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Capitolo Undici.
Maybe it was too late.
Punto di vista: Michael Jackson/Sharon Villa.
Sharon desiderò che Michael fosse lì con lei, per cercare di aiutarla. Pregava in un miracolo, nel
suo miracolo, ma era troppo tardi. Un flash del suo contatto dolce e delicato sulle sue guancie prese per un momento il posto di quella paura, mentre il ricordo sei suoi occhi lucidi le sollevavano per quel poco il suo cuore.
***
Un’ora prima...
«Sharon…», dissi con voce sottile, tremante. «Per favore… Non piangere... Va tutto bene adesso… »
Stava con il suo volto nell’incavo del mio collo, continuamente attraversata dagli spasmi del pianto di sfogo, stringendomi fortemente per un pezzo della camicia. Continuava a piangere, incontrollatamente, solo da quando, in quella stanza, eravamo rimasti noi due e basta.
Mi si stava spezzando il cuore. Le sue lacrime erano piccole schegge di vetro che attraversavano la mia anima, rendendo anche me sofferente del suo stesso dolore. Non potevo vederla e sentirla piangere disperata, soprattutto ero ancora turbato da quello che era successo poco prima… Era suo padre quell’uomo. Un uomo che l’aveva e la stava facendo soffrire.
Come non potevo non compatirla? Anche io avevo avuto un passato così. Un passato orribile. A quel pensiero, un lungo brivido attraversò come un lampo la mia schiena, istintivamente stringendo di più Sharon. Non solo mi stavo sentendo male per la situazione, ma il ricordo del mio stesso passato molto simile al suo mi faceva stare ancora peggio.
Come potevo aiutarla? Come potevo farle sentire che le ero vicino, senza farla ulteriormente soffrire? Avrei dovuto dirle che mi dispiaceva per quello che le era successo o non dire niente? Forse la cosa migliore, in quel momento, era invece lasciarla sfogare di tutte le lacrime che non aveva pianto? Di tutta la rabbia rinchiusa nella sua anima per anni?
Eppure non potevo vederla così. Non potevo stare immobile e non farle capire quello che sentivo. Come avrei mai potuto non dire niente per consolarla e non farle sentire il mio appoggio? Io la capito, e capivo fin
troppo bene che cosa significasse quell’infinito dolore che non muore mai.
«Scusa…», soffocò con un ultimo singhiozzo Sharon con voce strozzata, staccandosi un poco dal mio collo. «Non volevo… Mi dispiace… Sono solo… Una stupida impulsiva…»
Era sconvolta, e per farle sentire vicinanza le accarezzavo delicatamente le guance, sfiorando con le labbra la sua fronte. Era strano che, nonostante l’attimo, migliaia di brividi mi pervadevano?
«Non dirlo… Non ti devi scusare, io… Capisco fin troppo bene che cosa significa…», risposi con un filo di voce, indeciso se proseguire col discorso o meno. Lei si staccò lentamente dal mio petto, guardando con occhi arrossati ed insistenti la mia camicia rossa. Io, perplesso, fissai prima la mia maglia poi lei.
«Mh… Ti ho inzuppato la tua camicia con tutte le mie lacrime», disse a bassa voce, con tono di disappunto, lanciandomi un’occhiata preoccupata. D’istinto, soffocai una risata intenerita.
«Stai tranquilla, a dire il vero nemmeno mi importa adesso», risposi con un sorriso. Che tipo... Si preoccupava più della condizione della mia camicia che di chiedermi il perché della risposta precedente.
Lei accennò ad un sorriso, per la prima volta dopo il pianto, e di riflesso sorrisi anch’io. Aveva una tale forza su di me che non potevo starmene lì a non sorridere di rimando.
Quando il suo sorriso cominciò a farsi quasi inesistente, inclinai di poco la testa, sfiorandole con la mano destra i suoi capelli. Lei alzò lo sguardo dritto nei miei occhi, procurandomi un leggero brivido sulla nuca.
«Grazie, davvero», disse a voce più controllata, meno vibrata di prima e molto più mite. «Ti ringrazio per essere rimasto con me, piuttosto di andare via e lasciarmi qui, da sola…»
Una morsa al cuore mi avvolse, vedendo la sua espressione – per la prima volta – simile a quella di un cucciolo indifeso e tremante. Come poteva quell’uomo, se si poteva definire uomo, averle fatto quelle cose? Come aveva avuto il coraggio di toccarla? Sentii un accenno di rabbia stringermi lo stomaco, cercando invano di reprimerlo.
«Non ti avrei mai lasciato qui da sola… Non dopo quello che è successo», risposi sottovoce. D’istinto, spostai un ricciolo bagnato dei suoi capelli dietro il suo orecchio destro, per non impedirle la vista.
«Ti ringrazio…», sbiascicò lei, arrossendo lievemente sulle sue guancie caffelatte. Come risaltavano quei suoi occhi neri, rispetto al colore della sua pelle e a quello dei suoi capelli…
Arrossii anche io, staccando lentamente la mia mano dalla sua guancia. Rimanemmo un attimo in silenzio, guardandoci diretti negli occhi, per poi staccare il mio sguardo dal suo, troppo arrossato per resistere ulteriormente a quel contatto visivo.
«A proposito…», disse lei con voce bassa e impacciata. Per un motivo o per l’altro, fui costretto a riguardarla negli occhi, intimidito. «Mi dispiace per come mi sono comportata prima…»
Sharon accennò ad un sorriso dispiaciuto, per poi abbassare gli occhi. Era dispiaciuta per prima… Ma quello che in realtà doveva chiedere scusa ero probabilmente io, non lei. Non avevo badato ai suoi sentimenti.
Magari aveva avuto quella reazione apposta perché lei… No, non era possibile. Non poteva provare qualcosa per me. Era impossibile. Non poteva essere gelosa. Ma forse… No, nessun forse! Non che mi sarebbe proprio dispiaciuto, se… Sottolineo se – avesse provato più di una semplice amicizia per me… No, Michael, riprenditi! La conosci da troppo poco tempo… Non puoi innamorarti ancora…
«Sono io che devo dirti scusa… Mi dispiace non aver badato a quello che provavi», risposi inconsciamente, arrossendo subito dopo. Lei spalancò quei suoi occhi da cerbiatto, accennando di nuovo al rossore.
«No, Michael! Non dire così!», rispose portando rapida una mano sulla mia. «Davvero, è colpa mia… E’ solo che… Non lo so… Non mi piace molto… Forse è perché non ho feeling con le donne».
A quell’ultima frase aggrottò le sopracciglia, sorridendo con scherno e confusione. Io, di riflesso, inclinai di nuovo il capo e chiesi: «In che senso non hai feeling?»
Lei mi guardò, poi soffocò una risata non divertita, voltando il suo sguardo per un attimo impercettibile alla sua destra, guardando il pavimento. «Dimentichi Jenny e Gloria, quelle del mio corso? Non è la prima volta che delle mie coetanee mi odiano. Fin da quando ero piccola, in effetti, vado avanti così».
«Forse so il motivo perché ti odiano…», dissi non distogliendo il mio sguardo da lei. Ero serio, e lei mi guardava confusa e altrettanto attenta. Senza badare ai brividi, strinsi di rimando la sua mano.
«Forse è perché nonostante il dolore sei una bellissima persona con un’anima…», risposi, senza dare troppa attenzione alle parole che mi uscivano fuori senza controllo. Lei arrossì lieve, sorridendo, per poi farsi nuovamente seria, pensierosa.
«Michael… Mi fa piacere che dici queste cose di me. Ma non mi conosci ancora bene per dirmi chi sono… Forse quello che dici è vero, ma che motivo avrebbero per invidiare una come me? Io non ho niente che possa valere, per quelle persone…»
Ma valgono per me… Volevo risponderle. Strinsi la sua mano forte, con l’istinto di rassicurarla. In parte aveva ragione però: come potevo sapere che tipo di persona fosse in realtà? E se la sua era solo una maschera? Ma, nonostante tutto, qualcosa dentro di me mi diceva che non mentiva. Il suo dolore era reale. I suoi occhi trasparivano sincerità e luce.
«Ti ricordi cosa ti ho detto quel giorno? Quando ti ho detto che ti avrei presa per la mia compagnia?». Lei alzò lo sguardo, accennando ad un lieve assenso con il capo. Io allora accennai ad un sorriso rincuorante.
«Ti invidiano per quello che sei, per la persona che sei. Perché tu possiedi qualcosa che loro non hanno», risposi serio, avvicinandomi percettibilmente verso di lei. Lei mi guardò, senza distogliere i suoi occhi.
«… E che cosa sarebbe questo “qualcosa” che loro non possiedono? Il passato? Io, veramente, non…». Si fermò improvvisamente, quando entrambi ci accorgemmo della nostra strana vicinanza troppo incauta.
Cercando di controllare il respiro, parlai. «La luce nei tuoi occhi…»
Lei non rispose, io non continuai il discorso. Semplicemente ci guardavamo negli occhi, senza proferire più parola, con i nostri volti distanti di solo venti centimetri di distanza.
Mi sentivo stordito solo a starle lontano di solo quel poco spazio. Era una cosa allucinante. Era la stessa sensazione che avevo provato, ballando con lei, quella sera, a ritmo della canzone “The Greatest Love Of All” – la stessa che avevo provato anche quando la vedevo ballare - solo molto più intensificata. Molto più potente e lancinante. Mi lasciava senza parole.
«Anche tu… Hai la luce negli occhi», rispose lei, lenta. Io accennai ad un sorriso, spostando fulmineo il mio sguardo in basso per un breve momento, per poi tornarla a guardare.
Lei mi sorrise dolce, per poi piegare la testa di lato, accennando ad uno sguardo di divertente confusione. «E che cosa avrebbe di particolare questa particolare luce?»
Non risposi, poiché sentimmo bussare alla porta. Nello stesso momento, spostammo entrambi i nostri occhi verso la porta, per poi guardarci con paura. Sharon si alzò dal divanetto veloce come un fulmine, nel frattempo che io mi rimettevo sciarpa, cappello, e tutti gli indumenti necessari al mio travestimento.
Prima di girare la chiave controllò che fossi pronto, poi ad un mio cenno del capo aprì. Dalla porta entrò Ilary, con sguardo stordito, che ci disse che il padre di Sharon se ne era andato e che non c’era più ragione di nascondersi. Feci un sospiro di sollievo, per poi avvicinarmi a Sharon, fino ad esserle a pochi centimetri di distanza. Temevo in una sua crisi, perciò le ero andato vicino.
Sharon abbassò lo sguardo, annuendo, ma nei suoi occhi non c’era sofferenza. Solo una sensazione vaga di odio e rabbia. In quel momento le accarezzai la spalla, poi lei mi rivolse un lieve sorriso.
«Pensi di restare?», disse Ilary, cauta. Subito Sharon scosse la testa, accennando ad una espressione di dolcezza. Voleva rincuorare l’amica.
«Credo me ne andrò a casa. Ho già fatto la mia esibizione», rispose gentile. Ilary annuì, per poi rivolgermi uno sguardo scioccato negli occhi. Ancora non avevo capito se sapesse che ero io Michael Jackson.
«Ilary? Tranquilla, non morde», disse Sharon soffocando una risata divertita. Io e l’amica la guardammo di riflesso, lei sbigottita ed io accennando ad un sorriso, contento che ora fosse più serena.
«Ridi, ridi… Tanto tu ormai ci sei abituata a parlare con Michael Jac…». Prima che pronunciasse il mio nome per intero, Sharon le tappò la bocca, linciandola con lo sguardo, sotto il mio sguardo divertito.
Salutammo veloci l’amica, accompagnati sotto lo sguardo di tutti fino all’uscita del locale. Una volta fuori, dopo un sospiro di sollievo di Sharon, chiamammo un taxi. Per tutto il tragitto le tenni la mano, per aiutarla a sentirsi meglio, e per far sentire meglio anche me. Di fronte all’appartamento, chiamai il mio autista privato per venirmi a prendere.
«Grazie ancora, sei stato molto gentile e dolce con me», disse lei dopo qualche minuto, sorridendomi. Ora che la vedevo sorridere, sentivo quel nodo alla gola farsi inesistente. Ero veramente sollevato.
«Figuriamoci…», risposi sorridendo di riflesso. Poi, notai che era ancora un po’ bagnata, e che soprattutto non aveva né giacca né niente che non le potesse far sentire freddo. Perciò, tirai via il mio cappotto e glielo porsi.
«Tieni». Lei mi guardò stupefatta e nonostante le sue continue insistenze sul tornarmelo, si decise a tenerlo. Era più testarda di quanto pensassi. «Forse è meglio che vai… Se ti ammali poi è colpa mia»
«No, non voglio. Ti lascerei solo…», disse lei, supplicandomi. Io sentii una morsa al cuore – questa volta non di tristezza – ma le pregai di non restare. Non volevo che si prendesse una malora, nonostante volessi con tutto il cuore che rimanesse con me. Ma non volevo che… Be’, quella sarebbe stata una sorpresa.
Sharon mi rivolse uno sguardo triste, perciò per calmarla le presi il viso fra le mani e la baciai sulla fronte. Non so per quanto rimasi in quella posizione, so solo che quando mi staccai eravamo entrambi ancora troppo vicini. Qualche centimetro di distanza…
«Buonanotte, Sharon», dissi sottovoce, pronunciando quel nome con un brivido. «A domani… Ti vengo a prendere io domani mattina…». Lei annuì, lanciando un’occhiata in basso.
Lentamente ci allontanammo, uno più stordito dell’altra, e indecisa proseguii oltre il cancello, dopo la selezione delle chiavi giuste per aprirlo. Io la guardai allontanarsi dalla mia vista, fino oltre la porta dell’appartamento. Poco dopo arrivò la mia macchina e salii, dando un ultimo sguardo all’edificio.
Un brivido improvviso mi scosse.
Sharon…
***
Sharon si diresse a passo lento e trascinato verso il secondo piano, camera d’appartamento numero 17, con ancora il volto leggermente arrossato. Era troppo irreale, lui, per essere vero. Forse stava sognando.
Mai nessuno prima di allora l’aveva trattata come aveva fatto lui con lei. I suoi modi estremamente dolci e pacifici le facevano venire mille brividi in tutto il corpo, mentre uno stato di confusione le atterrava ogni pensiero concreto della sua mente. Era possibile che fosse veramente vero quello che le stava succedendo? Non stava solo immaginando, vero?
Lui è solo un sogno, si auto convinceva,
ormai dovresti averlo capito che i tuoi sogni non diventano mai una realtà, Sharon. Pensava che tutto quello che le stava accadendo era solo un’illusione.
Eppure… Qualcosa dentro di lei le faceva sembrare tutto vero.
Come mai si sentiva così felice quando era al suo fianco? Perché si sentiva così straordinariamente tranquilla quando lui l’abbracciava? Perché era serena anche quando non era tutto apposto?
Sharon tirò fuori dalla sua tracolla le chiavi della stanza d’appartamento, in cerca di quella giusta. Quando la trovò e tentò di rigirarla nella serratura, capii che la porta era già aperta.
Una sensazione di paura fulminea le attraversò la mente, per poi convincersi che la sua era un timore infondato. Magari si era solo dimenticata. Nonostante qualcosa non le andasse, decise di entrare.
Con cautela avanzò nel buio, in cerca del tasto per accendere la luce.
D’impatto, si sentii trascinare da una forza sconosciuta alle sue spalle, mentre una mano le copriva la bocca per evitare di lasciarle cacciare un urlo. Come aveva fatto quel qualcuno ad entrare?
Poi, nel frattempo che lasciava cadere la tracolla e giacca a terra, paralizzata, sentii un soffio d’aria calda sul suo collo scoperto, ed un senso di disgusto le impedì di rimanere lucida del tutto.
«
Ti sei comportata molto male con me prima…», disse una voce maschile, sibilando. «
Mi sa proprio che con te le buone maniere non servono affatto, vero figlia mia?»
Sharon riconobbe quella voce. Il suo tono che non ammetteva repliche. L’alito con qualche traccia di alcool e fumo di sigaretta appena assunti. Le sembrava di tornare al passato, quando aveva solo sette anni d’età e pregava perché la notte non tornasse mai, per la paura che arrivava incombente. Era suo padre quello. Anthony. Era il mostro che popolava ogni suo incubo.
Con gesti irrequieti cercava inutilmente di staccarsi da quella presa fredda e potente, ma oramai lui l’aveva in pugno. Con le braccia tenute strettamente dietro la sua schiena da Anthony, non poteva più fare un granché. Era stata intrappolata di nuovo in uno dei suoi incubi peggiori.
Desiderò che Michael fosse lì con lei, per cercare di aiutarla. Pregava in un miracolo, nel suo miracolo, ma era troppo tardi. Un flash del suo contatto dolce e delicato sulle sue guancie prese per un momento il posto di quella paura, mentre il ricordo sei suoi occhi lucidi le sollevavano per quel poco il suo cuore.
Che strano, Michael… Pensavo che fosse tutto un sogno, ma non lo è affatto. E dire che per un momento mi sembrava che fosse troppo vero per un cuore infranto ed innamorato come il mio.
Quello che successe dopo fu solo un attimo troppo veloce per descrivere.
Lei che mordeva la mano del padre, per scappare, poi una sua fuga verso la porta. Un urlo soffocato di rabbia alle sue spalle, poi un colpo secco e un tonfo per terra. Sangue che scorreva lungo il pavimento in legno. Passi soffocati verso il corpo a terra, poi una corsa contro il tempo prima che qualcuno si accorgesse del fatto.
Michael…
Capitolo Dodici.
A voice pulls me back.
Punto di vista: Michael Jackson/Sharon Villa.
Proseguì di corsa fino a metà della seconda rampa di scale, bloccandosi vedendo la porta aperta della stanza di Sharon e alcuni agenti della polizia all’interno della stanza. Per terra, su un tappeto bianco, una grande macchia di sangue… E, fra le mani di uno degli agenti, in una busta di plastica, il suo stesso cappotto, quello che la sera precedente aveva dato a Sharon.
Un pensiero di terrore gli bloccò ogni pensiero lucido della sua mente.
Che cosa… No… Sharon!
Urlò quel nome nella sua testa, terrorizzato per quello che stava osservando. Dov’era? Perché c’era quella macchia di sangue per terra? Perché c’era la polizia? Perché Sharon non era lì, ad accoglierlo, con uno dei suoi stupendi sorrisi e con quei suoi occhi neri limpidi di quella luce a cui era già affezionato?
«Mi dispiace, ma non può entrare signore», disse un agente non appena Michael stava per raggiungere l’interno della stanza, senza far particolare attenzione a quello che stava facendo.
«Dov’è?...», chiese con un filo di voce. Aveva paura di domandare quella richiesta, non voleva sapere. Eppure l’aveva fatta, quella domanda. Con gli occhi ancora fissi sulla macchia rossa cercò di riordinare le idee che vorticavano rumorosamente nella sua mente.
«Parla della ragazza che abitava qui?», disse alle spalle una voce roca e femminile. Michael si girò di scatto, mentre il suo respiro cominciava a farsi affannoso. Che cosa diavolo era successo?
Una donna anziana gli rivolse uno sguardo di tristezza, per poi guardare il basso, sconvolta. «L’altra notte un uomo che ha detto di essere suo padre mi ha chiesto il favore di farlo entrare nell’appartamento di Sharon… Mi aveva detto che voleva fare una sorpresa alla figlia… E…»
Michael non poteva crederci. Era paralizzato dalla rabbia e dallo shock. Aveva paura. Che fine aveva fatto Sharon? La
sua Sharon? Non poteva essere…
NO! Non lo avrebbe mai accettato questo! Non
lei!
«Cosa? Cosa è successo?!», disse con voce tremante, con tono stranamente alto da parte sua, avvicinandosi alla donna e prendendola per le spalle, comunque con tocco delicato.
La signora evitò il suo sguardo, non capendo che stava parlando proprio con Michael Jackson. «Un residente a questo piano, vicino alla sua stanza, ha sentito un rumore nella notte e…
Oddio!», disse, coprendosi il viso con le mani.
Michael si allontanò dalla donna, a scatti lenti, sentendo le sue gambe cominciare a cedere. Non… Non poteva… Lei doveva stare con lui! Aveva bisogno di lei! Non poteva lasciarlo!
«E’ colpa mia! Tutta colpa mia! Sembrava così sincero… Oddio…», riprese la donna fra i singhiozzi.
«La ragazza è all’ospedale, all’UCLA Medical Center», disse l’agente di prima, ancora accanto allo stipite della porta della stanza d’appartamento. «Non si sa se però riuscirà a resistere… Ha perso molto sangue…»
Ma Michael non sentì più niente…
***
Vedevo buio. Nessuna luce ad aprirmi la via. Nessuna salvezza pronta ad aiutarmi.
Stavo morendo per caso? O ero già morta? Se sì, da quanto tempo? E Ilary? Isabel? John? Sapevano nelle condizioni in cui mi trovavo? Aspetta… Neanche io sapevo come stavo. Non sapevo nemmeno dire se ero ancora viva, o se quello fosse solo un incubo. Di una cosa ero certa: quello non era un sogno. Era troppo reale per essere semplice frutto della mia immaginazione.
Qualcosa era successo. Ma non ricordavo cosa… Era come se la mia mente si fosse bloccata. Ogni pensiero era bloccato, fermo, immobile. Aspettava un segnale. Aspettava quella luce. Ma qual’era la luce così spettacolare che stavo attendendo così arduamente?
Mille voci soffocate passavano come fulmini attraverso la mia testa, rendendomi ancora più confusa e stordita. Erano soffocate, perciò non riuscivo a capire che dicevano.
Aspettate, volevo dire,
parlate una alla volta! Aiutatemi!... Ma nessuno sembrava ascoltarmi. Nessuno sembrava volermi essere accanto.
Mi sentivo male. Quasi soffocare. Era una sensazione orribile, ma non avevo paura. Sentivo solo delle fitte, a volte perfino il respiro mancarmi. Avevo paura di smettere di respirare.
Era troppa buia per me quell’oscurità. Volevo salvare me stessa. Non volevo rimanere intrappolata.
Mamma… Ti prego, aiutami! Salvami! Voglio la luce!
Ma d’altra parte a chi volevo mentire? La vita da tanto tempo mi sembrava inutile. Non sapevo per chi vivevo realmente – se per me stessa o per i miei sogni – né se avrei un giorno avrei realizzato le mie aspettative. Mi sentivo sola, quella era la verità. Non potevo nasconderlo.
Era finita… Era finita per sempre…
Ero morta…
Poi, improvvisamente, un lampo – forse una stella, dalla luce splendente e luminosa – attraversò i miei occhi immersi dal buio. Quella energia sembrava piangere. Piangeva lacrime d’aria e fragili.
«Perché piangi?», dissi, ma dalla mia bocca non provenne nessun rumore. Nemmeno le mie labbra si stavano muovendo. Ero paralizzata, ed il bello era che non sapevo neanche il motivo.
«Michael?», chiamai, quasi aspettandomi che quella luminosità si chiamasse così.
Perché, in effetti, quella luce un nome lo aveva… Lo aveva eccome! Un nome splendente quanto la luce della luna, scintillante come ogni stella che brillava in cielo, potente come i raggi caldi del sole.
«
Michael!», urlai. Michael! Dov’era? Che stava facendo? Perché non era accanto a me? Perché non sentivo la sua mano sulla mia? Perché non sentivo il calore sulle mie guancie?
La mia stella. Il mio sole. La mia luna. Dov’era in quel momento? Dov’era Michael? Dov’era la mia luce di salvezza? Avevo bisogno di lui. Volevo sentire la sua aura accanto alla mia, mentre mi sorrideva.
Era così bello quando sorrideva… La mia personale via d’uscita da quell’inferno di anime solitarie e indifferente al mio dolore di sempre. Quando sorrideva mi sentivo in Paradiso. Quando mi abbracciava stretta, mi sentivo al sicuro. Quando mi parlava con la sua voce delicata, mi sentivo in un altro mondo. Un mondo diverso da quello in cui vivevo. Un mondo in cui non ero sola.
Perché io sapevo che mi capiva. Qualcosa mi diceva che, quando gli parlavo, lui capiva. Quando piangevo, non avevo bisogno di altri se non di lui. Nemmeno di Ilary. Lui era la mia fonte di speranza, la mia risorsa di energia. L’unico che era riuscito a colmare quel dolore di un’intera infanzia ed adolescenza.
Oh... Ora ricordo. E' stato mio padre. Lui mi aveva fatto del male, per un’altra volta nella mia triste vita. Mi aveva uccisa una volta per tutte? Mi aveva lasciata morire come aveva fatto con la mamma?
Amore, sii forte, tesoro mio… Ti voglio bene…
…Mamma!
La mia mamma... dove sei? Mamma!…
Stavo piangendo. Una sensazione dentro di me, dentro il mio cuore – se almeno non ero ancora morta -, mi diceva che stavo piangendo. Versavo lacrime invisibili, ma le sentivo comunque.
Mamma ho bisogno di te! Ti prego, non lasciarmi, non ancora! Ti voglio bene, mamma! Mamma!
Ma la mamma non mi rispose. Sentii un soffio sulla mia fronte, un brivido scorrermi lungo la schiena. Forse non ero proprio morta. Forse era venuta apposta per indicarmi che il Paradiso poteva ancora aspettare?
Poi, inaspettatamente, un’altra voce. Era sfumata, con voce rotta, ma comunque dolce.
«Ti prego,
ti prego… Non portarla in cielo… E’ troppo presto…»
Michael! Oh,
Michael! La mia luce era venuta a salvarmi! Pregai Dio perché quello non fosse un sogno. Era indispensabile per me la sua voce! Non potevo stare senza di lui! Non
ora!
«
Ti prego…», disse l’angelo di luce. Vedevo la sua immagine nella mia mente – i suoi occhi, i lineamenti del suo volto, le labbra, il sorriso… Volevo raggiungerlo. Volevo correre verso di lui!
«Sharon…», pronunciò. Nella sua voce, potevo captare gli spasmi di un pianto soffocato.
No! Michael no! Non piangere! Signore, non farlo soffrire! Non voglio che soffra! Voglio stargli vicino, sempre! Non impedirmi di essergli accanto! Io non voglio rimanga solo!
Quello che successe dopo, d’improvviso, fu un miracolo: mi sentivo tornare alla realtà da un sonno in dormiveglia. Riacquistai come per incanto il senso del mio corpo. Mi sentivo più pesante di prima.
Con timore, cercai di muovere quella che mi sembrava la mia mano sinistra. Si mosse. Ero viva! Mh… Troppo presto per cantare vittoria… Un’improvvisa fitta mi attraversò tutta la testa, bloccando il respiro.
Stava di fatto che dovevo raggiungere il mio angelo. Non potevo lasciarlo da solo, a piangere! Dovevo stargli vicino e tirarlo fuori dalla sua solitudine! Volevo abbracciarlo, fargli sentire che io…
Una luce abbagliante mi avvolse gli occhi, portandomi a richiuderli. Non potevo darmi per vinta. Ritentai. Quella volta riuscii ad aprirli. Riuscii a vedere, anche se in modo un po’ offuscato, dov’ero.
Una piccola stanza d’ospedale, dai perfetti muri bianchi, con qualche quadro che raffigurava mari e campagne sui muri. All’angolo alla mia sinistra una porta in legno scuro, chiusa, e alla mia destra due finestre al muro, completamente aperte, con svolazzanti tendine azzurre che ondeggiavano a ritmo della brezza mattutina. Era ancora settembre, ma il caldo c’era, nonostante fosse solo l’alba.
Stavo in un letto dalle coperte bianco panna; sul braccio sinistro, una flebo pericolosamente infilata dentro la mia pelle, con qualche altro strumento che non seppi riconoscere. Sentii ogni muscolo della mia schiena rabbrividire, più un’altra fitta potente alla testa pervadermi. Portavo, da quel che potevo scorgere, un camice azzurro cielo – il mio colore preferito. All’angolo della parete destra, ci stava una poltrona blu. Era tutto intonato.
Che fossi in Paradiso veramente?
D’improvviso sentii un sospiro tremante. Seguendo lenta con il capo da dove provenisse il rumore, vidi finalmente una figura – non molto esile, dai capelli corvini e ricci – seduto in una sedia alla mia destra, illuminato dalla luce candida dell’aurora. Era curvo sul letto, con il volto infossato fra le sue braccia.
Respirava profondo, ma con fiato instabile. Sembrava piangesse.
Michael!, volevo dire. Ma dalla mia bocca non uscì se non un sospiro. Una fitta leggera attraversò la mia mente, facendomi chiudere gli occhi per un istante. Riaprendoli, presi un ultimo respiro.
«M… Mi…», dissi sottovoce. Lui, ancora curvo in quella posizione, sembrò accennare al risveglio, muovendo lentamente le spalle. A meno che non lo fosse già e stesse immaginando di sognare la mia voce.
«Michael…», pronunciai alzando di più il mio tono di voce, espirando con tutta l’anima il suo nome.
Ti prego, guardami. Sono viva. Non stai sognando!
Ed ecco che l’angelo alzò il suo volto al mio. Quegli occhi… Quel viso… Oddio quanto ne sentivo il bisogno! Ne avevo l’assoluta necessità! Volevo accarezzargli le guance, abbracciarlo e dirgli che stavo bene.
Aveva gli occhi lucidi, arrossati, e il volto umido di gocce salate che aveva pianto da chissà quanto tempo. Nei suoi occhi l’immagine dello smarrimento, misto alla felicità improvvisa. Il mio angelo aveva pianto.
«…
Sharon!», esclamò Michael, sparendo di scatto dalla mia vista ancora accecata e non abituata alla luce.
Mi stava abbracciando; sentivo le sue braccia stringermi forte, mentre mi accarezzava la nuca insistentemente. Non mi ero neanche accorta che mi aveva tirato su dalla posizione distesa, con delicatezza, e che era scoppiato a piangere.
«Grazie a Dio…
Sei viva! Sharon… Grazie.
Grazie! Dio… Non sai quanto ho avuto paura! Pensavo che non ti saresti più risvegliata! Ti ringrazio Signore!».
Non potevo vederlo piangere. No… Era un dolore troppo grande da sopportare. «Michael… Oddio…», dissi, fra le lacrime. «Non piangere, per favore. Io… Io sono qui! Non ti lascio!»
Sentivo fitte impressionati alla testa, dovute alle lacrime che stavano sgorgando copiose dai miei occhi, ma era una sofferenza più che sopportabile. Io non dovevo piangere, perché Michael ne avrebbe sofferto ancora di più. Dovevo stargli vicino, convincerlo che ora era tutto finito!
Michael prese il mio volto fra le sue mani, appoggiando la sua fronte sulla mia. Rimanemmo in quella posizione per un attimo che mi sembrò voler essere infinito; sgorgavano profonde lacrime dai nostri occhi, silenziose, ed entrambi respiravamo affannosamente. Sentivo il monitor del mio battito cardiaco aumentare i suoni a dismisura, ma non ci feci per niente caso.
Chiusi gli occhi per un attimo, cercando di smettere di piangere, lasciando palpabile quella sensazione troppo avvicinata delle nostre labbra. Il mio cuore batteva all’impazzata, quasi stesse per andare contro ad un infarto immediato. Respirai a fondo, con l’intenzione di calmare me stessa e il mio sistema cardiaco, prima di andare veramente incontro alla morte quella volta.
«Mi dispiace. È colpa mia… Tutta
colpa mia! Non avrei dovuto lasciare che…», disse sottile, lasciando trasparire una nota di rimpianto dalla sua voce angelica, scuotendo veloce il capo. Io aprii gli occhi, staccando la mia fronte dalla sua di pochi centimetri, guardandolo negli occhi.
«Michael, no! Non dire così… Nessuno di noi due pensava che… Che…». Feci una pausa, impossibilitata nel continuare quel discorso. Quel ricordo, troppo potente da sopportare subito, mi faceva paura.
Michael mi guardò, con occhi lucidi di tristezza ed angoscia. «Se tu… Non ti fossi più risvegliata, io non so come… Come sarei riuscito mai a perdonarmelo…», disse, poco dopo che una lacrima gli rigò il viso.
I miei occhi si fecero lucidi e, d’inconscio, mi propensi a raccogliere quella sua goccia salata con le mie labbra. Gli baciai la guancia, sperando di riuscire a calmarlo. Quell’angelo non doveva soffrire. Mai!
«E’ tutto passato, sto bene… Non piangere. Io sono viva. Sono qui con te. Perciò non avere il benché minimo rimpianto, tu… Tu mi hai salvato…», dissi, pronunciando quelle parole con tutto il fiato possibile.
Lui annuì, serio. Con leggerezza, nonostante i dolori generali in tutto il corpo, poggiai una mano – non quella con la flebo, fortunatamente – sulla sua guancia, accennando ad un sorriso. «Credimi, hai fatto molto di più di quanto nessuno abbia mai fatto per me…»
Lui lasciò il suo volto cullato dalla mia mano, inclinando la testa, accennando ad un’espressione più rilassata. Mi sembrava così tenero, docile… Persino fragile. Un uomo dagli occhi immensamente dolci.
Mai mi sarei aspettata di trovarmi in una situazione così, soprattutto con lui.
«…Da quando sei qui?», dissi dopo un lungo attimo di silenzio a guardarci negli occhi, senza accennare ad una parola. Quell’assenza di rumore parlava già da sola, non c’era bisogno di parole superflue.
«Da un po’…», rispose lui, prendendomi la mano posata sulla sua guancia e unendola con le sue. Io annuii, pensando che in effetti, con tutti i suoi impegni, era ovvio che… «In effetti, da due giorni…», ammise poi.
Io rimasi sbigottita, strabuzzando leggermente gli occhi. Non stava dicendo sul serio… Voleva dire che per due lunghi giorni era rimasto a vegliare su di me incostante? Non era possibile. Stavo immaginando.
«D-da quando?!», richiesi, troppo scioccata per dire altro. Lui accennò ad un sorriso imbarazzato, con quei suoi occhi improvvisamente brillanti e luminosi, per poi riguardarmi negli occhi con sguardo serio.
«Ti hanno portato qua la notte del 4, oggi è il 6. Ho saputo che eri qua la mattina, venendo a prenderti per le…». Poi si bloccò, toccandosi la tasca dei pantaloni. Dall’interno risuonava il suo cellulare.
Lo prese, lanciandomi un’occhiata di scuse, per poi rispondere. «Pronto?... Sì, sono io Frank... Sì... Non potevo andarmene, era una cosa troppo importante... Lo so... D’accordo, arrivo... A dopo...»
Chiuse il cellulare con un colpo secco, per poi guardarmi cauto e dispiaciuto. Io gli sorrisi docilmente, capendo quello che sarebbe successo. D’altra parte, non poteva restare con me per sempre dopotutto...
«Devo andare...», disse con rammarico. «Ma ti verrò a trovare questa sera, prima che tramonti il sole! Te lo prometto!», continuò, lasciandomi senza parole. Il suo sguardo era sicuro, deciso... Era risoluto.
Io annuii, silenziosa. Michael si alzò dalla sedia, baciandomi di nuovo sulla fronte, come la scorsa serata. Dopo una lunga interminabile ed ultima carezza sulla guancia, guardandomi con occhi lucenti, se ne andò.
Guardai la porta per lungo tempo, scossa dal silenzio. Un getto d’aria mosse le delicate tende azzurrine alle finestre, portando i miei occhi su di esse e sul panorama al di fuori. La luce cominciava ad estendersi.
Aspettai solo che se ne andasse Michael, prima di scoppiare in un pianto di paura repressa.
Capitolo Tredici.
Don't wanna hurt you
Punto di vista: Michael Jackson.
Michael?», disse una voce femminile e lieve alla mia destra, attirando la mia attenzione, subito dopo lo scatto secco della porta della stanza d’ospedale dove riposava Sharon. Era Ilary.
Le sorrisi cordiale, dandole un cenno di assenso con il capo. Dopotutto capivo che, nonostante sapesse chi fossi ormai, provasse un attimo di smarrimento quando dovesse chiamarmi. E, soprattutto, capivo che sembravo un po’ ridicolo a volte, tutto incappucciato nei miei travestimenti. D’altra parte non potevo girare senza sciarpa, cappelli, ecc.
Mi staccai dalla parete con un leggero slancio della schiena, stando attento a non far cadere qualche petalo del mazzo di fiori che stringevo in mano, dirigendomi verso la ragazza. «Come sta Sharon? Meglio?»
Ilary guardò con occhiata fulminea prima il mazzo, poi me, accennando ad un sorriso. Io, nel frattempo, mi sentii in pieno imbarazzo, alla vista del suo sguardo furbesco diretto ai fiori.
«Meglio, diciamo... Gli è appena passata una crisi per fortuna...», disse per poi emettere un sospiro.
«Una crisi?», chiesi, dubbioso, cominciando a preoccuparmi. Lei sembrò confusa quanto me alla mia domanda, e rispose guardandomi attentamente negli occhi.
«Sì... Vuoi dire che con te stamattina non ha pianto?», disse, con tono interessato. Io, sbigottito, non seppi inizialmente che dire. Con me non aveva pianto; poi me ne ero andato, e allora...
«Ha avuto parecchie crisi, soprattutto quando la lasciavo da sola. Per esempio, tornavo poco fa per prendere qualche bibita e qualcosa da mangiare e l’ho trovata fra le lacrime. Mi ha detto che aveva tanta paura di rimanere senza nessuno...»
Quindi l’avevo fatta soffrire andandomene. Non avevo badato ai suoi sentimenti, per la seconda volta da quei pochi giorni in cui ci eravamo conosciuti, come avevo fatto per quella questione riguardo Vanessa. Perché dovevo ferirla in quel modo?
«E… E ora come sta?», dissi, visibilmente scosso. Guardavo fisso il pavimento, non nascondendo i miei sensi di colpa. Mi sentivo uno stupido ad averla lasciata da sola, senza nessuno, dopo lo shock subito.
«Meglio, almeno credo. Purtroppo le ho detto che ora dovrei andare a lavorare, ma che se voleva potevo rimanere con lei per questa notte; lei mi ha detto che non serve, ma non ne sono molto sicura...»
Poi mi lanciò un’occhiata preoccupata, subito dopo un minuto di spaventoso silenzio, nel frattempo che i miei rammarichi scoppiettavano come fuochi d’artificio nella mia mente confusa.
«Michael, sarò sincera,
molto sincera», disse attirando il mio sguardo. «Io a Sharon voglio tanto bene, è stata l’unica e sola persona a starmi vicino quando ho avuto i miei problemi. L’unica. È come una sorella per me. Non so dirti come, ma ho l’impressione che con te lei stia... Bene...»
Io la fissai, attento ad ogni minima parola, ripensando ai pochi momenti passati nei giorni precedenti con Sharon; ripensai al suo sguardo – ai suoi occhi neri, al suo sorriso – e riflettei se Ilary stesse dicendo veramente la realtà dei fatti.
«Non nego di essere un po’ gelosa eh, però... Ecco... Sono certa che ha bisogno di te. Perciò ti chiedo solo una cosa: non starle vicino se non ci tieni
realmente a lei», esclamò poi scrutandomi con uno sguardo inquisitore, come se volesse mettermi all’erta.
Io annuii, incapace di dire niente che potesse essere utile in un momento del genere. Non pensavo che stesse mentendo. Anche io pensavo che Sharon avesse bisogno di amore. Tanto amore.
«Per favore...», disse poi sottovoce, lasciando trasparire dal suo tono una nota di tristezza, con occhi improvvisamente lucidi. «Non farle mai del male... Ha già sofferto troppo... Io le voglio bene...»
Vidi dai suoi occhi comparire una lacrima, muta, rigandole il volto. Io, d’istinto, le poggiai una mano sulla spalla, accennando ad uno sguardo angosciato. «Io non ho intenzione di ferirla, Ilary. Non voglio»
Ilary accennò ad un sorriso d’affanno. Volse il suo sguardo sul pavimento, scioccando lieve la lingua al palato, per poi riguardarmi negli occhi. «Spero che questa sia la verità...»
In seguito si girò di scatto, diretta verso l’ascensore. Poco prima che stessi anch’io per aprire la porta della stanza di Sharon, la mia attenzione venne di nuovo attirata da Ilary, che mi chiamò con un “Ah” confuso. Io mi voltai a fissarla, stranito, vedendo un sorriso sghembo sul suo volto.
«A proposito... Se oserai ferirla in qualche modo – sia moralmente che fisicamente, nonostante la tua buona parola – sarò benissimo capace di spezzarti braccia e gambe con un solo gesto del mio corpo».
Io la guardai scombussolato – cercando di metabolizzare bene il senso di quella frase ironica ma allo stesso tempo davvero preoccupante – per poi sorridere. Lei accennò ad una risata soffocata ed entrò nella cabina dell’ascensore numero due, salutandomi con un cenno veloce della mano.
Fissai di nuovo la porta di fronte a me, tirando un sospiro stranamente nervoso, stando attento a nascondere bene il mazzo di fiori alla mia schiena. Ovviamente quello doveva essere una piccola sorpresa.
Bussai alla porta, e dopo la sua voce delicata a darmi il permesso di entrare decisi di farmi avanti. Entrai cauto, quasi avessi paura che lei fosse scomparsa – che quello di questa mattina fosse stato solo un sogno -, e quando me la trovai seduta sul letto, con indosso quella leggera vestaglia azzurrina, con sguardo sorridente, mi sentii improvvisamente sollevato. Un sorriso comparve felice dalle mie labbra.
«Michael...», esclamò lei, mordendosi un angolo del suo labbro inferiore. Era così tenera, e quei suoi occhi da cerbiatto mi facevano sentire il cuore in gola... Quella sensazione non era normale.
Improvvisamente il suo sguardo sorridente si fece curioso, curvando il capo in cerca di capire cosa avevo dietro la schiena, nel frattempo che io – finto tonto – la salutavo come se niente fosse.
«Te l’avevo promesso che sarei venuto... A quanto pare il sole non è ancora tramontato», dissi continuando a sorridere, vedendo il suo sguardo che scrutatore cercava di vedere la cosa che nascondevo.
«Già, ma... Posso sapere che nascondi là dietro?», disse accennando ad un sorrisetto, aspettandosi che le avrei detto subito la mia sorpresa. Io mi morsi il labbro, avanzando di un passo senza emettere un suono.
«Mmh... Non penso che te lo dirò... E’ un segreto in realtà, e non so se tu...», dissi, sollevando lo sguardo dal pavimento per valutare bene la sua espressione sbalordita; teneva spalancati i suoi stupendi occhi neri, con in volto uno sguardo immediatamente serio e offeso. Solo a quella visione mi lasciai andare ad una risata. Lei, allora, aggrottò la fronte con una smorfia da bambina.
«Mi stai prendendo in giro, Michael? Avanti, per favore! Posso vedere cosa hai dietro la schiena? Dai!». Adoravo quando faceva la bambina di tre anni. Era così... Adorabile. Non potevo descriverla.
Io roteai gli occhi in alto, facendo ancora il perplesso, mentre mi toglievo sciarpa e cappello, tenendo nascosta la sorpresa. «Mmh... Solo se farai la brava e mi prometterai di dirmi la verità su una cosa, prima che ti dia... “L’oggetto nascosto”», dissi, nascondendo il mistero.
Lei abbassò gli occhi, mantenendo l’espressione imbronciata, per poi guardarmi furbetta. «Non me lo puoi dare prima, quel “L’oggetto nascosto”? Prometto di dirti la verità! Ti giuro!», disse scongiurandomi.
La guardai, e nonostante cercassi di non arrendermi sapevamo entrambi che aveva già vinto. Il modo in cui mi guardava, come spalancava i suoi occhi preganti... Maledizione! Mi aveva incantato!
Sbuffai, finto spazientito. «Ok... Tieni...», dissi mostrandole il mazzo, con scatto agile e teatrale. I suoi occhi si fecero luminosi, quasi più della luce del sole stessa, e spalancò le sue labbra in un sorriso enorme.
«Michael! Oddio...», disse piano mentre glieli porsi, sorridente per averla fatta contenta. «Ti giuro, non dovevi! ...Be’, forse sì. Comunque grazie, davvero!»
«Eh lo so... Non avrei dovuto in effetti...», dissi assumendo uno sguardo abbattuto, scuotendo la testa. Lei mi lanciò un’occhiata sarcastica, per poi farmi la linguaccia. Io, di riflesso, feci lo stesso, ridendo.
Rimasi ad osservarla, sereno, mentre lei incantata si prestava a toccare ogni petalo di ogni fiore, con tocco delicato. Era un piccolo mazzo di iris e gigli bianchi, lilla e azzurri. Speravo le sarebbero piaciuti.
«Ti piacciono?», dissi con un sorriso. Lei alzò lo sguardo, rivolgendomi quei suoi splendidi occhi. Era così tranquillo il suo sguardo... Così pacifico... Non sembrava per niente fosse triste.
«Certo che mi piacciono! Sono... Sono stupendi!», disse emozionata. Chinò la testa su di essi, ispirando con cura il loro profumo, poi continuò. «Li adoro... Poi i colori... I miei preferiti... Grazie di cuore!»
Io mi sentii emozionato come un bambino. Ero così preoccupato se quel piccolo mazzo le sarebbe piaciuto o meno, e sapere di aver fatto la scelta giusta mi faceva librare l’anima in cielo.
All'improvviso mi vennero in mente le parole di Ilary – le sue raccomandazioni, la sua lacrima. Sharon non doveva soffrire. Doveva essere felice, e io non avrei mai fatto niente per farla star male. No. Non volevo.
«Sharon... Io...», dissi dopo un lungo attimo di silenzio, sedendomi in un angolo del suo letto. Con sguardo curioso mi fece spazio, spostando la sua attenzione dal mazzo verso i miei occhi concentrati. Sospirai, in cerca delle parole adatte da dirle.
«Ilary mi ha detto delle tue crisi... Mi ha detto che hai pianto spesso oggi». Feci una pausa, alla vista del suo sguardo abbassato. Con una stretta al cuore, le presi la mano. «Sharon, scusa. Non... Non dovevo lasciarti da sola. Posso capire come ti sei sentita, io...»
I suoi occhi lucidi mi bloccarono. Mi resero immobile. «No, Michael, non è colpa tua... Non deve neanche passarti per la testa un pensiero così. E’ solo che il ricordo... Rimanere da sola... Io pensavo che lui sarebbe potuto tornare a farmi del male...», disse guardandomi, spaventata.
Portai la mia mano sulla sua guancia destra, accarezzandola con delicatezza. «Non tornerà. Vedrai, ti prometto che non ti farà più del male. Per questo volevo proporti una condizione...», dissi lentamente.
Lei mi guardò stupita, aggrottando impercettibilmente la fronte. «Che tipo di condizione?», chiese con voce tenue, lasciandomi un lungo brivido pervadermi tutta la schiena.
«Non mi fido a lasciarti qui, da sola, sapendo che quel
pazzo», pronunciai, emettendo un lieve sibilo soffocato. «potrebbe essere ancora in giro... Proprio non posso». Mai avevo provato una rabbia così immensa per qualcuno. Quel sentimento non faceva parte di me. Non era nel mio carattere.
«Perciò volevo chiederti se vorresti venire in tour con me», esclamai tutto d’un fiato, rimanendo a fissarla con occhi spalancati ed intimoriti.
Lei strabuzzò gli occhi, lasciando quelle labbra leggermente carnose un poco aperte dalla sorpresa. «Dici sul... No! Sul serio Michael? Cioè... In tour con te? Ballare di fronte migliaia – milioni di persone?»
Io annuii divertito, mentre la sua espressione si faceva sempre più corrugata; batté qualche volta le palpebre, guardando i suoi fiori per un attimo, per poi osservarmi sbalordita. D’improvviso disse.
«Ma... Michael, io non ho ancora firmato il contratto di lavoro. E poi, il video non lo abbiamo ancora girato... Non so le tappe, e poi io non ho i soldi per permettermi viaggi...», disse cominciando a preoccuparsi man mano che le parole le uscivano dalla bocca.
«Ehy...», dissi, posandole pollice e medio della mia mano destra sulla sua bocca, piegando un angolo della bocca in un sorriso divertito. «Non ti devi preoccupare di niente: oggi siamo il 6, il video – se per te non ci sono problemi – lo potremmo girare più avanti, non importa subito. Il tour inizia in Giappone dal 12, quindi dovremo essere là il... Be’, sarebbe meglio essere là almeno dopodomani, se non sbaglio...».
«Ma i soldi? Non voglio debiti con te Michael... Non voglio dipendere da nessuno, soprattutto da una persona che ha già fatto molto per me. Mi hai già dato troppo del tuo tempo, sarei solo un misero impiccio che richiede lo spreco dei tuoi soldi», disse con sguardo di rammarico.
«Sharon, te lo dirò solo una volta: tu non mi rechi disturbo. I soldi per me non sono affatto un problema, lo sai, e dare vitto e alloggio ai ballerini è una cosa più che naturale, durante un tour. Perciò non voglio sentirti dire ancora che il mio sarebbe uno spreco, perché non lo faccio perché sono obbligato.», risposi serio, non ammettendo repliche riguardo quel discorso.
Lei mi guardò seria e non volente a cedere si propense a dire: «Però tu sai quello che potrebbe dire l’altra gente. Non ho intenzione di farti sembrare un ingenuo, e di sicuro non voglio fare la parte di quella che si approfitta di te, perché io non sono assolutamente così. Perciò, insisto: non sei obbligato».
«Nemmeno tu se per questo», dissi sottovoce, lasciando trasparire una nota di agonia. «E, in ogni modo, non m’interessa che cosa la gente potrebbe pensare. Io so quello che sto facendo, e se quelle persone mi chiederanno il perché delle mie azioni risponderò. Se ci crederanno o no poi saranno affar loro. Tu devi solo dirmi se hai intenzione di accettare o no...», continuai, temendo in una risposta negativa.
Lei abbassò lo sguardo sui fiori, toccando un petalo bianco di un giglio, mordendosi un labbro. «Michael, perché vorresti che venga con te? Per scopi solo lavorativi o altro?», disse, accennando ad una coloratura scarlatta del suo volto. Arrossii violentemente a quella domanda.
Io rimasi a guardarla, senza staccare neanche un secondo gli occhi da lei, aspettando il momento in cui lei avrebbe alzato lo sguardo, in cerca di una mia risposta. Quando lo fece, riflettei sul vero perché.
Quel mio invito valeva per motivi ovviamente di lavoro, ma non solo. Qualcosa in me mi diceva di non lasciarla là, in quel posto, da sola. Era vero però che, essendoci in giro ancora il padre, mi sento più in vena di protezione verso di lei, ma l’avrei fatto anche senza che fosse successo tutto quel delirio? Oppure no? Avrei fatto qualcosa lo stesso per non perderla e non lasciarla in solitudine?
«Secondo te perché ti ho proposto di venire con me?», chiesi, non rispondendo alla sua domanda. Lei corrugò la fronte, per poi lasciar spazio ad un’espressione vaga, pensierosa. Strinse le labbra, per poi osservarmi con occhi mogi. Un istinto dentro di me di diceva che non era qualcosa di buono.
«Non lo so, per questo te lo sto chiedendo. Non voglio rischiare di nuovo delusioni inutili, starei solo più male, nonostante credo veramente ti potermi fidare di te. Ma io non sono infrangibile, ho anche io le mie piccole schegge nel mio cuore. Perciò... Vorrei sapere la verità»
Nei suoi occhi, come due giorni fa, vidi di nuovo la fragilità. Sentii il mio cuore stringersi in una morsa d’acciaio. Mi chinai verso di lei, appoggiando i gomiti sul letto, tenendole una mano con una mia.
«Non ti farei del male, e anche io ho paura di poter rimanere ferito. Anche io ho sofferto. Anche io posso capire cosa significa sentirsi fraintesi, soli, in mancanza di affetto. Perciò credimi: non ho intenzione di farti del male, sono pronto a donarti perfino il mio cuore. Mi fido di te e voglio che resti con me. Non ho il minimo dubbio: non voglio perderti così facilmente».
Quelle parole mi scivolarono fuori dalle labbra come l’acqua da una sorgente di montagna, incurante dove fosse diretta, con lo scopo di dissetare un altro cuore solo e bisognoso di qualcuno accanto.
La mia era una profonda verità. Non volevo – non potevo lasciarla andare. Non se non fosse stata lei a dirmi di no. Io volevo mi seguisse. Mai nessuno aveva provato le mie stesse emozioni, né pensavo che mi sarei affezionato subito a lei. Perché lei qualche cosa dentro di me aveva provocato; un’improvvisa sensazione di calore, alimentata grazie al suo sorriso e ai suoi occhi. Proprio non potevo lasciarla.
Lei mi sorrise, nel frattempo che quei suoi occhi neri si facevano più lucidi e luminosi, facendo comparire un sorriso sulle mie labbra allo stesso tempo. Sharon mi strinse la mano e io ricambiai, arrossendo.
Un bussare alla porta ci riportò alla Terra, quasi fossimo caduti entrambi dalle nuvole. La osservai spaventato, mentre lei lasciandomi la mano disse a voce fioca di rivestirmi con la sciarpa, prima che entrasse quel qualcuno. Io, con agile scatto, mi portai mal volentieri ad una delle due finestre alla parete, facendo finta di chiuderla. Sharon, con voce tremante, dette il permesso di entrare.
Un agente della polizia si fece avanti, accennando ad un sorriso triste, dai capelli corvini e la pelle scura. «Lei è la Signorina Sharon Villa, non è così? Io sono Adam Dixon, agente del Dipartimento Investigativo...»
Sharon annuii, attendendo che il poliziotto continuasse. L’uomo fece un attimo di silenzio, abbassando lo sguardo, per poi fissarmi con un’occhiata osservatrice. Io, intanto, chiudevo in modo straordinariamente lento ogni finestre, lanciando qualche fugace sguardo alle mie spalle.
«C’è qualche cosa che deve dirmi?», chiese Sharon, con tono paco, mantenendo un’espressione molto calma nonostante un percettibile movimento aggrottato delle sopracciglia. L’uomo di nome Adam tossì, abbassando un attimo lo sguardo, indeciso.
«Abbiamo trovato l’uomo, suo padre... Anthony Villa, vero?», chiese l’agente, e dopo un accenno leggero di Sharon continuò. Nel frattempo, mi avvicinai al letto sistemandomi la sciarpa in volto.
«Ecco... Suo padre è morto. È stato trovato il cadavere questa notte in una stanza d’appartamento, deceduto per overdose e infarto. È stata trovata qualche traccia di cocaina nel salotto e nel bagno...» L’uomo non disse più niente. Trattenni il respiro, lanciando un’occhiata su Sharon.
Lei non emise un misero suono, e continuò a fissare l’uomo come se quello che avesse detto non fosse mai stato enunciato.
P.S. Mi sono accorta di non essere arrivata neanche a metà con la storia, perciò i miei capitoli vi faranno compagnia ancora per un bel po'!
Sposterò tutto, abbiate pazienza
È difficile dir loro ciò che sento per te. Non ti hanno mai conosciuta, e non sanno come sei fatta. Come fanno a sapere il tuo mistero? Diamo loro un indizio.
Due uccelli sono su un albero. Uno mangia le ciliegie, mentre l’altro sta a guardare. Due uccelli volano nel cielo. Il canto di uno scende giù dal cielo come cristallo, mentre l’altro resta in silenzio. Due uccelli roteano al sole. Uno riflette la luce sulle sue piume argentate, mentre l’altro distende le sue ali invisibili.
Non è difficile capire quale dei due uccelli sia io, ma non riusciranno a capire chi sei tu. A meno che…
A meno che non sappiano cos’è un amore che non interferisce mai, che guarda da dietro, che respira libero nell’aria invisibile. Dolce uccellino, anima mia, il tuo silenzio è così prezioso. Quanto passerà prima che il mondo possa udire il tuo canto col mio?
Oh, come bramo quel giorno!