che sentivo a divampare nella mia anima.
«Vengo anche io, vi dispiace?», disse improvvisamente Janet, con un sorrisetto. Subito lo sguardo di Vanessa si fece serio, mentre trattenni a stento una risata sadica. Michael era esterrefatto.
«Ma certo. Preparo un momento le mie ultime cose nella tracolla e chiamo casa…», rispose tranquilla, ma con espressione concentrato, con sorriso che definii falso in tutti i sensi.
«Io vi aspetto fuori», ripresi io, non nascondendo la voglia di andare via. Michael mi fissò scioccato, mentre io con un sorriso mi diressi fuori, così veloce che sembrava avessi corso.
Raggiunsi la porta della stanza, per poi fiondarmi fuori. Mi appoggiai alla parete, ma non ci rimasi se non più per pochi secondi. Mi ritrovai a dirigermi verso il corridoio, lenta. Nel frattempo sfogavo sui miei capelli la rabbia verso me stessa, quella Vanessa e Michael, rendendoli ancora più ricci di quelli che erano di già. Guardavo in basso e riflettevo sulla mia stupidità.
Era ovvio che io non avevo nessuna possibilità di competere con quella ragazza. Lei di sicuro già lo conosceva da un pezzo, ed era addirittura affascinante. Ma perché mi affezionavo troppo in fretta alle persone a me vicine? Perché non imparavo mai dai miei sbagli?
Odiavo soffrire, e sapevo che se non cominciavo a darmi una regolata perfino con lui avrei patito più dolore che, con gli anni, era risultato meno sentito. Ma le mie barriere inflessibili all’esterno erano state sbriciolate in un secondo con Michael. Con lui ero me stessa, ogni muraglia era destinata a crollare. Non potevo lasciarmi sopraffare così, dovevo ritornare in me.
«Sharon», sentendomi chiamare mi volsi di scatto. Michael mi guardava serio, con una nota di rammarico. Io, di riflesso, lo squadrai da capo a piedi e mi posi in volto una faccia neutrale.
«C’è qualcosa che non va? Mi sembri seria…». Mi venne da ridere, ma mi trattenni. Sarebbe stata una risata di rabbia la mia. Guardai la parete a sinistra, lo fissai e poi scossi la testa, innocentemente.
«Perché mai?», risposi lasciando trasparire dalla voce una risatina che mi parve, invece che divertita, irritata. Ce l’avevo da morire con lui riguardo al fatto che aveva accettato il suo invito…
«Sharon», disse lui, avvicinandosi a me con passo lungo ma tranquillo. Sentii il cuore tornare in gola. «Capisco che c’è qualcosa che ti disturba… Me lo puoi dire. Posso capire».
All’ultima frase scoppiai a ridere, così convulsamente che sembravo una pazza isterica da ricovero, e Michael mi fissava sbigottito. Voltai lo sguardo verso il soffitto, sentendo l’avanzare di un istinto omicida.
«No, Michael. Non capiresti», esclamai convinta, sull’orlo di una crisi di nervi, tornandolo a guardare, con mani congiunte sui fianchi. Mi guardava confuso, poi una luce apparve nei suoi occhi.
Mi osservò scioccato, e qualcosa dentro di me mi disse che era probabile che avesse intuito… Intuito che cosa? Io non ero gelosa… Perché mai avrei dovuto esserlo? Di una gasata come lei? Di lui? Eppure, se non lo ero, come mai non riuscivo a lasciar scorrere la situazione?
«Non ti piace Vanessa?». Sentii un blocco allo stomaco e in parte mi decisi che aveva indovinato una parte di quella verità nascosta. Storsi la bocca, non sapendo se mentire o annuire, continuando a guardarlo.
Fece comparire in volto un espressione corrugata. «Se hai qualsiasi problema puoi dirmelo. Cercheremo di risolverlo insieme…». Ma come cavolo poteva non capire quello che provavo?
Eppure il suo sorriso… I suoi occhi imploranti… Perché mi faceva quell’effetto? Stava cominciando a piacermi, a piacermi sul serio, e non dovevo. L’esperienza avrebbe dovuto farmi crescere, ed invece tentavo a cadere al tranello di nuovo.
Però, sebbene la mia testa e la mia coscienza mi dicesse di stare all’erta e non fidarmi, il mio cuore voleva credere in lui. Avevo paura. Stavo pensando a come scappare, ad una soluzione che mi portasse il più lontano possibile da lì, da Michael. Lontano da una delusione che la mia mente mi diceva che, prima o poi, sarebbe arrivata. Da quando, dopotutto, la fortuna era dalla mia parte?
Sospirai, spalancando esasperata le braccia, alzando gli occhi al cielo. «Te l’ho detto. Non ho un bel niente. Sto bene, non sono arrabbiata né nervosa, sono solo…» …gelosa?
Qualcosa nello sguardo di Michael mi bloccò. Era pensieroso, pieno di dubbi, ma non potevo aiutarlo. Se voleva capire che cosa mi faceva fastidio doveva sforzarsi di capirlo da solo. Lo avevo sempre saputo che ero una ragazza orgogliosa e che non ammette la sua gelosia, ma non era questo il punto: se gli fossi piaciuta, avrebbe rifiutato l’invito di Vanessa. Ma lui non lo aveva fatto, e io ci ero rimasta male…
Mi bloccai prima di finire la frase, stringendo i denti non solo per l’errore che stavo compiere, ma anche per l’arrivo per niente atteso di Vanessa, accompagnata da Janet.
«Eccoci», disse Vanessa, con un sorriso da bambola diabolica sul volto. Quanto avrei voluto fulminarla con lo sguardo, impedirle di avvicinarsi morbosamente a Michael con quella sua camminata felina.
Silenziosi ci dirigemmo verso l’uscita, accompagnati dalle guardie del corpo di Michael dentro l’auto parcheggiata proprio di fronte all’edificio. Ogni mio neurone cercava di concentrarsi sull’arrivo al locale, ma era tutto inutile. Non potevo fare a meno di essere arrabbiata, di mostrare a Michael il mio volto riempito da un’espressione vuota e inespressiva.
In macchina, mi ritrovai all’angolo del finestrino sinistro, accanto a Janet, seguita poi a ruota da Vanessa e Michael. Nel frattempo che sia lui e sia sua sorella si travestirono con sciarpe e cappelli, per far modo che non si notassero più di quanto già si riconoscevano anche ad un cieco, l’innocente Vanessa cominciò a fare la divertente e dolce con Michael.
Io rimasi per tutto il viaggio in auto zitta, alcune volte guardando fuori dai vetri oscurati le luci della città, ignorando con tutte le mie capacità di concentrazione la voce malignamente soave di Vanessa. Perfino quella di Michael, in quel momento, riusciva a mettermi rabbia.
In quel attimo l’unica cosa di cui avevo bisogno era il suo sorriso, il suo contatto, nonostante non potessi fare a meno di odiarlo in un momento come quello. Forse non avevano sbagliato – le persone che mi stavano intorno – a dire che ero pazza. Una pazza orgogliosa e gelosa, possessiva, che in realtà mostrava di essere arrabbiata invece che di soffrire come una matta.
Quando capitava svolgessi i miei occhi su Michael, lo trovavo ad osservarmi attento, inquieto. La sorella, intanto, mi rivolgeva sorrisi cordiali e dolci, a volte alzando gli occhi al cielo per la risata acuta di Vanessa. In compenso, grazie a lei non tutto il tempo passato in quella macchina era una depressione totale. Pensavo che perfino avesse capito più lei del fratello riguardo i miei sentimenti!
Senza enunciare parola ed ignorando completamente gli sguardi che mi rivolgeva Michael, arrivammo finalmente al locale. Per fortuna quel giorno – di domenica sera – il locale era abbastanza vuoto, tanto bastasse per non far risaltare all’occhio lui e Janet. Scesi immediatamente dall’auto, di corsa, rischiando perfino di inciampare nelle mie stesse scarpe, di nuovo.
Sentii una risata cristallina e vomitevole alle mie spalle – era senza dubbio quella di Vanessa –, e senza curarmi che gli altri mi seguissero proseguii verso l’interno del locale, verso la mia seconda casa.




CAPITOLO NOVE
PUNTO DI VISTA: MICHAEL JACKSON


Mi diressi a sguardo basso verso l’interno del locale, seguito a ruota da Vanessa, poco più indietro rispetto a Janet. Sharon era corsa subito verso il bar, lasciandomi ad osservarla senza una parola, scombussolato.
Era stata molto strana con me da quando aveva conosciuto Vanessa. Era lei la causa principale del suo malumore, ma non sapevo definire perché. Era fredda, non mi rivolgeva il suo sguardo, e io mi sentivo come un cane bastonato. Non mi aveva rivolto parola da quando eravamo stati interrotti, in corridoio, e cercava sempre di evitare i miei occhi. Non riuscivo a capire perché fosse arrabbiata.
Vanessa era solo una delle ragazze del video, l’avevo conosciuta il giorno dei provini per le comparse, e avevo intuito da subito che le piacevo. Purtroppo per Vanessa, a me lei non interessava. Mi dispiaceva però deluderla, perciò non ero riuscito a dirle di no riguardo l’appuntamento. Era bella, affascinante, ma non era… Non era come Sharon. Sharon era solare, divertente, dolce, energica... Unica.
Non potevo assolutamente paragonare lei a Vanessa, eppure Sharon non sembrava capire questo fatto importante. I miei occhi e il mio cuore erano attratti principalmente da lei, e da nessun altro. Lei era la voce fuori dal coro, l’unica che, come me, andava contro la corrette, quella nella quale le persone vedono in un modo differente da noi il mondo.
Non potevo mentire. Per tutta la cena con Sharon ero stato bene e dal momento che non mi aveva più rivolto il suo sorriso, ma solo uno sguardo neutro, mi ero sentito vuoto. Lei mi piaceva e me ne ero accorto solo dopo quell’attimo di freddezza tra noi. Volevo esserle accanto, non riuscivo a resistere all’idea che fossi io, in qualche modo, a farla soffrire.
Quando entrammo nel locale ci posizionammo in un angolo, quello dove mi ero seduto il giorno prima, e notai che non c’erano molti clienti quella sera, circa una decina. Di solito ce ne erano al massimo una ventina o molti di più, da quando ero entrato per la prima volta.
Con lo sguardo cercai Sharon e la vidi andare dietro il bancone, di corsa, non degnando di uno sguardo nemmeno Ilary, la ragazza sua amica. Anch’ella rimase di stucco dal suo atteggiamento furioso e d’improvviso si propense a fissarmi, stupita. Mi sentii sprofondare dalla vergogna che fosse colpa mia ma non distolsi lo sguardo, finché Ilary perplessa cominciò a bisbigliare a Sharon.
Osservai con cura Sharon rispondere alla ragazza con espressione arrabbiata, delusa. Rivolgeva continuamente il suo sguardo da Ilary al banco o alle ordinazioni che svolgeva, senza lanciare il benché minimo sguardo su di me. Mi sentivo vuoto.
Vidi più volte Sharon aggrottare il volto, mostrando il broncio come una bambina piccola, fino a quando non prese l’amica per il polso e si diresse fuori dal bancone, lanciando ad un ragazzo lo straccio per pulire, segno evidente che dovesse prendere il loro posto per il momento.
«Ehy Mike», disse melodiosa Vanessa, attirando mal volentieri il mio sguardo verso di lei. Mi accolse con un sorriso a 32 denti. «Che pensi di prendere da bere?»
Mia sorella intervenne, sebbene non interpellata. «Io prendo una Soda, se ovviamente sei così educata da chiedere anche a me l’opinione».
Strike uno a favore di mia sorella.
Vanessa tornò seria, mentre un lieve sorriso mi comparve fra le labbra. «Io penso di prendere una Cola, per questa serata. Non bevo alcolici. Chiamiamo il cameriere?»
«Io in realtà vorrei andare in bagno un attimo, se arriva puoi – potete – ordinare una Cola anche per me?», chiese Vanessa. Io annuii e lei si diresse a passo svelto al bagno, chiedendo prima dove fosse al banco.
Una volta sparita dalla mia vista e quella di Janet, mia sorella prese a fissarmi. Io la osservai di rimando un attimo, poi guardai di nuovo il bancone. Ma lei continuava a guardarmi imperterrita.
«L’hai uccisa, lo sai?», disse, interrompendo bruscamente ogni mio pensiero. Mi voltai di scatto, serio, fissandola negli occhi. Janet, tranquilla, mi osservava con un lieve sorriso fra le labbra.
«Di che parli?», chiesi, cercando di capire se avesse intuito a chi stavo pensando. Lei ruotò gli occhi verso l’alto, sospirando impaziente. Poi tornò a guardarmi, come fossi un caso senza speranza.
«Sai di chi parlo. E ti dico che, accettando la proposta di Vanessa, si può dire che tu l’abbia “colpita ed affondata”. Mi sa che ti ci voglio io per capire fino a che punto l’hai delusa…»
Il mio sguardo passò al tavolo, non potendo più reggere il suo sguardo accusatorio, nel frattempo che i miei sensi di colpa aumentavano a dismisura. L’avevo davvero ferita così tanto come faceva intendere Janet?
«Secondo te è arrabbiata tanto da non parlarmi più?», risposi, lanciando una fugace occhiata al bancone, sospirando poiché Sharon non si faceva ancora vedere. Che stava facendo?
«Questo non lo so. Di sicuro ci è veramente rimasta male», disse Janet, bloccandosi quando il cameriere intervenne per le nostre ordinazioni. Ordinammo e se ne andò spedito al banco, poi continuammo.
«Parlale, magari risolvete», riprese mia sorella, guardando verso la toilette per vedere quando arrivasse Vanessa. Io scossi la testa, confuso da morire. Avevo il caos nella mente.
«Non penso mi parlerebbe. Ci ho provato anche prima, ma non voleva dirmi niente. L’ho ferita e non so come fare per rimediare...», risposi. Davvero non sapevo che dovevo fare.
Mi sentivo attanagliato dentro da un timore allucinante, così potente da farmi venire mal di testa. Nella mia mente, rivedevo lo sguardo di Sharon. Dovevo rimediare. Assolutamente.
«Provaci un’altra volta, falle capire che ti dispiace. È difficile, ma prova...», dopo una breve pausa, continuò. «Se ti interessa sul serio, tenta. A lei piaci, e molto anche...»
«Da cosa lo deduci?», ma non rispose, poggiando lo sguardo alle mie spalle, in direzione di Vanessa, appena seduta accanto a me. Non mi ero accorto che era arrivata, perciò mi ammutolii.
«Avete ordinato?» chiese con un sorriso, col tentativo di rompere il nostro improvviso silenzio. Io e Janet annuimmo, muti, e con un ultimo riso si propense con noi a guardare le varie esibizioni live.
Ma la mia mente era assente. Ero dall’altra parte della sala, con Sharon. Il mio pensiero era a lei. Cercavo in tutti i modi una soluzione, un coraggio che mi mancava, una paura nella sua reazione e in quello che sarebbe successo se avessi parlato con lei. Mi avrebbe perdonato? Oppure avrebbe continuato per sempre a tenere quella nuova barriera di freddezza fra noi?
L’unica cosa di cui ero certo era che non potevo starmene lì, fermo, mentre lei stava male. Stavo male anche io. Come potevo resistere a lungo senza il suo sorriso? Senza i suoi occhi pieni di quella luce speciale ed indefinibile? Come potevo tener duro di fronte al suo sguardo offeso e amareggiato a causa mia?
Nel frattempo che riflettevo sui miei sentimenti e dubbi, vidi Ilary – l’amica di Sharon – al bancone senza l’amica. Allo tempo stesso quando mi accorsi che Sharon era assente, mille domande cominciarono a vorticarmi in testa sul perché non ci fosse. Sentii l’istinto di alzarmi in piedi, ma quando Ilary mi guardò qualcosa mi disse di non muovermi.
Nel suo volto, un misto fra confusione e compassione mi attraversò dentro, facendomi intendere che nel significato di quell’occhiata c’entrasse anche Sharon. Mi rivolse un mezzo sorriso dispiaciuto, poi tornò alle ordinazioni.
I clienti arrivarono fino ad una quindicina abbondante, la musica continuava a risuonare e la voce di Vanessa riprese a parlare con me… Ma io non ero presente. Totalmente assente da quel luogo, aspettavo lei. Il perché di come riuscisse a rendermi così preoccupato per lei, in quel attimo, passò oltre tutto. Oltre la mia confusione, il mio rimorso.
Rispondevo cordialmente a Vanessa, ma sapeva anch’ella che non era il momento giusto per rivolgermi parola. Con un fulmineo sguardo vidi Ilary avvicinarsi con le nostre ordinazioni.
«Ecco a voi», disse una volta poggiando i drink a ciascuno. Prima di andarsene mi rivolse un’occhiata curiosa ed attenta, e poco dopo pochi passi mi alzai in piedi, volenteroso a raggiungerla.
«Michael!», disse Vanessa, sbalordita, sotto lo sguardo sorridente di mia sorella. Subito Janet mi lasciò lo spazio per passare, aumentando il fastidio dell’altra. Altro strike per lei.
Ringraziai mia sorella con un cenno del capo, dirigendomi veloce verso la ragazza. Una volta raggiunta, con un lieve tocco sulla spalla la chiamai a voltarsi verso di me, con occhi strabuzzati.
«Scusami…», dissi, riprendendo poi cercando un tono che non facesse riconoscere la mia voce. « Ehm, sai dove posso trovare Sharon, la tua amica? È importante, davvero…»
Alla mia frase rimase di sasso, a bocca aperta, incapace di formulare qualcosa di concreto. Volse il suo sguardo verso le quinte del palco, per poi guardarmi di nuovo negli occhi. Per un minuscolo attimo pensai che probabilmente mi aveva riconosciuto, perciò mi allontanai di mezzo passo.
Neanche emise parola, che d’improvviso il palco si oscurò, pronto ad accogliere una nuova esibizione.
Una donna di mezza età, dai capelli biondo cenere e occhi straordinariamente verdi, salii sul palco, illuminata da una delle luci bianche. Sorridendo, venne accolta con un applauso da tutti i presenti, mentre io rimanevo in piedi immobile. Un flash nella mia mente mi ricordò che era la donna che, due sere prima, aveva cantato con Sharon, il primo giorno in cui ero al locale.
«Buonasera! …Grazie, grazie», disse, sorridendo ai molti applausi dei presenti. Dette un colpo di tosse leggero e poi riparlò. Io e Ilary, nel frattempo, non ci muovevamo di un millimetro, guardando la donna.
«Mi sembra davvero il caso di movimentare la serata, che ne dite?», urli da parti dei clienti, poi continuò con il sorriso. «Vedo che siete d’accordo, be’… Penso che solo una persona sia quella più adatta…»
La donna fece una faccia finta confusa, poi sorrise nuovamente. «Vediamo… Posso farvelo capire cantando questa canzone… Mh… Just a still town girl on a Saturday night, lookin’ for the fight of her life, in the real-time world no one sees her at all… they all think she's crazy»
Un applauso e gridi di contentezza si levarono non solo per l’intonazione eseguita con la frase, ma perché evidentemente avevano capito chi era. A solo poche parole, io aveva già intuito chi fosse. Sentii il respiro bloccarsi per un secondo, subito dopo il cuore.
«Dato che avete capito chi è lei, lasciamole posto con una delle sue meravigliose coreografie… Signori e signore, buona permanenza al locale». E così dicendo, scese giù dalla scaletta del palco, mentre l’oscurità ricopriva di nuovo il palco e l’attesa – per me – si faceva sempre più estenuante.
Ilary rivolse un’occhiata fuggevole verso di me, in attesa che continuassi il discorso o che aspettassi impaziente la sua risposta, ma in quel momento l’unica cosa che desideravo era vedere Sharon ballare. Quanto bramavo quell’attimo di adrenalina. Forse quello sarebbe riuscito a darmi la forza e il coraggio per andarle a parlare. Almeno, lo speravo.
D’improvviso una musica leggera, una chitarra, accompagnato dal continuo schiocco delle dita, dette l’indizio che l’esibizione stava per incominciare. Una luce tenue illuminò un corpo femminile, la quale avanzava sicura attraverso l’oscurità del palco scenico. Quella canzone era anch’essa di Flashdance, il titolo era “He’s A Dream”, la stessa che balla Alex nel film quando la si vede danzare per la prima volta.
Pochi secondi la sua entrata accenna a qualche passo suo, poi prima che la musica cominciò a farsi più movimentata finalmente una luce bianca la illumina; e io rimasi paralizzato. Paradisiaca, vestita con pantaloni in velluto e giacchetta neri, senza camicie e solo con un top che le fasciava il petto di color nero, cappello anch'esso nero, seduta su una sedia in mezzo al palco. I suoi capelli ricci e senza legami, occhi e pelle vengono risaltati dalla luce.
Il suo sguardo fu inizialmente serio, poi man mano che la musica si fa più scatenata la vidi sorridere. Girava su sé stessa, produceva passi che non avevo mai visto prima in vita mia, alcune volte chiuse perfino gli occhi. Tutti furono stupefatti, i più audaci riuscirono ad applaudire, ma io rimasi immobile. Non mossi un passo, ma non distolsi i miei occhi di dosso da Sharon.
Era stupenda. Non riuscivo a esprimere nemmeno a me stesso la sensazione che mi fece palpitare dentro nel profondo. Era una farfalla senza catene, a volte sembrava perfino che volasse, alcune volte era così aggressiva ed energica che sembrava una bomba pronta ad esplodere. Era elettricità allo stato puro.
Mi sentii arrossire più volte durante quella sua esibizione. Era così bella che non poteva essere reale. Aveva un fisico curvilineo, più forse di una ragazza dalla corporatura "normale"; sembrava fatta di morbida ceramica di delicata pelle mulatta.
Ad un certo punto, sentii Ilary emettere un suono soffocato, quasi un respiro bloccato. Le lanciai un’occhiata, vedendola con occhi sbigottiti che guardava Sharon sedersi accattivante sulla sedia.
«Non posso crederci che lo vuole fare!», esclamò, non distogliendo lo sguardo dall’amica che intanto sorrise. La mano di Sharon raggiunse una maniglia, agganciata ad un filo, e dentro di me capii quello che volle – o ebbe intenzione – di fare.
Un attimo di silenzio, la musica fece una pausa. Lei chiuse i suoi occhi, mordendosi un labbro inferiore, tirando secca la catena. In un attimo, il suo corpo venne bagnato di acqua, proveniente dall’alto.
Non potevo credere nemmeno io a quello che aveva fatto. Ilary immediatamente si mise le mani in volto, sconvolta, mentre io guardavo Sharon accennando ad un sorriso. Che adorabile pazza!
Ma lei proseguii, nonostante l’acqua sul suo corpo, ancora più scatenata di prima. Era una furia, proprio una maniaca sul palcoscenico, come diceva la canzone di Flashdance. La mia maniaca era sempre così stupenda.
Non riuscivo a staccarle i miei occhi di dosso, sorridendo di rimando, incapace di pensare concretamente a qualcosa di giusto da poter dire o fare, una volta che avesse finito di ballare.
Poi, all’improvviso, Sharon mi rivolse un’occhiata. Era uno sguardo fulmineo, ma il contatto mi procurò brividi sulla schiena; possibile che potesse una ragazza rendermi così stravolto? Forse Janet aveva ragione… Se mi interessava così tanto, non dovevo perderla. Dovevo lottare per ottenere di nuovo il suo perdono. Avevo sbagliato, perciò dovevo rimediare.
Nel frattempo che io continuavo a fissare Sharon, Ilary volse il suo volto verso l’entrata del locale. Pensai fosse entrato un cliente, perciò la mia curiosità non si spinse ad osservare chi fosse. Poi, quando notai una luce di panico nello sguardo, mi voltai anche io amaramente.
Fissava un uomo, alto, dai capelli neri e brizzolati, dagli occhi castano scuro. Azzardai fosse una persona sulla cinquantina, o anche più giovane, e mi chiesi se avesse a che fare con Ilary oppure con Sharon. L’uomo guardò me con espressione vacua, poi lei, con un sorriso.
Volsi i miei occhi verso Ilary – stranamente preoccupato – e la sentii irrigidirsi al mio fianco. Proprio in quel momento la musica finì, e nel frattempo che gli applausi partivano da tutti i clienti Ilary fissò ansiosa Sharon, la quale stava seduta sula sedia e prendeva il respiro.
«Cazzo…», sussurrò Ilary a denti stretti, con occhi spalancati dalla paura. Continuava a guardare Sharon, mentre io guardavo lei. Che stava per succedere adesso, in quel locale? Sharon era in pericolo?
Senza badare a me, Ilary corse verso il palco fino a raggiungere Sharon, la quale la fissava sbigottita. Non mi accorsi che Janet si era alzata e mi aveva raggiunto a fianco, poggiando una mano sul mio braccio.
«Che succede?», disse sottovoce. Non ricevette risposta da me, troppo preoccupato a leggere tra le labbra delle parole di Ilary e Sharon. Nel frattempo, la donna che aveva presentato andò velocemente lungo il corridoio poco illuminato accanto al palco. Nessuno emanava il minimo suono.
Poi, lo sguardo di Sharon incrociò per un breve minuto i miei occhi, poi quelli dell’uomo a pochi metri di distanza da me. La sua confusione si trasformò in shock, poi in rabbia. Una rabbia convulsa da un respiro affannato, mentre si irrigidiva sul posto.
Ilary la guardava con paura – quasi avesse paura in una sua reazione esagerata – e io altrettanto preoccupato. Vederla così agitata, sentivo un immotivato timore pervadermi il corpo e il sangue che mi scorreva fra le vene. L’uomo la guardava con un sorriso, ma qualcosa dentro mi diceva che fosse tutt’altro che cordiale. Provocatorio.
Ma che aveva a che fare quell’uomo con lei?




CAPITOLO DIECI
PUNTO DI VISTA: SHARON VILLA


Il ricordo divampò veloce come un lampo nella mia mente, procurandomi brividi in ogni parte del mio corpo.
Era una sensazione di ribrezzo, disgusto, ansia di una paura e una rabbia repressa del passato che, nonostante il tempo, non riuscivo a placare. Non potevo non dimenticare che cosa mi aveva fatto. Non potevo scordare la profonda ferita che mi aveva provocato nel cuore.
L’unico uomo che avevo amato incondizionatamente in vita mia. L’unico che non sarei mai riuscita a perdonare. L’uomo che mi aveva cambiato la vita in un secondo e mi aveva provocato un dolore che non avrei augurato mai a nessuno: mio padre.
I suoi occhi scuri mi riportavano alla sofferenza terribile che mi aveva portato. Alla violenza che avevo subito. Alla paura che avevo provato, che improvvisamente un giorno si trasformò in rabbia e odio. Il rancore per quello che aveva fatto a mia madre, senza motivo, e a me. Il papà che prima dei miei sette anni d’età pensavo fosse il papà migliore del mondo.

Fino alla morte del fratello.
Mio padre Anthony e suo fratello erano stati fin dalla nascita gemelli, uno non poteva stare senza l’altro.
Quando lo zio morì, per mio padre fu il disastro. Cadde in depressione, non sorrideva più, e una notte tornò a casa ubriaco fradicio, senza più il controllo del suo corpo e della sua mente. Era irritabile, provocatorio… Sembrava posseduto.
Mia madre – che da sempre mi voleva un bene dell’anima – faceva il possibile per impedirmi di credere che mio padre fosse quello che era: un uomo ormai sotterrato dalla rabbia e dalla sua insoddisfazione per la vita. Aveva cercato di impedirgli di fare del male anche a me, ma non ci era riuscita.
Quella notte d’inverno del 1968, quando tornò a casa, picchiò mia madre senza motivo. La violentò. La punì per qualcosa che non aveva fatto. Io non potevo starmene a guardare; ero scesa in cucina, chiedendomi il perché di quel caos, e quando ero intervenuta per aiutare la mia mamma aveva picchiato anche me. Anche io ero stata punita.
Da quel giorno, il papà migliore del mondo si era trasformato in una bestia senz’anima. Soffrivo come una dannata, piangendo sentendo gli urli soffocati di mia madre Alicia e ogni volta subite le sue violenze sul mio corpo e, soprattutto, nel mio cuore.
Che cosa c’entravamo io e mia madre con il suo dolore per il fratello scomparso?! Che cosa avevamo fatto per meritarci tutta questa brutalità. Eravamo sempre stati una famiglia felice, prima di allora. Il suo affetto era stato molto importante per me, e in un secondo era riuscito a svanire per sempre.
Le botte e le violenze andarono avanti per anni, mentre la paura ogni notte tornava. Con l’oscurità, tornava mio padre. Ogni notte la passava in un locale, alcune volte non tornava per giorni e giorni. Era stato licenziato dal suo lavoro, e quando non lo vedevo in casa mi sentivo sollevata. Mi sentivo senza un peso e senza una paura incombente.
Fino a quando morì mia madre.
Avevo solo 18 anni quando se ne andò. La mia vita sembrò andare in frantumi. La mia mamma era morta giovane, per infarto, un giorno quando io non ero a casa. C’era solo mio padre… O meglio dire, colui che un tempo chiamavo padre. Non aveva fatto niente per aiutarla. Niente. L’aveva vista morire.
La collera prese il posto del sangue, asfissiandomi il cervello, tanto che d’istinto colpii con un pugno in volto mio padre. Gli urlai che lo odiavo, che era colpa sua se la mamma non era mai stata felice. Gli dissi che era un bastardo, che non avrebbe mai avuto il mio perdono per avermi rovinato la vita.
Dal giorno del funerale abbandonai la casa dove abitavo con mia madre e mio padre, e andai al college.
La cercai di scordarmi di lui. Cercai di dimenticare il dolore, la violenza, la rabbia, ma l’odio no. Non lo perdonavo non solo per aver picchiato me e la mamma, ma per non averla salvata soprattutto. Era morto per me. Mio padre Anthony era morto all’età di sette anni, questo dicevo a chi mi chiedeva che fine aveva fatto. E mentre dicevo quelle parole, il mio odio diventava maggiore.
Dopo tutto quello che la mamma aveva fatto per me, per noi, per la nostra dignità di famiglia unita… Tutto quello era scomparso per sempre, come cenere. La sua morte aveva definitivamente chiuso il mio rapporto con lui. Ancora ricordavo come avesse cercato di persuadermi a non andare, a restare con lui, solo per un suo interesse di sopravvivenza economica.
Aveva tentato di bloccarmi prima con le buone, con le parole, poi con le cattive; ma io non ero più la bambina di un tempo, debole e senza il coraggio di ribellarmi alla sua stessa violenza. Quando appoggiò la sua mano sul mio braccio di nuovo – nonostante il forte pugno che non gli avevo già risparmiato -, lo avevo colpito in pieno volto. Lui cadde per terra, sanguinante al naso, ed ero corsa via.
Fuori da quell’incubo di una intera infanzia e adolescenza.

E ora, rivederlo lì, a pochi metri da me… Tutto mi sembrava confuso. Il mio cuore batteva all’impazzata dall’odio che ancora, dopo quasi dieci anni dalla nostra “separazione”, avevo cercato di placare inutilmente. Un odio che nessuna qualsiasi anima avrebbe potuto smettere di andare avanti.
Mi sorrideva, falsamente dolce, ma sapeva che non doveva aspettarsi niente da me. Se solo pensava avrebbe avuto il mio perdono, il mio amore, la mia compassione e i miei soldi si sbagliava.
«Sharon...», sussurrò Ilary, guardandomi preoccupata. Io, senza ricambiare lo sguardo intimorito della mia amica, rimasi immobile. Aspettavo una mossa di quel bastardo.
«Ciao, figlia mia…», disse Anthony – non lo chiamavo più papà, poiché addossare quella parola a lui era un complimento che non meritava – con fare gentile. Mi stava provocando.
«Da quando sono figlia tua, eh Anthony?», dissi sottolineando il nome. Lui mosse percettibilmente le labbra, quasi per ribattere, poi da uno sguardo serio sorrise divertito.
«Non chiamarmi così, Sharon. Dimentichi che sei mia figlia?», continuò inclinando lieve il capo. Strinsi le nocche, arrabbiata, e mi diressi verso la scaletta che mi portava giù dal palco.
«No, Anthony», risposi, provocatoria, inarcando un sopracciglio. «Tu non sei mio padre. Mio padre è morto da tanto tempo ormai…»
Lui rise divertito, ma io continuai, avendolo raggiunto a quasi un metro di distanza. «… Da quando io avevo sette anni lui ha smesso di esistere per me».
«Avanti, amore, non essere così», disse con un sorriso tra il divertito e il supplichevole.
«Non chiamarmi amore!», sibilai furiosa. Nei miei occhi lo specchio di tutto l’odio cercato di nascondere si stava risvegliando. «Non ero il tuo amore quando tornavi a casa, ubriaco, alla sera, e picchiavi me e mia madre dandoci la colpa dei tuoi fallimenti!»
Stavo alzando i toni, ma poco mi importava. Non badai nemmeno agli sguardi preoccupati dei clienti, né ad Ilary che mi stava lontano a pochi passi con gli occhi sbarrati dalla paura. Solo uno sguardo, fra tutti, incrociai.
Michael mi fissava da dietro il travestimento con occhi anch’essi sbarrati, un misto fra preoccupazione, dolore e timore. Sua sorella, accanto a lui, lo teneva per una manica della camicia, mentre mi fissava.
«Ero depresso per la morte di tuo zio, lo sai», disse mio padre, avvicinando una mano verso la mia distesa lungo al fianco. Io, con gesto incondizionato, l’allontanai con scatto d’ira.
«Depresso? Ti sembra giusto picchiare e violentare tua moglie e tua figlia – tua figlia?! Chi ti dava il permesso di prendertela con noi e sfogare tutta la tua rabbia per la vita e per i tuoi fallimenti?»
Non mi accorsi nemmeno che la mia voce tremava, rabbiosa, di un dolore soffocato che si stava trasformando in parole di sfogo e lacrime d’odio. Il mio respiro soffocato rendeva perfino difficile parlare.
«Io ti credevo il papà migliore di tutti! E tu mi hai ferito! Ti sembra poco?!», chiesi urlando, non riuscendo più a controllare le lacrime che rendevano la mia vista offuscata e la voce a singhiozzi.
Sentii prendermi un braccio da qualcuno e senza badare chi fosse me lo scrollai di dosso violenta. «Sharon, calmati!», disse John, il mio capo, che nel frattempo era stato chiamato da Isabel.
«No! Io non mi calmo!», urlai disperata e furiosa. Lui indietreggiò di un passo alla vista delle mie lacrime e dei miei occhi ricolmi di odio. Poi, dopo aver osservato tutte le persone alle mie spalle – Ilary, suo fratello, Isabel e John – mi rivolsi di nuovo ad Anthony.
«Che cosa ci fai tu qui? Spiegami che cazzo pretendi ancora dalla mia vita, EH?!», chiesi ormai isterica, avendo perso definitivamente anche il minimo lampo di ragione dentro di me. Mi misi una mano fra i capelli, respirando affannosamente. Continuavo a piangere, facevo fatica a respirare. Mi sentivo morire.
«Pensi davvero di poter tornare qui, ADESSO, e chiedermi di perdonarti? Per chi mi hai preso?! Io non ti perdonerò mai per tutte le botte, per la violenza, per il DOLORE che mi hai causato! HAI CAPITO?!»
Improvvisamente Michael mi si avvicinò, tenendomi per le spalle e avvicinandomi a lui. Io, quella volta, mi lasciai andare. Affondai la testa fra l’incavo del suo collo, continuando a fissare mio padre piangendo. Le braccia di Michael mi tenevano stretta, accarezzandomi le braccia, appoggiando le sue labbra sulla mia fronte, sfiorando i miei umidi capelli bagnati.
Non potevo piangere, perché piangere significava dargliela vinta. Eppure non riuscivo a smettere.
Mio padre mi fissava, inespressivo, per poi gettare il suo sguardo a terra. «Sharon ho sbagliato, scusa. Il fatto che ho bisogno di te… Ho bisogno di mia figlia!», disse con voce bassa e lieve.
Staccai il mio volto dal petto di Michael, tenendomi comunque stretta a lui per le maniche. «Bisogno di tua figlia? È troppo tardi! TROPPO!», urlai infine disperata.
«Shh… Tranquilla…», disse Michael, sottovoce all’orecchio, accarezzandomi i capelli. Nonostante la rabbia, sentii i brividi attraversarmi il corpo. «Ci sono io».
Ilary si avvicinò a me e a Michael, docilmente. «Portala via, Michael», disse. Per fortuna non era svenuta, quando le avevo detto che lui era Michael Jackson… Ma in quel momento non ci feci caso.
Michael mi dette un lieve bacio sulla fronte, continuando ad accarezzarmi. Nel momento in cui mi voltai per incamminarmi con Michael, sua sorella e Ilary, sentii un braccio afferrarmi da dietro, quello di mio padre, e il ricordo di una scena simile attraversò la mia mente. Anche quando era morta la mamma mi aveva preso così. Con la stessa freddezza e pressione che non ammetteva regole. Incontrollata, mi voltai di scatto e lo colpii con uno schiaffo in pieno viso.
Alcuni dei clienti si alzarono in piedi, i loro bisbigli si facevano di shock e paura. Isabel si mise una mano in volto, scioccata; John, corse da mio padre, intento a rialzarlo da terra; nel frattempo che il caos si scatenava, Michael mi afferrò con le braccia legate al mio petto.
«NON OSARE MAI PIÙ TORCERMI CON UN DITO, BASTARDO!», urlai contro mio padre piangendo, scossa da spasmi di rabbia. Michael mi voltò verso il suo petto e nascose il mio viso fra l’incavo del suo collo, ancora scossa dai singhiozzi.
Non stavo piangendo perché ero triste. L’unica emozione che sentivo navigare dentro di me era l’odio. Questa rabbia portava ad odiare me stessa, ma era la sola sensazione appagabile al mio stato d’animo.
«Mi dispiace che dopo tutto questo tempo tu non abbia smesso di odiarmi… Ero venuto per…»
«Non mi sei venuto a trovare in quasi dieci anni, PERCHÈ PROPRIO ADESSO?», esclamai piena d’ira. Michael mi strinse ancora più forte a sé, cercando in un modo o nell’altro di calmarmi.
Mio padre Anthony mi guardò, poi finito di massaggiarsi la guancia dopo un attimo di silenzio continuò: «Sei come tua madre… Non hai mai capito che se vi facevo quel che facevo lo facevo per il vostro bene!»
Michael, che nel frattempo mi teneva stretta, s’irrigidì sul posto. Una piccola parte di me si chiese il perché, poi sfruttando quell’attimo di poca pressione da parte delle sue braccia mi lanciai contro mio padre.
Sentii alcuni clienti urlare, mentre io presi mio padre per il colletto della camicia. Lo spinsi contro un tavolo, facendo rovesciare alcuni bicchieri al di sopra, che s’infransero a terra. Quando arrivai accanto a lui, mi avvicinai a pochi centimetri dal suo volto. Occhi negli occhi, con i miei capelli bagnati che coprivano una parte del viso, dissi:
«Lo sai vero che succede a chi mente così spudoratamente come stai facendo tu? A chi violenta e picchia sangue del proprio sangue, sua moglie compresa?», dissi bisbigliando. «Li manda all’inferno…»
Con quest’ultima frase riempita da tutto il mio odio, mi staccai da lui di scatto. Subito venni trattenuta per un braccio da Michael – che riconobbi subito nonostante non lo stessi guardando – e mi spinse delicatamente contro il suo torace. Accettando quel contatto, mi strinsi con tutta la forza della mia mano alla sua camicia.
Anthony continuò a guardarmi fisso, con sguardo leggermente adirato, mentre John lo raggiunse. Anch’egli mi fissò, scioccato, e senza proferire parola Michael mi portò via. Ilary lo guardò e, di scatto, s’incamminò verso il corridoio accanto al palco, quello che portava ai camerini del locale.
Inseguiti da Janet e Vanessa - la quale non aveva ancora enunciato parola – ci incamminammo di fretta verso il camerino dove poco prima mi ero cambiata per la mia esibizione, prima che la mia serata fosse rovinata da quell’uomo che una volta chiamavo papà.
Non mi accorsi nemmeno di essere entrata nella stanza. Michael, continuando a tenermi per mano e massaggiando la nuca e i capelli, si sedette accanto a me in una poltroncina in velluto nero accanto all’armadio guardaroba, mentre Ilary mi rimase accanto in piedi e Janet e Vanessa stavano lontane a qualche metro. Dopo tutto quello che era successo, non avevo più la cognizione sul dove fossi.
«Devi bere un bicchiere di acqua...», disse mite Ilary, accarezzandomi una guancia. Io guardavo per terra, senza distogliere il mio sguardo scioccato, e il silenzio regnava in stanza.
«Be’», disse Vanessa intimorita. «Non mi aspettavo avessi un passato così tremendo… Mi dispiace per te».
La sua voce smielata mi dava i nervi, perciò per evitare di arrabbiarmi un’altra volta decisi che era meglio farla tacere una volta per tutte. Non mi serviva la sua falsa tristezza.
«Vanessa», dissi con tonalità neutra, chiamandola per la prima volta per nome. «Non mi serve la tua compassione adesso. Veramente non ne ho bisogno… Mi dispiace».
Alzai lo sguardo – ignorando gli occhi felici di Janet a quella mia risposta – e vidi una Vanessa che, in parte offesa, mi fissava con occhi sgranati. Dopodiché guardò Michael, mentre nel suo volto potei scorgere un mezzo sorriso. Se soltanto avrebbe provato a fare la vittima con lui era la buona volta che la uccidevo…
«Volevo solo cons…», rispose, ma venne subito interrotta da Michael, lasciandola nel bel mezzo del suo discorso a bocca aperta dalla sorpresa.
«Janet, è meglio che tu e Vanessa andiate a casa. Io… Rimango ancora un po’», disse guardandomi dolce, sfiorando con la sua dolce mano la mia guancia destra.
«Sei sicuro?», chiese la sorella preoccupata. «Se ti scoprono…?»
«Non succederà, tranquilla», rispose immediatamente. Janet accennò ad un assenso col volto, poi si avvicinò a me abbracciandomi dolcemente. Io mi lasciai a quella stretta, non riuscendo però a ricambiarla, dopodiché sia lei che Vanessa se n’andarono, quest’ultima non salutandomi nemmeno. Se fosse stata furba, lo avrebbe fatto, per non fare brutta figura.
Anche Ilary se ne andò, lasciando me e Michael da soli. Prima di andarsene disse a Michael di chiudere la porta, in caso di intromissioni, e quando lui si risedette accanto a me dopo averla chiusa a chiave mi toccò la mano.
Sentivo il suo sguardo su di me.
«Sharon…», disse con voce rotta. Io, incontrollatamente, lo guardai negli occhi. Come mi aspettavo, al contatto con i suoi occhi, due grosse lacrime offuscarono la mia vista e bagnarono il mio volto.
Poco dopo, mi lasciai andare in un pianto disperato, affogando con il volto di nuovo fra l’incavo del suo collo, lasciando che mi tenesse stretta, cercando una possibile via d’uscita da quella oscurità.


È difficile dir loro ciò che sento per te. Non ti hanno mai conosciuta, e non sanno come sei fatta. Come fanno a sapere il tuo mistero? Diamo loro un indizio.
Due uccelli sono su un albero. Uno mangia le ciliegie, mentre l’altro sta a guardare. Due uccelli volano nel cielo. Il canto di uno scende giù dal cielo come cristallo, mentre l’altro resta in silenzio. Due uccelli roteano al sole. Uno riflette la luce sulle sue piume argentate, mentre l’altro distende le sue ali invisibili.
Non è difficile capire quale dei due uccelli sia io, ma non riusciranno a capire chi sei tu. A meno che…
A meno che non sappiano cos’è un amore che non interferisce mai, che guarda da dietro, che respira libero nell’aria invisibile. Dolce uccellino, anima mia, il tuo silenzio è così prezioso. Quanto passerà prima che il mondo possa udire il tuo canto col mio?
Oh, come bramo quel giorno!


20/06/2011 01:20
 
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Capitolo Undici.
Maybe it was too late.
Punto di vista: Michael Jackson/Sharon Villa.


Sharon desiderò che Michael fosse lì con lei, per cercare di aiutarla. Pregava in un miracolo, nel suo miracolo, ma era troppo tardi. Un flash del suo contatto dolce e delicato sulle sue guancie prese per un momento il posto di quella paura, mentre il ricordo sei suoi occhi lucidi le sollevavano per quel poco il suo cuore.

***
Un’ora prima...



«Sharon…», dissi con voce sottile, tremante. «Per favore… Non piangere... Va tutto bene adesso… »
Stava con il suo volto nell’incavo del mio collo, continuamente attraversata dagli spasmi del pianto di sfogo, stringendomi fortemente per un pezzo della camicia. Continuava a piangere, incontrollatamente, solo da quando, in quella stanza, eravamo rimasti noi due e basta.
Mi si stava spezzando il cuore. Le sue lacrime erano piccole schegge di vetro che attraversavano la mia anima, rendendo anche me sofferente del suo stesso dolore. Non potevo vederla e sentirla piangere disperata, soprattutto ero ancora turbato da quello che era successo poco prima… Era suo padre quell’uomo. Un uomo che l’aveva e la stava facendo soffrire.
Come non potevo non compatirla? Anche io avevo avuto un passato così. Un passato orribile. A quel pensiero, un lungo brivido attraversò come un lampo la mia schiena, istintivamente stringendo di più Sharon. Non solo mi stavo sentendo male per la situazione, ma il ricordo del mio stesso passato molto simile al suo mi faceva stare ancora peggio.
Come potevo aiutarla? Come potevo farle sentire che le ero vicino, senza farla ulteriormente soffrire? Avrei dovuto dirle che mi dispiaceva per quello che le era successo o non dire niente? Forse la cosa migliore, in quel momento, era invece lasciarla sfogare di tutte le lacrime che non aveva pianto? Di tutta la rabbia rinchiusa nella sua anima per anni?
Eppure non potevo vederla così. Non potevo stare immobile e non farle capire quello che sentivo. Come avrei mai potuto non dire niente per consolarla e non farle sentire il mio appoggio? Io la capito, e capivo fin troppo bene che cosa significasse quell’infinito dolore che non muore mai.
«Scusa…», soffocò con un ultimo singhiozzo Sharon con voce strozzata, staccandosi un poco dal mio collo. «Non volevo… Mi dispiace… Sono solo… Una stupida impulsiva…»
Era sconvolta, e per farle sentire vicinanza le accarezzavo delicatamente le guance, sfiorando con le labbra la sua fronte. Era strano che, nonostante l’attimo, migliaia di brividi mi pervadevano?
«Non dirlo… Non ti devi scusare, io… Capisco fin troppo bene che cosa significa…», risposi con un filo di voce, indeciso se proseguire col discorso o meno. Lei si staccò lentamente dal mio petto, guardando con occhi arrossati ed insistenti la mia camicia rossa. Io, perplesso, fissai prima la mia maglia poi lei.
«Mh… Ti ho inzuppato la tua camicia con tutte le mie lacrime», disse a bassa voce, con tono di disappunto, lanciandomi un’occhiata preoccupata. D’istinto, soffocai una risata intenerita.
«Stai tranquilla, a dire il vero nemmeno mi importa adesso», risposi con un sorriso. Che tipo... Si preoccupava più della condizione della mia camicia che di chiedermi il perché della risposta precedente.
Lei accennò ad un sorriso, per la prima volta dopo il pianto, e di riflesso sorrisi anch’io. Aveva una tale forza su di me che non potevo starmene lì a non sorridere di rimando.
Quando il suo sorriso cominciò a farsi quasi inesistente, inclinai di poco la testa, sfiorandole con la mano destra i suoi capelli. Lei alzò lo sguardo dritto nei miei occhi, procurandomi un leggero brivido sulla nuca.
«Grazie, davvero», disse a voce più controllata, meno vibrata di prima e molto più mite. «Ti ringrazio per essere rimasto con me, piuttosto di andare via e lasciarmi qui, da sola…»
Una morsa al cuore mi avvolse, vedendo la sua espressione – per la prima volta – simile a quella di un cucciolo indifeso e tremante. Come poteva quell’uomo, se si poteva definire uomo, averle fatto quelle cose? Come aveva avuto il coraggio di toccarla? Sentii un accenno di rabbia stringermi lo stomaco, cercando invano di reprimerlo.
«Non ti avrei mai lasciato qui da sola… Non dopo quello che è successo», risposi sottovoce. D’istinto, spostai un ricciolo bagnato dei suoi capelli dietro il suo orecchio destro, per non impedirle la vista.
«Ti ringrazio…», sbiascicò lei, arrossendo lievemente sulle sue guancie caffelatte. Come risaltavano quei suoi occhi neri, rispetto al colore della sua pelle e a quello dei suoi capelli…
Arrossii anche io, staccando lentamente la mia mano dalla sua guancia. Rimanemmo un attimo in silenzio, guardandoci diretti negli occhi, per poi staccare il mio sguardo dal suo, troppo arrossato per resistere ulteriormente a quel contatto visivo.
«A proposito…», disse lei con voce bassa e impacciata. Per un motivo o per l’altro, fui costretto a riguardarla negli occhi, intimidito. «Mi dispiace per come mi sono comportata prima…»
Sharon accennò ad un sorriso dispiaciuto, per poi abbassare gli occhi. Era dispiaciuta per prima… Ma quello che in realtà doveva chiedere scusa ero probabilmente io, non lei. Non avevo badato ai suoi sentimenti.
Magari aveva avuto quella reazione apposta perché lei… No, non era possibile. Non poteva provare qualcosa per me. Era impossibile. Non poteva essere gelosa. Ma forse… No, nessun forse! Non che mi sarebbe proprio dispiaciuto, se… Sottolineo se – avesse provato più di una semplice amicizia per me… No, Michael, riprenditi! La conosci da troppo poco tempo… Non puoi innamorarti ancora…
«Sono io che devo dirti scusa… Mi dispiace non aver badato a quello che provavi», risposi inconsciamente, arrossendo subito dopo. Lei spalancò quei suoi occhi da cerbiatto, accennando di nuovo al rossore.
«No, Michael! Non dire così!», rispose portando rapida una mano sulla mia. «Davvero, è colpa mia… E’ solo che… Non lo so… Non mi piace molto… Forse è perché non ho feeling con le donne».
A quell’ultima frase aggrottò le sopracciglia, sorridendo con scherno e confusione. Io, di riflesso, inclinai di nuovo il capo e chiesi: «In che senso non hai feeling?»
Lei mi guardò, poi soffocò una risata non divertita, voltando il suo sguardo per un attimo impercettibile alla sua destra, guardando il pavimento. «Dimentichi Jenny e Gloria, quelle del mio corso? Non è la prima volta che delle mie coetanee mi odiano. Fin da quando ero piccola, in effetti, vado avanti così».
«Forse so il motivo perché ti odiano…», dissi non distogliendo il mio sguardo da lei. Ero serio, e lei mi guardava confusa e altrettanto attenta. Senza badare ai brividi, strinsi di rimando la sua mano.
«Forse è perché nonostante il dolore sei una bellissima persona con un’anima…», risposi, senza dare troppa attenzione alle parole che mi uscivano fuori senza controllo. Lei arrossì lieve, sorridendo, per poi farsi nuovamente seria, pensierosa.
«Michael… Mi fa piacere che dici queste cose di me. Ma non mi conosci ancora bene per dirmi chi sono… Forse quello che dici è vero, ma che motivo avrebbero per invidiare una come me? Io non ho niente che possa valere, per quelle persone…»
Ma valgono per me… Volevo risponderle. Strinsi la sua mano forte, con l’istinto di rassicurarla. In parte aveva ragione però: come potevo sapere che tipo di persona fosse in realtà? E se la sua era solo una maschera? Ma, nonostante tutto, qualcosa dentro di me mi diceva che non mentiva. Il suo dolore era reale. I suoi occhi trasparivano sincerità e luce.
«Ti ricordi cosa ti ho detto quel giorno? Quando ti ho detto che ti avrei presa per la mia compagnia?». Lei alzò lo sguardo, accennando ad un lieve assenso con il capo. Io allora accennai ad un sorriso rincuorante.
«Ti invidiano per quello che sei, per la persona che sei. Perché tu possiedi qualcosa che loro non hanno», risposi serio, avvicinandomi percettibilmente verso di lei. Lei mi guardò, senza distogliere i suoi occhi.
«… E che cosa sarebbe questo “qualcosa” che loro non possiedono? Il passato? Io, veramente, non…». Si fermò improvvisamente, quando entrambi ci accorgemmo della nostra strana vicinanza troppo incauta.
Cercando di controllare il respiro, parlai. «La luce nei tuoi occhi…»
Lei non rispose, io non continuai il discorso. Semplicemente ci guardavamo negli occhi, senza proferire più parola, con i nostri volti distanti di solo venti centimetri di distanza.
Mi sentivo stordito solo a starle lontano di solo quel poco spazio. Era una cosa allucinante. Era la stessa sensazione che avevo provato, ballando con lei, quella sera, a ritmo della canzone “The Greatest Love Of All” – la stessa che avevo provato anche quando la vedevo ballare - solo molto più intensificata. Molto più potente e lancinante. Mi lasciava senza parole.
«Anche tu… Hai la luce negli occhi», rispose lei, lenta. Io accennai ad un sorriso, spostando fulmineo il mio sguardo in basso per un breve momento, per poi tornarla a guardare.
Lei mi sorrise dolce, per poi piegare la testa di lato, accennando ad uno sguardo di divertente confusione. «E che cosa avrebbe di particolare questa particolare luce?»
Non risposi, poiché sentimmo bussare alla porta. Nello stesso momento, spostammo entrambi i nostri occhi verso la porta, per poi guardarci con paura. Sharon si alzò dal divanetto veloce come un fulmine, nel frattempo che io mi rimettevo sciarpa, cappello, e tutti gli indumenti necessari al mio travestimento.
Prima di girare la chiave controllò che fossi pronto, poi ad un mio cenno del capo aprì. Dalla porta entrò Ilary, con sguardo stordito, che ci disse che il padre di Sharon se ne era andato e che non c’era più ragione di nascondersi. Feci un sospiro di sollievo, per poi avvicinarmi a Sharon, fino ad esserle a pochi centimetri di distanza. Temevo in una sua crisi, perciò le ero andato vicino.
Sharon abbassò lo sguardo, annuendo, ma nei suoi occhi non c’era sofferenza. Solo una sensazione vaga di odio e rabbia. In quel momento le accarezzai la spalla, poi lei mi rivolse un lieve sorriso.
«Pensi di restare?», disse Ilary, cauta. Subito Sharon scosse la testa, accennando ad una espressione di dolcezza. Voleva rincuorare l’amica.
«Credo me ne andrò a casa. Ho già fatto la mia esibizione», rispose gentile. Ilary annuì, per poi rivolgermi uno sguardo scioccato negli occhi. Ancora non avevo capito se sapesse che ero io Michael Jackson.
«Ilary? Tranquilla, non morde», disse Sharon soffocando una risata divertita. Io e l’amica la guardammo di riflesso, lei sbigottita ed io accennando ad un sorriso, contento che ora fosse più serena.
«Ridi, ridi… Tanto tu ormai ci sei abituata a parlare con Michael Jac…». Prima che pronunciasse il mio nome per intero, Sharon le tappò la bocca, linciandola con lo sguardo, sotto il mio sguardo divertito.
Salutammo veloci l’amica, accompagnati sotto lo sguardo di tutti fino all’uscita del locale. Una volta fuori, dopo un sospiro di sollievo di Sharon, chiamammo un taxi. Per tutto il tragitto le tenni la mano, per aiutarla a sentirsi meglio, e per far sentire meglio anche me. Di fronte all’appartamento, chiamai il mio autista privato per venirmi a prendere.
«Grazie ancora, sei stato molto gentile e dolce con me», disse lei dopo qualche minuto, sorridendomi. Ora che la vedevo sorridere, sentivo quel nodo alla gola farsi inesistente. Ero veramente sollevato.
«Figuriamoci…», risposi sorridendo di riflesso. Poi, notai che era ancora un po’ bagnata, e che soprattutto non aveva né giacca né niente che non le potesse far sentire freddo. Perciò, tirai via il mio cappotto e glielo porsi.
«Tieni». Lei mi guardò stupefatta e nonostante le sue continue insistenze sul tornarmelo, si decise a tenerlo. Era più testarda di quanto pensassi. «Forse è meglio che vai… Se ti ammali poi è colpa mia»
«No, non voglio. Ti lascerei solo…», disse lei, supplicandomi. Io sentii una morsa al cuore – questa volta non di tristezza – ma le pregai di non restare. Non volevo che si prendesse una malora, nonostante volessi con tutto il cuore che rimanesse con me. Ma non volevo che… Be’, quella sarebbe stata una sorpresa.
Sharon mi rivolse uno sguardo triste, perciò per calmarla le presi il viso fra le mani e la baciai sulla fronte. Non so per quanto rimasi in quella posizione, so solo che quando mi staccai eravamo entrambi ancora troppo vicini. Qualche centimetro di distanza…
«Buonanotte, Sharon», dissi sottovoce, pronunciando quel nome con un brivido. «A domani… Ti vengo a prendere io domani mattina…». Lei annuì, lanciando un’occhiata in basso.
Lentamente ci allontanammo, uno più stordito dell’altra, e indecisa proseguii oltre il cancello, dopo la selezione delle chiavi giuste per aprirlo. Io la guardai allontanarsi dalla mia vista, fino oltre la porta dell’appartamento. Poco dopo arrivò la mia macchina e salii, dando un ultimo sguardo all’edificio.
Un brivido improvviso mi scosse.
Sharon…

***



Sharon si diresse a passo lento e trascinato verso il secondo piano, camera d’appartamento numero 17, con ancora il volto leggermente arrossato. Era troppo irreale, lui, per essere vero. Forse stava sognando.
Mai nessuno prima di allora l’aveva trattata come aveva fatto lui con lei. I suoi modi estremamente dolci e pacifici le facevano venire mille brividi in tutto il corpo, mentre uno stato di confusione le atterrava ogni pensiero concreto della sua mente. Era possibile che fosse veramente vero quello che le stava succedendo? Non stava solo immaginando, vero?
Lui è solo un sogno, si auto convinceva, ormai dovresti averlo capito che i tuoi sogni non diventano mai una realtà, Sharon. Pensava che tutto quello che le stava accadendo era solo un’illusione.
Eppure… Qualcosa dentro di lei le faceva sembrare tutto vero.
Come mai si sentiva così felice quando era al suo fianco? Perché si sentiva così straordinariamente tranquilla quando lui l’abbracciava? Perché era serena anche quando non era tutto apposto?
Sharon tirò fuori dalla sua tracolla le chiavi della stanza d’appartamento, in cerca di quella giusta. Quando la trovò e tentò di rigirarla nella serratura, capii che la porta era già aperta.
Una sensazione di paura fulminea le attraversò la mente, per poi convincersi che la sua era un timore infondato. Magari si era solo dimenticata. Nonostante qualcosa non le andasse, decise di entrare.
Con cautela avanzò nel buio, in cerca del tasto per accendere la luce.
D’impatto, si sentii trascinare da una forza sconosciuta alle sue spalle, mentre una mano le copriva la bocca per evitare di lasciarle cacciare un urlo. Come aveva fatto quel qualcuno ad entrare?
Poi, nel frattempo che lasciava cadere la tracolla e giacca a terra, paralizzata, sentii un soffio d’aria calda sul suo collo scoperto, ed un senso di disgusto le impedì di rimanere lucida del tutto.
«Ti sei comportata molto male con me prima…», disse una voce maschile, sibilando. «Mi sa proprio che con te le buone maniere non servono affatto, vero figlia mia?»
Sharon riconobbe quella voce. Il suo tono che non ammetteva repliche. L’alito con qualche traccia di alcool e fumo di sigaretta appena assunti. Le sembrava di tornare al passato, quando aveva solo sette anni d’età e pregava perché la notte non tornasse mai, per la paura che arrivava incombente. Era suo padre quello. Anthony. Era il mostro che popolava ogni suo incubo.
Con gesti irrequieti cercava inutilmente di staccarsi da quella presa fredda e potente, ma oramai lui l’aveva in pugno. Con le braccia tenute strettamente dietro la sua schiena da Anthony, non poteva più fare un granché. Era stata intrappolata di nuovo in uno dei suoi incubi peggiori.
Desiderò che Michael fosse lì con lei, per cercare di aiutarla. Pregava in un miracolo, nel suo miracolo, ma era troppo tardi. Un flash del suo contatto dolce e delicato sulle sue guancie prese per un momento il posto di quella paura, mentre il ricordo sei suoi occhi lucidi le sollevavano per quel poco il suo cuore.
Che strano, Michael… Pensavo che fosse tutto un sogno, ma non lo è affatto. E dire che per un momento mi sembrava che fosse troppo vero per un cuore infranto ed innamorato come il mio.
Quello che successe dopo fu solo un attimo troppo veloce per descrivere.
Lei che mordeva la mano del padre, per scappare, poi una sua fuga verso la porta. Un urlo soffocato di rabbia alle sue spalle, poi un colpo secco e un tonfo per terra. Sangue che scorreva lungo il pavimento in legno. Passi soffocati verso il corpo a terra, poi una corsa contro il tempo prima che qualcuno si accorgesse del fatto.
Michael…




Capitolo Dodici.
A voice pulls me back.
Punto di vista: Michael Jackson/Sharon Villa.


Proseguì di corsa fino a metà della seconda rampa di scale, bloccandosi vedendo la porta aperta della stanza di Sharon e alcuni agenti della polizia all’interno della stanza. Per terra, su un tappeto bianco, una grande macchia di sangue… E, fra le mani di uno degli agenti, in una busta di plastica, il suo stesso cappotto, quello che la sera precedente aveva dato a Sharon.
Un pensiero di terrore gli bloccò ogni pensiero lucido della sua mente.
Che cosa… No… Sharon!
Urlò quel nome nella sua testa, terrorizzato per quello che stava osservando. Dov’era? Perché c’era quella macchia di sangue per terra? Perché c’era la polizia? Perché Sharon non era lì, ad accoglierlo, con uno dei suoi stupendi sorrisi e con quei suoi occhi neri limpidi di quella luce a cui era già affezionato?
«Mi dispiace, ma non può entrare signore», disse un agente non appena Michael stava per raggiungere l’interno della stanza, senza far particolare attenzione a quello che stava facendo.
«Dov’è?...», chiese con un filo di voce. Aveva paura di domandare quella richiesta, non voleva sapere. Eppure l’aveva fatta, quella domanda. Con gli occhi ancora fissi sulla macchia rossa cercò di riordinare le idee che vorticavano rumorosamente nella sua mente.
«Parla della ragazza che abitava qui?», disse alle spalle una voce roca e femminile. Michael si girò di scatto, mentre il suo respiro cominciava a farsi affannoso. Che cosa diavolo era successo?
Una donna anziana gli rivolse uno sguardo di tristezza, per poi guardare il basso, sconvolta. «L’altra notte un uomo che ha detto di essere suo padre mi ha chiesto il favore di farlo entrare nell’appartamento di Sharon… Mi aveva detto che voleva fare una sorpresa alla figlia… E…»
Michael non poteva crederci. Era paralizzato dalla rabbia e dallo shock. Aveva paura. Che fine aveva fatto Sharon? La sua Sharon? Non poteva essere… NO! Non lo avrebbe mai accettato questo! Non lei!
«Cosa? Cosa è successo?!», disse con voce tremante, con tono stranamente alto da parte sua, avvicinandosi alla donna e prendendola per le spalle, comunque con tocco delicato.
La signora evitò il suo sguardo, non capendo che stava parlando proprio con Michael Jackson. «Un residente a questo piano, vicino alla sua stanza, ha sentito un rumore nella notte e… Oddio!», disse, coprendosi il viso con le mani.
Michael si allontanò dalla donna, a scatti lenti, sentendo le sue gambe cominciare a cedere. Non… Non poteva… Lei doveva stare con lui! Aveva bisogno di lei! Non poteva lasciarlo!
«E’ colpa mia! Tutta colpa mia! Sembrava così sincero… Oddio…», riprese la donna fra i singhiozzi.
«La ragazza è all’ospedale, all’UCLA Medical Center», disse l’agente di prima, ancora accanto allo stipite della porta della stanza d’appartamento. «Non si sa se però riuscirà a resistere… Ha perso molto sangue…»
Ma Michael non sentì più niente…

***



Vedevo buio. Nessuna luce ad aprirmi la via. Nessuna salvezza pronta ad aiutarmi.
Stavo morendo per caso? O ero già morta? Se sì, da quanto tempo? E Ilary? Isabel? John? Sapevano nelle condizioni in cui mi trovavo? Aspetta… Neanche io sapevo come stavo. Non sapevo nemmeno dire se ero ancora viva, o se quello fosse solo un incubo. Di una cosa ero certa: quello non era un sogno. Era troppo reale per essere semplice frutto della mia immaginazione.
Qualcosa era successo. Ma non ricordavo cosa… Era come se la mia mente si fosse bloccata. Ogni pensiero era bloccato, fermo, immobile. Aspettava un segnale. Aspettava quella luce. Ma qual’era la luce così spettacolare che stavo attendendo così arduamente?
Mille voci soffocate passavano come fulmini attraverso la mia testa, rendendomi ancora più confusa e stordita. Erano soffocate, perciò non riuscivo a capire che dicevano. Aspettate, volevo dire, parlate una alla volta! Aiutatemi!... Ma nessuno sembrava ascoltarmi. Nessuno sembrava volermi essere accanto.
Mi sentivo male. Quasi soffocare. Era una sensazione orribile, ma non avevo paura. Sentivo solo delle fitte, a volte perfino il respiro mancarmi. Avevo paura di smettere di respirare.
Era troppa buia per me quell’oscurità. Volevo salvare me stessa. Non volevo rimanere intrappolata.
Mamma… Ti prego, aiutami! Salvami! Voglio la luce!
Ma d’altra parte a chi volevo mentire? La vita da tanto tempo mi sembrava inutile. Non sapevo per chi vivevo realmente – se per me stessa o per i miei sogni – né se avrei un giorno avrei realizzato le mie aspettative. Mi sentivo sola, quella era la verità. Non potevo nasconderlo.
Era finita… Era finita per sempre… Ero morta

Poi, improvvisamente, un lampo – forse una stella, dalla luce splendente e luminosa – attraversò i miei occhi immersi dal buio. Quella energia sembrava piangere. Piangeva lacrime d’aria e fragili.
«Perché piangi?», dissi, ma dalla mia bocca non provenne nessun rumore. Nemmeno le mie labbra si stavano muovendo. Ero paralizzata, ed il bello era che non sapevo neanche il motivo.
«Michael?», chiamai, quasi aspettandomi che quella luminosità si chiamasse così.
Perché, in effetti, quella luce un nome lo aveva… Lo aveva eccome! Un nome splendente quanto la luce della luna, scintillante come ogni stella che brillava in cielo, potente come i raggi caldi del sole.
«Michael!», urlai. Michael! Dov’era? Che stava facendo? Perché non era accanto a me? Perché non sentivo la sua mano sulla mia? Perché non sentivo il calore sulle mie guancie?
La mia stella. Il mio sole. La mia luna. Dov’era in quel momento? Dov’era Michael? Dov’era la mia luce di salvezza? Avevo bisogno di lui. Volevo sentire la sua aura accanto alla mia, mentre mi sorrideva.
Era così bello quando sorrideva… La mia personale via d’uscita da quell’inferno di anime solitarie e indifferente al mio dolore di sempre. Quando sorrideva mi sentivo in Paradiso. Quando mi abbracciava stretta, mi sentivo al sicuro. Quando mi parlava con la sua voce delicata, mi sentivo in un altro mondo. Un mondo diverso da quello in cui vivevo. Un mondo in cui non ero sola.
Perché io sapevo che mi capiva. Qualcosa mi diceva che, quando gli parlavo, lui capiva. Quando piangevo, non avevo bisogno di altri se non di lui. Nemmeno di Ilary. Lui era la mia fonte di speranza, la mia risorsa di energia. L’unico che era riuscito a colmare quel dolore di un’intera infanzia ed adolescenza.

Oh... Ora ricordo. E' stato mio padre. Lui mi aveva fatto del male, per un’altra volta nella mia triste vita. Mi aveva uccisa una volta per tutte? Mi aveva lasciata morire come aveva fatto con la mamma?

Amore, sii forte, tesoro mio… Ti voglio bene…

…Mamma! La mia mamma... dove sei? Mamma!…

Stavo piangendo. Una sensazione dentro di me, dentro il mio cuore – se almeno non ero ancora morta -, mi diceva che stavo piangendo. Versavo lacrime invisibili, ma le sentivo comunque.

Mamma ho bisogno di te! Ti prego, non lasciarmi, non ancora! Ti voglio bene, mamma! Mamma!

Ma la mamma non mi rispose. Sentii un soffio sulla mia fronte, un brivido scorrermi lungo la schiena. Forse non ero proprio morta. Forse era venuta apposta per indicarmi che il Paradiso poteva ancora aspettare?
Poi, inaspettatamente, un’altra voce. Era sfumata, con voce rotta, ma comunque dolce.
«Ti prego, ti prego… Non portarla in cielo… E’ troppo presto…»
Michael! Oh, Michael! La mia luce era venuta a salvarmi! Pregai Dio perché quello non fosse un sogno. Era indispensabile per me la sua voce! Non potevo stare senza di lui! Non ora!
«Ti prego…», disse l’angelo di luce. Vedevo la sua immagine nella mia mente – i suoi occhi, i lineamenti del suo volto, le labbra, il sorriso… Volevo raggiungerlo. Volevo correre verso di lui!
«Sharon…», pronunciò. Nella sua voce, potevo captare gli spasmi di un pianto soffocato.
No! Michael no! Non piangere! Signore, non farlo soffrire! Non voglio che soffra! Voglio stargli vicino, sempre! Non impedirmi di essergli accanto! Io non voglio rimanga solo!

Quello che successe dopo, d’improvviso, fu un miracolo: mi sentivo tornare alla realtà da un sonno in dormiveglia. Riacquistai come per incanto il senso del mio corpo. Mi sentivo più pesante di prima.
Con timore, cercai di muovere quella che mi sembrava la mia mano sinistra. Si mosse. Ero viva! Mh… Troppo presto per cantare vittoria… Un’improvvisa fitta mi attraversò tutta la testa, bloccando il respiro.
Stava di fatto che dovevo raggiungere il mio angelo. Non potevo lasciarlo da solo, a piangere! Dovevo stargli vicino e tirarlo fuori dalla sua solitudine! Volevo abbracciarlo, fargli sentire che io…
Una luce abbagliante mi avvolse gli occhi, portandomi a richiuderli. Non potevo darmi per vinta. Ritentai. Quella volta riuscii ad aprirli. Riuscii a vedere, anche se in modo un po’ offuscato, dov’ero.
Una piccola stanza d’ospedale, dai perfetti muri bianchi, con qualche quadro che raffigurava mari e campagne sui muri. All’angolo alla mia sinistra una porta in legno scuro, chiusa, e alla mia destra due finestre al muro, completamente aperte, con svolazzanti tendine azzurre che ondeggiavano a ritmo della brezza mattutina. Era ancora settembre, ma il caldo c’era, nonostante fosse solo l’alba.
Stavo in un letto dalle coperte bianco panna; sul braccio sinistro, una flebo pericolosamente infilata dentro la mia pelle, con qualche altro strumento che non seppi riconoscere. Sentii ogni muscolo della mia schiena rabbrividire, più un’altra fitta potente alla testa pervadermi. Portavo, da quel che potevo scorgere, un camice azzurro cielo – il mio colore preferito. All’angolo della parete destra, ci stava una poltrona blu. Era tutto intonato.
Che fossi in Paradiso veramente?
D’improvviso sentii un sospiro tremante. Seguendo lenta con il capo da dove provenisse il rumore, vidi finalmente una figura – non molto esile, dai capelli corvini e ricci – seduto in una sedia alla mia destra, illuminato dalla luce candida dell’aurora. Era curvo sul letto, con il volto infossato fra le sue braccia.
Respirava profondo, ma con fiato instabile. Sembrava piangesse.
Michael!, volevo dire. Ma dalla mia bocca non uscì se non un sospiro. Una fitta leggera attraversò la mia mente, facendomi chiudere gli occhi per un istante. Riaprendoli, presi un ultimo respiro.
«M… Mi…», dissi sottovoce. Lui, ancora curvo in quella posizione, sembrò accennare al risveglio, muovendo lentamente le spalle. A meno che non lo fosse già e stesse immaginando di sognare la mia voce.
«Michael…», pronunciai alzando di più il mio tono di voce, espirando con tutta l’anima il suo nome. Ti prego, guardami. Sono viva. Non stai sognando!
Ed ecco che l’angelo alzò il suo volto al mio. Quegli occhi… Quel viso… Oddio quanto ne sentivo il bisogno! Ne avevo l’assoluta necessità! Volevo accarezzargli le guance, abbracciarlo e dirgli che stavo bene.
Aveva gli occhi lucidi, arrossati, e il volto umido di gocce salate che aveva pianto da chissà quanto tempo. Nei suoi occhi l’immagine dello smarrimento, misto alla felicità improvvisa. Il mio angelo aveva pianto.
«…Sharon!», esclamò Michael, sparendo di scatto dalla mia vista ancora accecata e non abituata alla luce.
Mi stava abbracciando; sentivo le sue braccia stringermi forte, mentre mi accarezzava la nuca insistentemente. Non mi ero neanche accorta che mi aveva tirato su dalla posizione distesa, con delicatezza, e che era scoppiato a piangere.
«Grazie a Dio… Sei viva! Sharon… Grazie. Grazie! Dio… Non sai quanto ho avuto paura! Pensavo che non ti saresti più risvegliata! Ti ringrazio Signore!».
Non potevo vederlo piangere. No… Era un dolore troppo grande da sopportare. «Michael… Oddio…», dissi, fra le lacrime. «Non piangere, per favore. Io… Io sono qui! Non ti lascio!»
Sentivo fitte impressionati alla testa, dovute alle lacrime che stavano sgorgando copiose dai miei occhi, ma era una sofferenza più che sopportabile. Io non dovevo piangere, perché Michael ne avrebbe sofferto ancora di più. Dovevo stargli vicino, convincerlo che ora era tutto finito!
Michael prese il mio volto fra le sue mani, appoggiando la sua fronte sulla mia. Rimanemmo in quella posizione per un attimo che mi sembrò voler essere infinito; sgorgavano profonde lacrime dai nostri occhi, silenziose, ed entrambi respiravamo affannosamente. Sentivo il monitor del mio battito cardiaco aumentare i suoni a dismisura, ma non ci feci per niente caso.
Chiusi gli occhi per un attimo, cercando di smettere di piangere, lasciando palpabile quella sensazione troppo avvicinata delle nostre labbra. Il mio cuore batteva all’impazzata, quasi stesse per andare contro ad un infarto immediato. Respirai a fondo, con l’intenzione di calmare me stessa e il mio sistema cardiaco, prima di andare veramente incontro alla morte quella volta.
«Mi dispiace. È colpa mia… Tutta colpa mia! Non avrei dovuto lasciare che…», disse sottile, lasciando trasparire una nota di rimpianto dalla sua voce angelica, scuotendo veloce il capo. Io aprii gli occhi, staccando la mia fronte dalla sua di pochi centimetri, guardandolo negli occhi.
«Michael, no! Non dire così… Nessuno di noi due pensava che… Che…». Feci una pausa, impossibilitata nel continuare quel discorso. Quel ricordo, troppo potente da sopportare subito, mi faceva paura.
Michael mi guardò, con occhi lucidi di tristezza ed angoscia. «Se tu… Non ti fossi più risvegliata, io non so come… Come sarei riuscito mai a perdonarmelo…», disse, poco dopo che una lacrima gli rigò il viso.
I miei occhi si fecero lucidi e, d’inconscio, mi propensi a raccogliere quella sua goccia salata con le mie labbra. Gli baciai la guancia, sperando di riuscire a calmarlo. Quell’angelo non doveva soffrire. Mai!
«E’ tutto passato, sto bene… Non piangere. Io sono viva. Sono qui con te. Perciò non avere il benché minimo rimpianto, tu… Tu mi hai salvato…», dissi, pronunciando quelle parole con tutto il fiato possibile.
Lui annuì, serio. Con leggerezza, nonostante i dolori generali in tutto il corpo, poggiai una mano – non quella con la flebo, fortunatamente – sulla sua guancia, accennando ad un sorriso. «Credimi, hai fatto molto di più di quanto nessuno abbia mai fatto per me…»
Lui lasciò il suo volto cullato dalla mia mano, inclinando la testa, accennando ad un’espressione più rilassata. Mi sembrava così tenero, docile… Persino fragile. Un uomo dagli occhi immensamente dolci.
Mai mi sarei aspettata di trovarmi in una situazione così, soprattutto con lui.
«…Da quando sei qui?», dissi dopo un lungo attimo di silenzio a guardarci negli occhi, senza accennare ad una parola. Quell’assenza di rumore parlava già da sola, non c’era bisogno di parole superflue.
«Da un po’…», rispose lui, prendendomi la mano posata sulla sua guancia e unendola con le sue. Io annuii, pensando che in effetti, con tutti i suoi impegni, era ovvio che… «In effetti, da due giorni…», ammise poi.
Io rimasi sbigottita, strabuzzando leggermente gli occhi. Non stava dicendo sul serio… Voleva dire che per due lunghi giorni era rimasto a vegliare su di me incostante? Non era possibile. Stavo immaginando.
«D-da quando?!», richiesi, troppo scioccata per dire altro. Lui accennò ad un sorriso imbarazzato, con quei suoi occhi improvvisamente brillanti e luminosi, per poi riguardarmi negli occhi con sguardo serio.
«Ti hanno portato qua la notte del 4, oggi è il 6. Ho saputo che eri qua la mattina, venendo a prenderti per le…». Poi si bloccò, toccandosi la tasca dei pantaloni. Dall’interno risuonava il suo cellulare.
Lo prese, lanciandomi un’occhiata di scuse, per poi rispondere. «Pronto?... Sì, sono io Frank... Sì... Non potevo andarmene, era una cosa troppo importante... Lo so... D’accordo, arrivo... A dopo...»
Chiuse il cellulare con un colpo secco, per poi guardarmi cauto e dispiaciuto. Io gli sorrisi docilmente, capendo quello che sarebbe successo. D’altra parte, non poteva restare con me per sempre dopotutto...
«Devo andare...», disse con rammarico. «Ma ti verrò a trovare questa sera, prima che tramonti il sole! Te lo prometto!», continuò, lasciandomi senza parole. Il suo sguardo era sicuro, deciso... Era risoluto.
Io annuii, silenziosa. Michael si alzò dalla sedia, baciandomi di nuovo sulla fronte, come la scorsa serata. Dopo una lunga interminabile ed ultima carezza sulla guancia, guardandomi con occhi lucenti, se ne andò.
Guardai la porta per lungo tempo, scossa dal silenzio. Un getto d’aria mosse le delicate tende azzurrine alle finestre, portando i miei occhi su di esse e sul panorama al di fuori. La luce cominciava ad estendersi.
Aspettai solo che se ne andasse Michael, prima di scoppiare in un pianto di paura repressa.




Capitolo Tredici.
Don't wanna hurt you
Punto di vista: Michael Jackson.


Michael?», disse una voce femminile e lieve alla mia destra, attirando la mia attenzione, subito dopo lo scatto secco della porta della stanza d’ospedale dove riposava Sharon. Era Ilary.
Le sorrisi cordiale, dandole un cenno di assenso con il capo. Dopotutto capivo che, nonostante sapesse chi fossi ormai, provasse un attimo di smarrimento quando dovesse chiamarmi. E, soprattutto, capivo che sembravo un po’ ridicolo a volte, tutto incappucciato nei miei travestimenti. D’altra parte non potevo girare senza sciarpa, cappelli, ecc.
Mi staccai dalla parete con un leggero slancio della schiena, stando attento a non far cadere qualche petalo del mazzo di fiori che stringevo in mano, dirigendomi verso la ragazza. «Come sta Sharon? Meglio?»
Ilary guardò con occhiata fulminea prima il mazzo, poi me, accennando ad un sorriso. Io, nel frattempo, mi sentii in pieno imbarazzo, alla vista del suo sguardo furbesco diretto ai fiori.
«Meglio, diciamo... Gli è appena passata una crisi per fortuna...», disse per poi emettere un sospiro.
«Una crisi?», chiesi, dubbioso, cominciando a preoccuparmi. Lei sembrò confusa quanto me alla mia domanda, e rispose guardandomi attentamente negli occhi.
«Sì... Vuoi dire che con te stamattina non ha pianto?», disse, con tono interessato. Io, sbigottito, non seppi inizialmente che dire. Con me non aveva pianto; poi me ne ero andato, e allora...
«Ha avuto parecchie crisi, soprattutto quando la lasciavo da sola. Per esempio, tornavo poco fa per prendere qualche bibita e qualcosa da mangiare e l’ho trovata fra le lacrime. Mi ha detto che aveva tanta paura di rimanere senza nessuno...»
Quindi l’avevo fatta soffrire andandomene. Non avevo badato ai suoi sentimenti, per la seconda volta da quei pochi giorni in cui ci eravamo conosciuti, come avevo fatto per quella questione riguardo Vanessa. Perché dovevo ferirla in quel modo?
«E… E ora come sta?», dissi, visibilmente scosso. Guardavo fisso il pavimento, non nascondendo i miei sensi di colpa. Mi sentivo uno stupido ad averla lasciata da sola, senza nessuno, dopo lo shock subito.
«Meglio, almeno credo. Purtroppo le ho detto che ora dovrei andare a lavorare, ma che se voleva potevo rimanere con lei per questa notte; lei mi ha detto che non serve, ma non ne sono molto sicura...»
Poi mi lanciò un’occhiata preoccupata, subito dopo un minuto di spaventoso silenzio, nel frattempo che i miei rammarichi scoppiettavano come fuochi d’artificio nella mia mente confusa.
«Michael, sarò sincera, molto sincera», disse attirando il mio sguardo. «Io a Sharon voglio tanto bene, è stata l’unica e sola persona a starmi vicino quando ho avuto i miei problemi. L’unica. È come una sorella per me. Non so dirti come, ma ho l’impressione che con te lei stia... Bene...»
Io la fissai, attento ad ogni minima parola, ripensando ai pochi momenti passati nei giorni precedenti con Sharon; ripensai al suo sguardo – ai suoi occhi neri, al suo sorriso – e riflettei se Ilary stesse dicendo veramente la realtà dei fatti.
«Non nego di essere un po’ gelosa eh, però... Ecco... Sono certa che ha bisogno di te. Perciò ti chiedo solo una cosa: non starle vicino se non ci tieni realmente a lei», esclamò poi scrutandomi con uno sguardo inquisitore, come se volesse mettermi all’erta.
Io annuii, incapace di dire niente che potesse essere utile in un momento del genere. Non pensavo che stesse mentendo. Anche io pensavo che Sharon avesse bisogno di amore. Tanto amore.
«Per favore...», disse poi sottovoce, lasciando trasparire dal suo tono una nota di tristezza, con occhi improvvisamente lucidi. «Non farle mai del male... Ha già sofferto troppo... Io le voglio bene...»
Vidi dai suoi occhi comparire una lacrima, muta, rigandole il volto. Io, d’istinto, le poggiai una mano sulla spalla, accennando ad uno sguardo angosciato. «Io non ho intenzione di ferirla, Ilary. Non voglio»
Ilary accennò ad un sorriso d’affanno. Volse il suo sguardo sul pavimento, scioccando lieve la lingua al palato, per poi riguardarmi negli occhi. «Spero che questa sia la verità...»
In seguito si girò di scatto, diretta verso l’ascensore. Poco prima che stessi anch’io per aprire la porta della stanza di Sharon, la mia attenzione venne di nuovo attirata da Ilary, che mi chiamò con un “Ah” confuso. Io mi voltai a fissarla, stranito, vedendo un sorriso sghembo sul suo volto.
«A proposito... Se oserai ferirla in qualche modo – sia moralmente che fisicamente, nonostante la tua buona parola – sarò benissimo capace di spezzarti braccia e gambe con un solo gesto del mio corpo».
Io la guardai scombussolato – cercando di metabolizzare bene il senso di quella frase ironica ma allo stesso tempo davvero preoccupante – per poi sorridere. Lei accennò ad una risata soffocata ed entrò nella cabina dell’ascensore numero due, salutandomi con un cenno veloce della mano.
Fissai di nuovo la porta di fronte a me, tirando un sospiro stranamente nervoso, stando attento a nascondere bene il mazzo di fiori alla mia schiena. Ovviamente quello doveva essere una piccola sorpresa.
Bussai alla porta, e dopo la sua voce delicata a darmi il permesso di entrare decisi di farmi avanti. Entrai cauto, quasi avessi paura che lei fosse scomparsa – che quello di questa mattina fosse stato solo un sogno -, e quando me la trovai seduta sul letto, con indosso quella leggera vestaglia azzurrina, con sguardo sorridente, mi sentii improvvisamente sollevato. Un sorriso comparve felice dalle mie labbra.
«Michael...», esclamò lei, mordendosi un angolo del suo labbro inferiore. Era così tenera, e quei suoi occhi da cerbiatto mi facevano sentire il cuore in gola... Quella sensazione non era normale.
Improvvisamente il suo sguardo sorridente si fece curioso, curvando il capo in cerca di capire cosa avevo dietro la schiena, nel frattempo che io – finto tonto – la salutavo come se niente fosse.
«Te l’avevo promesso che sarei venuto... A quanto pare il sole non è ancora tramontato», dissi continuando a sorridere, vedendo il suo sguardo che scrutatore cercava di vedere la cosa che nascondevo.
«Già, ma... Posso sapere che nascondi là dietro?», disse accennando ad un sorrisetto, aspettandosi che le avrei detto subito la mia sorpresa. Io mi morsi il labbro, avanzando di un passo senza emettere un suono.
«Mmh... Non penso che te lo dirò... E’ un segreto in realtà, e non so se tu...», dissi, sollevando lo sguardo dal pavimento per valutare bene la sua espressione sbalordita; teneva spalancati i suoi stupendi occhi neri, con in volto uno sguardo immediatamente serio e offeso. Solo a quella visione mi lasciai andare ad una risata. Lei, allora, aggrottò la fronte con una smorfia da bambina.
«Mi stai prendendo in giro, Michael? Avanti, per favore! Posso vedere cosa hai dietro la schiena? Dai!». Adoravo quando faceva la bambina di tre anni. Era così... Adorabile. Non potevo descriverla.
Io roteai gli occhi in alto, facendo ancora il perplesso, mentre mi toglievo sciarpa e cappello, tenendo nascosta la sorpresa. «Mmh... Solo se farai la brava e mi prometterai di dirmi la verità su una cosa, prima che ti dia... “L’oggetto nascosto”», dissi, nascondendo il mistero.
Lei abbassò gli occhi, mantenendo l’espressione imbronciata, per poi guardarmi furbetta. «Non me lo puoi dare prima, quel “L’oggetto nascosto”? Prometto di dirti la verità! Ti giuro!», disse scongiurandomi.
La guardai, e nonostante cercassi di non arrendermi sapevamo entrambi che aveva già vinto. Il modo in cui mi guardava, come spalancava i suoi occhi preganti... Maledizione! Mi aveva incantato!
Sbuffai, finto spazientito. «Ok... Tieni...», dissi mostrandole il mazzo, con scatto agile e teatrale. I suoi occhi si fecero luminosi, quasi più della luce del sole stessa, e spalancò le sue labbra in un sorriso enorme.
«Michael! Oddio...», disse piano mentre glieli porsi, sorridente per averla fatta contenta. «Ti giuro, non dovevi! ...Be’, forse sì. Comunque grazie, davvero!»
«Eh lo so... Non avrei dovuto in effetti...», dissi assumendo uno sguardo abbattuto, scuotendo la testa. Lei mi lanciò un’occhiata sarcastica, per poi farmi la linguaccia. Io, di riflesso, feci lo stesso, ridendo.
Rimasi ad osservarla, sereno, mentre lei incantata si prestava a toccare ogni petalo di ogni fiore, con tocco delicato. Era un piccolo mazzo di iris e gigli bianchi, lilla e azzurri. Speravo le sarebbero piaciuti.
«Ti piacciono?», dissi con un sorriso. Lei alzò lo sguardo, rivolgendomi quei suoi splendidi occhi. Era così tranquillo il suo sguardo... Così pacifico... Non sembrava per niente fosse triste.
«Certo che mi piacciono! Sono... Sono stupendi!», disse emozionata. Chinò la testa su di essi, ispirando con cura il loro profumo, poi continuò. «Li adoro... Poi i colori... I miei preferiti... Grazie di cuore!»
Io mi sentii emozionato come un bambino. Ero così preoccupato se quel piccolo mazzo le sarebbe piaciuto o meno, e sapere di aver fatto la scelta giusta mi faceva librare l’anima in cielo.
All'improvviso mi vennero in mente le parole di Ilary – le sue raccomandazioni, la sua lacrima. Sharon non doveva soffrire. Doveva essere felice, e io non avrei mai fatto niente per farla star male. No. Non volevo.
«Sharon... Io...», dissi dopo un lungo attimo di silenzio, sedendomi in un angolo del suo letto. Con sguardo curioso mi fece spazio, spostando la sua attenzione dal mazzo verso i miei occhi concentrati. Sospirai, in cerca delle parole adatte da dirle.
«Ilary mi ha detto delle tue crisi... Mi ha detto che hai pianto spesso oggi». Feci una pausa, alla vista del suo sguardo abbassato. Con una stretta al cuore, le presi la mano. «Sharon, scusa. Non... Non dovevo lasciarti da sola. Posso capire come ti sei sentita, io...»
I suoi occhi lucidi mi bloccarono. Mi resero immobile. «No, Michael, non è colpa tua... Non deve neanche passarti per la testa un pensiero così. E’ solo che il ricordo... Rimanere da sola... Io pensavo che lui sarebbe potuto tornare a farmi del male...», disse guardandomi, spaventata.
Portai la mia mano sulla sua guancia destra, accarezzandola con delicatezza. «Non tornerà. Vedrai, ti prometto che non ti farà più del male. Per questo volevo proporti una condizione...», dissi lentamente.
Lei mi guardò stupita, aggrottando impercettibilmente la fronte. «Che tipo di condizione?», chiese con voce tenue, lasciandomi un lungo brivido pervadermi tutta la schiena.
«Non mi fido a lasciarti qui, da sola, sapendo che quel pazzo», pronunciai, emettendo un lieve sibilo soffocato. «potrebbe essere ancora in giro... Proprio non posso». Mai avevo provato una rabbia così immensa per qualcuno. Quel sentimento non faceva parte di me. Non era nel mio carattere.
«Perciò volevo chiederti se vorresti venire in tour con me», esclamai tutto d’un fiato, rimanendo a fissarla con occhi spalancati ed intimoriti.
Lei strabuzzò gli occhi, lasciando quelle labbra leggermente carnose un poco aperte dalla sorpresa. «Dici sul... No! Sul serio Michael? Cioè... In tour con te? Ballare di fronte migliaia – milioni di persone?»
Io annuii divertito, mentre la sua espressione si faceva sempre più corrugata; batté qualche volta le palpebre, guardando i suoi fiori per un attimo, per poi osservarmi sbalordita. D’improvviso disse.
«Ma... Michael, io non ho ancora firmato il contratto di lavoro. E poi, il video non lo abbiamo ancora girato... Non so le tappe, e poi io non ho i soldi per permettermi viaggi...», disse cominciando a preoccuparsi man mano che le parole le uscivano dalla bocca.
«Ehy...», dissi, posandole pollice e medio della mia mano destra sulla sua bocca, piegando un angolo della bocca in un sorriso divertito. «Non ti devi preoccupare di niente: oggi siamo il 6, il video – se per te non ci sono problemi – lo potremmo girare più avanti, non importa subito. Il tour inizia in Giappone dal 12, quindi dovremo essere là il... Be’, sarebbe meglio essere là almeno dopodomani, se non sbaglio...».
«Ma i soldi? Non voglio debiti con te Michael... Non voglio dipendere da nessuno, soprattutto da una persona che ha già fatto molto per me. Mi hai già dato troppo del tuo tempo, sarei solo un misero impiccio che richiede lo spreco dei tuoi soldi», disse con sguardo di rammarico.
«Sharon, te lo dirò solo una volta: tu non mi rechi disturbo. I soldi per me non sono affatto un problema, lo sai, e dare vitto e alloggio ai ballerini è una cosa più che naturale, durante un tour. Perciò non voglio sentirti dire ancora che il mio sarebbe uno spreco, perché non lo faccio perché sono obbligato.», risposi serio, non ammettendo repliche riguardo quel discorso.
Lei mi guardò seria e non volente a cedere si propense a dire: «Però tu sai quello che potrebbe dire l’altra gente. Non ho intenzione di farti sembrare un ingenuo, e di sicuro non voglio fare la parte di quella che si approfitta di te, perché io non sono assolutamente così. Perciò, insisto: non sei obbligato».
«Nemmeno tu se per questo», dissi sottovoce, lasciando trasparire una nota di agonia. «E, in ogni modo, non m’interessa che cosa la gente potrebbe pensare. Io so quello che sto facendo, e se quelle persone mi chiederanno il perché delle mie azioni risponderò. Se ci crederanno o no poi saranno affar loro. Tu devi solo dirmi se hai intenzione di accettare o no...», continuai, temendo in una risposta negativa.
Lei abbassò lo sguardo sui fiori, toccando un petalo bianco di un giglio, mordendosi un labbro. «Michael, perché vorresti che venga con te? Per scopi solo lavorativi o altro?», disse, accennando ad una coloratura scarlatta del suo volto. Arrossii violentemente a quella domanda.
Io rimasi a guardarla, senza staccare neanche un secondo gli occhi da lei, aspettando il momento in cui lei avrebbe alzato lo sguardo, in cerca di una mia risposta. Quando lo fece, riflettei sul vero perché.
Quel mio invito valeva per motivi ovviamente di lavoro, ma non solo. Qualcosa in me mi diceva di non lasciarla là, in quel posto, da sola. Era vero però che, essendoci in giro ancora il padre, mi sento più in vena di protezione verso di lei, ma l’avrei fatto anche senza che fosse successo tutto quel delirio? Oppure no? Avrei fatto qualcosa lo stesso per non perderla e non lasciarla in solitudine?
«Secondo te perché ti ho proposto di venire con me?», chiesi, non rispondendo alla sua domanda. Lei corrugò la fronte, per poi lasciar spazio ad un’espressione vaga, pensierosa. Strinse le labbra, per poi osservarmi con occhi mogi. Un istinto dentro di me di diceva che non era qualcosa di buono.
«Non lo so, per questo te lo sto chiedendo. Non voglio rischiare di nuovo delusioni inutili, starei solo più male, nonostante credo veramente ti potermi fidare di te. Ma io non sono infrangibile, ho anche io le mie piccole schegge nel mio cuore. Perciò... Vorrei sapere la verità»
Nei suoi occhi, come due giorni fa, vidi di nuovo la fragilità. Sentii il mio cuore stringersi in una morsa d’acciaio. Mi chinai verso di lei, appoggiando i gomiti sul letto, tenendole una mano con una mia.
«Non ti farei del male, e anche io ho paura di poter rimanere ferito. Anche io ho sofferto. Anche io posso capire cosa significa sentirsi fraintesi, soli, in mancanza di affetto. Perciò credimi: non ho intenzione di farti del male, sono pronto a donarti perfino il mio cuore. Mi fido di te e voglio che resti con me. Non ho il minimo dubbio: non voglio perderti così facilmente».
Quelle parole mi scivolarono fuori dalle labbra come l’acqua da una sorgente di montagna, incurante dove fosse diretta, con lo scopo di dissetare un altro cuore solo e bisognoso di qualcuno accanto.
La mia era una profonda verità. Non volevo – non potevo lasciarla andare. Non se non fosse stata lei a dirmi di no. Io volevo mi seguisse. Mai nessuno aveva provato le mie stesse emozioni, né pensavo che mi sarei affezionato subito a lei. Perché lei qualche cosa dentro di me aveva provocato; un’improvvisa sensazione di calore, alimentata grazie al suo sorriso e ai suoi occhi. Proprio non potevo lasciarla.
Lei mi sorrise, nel frattempo che quei suoi occhi neri si facevano più lucidi e luminosi, facendo comparire un sorriso sulle mie labbra allo stesso tempo. Sharon mi strinse la mano e io ricambiai, arrossendo.
Un bussare alla porta ci riportò alla Terra, quasi fossimo caduti entrambi dalle nuvole. La osservai spaventato, mentre lei lasciandomi la mano disse a voce fioca di rivestirmi con la sciarpa, prima che entrasse quel qualcuno. Io, con agile scatto, mi portai mal volentieri ad una delle due finestre alla parete, facendo finta di chiuderla. Sharon, con voce tremante, dette il permesso di entrare.
Un agente della polizia si fece avanti, accennando ad un sorriso triste, dai capelli corvini e la pelle scura. «Lei è la Signorina Sharon Villa, non è così? Io sono Adam Dixon, agente del Dipartimento Investigativo...»
Sharon annuii, attendendo che il poliziotto continuasse. L’uomo fece un attimo di silenzio, abbassando lo sguardo, per poi fissarmi con un’occhiata osservatrice. Io, intanto, chiudevo in modo straordinariamente lento ogni finestre, lanciando qualche fugace sguardo alle mie spalle.
«C’è qualche cosa che deve dirmi?», chiese Sharon, con tono paco, mantenendo un’espressione molto calma nonostante un percettibile movimento aggrottato delle sopracciglia. L’uomo di nome Adam tossì, abbassando un attimo lo sguardo, indeciso.
«Abbiamo trovato l’uomo, suo padre... Anthony Villa, vero?», chiese l’agente, e dopo un accenno leggero di Sharon continuò. Nel frattempo, mi avvicinai al letto sistemandomi la sciarpa in volto.
«Ecco... Suo padre è morto. È stato trovato il cadavere questa notte in una stanza d’appartamento, deceduto per overdose e infarto. È stata trovata qualche traccia di cocaina nel salotto e nel bagno...» L’uomo non disse più niente. Trattenni il respiro, lanciando un’occhiata su Sharon.
Lei non emise un misero suono, e continuò a fissare l’uomo come se quello che avesse detto non fosse mai stato enunciato.


P.S. Mi sono accorta di non essere arrivata neanche a metà con la storia, perciò i miei capitoli vi faranno compagnia ancora per un bel po'! [SM=x47979] Sposterò tutto, abbiate pazienza [SM=x47918]

È difficile dir loro ciò che sento per te. Non ti hanno mai conosciuta, e non sanno come sei fatta. Come fanno a sapere il tuo mistero? Diamo loro un indizio.
Due uccelli sono su un albero. Uno mangia le ciliegie, mentre l’altro sta a guardare. Due uccelli volano nel cielo. Il canto di uno scende giù dal cielo come cristallo, mentre l’altro resta in silenzio. Due uccelli roteano al sole. Uno riflette la luce sulle sue piume argentate, mentre l’altro distende le sue ali invisibili.
Non è difficile capire quale dei due uccelli sia io, ma non riusciranno a capire chi sei tu. A meno che…
A meno che non sappiano cos’è un amore che non interferisce mai, che guarda da dietro, che respira libero nell’aria invisibile. Dolce uccellino, anima mia, il tuo silenzio è così prezioso. Quanto passerà prima che il mondo possa udire il tuo canto col mio?
Oh, come bramo quel giorno!


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