Ascoltate INVINCIBLE? Che sensazioni vi trasmette?

Ultimo Aggiornamento: 07/04/2013 23:50
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16/10/2008 07:30
 
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Tratto dal supplemento di "Musica" di Repubblica.

Data: 1° novembre 2001.

Autore: Enrico Sisti


In Copertina

È uscito “invincibile”, il nuovo disco di Michael Jackson, probabilmente il suo migliore dai tempi di Thriller. È un album che sembra smentire tutte le paranoie dell’artista, la mitomania e le paure. Nelle sedici canzoni, lenti disneyani, ballate intense e momenti più aspri. Con molta classe. Il buio è alle spalle.

All'interno

Jackson, l’invincibilità è solo ironia.

Aveva un appuntamento con se stesso e lo ha rispettato. Molti, tutti in pratica, erano convinti che Jackson non ce l’avrebbe fatta e che Invincibile, il disco appena uscito, sarreb stato l’ennesimo guazzabuglio di una personalità musicale fiaccata dal destino del suo alter ego privato.
In apparenza gli ultimi anni sono stati inutili. Solo litigate, paure e sconforto. Anche il concerto dei primi di settembre al Madison Square Garden, noto come tributo a non si sa bene cosa (a Jackson stesso, ma in teoria anche ai Jackson 5), si è trascinato dietro una serie di polemiche culminate con le accuse di Jermaine che se l’è presa col fratello per il prezzo di alcuni biglietti (2500 dollari, cinque milioni di lire). La sensazione è cha a Jackson siano andate comunque tutte storte, dalle accuse di pedofilia di quasi dieci anni fa (un processo mai iniziato in realtà perché venne trovato una specie di accordo con la famiglia del ragazzo e quindi Jackson non fu mai rinviato a giudizio), ai mille movimenti artistici e alle mille mobilitazioni interiori che dall’inizio degli anni Novanta in poi hanno solo prodotto rammarichi nel pubblico perché i risultati erano regolarmente scarsi.

Nel frattempo era quasi inevitabile nell’ambiente (critica, consumatori, industria) si infiltrasse il sospetto che Jacko fosse orami bollito. Che la faccia sbiancata non fosse che l’esplicitazione di un disagio creativo molto più grande dei successi ottenuti e come tale in grado di cancellarli. I fatti erano contro di lui. Dangerous, il più “impotente” dei suoi dischi, non mostrava soltanto le crepe dell’artista, stremato di fronte al problema del rinnovamento e quindi assolutamente incapace di risolverlo, ma anche quelle di un intero sistema, di un’organizzazione (politica di gestione del personale, tecniche di elaborazione musicale e di sfruttamento dei risultati conseguiti) che Jackson aveva vissuto dall’interno contribuendo a disegnare il profilo di una vera propria mitologia fisica ed artistica. L’enfatico, imbarazzante HIStory, dimostrò che le chiacchiere stavano a zero esattamente come la fantasia del mai cresciuto ragazzo di Gary. Quella sua assurda voglia di redimersi immaginandosi come una statua era il punto di non ritorno. E fatale sarebbe stato sbagliare ancora una volta.

Ma Jackson non ha sbagliato. Ha distrutto la statua e ha cercato con tutti i mezzi che aveva a disposizione di allontanare da sé il culto di se medesimo. Il meccanismo era elementare: se il mondo mi getta alle ortiche, io mi autoesalto. Ancora più elementare è stato sconfiggere questa tentazione. È bastato tornare umano. Uno come tanti. E nel r’n’b sono veramente in tanti a somigliarsi perché tutti, gli artisti meno anziani, prima o poi si sono confrontati con la generazione degli ultraquarantenni prima vincenti poi sempre meno: tutti si sono specchiati nel lago dorato di Michael Jackson e Prince nel tentativo di emulare il “bel sembiante” o di scacciarlo il più lontano possibile. Da persona normale, Jackson ha dato lo strattone definitivo passando dall’autoesaltazione all’autoironia, da grottesca statua a paradossale invincibile. Ne è scaturito un disco umile, il più umile di tutti, radicato nelle idee, forse soltanto un po’ lungo (sedici pezzi, di cui tre evitabili), e così denso che adesso i colleghi più gettonai, quelli che non mancano mai le classifiche con i loro proiettili da acqua distillata mascherati da prodotti nutrienti, possono anche andare a prendersi una pausa di riflessione. Se i loro dischi sono dispersivi e monocordi (e qualcuno è anche riuscito a fare dischi contemporaneamente dispersivi e monocordi) Invincibile è una lucida, intensa rasoiata di suggerimenti. Freddo a tratti, ma proprio in quei tratti la zampata del talento vi aggiunge il colore delle voci, tante, anche quelle dei cori infantili, e l’orchestra di Jeremy Lubbock.

Da anni Jackson non ha più la squadra di Thriller, Quincy Jones è altrove. Rod Temperton è ormai un ricordo. I sessioman non servono praticamente più. E dunque poteva sembrare rischioso rifarsi all’entusiasmo di Beat it. Ma Jackson ci ha provato. Ed è quasi riuscito a miracolarsi. Invincible non è Thriller, ma se c’è un Thriller moderno, o meglio, se qualcuno riesce ad immaginare un Thriller moderno, Invincible è quanto d più vicino a questa immaginazione, come Emancipation è il Prince più vicino a Sign’o’the times (ma per Prince il discorso è più comlesso). La varietà si Invincible sta nella sua mancanza di forma guida. C’è la rasaposità del drum programmino, ama accanto si avvertono i benefici della compostezza della preghiera vocale. Ci sono dei break di rap, ma sono appensa due. Molti di più gli incisi che rendono le melodie delle canzoni ricche, sfaccettate, come se ogni canzone contenesse materiale sufficiente per farne almeno due. In questo il Jackson ritrovato è più “pop adulto” che “black”, specie se il black quello, stramoderno ma sospetto, di chi non possiede il segreto della scrittura della canzone.

Dicevamo della squadra. Quella attuale è un composto di protagonisti più o meno ubiqui dell’attuale scenario r’n’b: Rodney Jerkins, Fred Jerkins III, R. Kelly, Teddy Riley sono solo alcuni fra coloro che sono scesi in campo. Di solito quando c’è troppa gente, un disco si smonta sa solo. Invincible ha però la fortuna di avere una sua riconoscibilità nella promessa che Jackson ha voluto apporre al proprio ritorno: sarà un disco “mio”. E per ottenere questo è partito dal basso. L’unica soluzione che aveva davanti per tentare un altro Thriller era dimenticarsi di aver fatto Thriller. Ne è uscita una dichiarazione di intenti semplice semplice. Non un capolavoro assoluto, di quelli che resteranno nella memoria collettiva. Ma un disco di livello, personale e coraggioso. Dove hanno travato spazio pezzi disneyani, o incantesimi alla We are the world, battute veloci e ballate come Break of down e Butterflies, che hanno dentro suggestioni e motivi per durare a lungo.

E quando si sente un fischio mormoricano, non disturba affatto (anzi) sapere che è di Carlos Santana e che per tutta la canzone (Whatever happens) il signo Supernatural distribuisce amicizia, saggezza e chitarra. Perfetto equilibrio di tradizione e modernità, tecnologia e sentimenti. Jackson ha dato una bella spallata a se stesso. Se non cade adesso, per la foga, e non si lascia travolgere dal bisogno di tornare la star che non sarà mai più, c’è il rischio serissimo di aver ritrovato un musicista vero. Pronto a fare il proprio mestiere, finalmente libero dai complessi degli ultimi tragici anni. E non solo. Ora Jackson è anche un cantante più misurato, ha quasi smesso di nascondersi dietro sgrilletti sincopati. Per no parlare del ballerino: forse all’immortale Fred Astaire, che un giorno disse di lui “è il più grande danzatore dell’era moderno”, sarebbe piaciuto vederlo ancora in tiro.
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