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LITTLE SUSIE © (in corso). Rating: verde

Ultimo Aggiornamento: 11/02/2012 17:51
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15/01/2012 16:22
 
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La storia prosegue ...
Capitolo 14

-L’hai sposato. – sussurrò Michael, sconfitto, incapace di muoversi. La rabbia che sino a quel momento aveva alimentato ogni suo gesto o parola era ormai scemata, lasciando il posto ad una sensazione di vuoto e di solitudine. Glielo leggevo negli occhi.
-Michael, guardami. – gli ordinai, seria, prima che potesse distruggere tutto il mio mondo con poche, dure parole. M’ignorò.
-Guardami!- urlai, esasperata dalla sua ostinazione.
Obbedì di malavoglia. Si girò verso di me lentamente, con una smorfia di fastidio dipinta sul volto. Quella sua espressione mi gelò il cuore, ma mi costrinsi a farmi forza e a non credere a quella sua apparente freddezza: quella era solo una maschera, una delle tante che Mike amava indossare per sottrarsi al confronto diretto con le difficoltà e gli ostacoli che inevitabilmente s’incontrano nel corso di un’esistenza. Era una barriera che ergeva tra lui e il mondo quando combattere diventava troppo difficile. Michael, in realtà, era terribilmente fragile.
Gli presi il volto fra le mani e,inspiegabilmente,cominciai a piangere. La mia vita mi sembrava ormai un enorme, sconfinato mare salato, formato da tutte le lacrime che avevo versato e che ancora i miei occhi avrebbero lasciato cadere.
Perché la vita è dolore. Se non soffri, vuol dire che non stai vivendo davvero. Chi crede che l’indifferenza sia la migliore arma per vincere la paura e la morte, in realtà troverà proprio in questa insensibilità un potente strumento di distruzione.
Perché la vita è incontrare qualcuno, amarlo, perderlo, ritrovarlo … La vita è un pianto senza fine: lacrime di gioia,dolore, paura, confusione …
E per Mike avevo versato tante, troppe lacrime: perché l’avevo vissuto fino in fondo, ne avevo assaporato ogni pregio e difetto, lo avevo amato intensamente, aprendogli le porte dell’anima.
E ancora l’avrei amato, perché non potevo fare a meno di vivergli accanto, di dedicargli la mia vita, che era l’unica cosa che possedevo.
-Sarei morta di fame,Michael. Tu non sai cosa significa. Io l’ho provato sulla mia pelle. Ti giuro che avrei fatto qualsiasi cosa per colmare quel vuoto all’interno del mio stomaco. – gli confessai, come se fosse una terribile colpa.
Lo sguardo di Michael si addolcì e si riempì d’antica tristezza.
-Non lascerò che ti faccia del male. – mi promise, poi mi strinse a sé in un abbraccio che speravo sarebbe durato in eterno.
Eravamo due tessere di un puzzle che s’incastravano perfettamente: ci completavamo a vicenda. Ognuno colmava i vuoti dell’altro, ne levigava gli spigoli, ne riduceva le imperfezioni.
In quel mentre, una risata giocosa e un urlo divertito di bimbo raggiunse le nostre orecchie. Sorrisi.
-Vado a darmi una sistemata. – annunciai, in un soffio.
Mi allungai sulle punte dei piedi per baciarlo e poi mi allontanai, diretta verso il bagno enorme indicatomi da Mike.
Quando tornai in camera, Michael stava ingaggiando sul letto una lotta all’ultimo solletico con un bambino dai lineamenti angelici deformati da smorfie buffe ed esilaranti.
Il bimbo urlò, divertito, cercando di afferrare le mani del padre per fermarle. Sorrisi e mi mantenni a distanza, come si conviene ad uno spettatore, un intruso che si limita ad osservare perché sente di non poter far parte, per qualche oscura ragione, del mondo gioioso e spensierato che sta esaminando con tanta attenzione e un filo d’invidia.
Prince saltò al collo di suo padre, stampandogli un bel bacio sulla guancia.
-Ti voglio bene. – balbettò il piccolo, con la trasparente e commovente sincerità dei bambini.
Michael sorrise, lo abbracciò forte e,appena ebbe intercettato il mio sguardo rapito, mi fece segno di avvicinarmi per unirmi a loro. Indugiai un poco. Che cosa avrebbe pensato Prince di me?
Il fatto che possedesse l’ingenuità tipica dell’infanzia non mi rassicurava affatto,anzi: questo sicuramente lo avrebbe portato a pormi domande difficili con il candore e la schiettezza di chi si aspetta che per ogni cosa esista una spiegazione.
Se mi avesse chiesto perché mi trovavo in camera di suo padre a quell’ora? Sarei stata capace di mentirgli per non turbare la sua innocenza e non destare in lui alcun tipo di dubbio?
Ma quando mi sedetti sul grande materasso accanto a loro, compresi che mi ero preoccupata troppo e inutilmente: Mike ci presentò pieno di tranquillità – tanto che a poco a poco mi quietai anch’io - e Prince mi salutò con la manina paffuta, sorridendo timido. Parlammo poco, ma subito mi parve chiaro che doveva aver ereditato l’intelligenza del padre: era estremamente sveglio e sagace per la sua età. Non si lasciava sfuggire assolutamente nulla e, quando ci lasciò per andare a fare colazione insieme alla “Tata Grace”, ringraziai il cielo che non avesse fatto caso proprio al dettaglio più importante, cioè la mia presenza lì, in quella stanza, a quell’ora.
Michael, allora,ormai di buonumore, mi prese per mano e m’invitò a conoscere anche Paris, la sua bambina.
Era una neonata deliziosa. Mike era orgoglioso e al contempo molto geloso dei suoi figli, però mi permise di tenerla in braccio per qualche minuto e cullarla lentamente: ne rimasi incantata.
Gli occhi di Paris erano magnetici e indimenticabili: contenevano una sapienza antica e lontana, come se avessero attraversato spazi e tempi inimmaginabili per giungere sino a lì, sul suo visetto adorabile, come due diamanti incastonati sul più prezioso dei gioielli.
Dio solo sa quanto ho amato quella bambina, quasi fosse stata mia figlia.































Capitolo 15

-Questo è il Giving Tree. – annunciò Mike, orgoglioso ed eccitato, lasciando la mia mano e correndo incontro ad un magnifico albero, dalla chioma ampia e dal tronco scuro e nodoso.
Appoggiò delicatamente l’orecchio su quel legno vecchio di secoli probabilmente, e prese ad accarezzarne la superficie ruvida e dura. Chiuse gli occhi e sorrise, come se stesse parlando con quella strana creatura, quell’essere immobile e saggio che innalzava i suoi rami verso il cielo, come se tentasse di afferrarlo, e al contempo sprofondava le sue radici nella terra fertile ai suoi piedi, come se cercasse di raggiungere il centro del pianeta, per assicurarsi una stabilità eterna.
Mi avvicinai a Michael e lo imitai, appoggiando la guancia contro la corteccia dell’albero miracoloso che aveva ispirato al maggiore intrattenitore di sempre alcune tra le sue canzoni più belle.
-Lo senti? – chiese in un sussurro Mike, estasiato.
Rimasi in ascolto: una sorta di soffio vitale, di respiro secolare, attraversava il Giving Tree, che sembrava quasi sospirare paziente e docile come un animale domestico al tocco del proprio padrone. Ancora oggi sono convinta che Michael avesse riposto in quella pianta prodigiosa una parte della sua anima e che quell’albero fosse, in qualche modo, vivo e magico.
-Muori dalla voglia di arrampicarti fino in cima, non è così? – tentai d’indovinare, ridacchiando, dopo qualche istante di silenzio.
Michael ammiccò, con finta aria colpevole.
-Vieni con me. – propose, offrendomi una mano, per aiutarmi a salire.
Feci cenno di no e Mike corrugò la fronte, confuso e forse un poco deluso.
-E’ il tuo albero. Voglio che rimanga tale. Va’, ti aspetto quaggiù.- gli spiegai, serena.
In effetti, non volevo risultare invadente: mi sentivo ancora una specie d’infiltrata in quel regno magico e segreto che Michael si era costruito intorno nel corso degli anni per riconquistare quel minimo di autonomia e privacy che dovrebbero essere dovute ad ogni uomo e delle quali lui era stato privato.
Neverland, l’atmosfera di pace che si poteva respirare al suo interno, non mi appartenevano. Non ancora,perlomeno. Un giorno forse ne avrei fatto parte, speravo.
Michael comprese e non insistette.
-Vuoi rientrare? – mi domandò, cortese. La leggera brezza mattutina si stava trasformando in un vento forte ed insistente.
Feci cenno di sì.
Mi prese sottobraccio e cominciammo ad avviarci verso casa. Quando rientrammo, Michael si offrì di mostrarmi il resto dell’abitazione.
Accettai di buon grado, spinta dalla curiosità, e ciononostante un poco timorosa di fronte all’ignoto.
L’edificio in sé era affascinante e misterioso,dall’aria solida e maestosa. Questa sua magnificenza si rifletteva anche all’interno, come era facile dedurre dalle stanze elegantemente arredate secondo i gusti particolari e raffinati di Michael, dai mobili in legno massiccio, dai corridoi interminabili, dai soffitti alti ed elaborati e dagli innumerevoli oggetti che decoravano ogni angolo della casa. Ciò suscitava soggezione e incuteva un senso d’inferiorità un po’ fastidioso. Ma nel complesso mi sentii felice di seguirlo mano nella mano ad esplorare ogni angolo della villa.
Le varie stanze si assomigliavano tra loro,erano accomunate da qualcosa che non seppi identificare subito, quindi lasciai perdere.
Ma l’unica che suscitò davvero il mio interesse fu una sala particolare, dal pavimento di legno e dai muri ricoperti interamente da specchi. Entrai estasiata, senza nemmeno aprir bocca.
Mai avrei immaginato di trovare all’interno di una casa una stanza adibita a ciò che più amavo nella mia vita dopo Mike: la danza.
-Wow. – riuscii a sussurrare dopo qualche minuto di silenzio. Michael, al mio fianco, mi osservava attentamente, rapito forse dall’espressione incantata del mio viso.
-Ti va di ballare? – mi chiese improvvisamente, cingendomi la vita.
Sorrisi.
-Ma non c’è la musica … - protestai.
Mike si mordicchiò il labbro inferiore, pensoso. Poi gli venne un’idea.
Afferrò la mia mano destra e la posò con delicatezza sul suo cuore che batteva forte, euforico, energico. La lasciai lì, affascinata da quel suono.
Così cominciammo a muoverci, lentamente, attraverso la stanza.
Stavamo ballando al ritmo del SUO cuore.














Capitolo 16

-Susan? – domandò Javier, incredulo, all’altro capo del telefono.
Sorrisi. Era evidente che non si aspettava una mia chiamata.
-Come stai? – chiesi, felice di sentire la sua voce dopo tanto tempo.
Avevo deciso di riprendere i contatti con la mia famiglia su invito di Michael. Sentivo la loro mancanza e avevo nostalgia di casa, ma fino a quel momento mi ero comportata da codarda, facendo perdere le mie tracce, nascondendomi. Non avevano saputo più nulla di me. Probabilmente pensavano ancora che fossi partita per l’America in cerca di fortuna e che frequentassi la scuola di danza per la quale l’adorabile Mrs. Sullivan mi aveva fissato prontamente un provino circa un anno prima.
Ma poi Mike aveva avuto la brillante idea d’infondermi un poco di coraggio. E nessuno sapeva essere più persuasivo di lui.
“Non temere di esser giudicata, Susie. Loro sono la tua famiglia e lo saranno sempre.” aveva detto.
In quel momento più che mai sperai che le sue parole fossero state sincere e che corrispondessero pienamente al vero.
Aveva sempre avuto la tendenza ad idealizzare un po’ troppo l’istituzione “famiglia”. Forse non c’era da stupirsene: era cresciuto insieme a cinque fratelli e tre sorelle ed era ancora molto legato ad alcuni valori che giudicava fondamentali.
Se Michael e la sua famiglia, nonostante vivessero a chilometri di distanza e si vedessero assai raramente, riuscivano comunque a mantenersi in contatto e a volersi bene, pensai, non vi era alcuna ragione che potesse realmente impedirmi di fare lo stesso.
-Non ci posso credere … Sono passati mesi dall’ultima volta che…- cominciò mio fratello, ma lo interruppi.
-Lo so. Mi dispiace. Ho telefonato per domandarvi perdono. Purtroppo … non è stato un periodo facile per me. – ammisi, con un filo di malinconia nella voce. Desiderai – invano,purtroppo – che non mi chiedesse i dettagli. La delusione sarebbe stata dolorosa per entrambi.
Sfortunatamente, Javier mi pose la fatidica domanda che tanto temevo.
Tre parole che ne prevedono, in risposta, altre mille. E io non sapevo dove e come trovarle.
-Cos’è successo? –
Sospirai, rassegnata. Prima o poi avrebbe dovuto saperlo comunque. Certo, avrei preferito spiegarglielo con più calma e magari di persona. In circostanze migliori, insomma. Ma ormai sembrava che non avessi scampo.
-Mi sono sposata. – annunciai, dopo aver fatto un respiro profondo. Quelle parole risultarono assurde persino alle mie orecchie.
Dall’altra parte non si udì alcuna risposta.
-Hai capito? – chiesi dopo qualche minuto, infastidita da quel silenzio imbarazzante.
Javier si riprese. Chissà cosa gli passava per la testa. Non che fosse difficile immaginarlo,comunque.
-Sì. – rispose, in un soffio.
-Non dici niente?- lo incalzai, sempre più turbata.
Certo non mi ero aspettata che reagisse positivamente alla notizia, ma quell’apparente mancanza di emozioni mi preoccupava. Forse una sfuriata sarebbe stata meno inquietante di quella freddezza inaspettata.
-Cosa dovrei dire? Tante felicitazioni. – disse, cinico, con falso entusiasmo.
Ridussi gli occhi a due fessure, indispettita.
-Bene. Anzi, benissimo! – esclamai, acida.
Sapevo perfettamente che quella conversazione non sarebbe sfociata in nulla di buono, eppure ciò non fece altro che accrescere la mia irritazione. Non poteva, dopo tanto tempo, dimostrarsi più gentile e comprensivo?
Se solo avesse saputo cos’era successo davvero, allora avrebbe cambiato idea: sarebbe stato dalla mia parte, invece di condannarmi così impietosamente.
-Posso aver l’onore di sapere come si chiama lo sposo? – domandò Javier, pungente. Era veramente insopportabile quando si comportava in quel modo.
Fu a quel punto che persi definitivamente le staffe.
Io e Michael avevamo stabilito di tener nascosta la nostra relazione sia perché voleva evitare di creare problemi a me con Liam, visto che perlomeno su carta noi rimanevamo ufficialmente sposati e che lui poteva risultare talvolta assai pericoloso e determinato quando si trattava di ottenere qualcosa che desiderava ardentemente, sia perché avrebbe preferito che il mondo intero non s’intromettesse tra noi due, ostacolandoci e limitandoci in un rapporto che, ne eravamo certi, era destinato ad evolversi e a durare in eterno.
-Non dovresti interessarti allo sposo. – osservai allora, alzando la voce di qualche ottava e attirando, dunque, la sua attenzione.
-Perché? – chiese mio fratello, improvvisamente confuso e spaesato.
Ghignai tra me e me, assaporando il gusto della vittoria in quella sorta di dibattito che si era prolungato più del dovuto. La rabbia aveva offuscato tutti i miei buoni propositi e m’impedì di agire razionalmente, come avrei senz’altro fatto se Javier non mi avesse attaccata in modo così esplicito.
A mente fredda me ne sarei poi pentita, ne ero più che certa.
Ma al momento riuscivo solo a pensare alla maniera migliore per rispondere alla sua provocazione in modo esemplare.
-Bhè, perché in realtà ora non sono con lui. – annunciai, con naturalezza.
-E dove ti troveresti? – domandò Javier, di nuovo sarcastico.
-A casa di Michael. – risposi, con finta spontaneità. Ci volle qualche secondo prima che comprendesse cosa ciò significasse.
Ma, quando lo capì, cominciò a sbraitare e ad inveire, furioso.
-Che COSA?!?! Da quanto? E che cosa ci fai lì? Sei impazzita? – gridò, infilando tra una parola e l’altra una sequela di bestemmie che mai mi sarei aspettata di sentire da lui.
-Vuoi davvero sapere che ci faccio con Michael? – chiesi, con un filo d’ironia nella voce. Alla mia domanda retorica seguì un silenzio carico di sottintesi e di tensione.
Javier riattaccò, indignato, ma non prima di aggiungere un “Va’ a farti fottere!” rabbioso.
In quel momento lo detestai più di quanto fosse lecito.





















Capitolo 17

-Papà? Mi passi il pane? – chiese Prince, impaziente, saltellando sulla sedia di fianco alla mia, come a sottolineare l’urgenza.
Sorrisi divertita.
Michael alzò un dito, rimproverandolo bonariamente ma con fermezza:
-Hai dimenticato la parola magica. Lo sai che voglio che siate gentili. –
Prince si batté il palmo della piccola mano sulla fronte, molto teatralmente. Era così buffo.
-Scusa! Mi passi il pane, per favore? – si corresse allora, accompagnando la timida richiesta con un’occhiata irresistibile e molto eloquente.
Mike afferrò il cestino alla sua destra e glielo porse, compiaciuto.
Aveva molto a cuore l’educazione dei suoi figli ed era così orgoglioso di loro – specie quando si comportavano in modo tanto garbato – che sprizzava soddisfazione da tutti i pori.
Paris osservò attentamente Prince mentre allungava la manina paffuta per afferrare una pagnotta dall’aria soffice e deliziosa dal cesto di giunchi intrecciati fra loro, poi reclamò anche lei la sua parte.
-Papà! Papà! Papà! – lo chiamò più volte, per attirare la sua attenzione.
Michael si voltò immediatamente verso di lei, come se temesse che si fosse fatta male in qualche modo o che si sentisse poco bene.
La sua apprensione era quasi commovente.
Mike era il padre migliore dell’universo, altroché.
-Pane! Per favore! – esclamò Paris, tendendo le mani verso l’alto.
Michael ne offrì prontamente anche a lei.
-Ho telefonato ad Javier. – annunciai, dopo qualche minuto di silenzio, osservando con la coda dell’occhio i bambini.
Ma loro continuarono a mangiare, assorti, senza prestarmi troppa attenzione.
-E? – m’incalzò Mike, incuriosito dalla mia espressione sconsolata.
-Abbiamo litigato. – mormorai.
Tagliai e addentai un piccolo pezzo di petto di tacchino, masticandolo pensosa.
Michael allungò una mano verso di me e mi sfiorò il braccio.
-Mi dispiace. – sussurrò, con gli occhi che ardevano di sincerità.
Non riuscii a sostenere quello sguardo.
-Ehm … non è tutto. – aggiunsi, poco convinta, mentre con le dita percorrevo leggera i ricami della tovaglia.
Mike ridacchiò.
-C’è altro? – chiese, incapace di comprendere quell’emozione che mi strisciava nello stomaco, dandomi la nausea. Non avrei saputo catalogarla nemmeno io. Vergogna,forse?
-Sì … gli ho detto, ehm … di noi. – confessai, abbassando ulteriormente la voce per assicurarmi che i bambini non sentissero una parola di quelle che stavo pronunciando.
Michael s’irrigidì.
-Non ha reagito bene. – dedusse, contraendo la mascella.
Feci cenno di no.
-Bhè, è normale. E’ tuo fratello, Susie: si sente responsabile nei tuoi confronti. – cercò di spiegare.
-Perché cerchi di giustificarlo ad ogni costo? – chiesi, incredula.
Non riuscivo a capire come potesse scusare il suo atteggiamento.
Javier aveva sbagliato, era evidente: rifiutava la mia felicità soltanto perché riguardava Michael e dipendeva da lui.
I fratelli non dovrebbero comportarsi così.
-Perché lui ti vuole bene. – mi fece notare, in un soffio, come se fosse qualcosa di lampante.
Un tempo non avevo mai dubitato dell’affetto che Javier provava nei miei confronti, perché era pienamente ricambiato.
L’avevo sempre considerato il mio migliore amico, una sorta di guida, quasi fosse un fratello maggiore, e non un mio gemello.
Fin da piccoli eravamo stati così legati che ai nostri genitori risultò impossibile separarci: anche a scuola le maestre erano state costrette a sistemarci in due banchi vicini.
Ma poi era subentrato Michael, al quale mi ero aggrappata sin dal primo istante, perché da lui dipendeva la mia vita.
Il mio amore per Javier era rimasto immutato, solo era stato sovrastato da qualcosa di più grande e incontrastabile.
In un primo momento avevo pensato che mio fratello fosse geloso ma poi mi ero dovuta ricredere: nemmeno la gelosia e l’invidia avrebbero potuto giustificare le sue parole.
Mi aveva ferita e io avevo risposto con la stessa moneta.
Quando sarebbe finito tutto ciò? Ero stanca dei litigi. Desideravo soltanto vivere in pace con Michael, nutrirmi di tutto quell’amore che mi offriva per poi restituirglielo in dose maggiore.
La serenità che Neverland aveva apportato alla mia anima veniva però continuamente offuscata da diverbi, preoccupazioni, timori.
Tra Javier e Liam, in quel momento, non avrei saputo decidere per chi angustiarmi maggiormente: sembrava facessero a gara per distruggere la mia quiete, squarciandola e sostituendola con l’angoscia.
-Non lo so. Non avrebbe dovuto reagire così. – osservai.
Michael annuì veementemente.
-Certo, hai perfettamente ragione. Nulla può giustificare il suo comportamento. Nulla … se non l’amore. Sai che è molto legato a te, e non ci vorrà molto tempo prima che richiami. Susie, non voglio obbligarti a metterti contro la tua famiglia per me, lo capisci questo, vero? Io non sono nessuno. Voglio che tu abbia una vita all’infuori di questa. Non puoi isolarti dal mondo, perché tutto ciò – ed evidenziò le parole con un ampio gesto delle mani - non durerà per sempre. –
Sussultai.
Avrei voluto piangere. Ma non potevo crollare di fronte agli occhi ingenui ed innocenti di Paris e Prince. Se l’avessi fatto, si sarebbero chiesti il motivo di quell’improvvisa disperazione. Come potevo spiegar loro che il colpevole era loro padre, che si era servito di poche parole come di un coltello per uccidere e sgonfiare tutti i sogni che la mia mente aveva finalmente liberato?
-Non … non durerà per sempre. –
Ripetei le sue parole, sforzandomi di non far apparire la mia fragilità in quel momento.
Michael capì. Senza badare ai suoi figli, mi abbracciò stretta a sé, sussurrandomi all’orecchio:
-Non voglio che tutto finisca, Susan. Ma voglio essere previdente. Desidero che, se qualcosa dovesse andare storto, tu abbia una seconda opportunità. Un piano B, insomma. –
Si allontanò da me lentamente, ridacchiando. Era così ilare quella sera!
-Non angosciarti! Io ti amo più della mia stessa vita. Ma non ho null’altro da offrirti se non me stesso e il mio cuore, che già ti appartiene. E non posso sapere se questo, per te, sarà abbastanza, per sempre. – mi spiegò.
Prince alzò gli occhi dal piatto che ormai aveva già ripulito.
-Anche io ti amo! – esclamò, sorridendo.
Paris gli lanciò un’occhiataccia, poi si rivolse a me:
-Io di più. –
E batté le mani eccitata.
Scossi il capo impercettibilmente e sorrisi, in risposta a quelle parole che si erano conficcate direttamente nel mio cuore. Poi mi voltai verso Michael.
-E tu, ricordati che sei tutto per me. La mia vita non ha alcun senso senza di te, tienilo bene a mente,sciocchino! – mormorai.
E gli stampai un bel bacio sulla guancia.
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