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LITTLE SUSIE © (in corso). Rating: verde

Ultimo Aggiornamento: 11/02/2012 17:51
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02/02/2012 12:55
 
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Capitolo 23

-In … incinta? – balbettò Michael, incredulo, con gli occhi sgranati.
Ridacchiai, di fronte alla sua espressione allibita.
-Ho un … ehm … ritardo di dieci giorni. – mormorai.
Ne ero certa. Avevo ormai ripetuto i calcoli a mente almeno cinque volte.
Ovviamente avrebbe potuto anche trattarsi di una semplice coincidenza, ma ne dubitavo fortemente: il mio ciclo mestruale era sempre stato puntuale come un orologio svizzero.
Le labbra di Michael si schiusero lentamente sui denti bianchissimi, dipingendo un sorriso angelico.
-Mi … mi stai dicendo che … aspettiamo un bambino? – domandò, al colmo dell’euforia. Il suo viso s’illuminò quando pronunciò la parola “bambino”.
Annuii, con fare teatrale.
-Oh, Susie! – esclamò, stringendomi forte tra le sue braccia e cullandomi per qualche minuto.
Eravamo entrambi avvolti da un’aura di dolcezza quasi palpabile, che saturava l’aria, mescolandosi con la magia di quel momento unico.
-Ti amo, ti amo, ti amo … Avrei dovuto dirtelo più spesso. Ma sai che è così. – bisbigliò, con le labbra ad un centimetro dal mio orecchio.
Annuii. Non m’importava più nulla di tutto quello che tra noi era stato taciuto: con Mike ero felice, completa.
A volte non era semplice stargli accanto, a causa della sua testardaggine, ma lo amavo con tutto il cuore. La mia anima gli apparteneva completamente.
Lui era il mio centro, lui insieme a quell’esserino che cresceva dentro di me e al quale avevo deciso di aggrapparmi per dare un senso, un nuovo ordine alla mia vita.
-Non ti lascerò mai più, Michael Jackson. – gli promisi, in un soffio.
In quel mentre,varcò la soglia di casa Javier, trafelato.
Probabilmente si era preoccupato per il mio insolito comportamento e mi era corso dietro, dopo qualche istante d’incertezza che era equivalso a preziosi secondi di vantaggio per me; altrimenti dubitavo che sarei riuscita a sfuggirgli così facilmente.
Michael squadrò mio fratello, esitando. Sembrava fosse sul punto di dargli spiegazioni ma non osasse farlo per non sconvolgerlo.
Per quanto possa risultare assurdo, Mike si dimostrò non solo gentile ed estremamente cordiale nei confronti di Javier – anche quando non se lo meritava affatto, in effetti – ma anche affabile e comprensivo,quasi fosse un amico fidato. E l’astio di Javier nei suoi confronti era per lui solo un dettaglio trascurabile, che non parve mai scalfire minimamente il suo interesse e il suo affetto nei confronti di mio fratello.
-Che cos’è successo? – riuscì a domandare Javier dopo qualche minuto, ansimando per lo sforzo.
Il suo volto era segnato da un leggero velo di sudore dovuto sicuramente alla corsa sfrenata dai cancelli di quell’immensa proprietà fino alla casa.
Mike aprì la bocca come per dire qualcosa, ma si bloccò all’improvviso, lanciandomi un’occhiata interrogativa: forse si aspettava che desiderassi fornire io qualche chiarimento.
Ma non credevo di essere capace di formulare una frase di senso compiuto: temevo terribilmente la reazione di mio fratello.
Michael sospirò, comprensivo.
-Susie non è nelle condizioni di partire.- annunciò, in un sussurro quasi incomprensibile, tanto che persino io,che ero al suo fianco, dovetti concentrarmi per sentirlo.
Javier corrugò le sopracciglia folte e nere.
-Perché? Che cos’hai? Stai male? – chiese, lievemente in ansia ma anche irritato.
Detestava quando Mike gli rivolgeva la parola e cercava sempre di non rispondergli direttamente se poteva.
-No. – soffiai, intimorita.
In un primo momento, non compresi da cosa potesse derivare quella folle paura che mi attanagliava lo stomaco. Poi capii: non ero solo terrorizzata all’idea di una possibile (e quasi certa) sfuriata di Javier. Più che altro, temevo di perderlo.
Ero quasi sicura che sarebbe andata a finire così, e desiderai con tutto il cuore che si potesse giungere ad un’altra soluzione.
Non volevo scegliere tra Michael e Javier: perché avrei scelto, sempre e comunque, Mike. Ma la separazione definitiva da quello che per anni era stato l’unico amico che possedevo sarebbe stata ugualmente dolorosissima.
Avrei spezzato ogni legame con quella che ero stata fino a quel momento; avrei reciso ogni filo che ancora mi teneva saldamente ancorata alla mia vita precedente.
Mi ero fatta forza, mi ero decisa a scegliere qualcosa. E quel “qualcosa” era un’esistenza intera da passare al fianco dell’uomo che amavo, con il quale – speravo- sarei riuscita a costruire una famiglia solida, unita.
In effetti, quella che io consideravo la mia massima aspirazione sarebbe potuta anche sembrare non troppo originale: in fondo ogni donna desidera sicurezze e serenità dalla vita.
Ma il mio sogno non si limitava a questo: nel mio caso si trattava decisamente di qualcosa in più.
Perché l’uomo che avevo scelto come compagno era anche il mio unico salvatore, la spalla su cui piangere; era un padre, un amico, un fratello, un amante.
Era una persona diversa, più buona,gentile,pura ed innocente di qualsiasi cosa in cui mi fossi mai imbattuta nella mia vita: era il mio sole, i cui raggi mi scaldavano il cuore.
Era la mia stessa vita. Ed era anche quel bambino che stava crescendo dentro di me, in silenzio, giorno per giorno.
Dubito che –nonostante i litigi e i momenti di silenzio frequenti tra noi- sia mai esistito un rapporto più intenso e profondo del nostro.
Non solo perchè ci amavamo teneramente, ma perché Mike è stato,in un modo o nell’altro, un aspetto fondamentale della mia esistenza. Mai e poi mai avrei pensato di rimuoverlo per sempre dalla mia vita, nemmeno quando, più avanti, lo minacciai di andarmene. Il motivo era semplice: era per me inconcepibile una realtà che non comprendesse anche Michael.
Arrossii un poco, mentre questi pensieri mi affollavano la mente, e chinai la testa,per non farmi notare da Javier.
-Non sta male. – mi fece eco Mike. Sembrava che cercasse di ritardare il più possibile il momento in cui avrebbe dovuto dare la notizia a mio fratello che di lì a nove mesi sarebbe diventato zio.
-E allora che cos’ha? – sibilò Javier, muovendo qualche passo verso di noi, e puntando gli occhi in quelli di Michael che era più basso di almeno una spanna.
L’atteggiamento aggressivo di mio fratello non mi piacque affatto, e di sicuro irritava anche Mike, che non sopportava le persone prepotenti e spavalde; ma,anche se si fosse sentito in qualche modo infastidito, di sicuro lo nascose molto bene, perché quando rispose lo fece in modo assolutamente pacato e sereno:
-Aspetta un bambino. E quel bambino è mio figlio. –


Capitolo 24

C’era da aspettarselo: Javier partì con il primo volo diretto a Tokyo. Da lì avrebbe preso un altro aereo per Manila.
Purtroppo, come da previsioni, non aveva accolto molto bene la notizia della mia gravidanza: aveva cominciato ad inveire contro Michael e a scagliare oggetti (fortunatamente di poco valore) sul parquet, mentre io mi ritraevo in un angolo,sperando di sfuggire alla sua folle furia.
Per un attimo avevo temuto che colpisse Mike: sembrava sul punto di sferrargli un pugno micidiale, a giudicare da come gli tremavano le mani.
Per quanto Michael potesse dimostrarsi coraggioso e per quanto mi ripetesse, per tranquillizzarmi, che da piccolo spesso Joseph lo incitava insegnandogli, insieme ai suoi fratelli, nel giardino di casa, qualche fondamentale di autodifesa, sapevo perfettamente che Javier gli avrebbe fatto male, molto male, se l’avesse attaccato, e che quasi sicuramente mio fratello sarebbe uscito vincitore da una rissa, specie se questa coinvolgeva lui e un uomo che si era da sempre schierato contro la violenza.
Subito dopo che era uscito dalla villa, sbattendo la porta, furibondo, avevo supplicato Michael affinché lo facesse seguire da guardie del corpo o persone fidate che si assicurassero che stesse bene.
Non volevo che guidasse in quello stato, ma non potei far nulla per impedirglielo, così fui costretta a farlo sorvegliare per tutto il tragitto, da Neverland all’aeroporto di Los Angeles.
Michael, senza opporsi, anzi, dimostrandosi totalmente d’accordo con me, ordinò ad un paio di uomini – uno basso e calvo, l’altro alto, più magro, ma ugualmente nerboruto e inquietante – di tenerlo d’occhio mantenendosi a distanza per non farsi notare.
Le due guardie obbedirono e scortarono il mio inconsapevole e furioso fratello per diversi chilometri.
Ero davvero molto in ansia e Mike, saggiamente, non proferì parola in quel momento: sapeva che desideravo solo saper Javier al sicuro, sano e salvo.
Quando i due uomini incaricati da Michael tornarono, mi rassicurarono e affermarono che non c’era più nulla da temere: avevano visto Javier salire sul suo aereo a capo chino e con le spalle curve, come stremato, ma comunque fuori pericolo.
Sorrisi a quella lieta notizia e ringraziai le due guardie del corpo che si congedarono poco dopo con poche,cordiali parole.
-Stai bene? – domandò allora Michael, quando fummo finalmente soli.
Ero seduta sul divano e mi abbracciavo le ginocchia con le braccia magre e scure, dondolandomi lentamente avanti e indietro, come se, rannicchiandomi su me stessa, potessi far fronte alle difficoltà del mondo e scansare gli ostacoli che la vista mi aveva posto innanzi.
Annuii, in risposta alla sua domanda, ma senza capire esattamente cosa provassi in quell’istante. Ero ancora un po’ sotto shock.
Michael si sdraiò di fianco a me, che mi spostai un poco per fargli posto, e appoggiò la testa sulle mie gambe incrociate. Sembrava un bambino in quella posizione, così ingenua …
Gli passai istintivamente una mano tra i capelli. Ogni volta che lo avevo vicino sentivo nascere in me un impellente bisogno di toccarlo per assicurarmi che fosse vero.
-Mi dispiace davvero che Javier l’abbia presa così. Avrei voluto renderlo in qualche modo partecipe della nostra felicità. – mormorai, pensierosa.
Michael sbuffò,esasperato.
-Non sei tu la causa di tutto questo. – mi rammentò, severo.
Dannazione. Anche quando non li esprimevo ad alta voce, Mike conosceva sempre alla perfezioni i miei pensieri.
-Non l’ho mai detto,infatti. – cercai di tergiversare, con aria fintamente innocente.
-Ma lo pensi. – concluse lui, con un tono che non ammetteva repliche. E in effetti, non ebbi il coraggio di ribattere,perché sapevo che aveva perfettamente ragione: sempre e comunque, mi ritenevo responsabile di tutto e di tutti.
Per qualche assurda ragione, avevo una malsana tendenza ad assumermi colpe che, a quanto diceva Mike, non avevo e che non dipendevano affatto da me, e poi la tensione e lo stress accumulati mi uccidevano, logorandomi lentamente, schiacciandomi e rendendomi intrattabile.
-Scusami. E’ che davvero mi sento tormentata dai rimorsi. – confessai, malinconica.
Mike sorrise, bonario ma serio.
-Ti sei pentita? Se vuoi partire e raggiungere la tua famiglia, nulla e nessuno te lo impedirà. Non ti obbligherò a rimanere al mio fianco, anche se ovviamente, da parte mia, farò di tutto per non perderti e ti ronzerei attorno per un po’. – mormorò.
Rimasi di sasso. Mi affrettai a correggermi, già divorata dal panico e dal senso di abbandono che mi assalivano quando Michael parlava di separazione.
-No. Io voglio restare qui. Il mio posto è accanto a te. I miei rimorsi non riguardano la mia scelta … Ma il modo in cui ho trattato Javier. Avrei potuto cercare di dimostrarmi più comprensiva e disponibile nei suoi confronti … Forse non avrebbe reagito così … Forse … - balbettai, cercando di sciogliere il nodo che avevo in gola: l’ultima cosa che desideravo era mettermi a piangere come una bambina.
Dovevo essere forte. Michael ne aveva bisogno, il bambino ne aveva bisogno.
Io stessa ne sentivo la necessità.
Era giunto il momento di dare un senso alla mia vita, di riordinare le tessere del puzzle: non potevo farmi sorprendere dallo sconforto.
Non potevo continuare a raggomitolarmi su me stessa e lasciarmi andare all’autocommiserazione: dovevo assumere il controllo.
Michael interruppe il flusso dei miei pensieri.
-Stavo pensando … - mormorò, con tono misterioso, incuriosendomi, - … stavo pensando a ciò che comporterà fare di nuovo il papà. Prince e Paris sono la cosa più bella che mi sia mai capitata: li amo alla follia. Ma questa volta … sarà diverso. –
Non riuscivo a seguirlo.
-Diverso? – gli feci eco, un poco confusa.
-Sì, bhè … questo bambino – e sottolineò le sue parole appoggiando delicatamente una mano sulla mia pancia –sarà frutto del mio amore per te. –
Non ci avevo ancora pensato, in realtà: Prince e Paris erano per me come dei figli veri, mai mi ero sentita gelosa né li avevo respinti in quanto risultato di un matrimonio precedente di Michael. Con loro era stato amore a prima vista, in effetti.
Era strano che proprio lui avesse colto questa sottile differenza: Prince e Paris erano figli suoi, ma il bambino che stavo aspettando sarebbe stato figlio nostro.
Subito mi si gonfiò il cuore a quel pensiero e sorrisi, trasognata.
-Susie? – sussurrò allora Michael, serio.
Mi prese il viso tra le mani, richiamando la mia attenzione. Era incredibile come il suo tocco potesse ancora scatenare certe emozioni dentro di me: avrei dovuto farci l’abitudine. Eppure …
-Susan, desidero dirti una cosa, se me lo permetti. Ci sto pensando su già da un po’, in realtà, ed è un’idea costante, che mi tormenta ormai. – incominciò, con gli occhi che brillavano.
-Bhè, sentiamo. – lo incitai, troppo curiosa per tentare di celare la mia impazienza.
Michael ridacchiò, emozionato.
-Io … ti amo più della mia stessa vita, Susie. Tutto ciò che ho, la musica, la mia famiglia, non ha alcun valore di fronte ad un tuo sorriso o ad un tuo sguardo. Io … voglio averti per l’eternità, Susan. – confessò, con voce flebile e un poco imbarazzata.
Non l’avevo mai visto così in difficoltà con le parole.
Increspai leggermente le labbra.
-Tu mi hai già. Il mio cuore ti appartiene, sempre. – osservai, senza capire dove volesse andare a parare con il suo discorso ingarbugliato.
Pensai che forse io non ero l’unica ad aver bisogno di maggiore sicurezza: magari anche Michael necessitava di qualche certezza, ma mi sembrava comunque assurdo che potesse dubitare del mio amore sconfinato nei suoi confronti.
-Sì, ma … non è esattamente ciò che desidero. – ribatté, mordicchiandosi il labbro, nervoso.
Era evidentemente a disagio. Volevo solo rendere più breve il suo tormento, quindi lo esortai a continuare.
Allora fece un respiro profondo, ad occhi chiusi, dopodiché mi domandò, tutto d’un fiato:
-Vuoi concedermi l’onore di diventare mia moglie,Susie?-










Capitolo 25


Rimasi di sasso. Michael mi aveva appena proposto di diventare sua moglie, di occupare il mio posto nella sua vita. Per sempre.
Avrei voluto rispondere di sì. In fondo, era ciò che volevo: rimanere al suo fianco, condividere con lui ogni gioia o dolore, aiutarlo durante ogni sorta di difficoltà, portare qualsiasi suo fardello.
Eppure, mille pensieri mi affollavano la mente, annebbiandomi e confondendomi.
Mi ero persa dentro il mio stesso corpo, e non riuscivo a trovare le labbra, sulle quali sarebbe dovuto affiorare quel monosillabo da cui sarebbe dipesa tutta la mia vita.
Perché mi risultava così difficile trovare la forza per prendermi ciò che ormai mi apparteneva? Era assurdo.
Mike attendeva una mia risposta: i suoi occhi celavano malamente una leggera impazienza, un’irrequietezza un poco buffa, in realtà, mescolata all’emozione del momento.
Immaginai come sarebbe stato svegliarsi ogni mattina accanto all’uomo che amavo con la consapevolezza che quel gesto si sarebbe ripetuto per l’eternità, e sorrisi all’idea. Sarei stata felice, serena. Avevo rinunciato a tutto ciò che ero per ottenere quella vita. Ora mi si presentava davanti agli occhi in tutto il suo splendore, con una promessa di quiete e calore davvero irresistibile.
Ciononostante, le mie labbra rimanevano rigorosamente sigillate, senza lasciar trapelare nulla, un suono, un sussurro, un grido di gioia. Niente.
Un poco turbato, Michael mi strinse lievemente la mano, come per richiamare la mia attenzione.
Si schiarì la voce, a disagio.
-Ehm … allora? – m’incalzò, nervoso.
Aprii la bocca, decisa quantomeno a prender tempo, ma non ne uscì alcun suono: avevo la gola completamente secca.
Allora mi alzai dal divano e presi a passeggiare, muta, su e giù per la stanza, sebbene le gambe mi tremassero e la testa mi girasse. Ero ad un passo dalla mia massima aspirazione e mi sentivo totalmente debole e disarmata. Nel corso della mia esistenza tante, troppe persone avevano scelto per me, consapevolmente o meno: ora che toccava a me prendere una decisione, mi sentivo spaesata, come se avessi il vuoto attorno e mi fosse venuto a mancare un prezioso sostegno, che poteva essere quello dei miei genitori, delle mie amiche, di mio fratello, o di Mrs. Sullivan.
Michael non proferì parola. Mi osservò a lungo, per qualche minuto: il suo sorriso era svanito, lasciando spazio ad una smorfia di delusione. Avrei dato la vita per cancellarla da quel suo viso dai lineamenti serafici.
Cercai di spezzare il silenzio, ormai troppo pesante persino per me, con un’ unica parola, che mi preoccupava più di mille altre.
Un nome, una persona, una presenza sfortunatamente sempre costante. Una sorta di fantasma il cui tenebroso ricordo riaffiorava di tanto in tanto.
-Liam. –
Non avrei saputo dire se la mia si trattasse di una domanda, o di una risposta.
Sicuramente, era un problema.
Mike scosse il capo, con fare disinvolto, come per rassicurarmi.
-I miei avvocati si occuperanno di tutto. – mi spiegò, pacato.
A quelle parole mi fermai al centro della sala e lo fissai terrorizzata.
-No! – esclamai, in preda al panico.
Michael non capì. Continuò a squadrarmi spaesato.
-Liam è una persona alla quale non importano le vie legali. Appena conoscerà il tuo nome, appena saprà chi sei, ti darà la caccia. Sfonderà i cancelli di Neverland, se necessario. Non lo permetterò. Non posso lasciare che rovini la vita a te e alla tua famiglia. – osservai, figurandomi la scena e rabbrividendo solo al pensiero. Liam era ricco, potente ed influente. Ma, soprattutto, sapeva essere dannatamente testardo e sfrontato: per lui non c’era assolutamente alcuna differenza tra il Re del Pop e un passante che incrociava per caso per strada e che involontariamente andava a sbattergli contro. Avrebbe disintegrato entrambi, anche solo per capriccio.
Michael fece una risatina nervosa.
-Ho una falange di guardie del corpo in stile presidenziale. Credi che non riusciranno a difendermi adeguatamente? A questo punto, allora, dovrei licenziarli. – ironizzò, ma il suo sguardo rimaneva serio e freddo.
Non ne compresi subito il motivo, ma poi intuii che forse il mio comportamento e le mie risposte evasive potevano avergli dato l’impressione sbagliata. Credeva dunque che cercassi di cambiare discorso ad ogni costo, pur di non sposarlo?
Badai subito a scacciare dalla sua testa quest’idea assurda.
-Mike, io ti amo. – sussurrai, sincera, e sicuramente non poteva dubitarne.
-Allora sposami. – mi pregò, alzandosi anche lui dal divano e muovendo lentamente qualche passo verso di me.
Riuscii ad avvertire la tensione e la speranza nella sua voce.
E allora tutto riacquistò un ordine.
Io amavo quell’uomo. E lui voleva una vita con me. Questo bastava.
In un secondo momento, ci saremmo occupati anche del resto del mondo. Ma per ora esistevamo solo noi due.
02/02/2012 13:21
 
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Felice che è incinta e anche Michael le ha chiesto di sposarlo. Posta i prossimi per sapere la risposta e per vedere cosa farà Liam
04/02/2012 18:48
 
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Capitolo 26

-Pronto? – domandò quella voce che tanto mi terrorizzava all’altro capo della cornetta. Probabilmente lui, in quel momento, si trovava a centinaia di chilometri da me.
Ma nemmeno la distanza tra noi poteva rassicurarmi. Avrebbe potuto annullarla in qualsiasi momento, ne ero più che certa. Eppure, finora non l’aveva ancora fatto. Forse non ero così importante per lui da indurlo a scomodarsi per venire a cercarmi.
-Sono io. – sussurrai, impaurita.
Anche se ci fossero voluti mesi prima che venissero risolte tutte le questioni legali, io e Michael ci saremmo sposati. In gran segreto, lontano da sguardi indiscreti, magari in qualche municipio di un qualche sperduto paesino fuori dal mondo, senza invitati, né fiori, né grandi cerimonie, ma saremmo diventati marito e moglie.
-Oh, che piacere risentirti dopo così tanto tempo,mogliettina mia!- esclamò ironico Liam, con la sua voce roca e ruvida.
Rabbrividii. Nonostante Mike si fosse opposto fermamente all’idea sin dal principio, avevo deciso di occuparmi io del mio divorzio, ovviamente circondata da uno stuolo di avvocati che probabilmente costavano, alle tasche del mio futuro marito, più di quanto avrebbe richiesto la manutenzione di Neverland per due anni o forse più.
Ma era una causa importante, da vincere anche in breve tempo,se possibile: Michael la pensava così e non avrebbe badato a spese, se ciò fosse servito a liberarmi per sempre dall’uomo che avevo sposato in preda alla confusione e alla disperazione tempo prima.
-Ho bisogno di parlarti. – annunciai, al telefono.
Non potevo comunicargli subito le mie intenzioni, altrimenti sarebbero stati guai seri. Secondo gli avvocati, spettava a me cercare di renderlo un poco più disponibile a trattare.
Inutile dire che non ci sarei mai riuscita, ma perlomeno ci avrei provato.
-Dimmi, tesoro. – mormorò, ghignando ma leggermente nervoso.
Capii che aveva fretta e che non era esattamente un buon momento per discutere, ma non avevo altra scelta.
-Vorrei venire a patti con te. Pacificamente. –
Misi un po’ d’enfasi nell’ultima parola, per sottolinearla.
-Benissimo. Allora, quando torni? Sai … mi sei mancata. – confessò, pieno di odioso sarcasmo.
Sentii un brivido corrermi lungo la schiena.
-Io non torno, Liam. – sibilai, poi mi ricomposi. Non dovevo perdere la pazienza.
-Susan … calmati, okay? Altrimenti rischi di farmi arrabbiare. – mi avvertì, con voce pacata e per questo ancora più spaventosa.
-Voglio il divorzio, Liam. – annunciai.
Il silenzio che durò qualche secondo all’altro capo della cornetta mi chiuse la bocca dello stomaco e tutto il coraggio che avevo raccolto sembrò scemare all’improvviso quando Liam abbaiò:
-No! Tu sei mia! –
Fui costretta a sedermi sulla poltrona poco distante per non crollare a terra. Dovevo essere forte, ferma, irremovibile.
-Senti,Liam, conto poco più di niente per te, giusto? Che senso ha continuare così? – domandai, retorica, cercando di appellarmi alla sua ragione.
Desideravo indurlo a riflettere: ero sicura che se l’avesse fatto sarebbe stato d’accordo con me. Non era affatto stupido: crudele,spietato, odioso … tutto, meno che un sempliciotto: sapeva bene distinguere ciò che gli conveniva da ciò che invece lo avrebbe trascinato a fondo.
Per questo si era arricchito così tanto e i suoi affari andavano sempre a gonfie vele: aveva intuito e un’intelligenza sottile.
Che poi non usasse queste sue doti a fin di bene, quello era un altro discorso.
-Non ha senso, effettivamente. – concordò, pacificamente.
Sospirai, rassicurata. Forse l’obiettivo che mi ero preposta non era così irraggiungibile.
-Concedimi il divorzio. Gioverà sia a te, che a me. – gli feci notare, con tono un poco malizioso. Dovevo giocare tutte le carte a mia disposizione.
-No,cara. Gioverà a te. A me non ne viene in tasca assolutamente nulla. Anzi … Ci perdo una moglie. – osservò, serio. Educato. Inflessibile.
Il respiro mi si bloccò in gola. La speranza di poco prima sfumò, lasciandomi intravedere la realtà dei fatti.
Povera sciocca! Mi ero illusa che sarei riuscita a convincerlo in qualche modo ad uscire per sempre dalla mia vita: e invece ero ancora nelle sue mani. Poteva decidere di disintegrarmi con un solo gesto e io non avrei opposto resistenza, perché non ne ero capace e perché sarebbe stato inutile.
Avrebbe vinto lui, sempre.
Nessuno poteva convincerlo a fare nulla che lui non volesse, tantomeno io.
-Una moglie non ti serve a niente quando vive a chilometri di distanza. – sibilai, irritata.
Mi sentivo in trappola e tentavo di difendermi come potevo, a parole.
Liam non rispose alla mia provocazione. Rideva, spensierato. Sapeva di avere in pugno la situazione.
-Allora? Ti diverti a fare la sua puttana, non è così? – chiese dunque, sempre ghignando.
Resistetti all’impulso di chiudere la comunicazione.
-Ti farò arrivare i moduli. – comunicai, seccata.
-Non li firmerò. – ribattè.
Stavo per perdere la pazienza. Respirai a fondo.
“Ora basta” pensai, tra me e me. Dovevo chiudere definitivamente quella faccenda.
-Non importa. Se non lo farai, ti denuncerò. Sai, sei furbo, ma hai un difetto: non badi a ciò che è legale o meno. Per te non fa alcuna differenza, sei convinto che il mondo sia tuo. Ti dimostrerò il contrario. Ti farò passare le pene dell’inferno, Liam. Firma quel maledetto documento e chiuderò un occhio. – contrattai.
Avevo sperato di ammansirlo o,perlomeno, di far sì che mettesse da parte, per una volta, la sua arrogante spavalderia e la sua spietata crudeltà invece, sfortunatamente, ottenni l’effetto contrario.
-D’accordo, Susie. Sfodera tutte le tue forze, invia il tuo esercito di avvocati fin qui. Ma ti avverto: se mi denunci, io lo ammazzo. Lo uccido con le mie stesse mani. Poco importa che si tratti del Re del Pop. E’ umano e mortale come lo erano tutti quelli che ho mandato all’altro mondo. Sai, hai ragione: la legalità e l’illegalità per me non contano, sono solo concetti astratti. In realtà, ciò che conta per me è ciò che voglio: perché lo ottengo, sempre. Quindi, se desiderassi sgattaiolare nella reggia in cui vi rinchiudete, codardi e patetici, lo posso fare. Se per capriccio progettassi bruciare vivi quei suoi due angioletti che tanto si ostina a portare in giro coperti da un velo, come se questo bastasse a proteggerli, lo posso fare. E se volessi piantarvi una pallottola in testa, mentre dormite abbracciati, io lo posso fare. E lo farò, credimi. –
Il mio cuore smise di battere per un momento interminabile, pochi secondi che mi bastarono per prendere una decisione.
Avrei voluto urlare, ma avevo la gola secca per il terrore.
Liam sapeva tutto, probabilmente ci stava osservando già da tempo, senza intervenire, aspettando l’occasione giusta. E adesso che questa si era presentata, sul piatto della bilancia c’era tutto ciò che amavo e che non avrei mai immaginato di poter perdere.
La mia vita, contro quella di Michael e dei suoi figli.
Mi sembrava impossibile che proprio io avrei potuto essere la causa di immensi dolori e sofferenze per quei bambini, che tanto avevo amato, sin dal principio. E dipendeva da me scegliere la loro sorte. Tutto ciò che desideravo era stare con l’uomo che amavo e con la sua famiglia, che ormai era diventata anche la mia. Ma il mio egoismo avrebbe sicuramente portato ad un disastro, un dramma familiare, una tragedia che avrebbe turbato l’infanzia dei piccoli, stroncandola. Solo il pensiero di quel mostro di Liam vicino a Prince e a Paris in lacrime mi faceva rabbrividire.
No, non potevo accettarlo. Non valevo un prezzo così alto.
-D’accordo. Dove ci vediamo? – domandai, in un soffio, con voce da automa, ormai determinata a farla finita una volta per tutte.

















Capitolo 27

Il cielo si chiudeva scuro e minaccioso sulla città addormentata, immersa in un silenzio spezzato solo di tanto in tanto dai passi frettolosi di una signora di passaggio, da un’automobile che rallentava, da un magnaccia che picchiava una sua prostituta in lacrime.
Mi guardai attorno spaurita, incrociando le braccia sul petto, come per proteggermi, per creare una sorta di barriera tra me e quel mondo sconosciuto e terrificante. Da un vicolo dall’aria decisamente poco attraente provenivano un tanfo terribile e le risate sguaiate di una combriccola di uomini la cui lucidità era ormai offuscata dall’alcool.
I condomini e i palazzi che si affacciavano su quel tratto di strada erano probabilmente quasi completamente disabitati, giganti grigi abbandonati a se stessi, che proiettavano ombre lunghe e scure sull’asfalto.
Tenevo gli occhi incollati al marciapiede, per evitare di incrociare qualche sguardo sconosciuto o qualche sorriso di apprezzamento inopportuno ed inquietante.
Dopo la telefonata di Liam, ero stata costretta a fare una doccia per rilassarmi: ma nemmeno il getto d’acqua bollente era riuscito a calmarmi del tutto.
Ciò che più mi turbava non era la decisione che avevo preso, ma come avrei potuto tenerla nascosta a Michael, per non farlo soffrire e per preservare lui e la sua famiglia, la mia famiglia dal pericolo.
Questo era quello che contava: la serenità e la quiete di Neverland non dovevano essere spezzate o sconvolte a causa mia. Non valevo così tanto.
Liam era riuscito a toccare il tasto giusto: sapeva quanto tenevo a Michael e ai suoi bambini. Era stato meschino, in realtà, da parte sua, ma molto furbo. Avrei dovuto prevederlo, forse.
Se solo non fossi stata così ingenua …
Ma ormai era troppo tardi per guardare indietro e farmi assalire dalla nostalgia: ciò che avevo perso per sempre non sarebbe mai tornato. Io stessa ero fuggita da quella promessa di amore, calore e felicità che Mike rappresentava.
In fondo, non avevo avuto altra scelta. O l’annientamento o il rimpianto: e io avevo scelto quest’ultimo. Perché se fosse successo qualcosa all’uomo che amavo o ai suoi figli, sarei morta. Ne ero certa. Non avrei potuto sopportare una sofferenza così grande. Meglio allora farsi tormentare dal dolore del ricordo, sapendo però la mia famiglia al sicuro.
L’unica vittima così sarei stata io, insieme a mio figlio, quel bambino che mi portavo dentro, frutto di un amore più grande e più forte di qualsiasi cosa, al quale però non ero riuscita ad aggrapparmi: perché, se l’avessi fatto, sarebbe intervenuto qualcun altro ad ucciderlo, a distruggerlo, a sgretolarlo.
Mi morsi il labbro, trattenendo le lacrime.
Ciò che più mi aveva lasciata perplessa era stato il possibile futuro del bambino: non volevo che gli accadesse nulla di male, ma sembrava quasi inevitabile. Ma l’alternativa era l’aborto e non avevo nemmeno preso in considerazione quest’opzione, mai: ora che Mike era lontano, quel bambino era l’unica cosa in grado di tenermi in vita, una medicina il cui solo pensiero leniva anche il dolore più intenso e insopportabile.
Spostai una mano, accarezzandomi quasi inconsciamente il ventre. Fui sorpresa di sentire, sotto le dita, la pancia piatta e sorrisi mesta tra me e me. Con la mente mi ero proiettata più volte avanti nel tempo, immaginandomi con il pancione, con il braccio sicuro di Michael a cingere i miei fianchi, protettivo come sempre: quelle fantasie erano l’unico rifugio per scappare dalla realtà. Quelle immagini felici mi perseguitavano ed era difficile non credere nella loro concretezza.
La gravidanza in quel momento non era evidente, ovviamente, ma presto la pancia avrebbe cominciato ad aumentare di volume. A quel punto avrei dovuto trovare un modo per allontanarmi, dare alla luce mio figlio e affidarlo in seguito a suo padre.
Era l’unico modo per assicurargli un futuro sereno e pieno di gioia.
-Buonasera, principessa. – sussurrò all’improvviso una voce roca e familiare. Sussultai e alzai lo sguardo.
Quando i miei occhi incontrarono quelli verdi e famelici di Liam, sentii la mia determinazione vacillare.
Davvero ero disposta a vivere accanto a lui il resto della mia esistenza?
Cercai di convincermi che era l’unica soluzione per non veder crollare il mio mondo, ma la morsa della paura mi attanagliava e le schegge di ghiaccio che avevo nello stomaco presero ad agitarsi disordinatamente.
-Oh, non ci starai mica ripensando vero? In fondo, questa è la scelta più indolore. – mi fece notare, sorridendo.
In quei tratti non riconobbi nulla di caro, nulla di amato.
-Hai ragione. – sospirai, sconfitta e sconsolata.
Gli occhi di Liam si accesero. Ma quel guizzo, quella scintilla, non risvegliarono nessuna emozione in me.
Provai a guardarmi dentro, come attraverso un tunnel, alla ricerca del mio cuore. E lo trovai.
Ma era completamente, ineluttabilmente e assurdamente muto.






Capitolo 28

-Allora … che cosa hai raccontato al tuo Michael? Come sei riuscita a convincerlo a lasciarti andare? – domandò Liam, quasi divertito mentre immaginava la scena.
Scossi il capo impercettibilmente: per una volta, l’ingenuo mi parve lui.
Non avevo rivelato a Mike le mie intenzioni, ovviamente, altrimenti non mi avrebbe permesso di andare incontro al pericolo. Liam avrebbe dovuto intuirlo, no?
-Fammi indovinare: addii struggenti, baci appassionati, fiumi di lacrime …? – s’informò mio marito, allontanando con un gesto secco della mano due persone che si stavano avvicinando e che evidentemente conosceva. Forse erano un paio dei suoi scagnozzi. Ma era troppo buio, non riuscivo a distinguere nulla: il tenue bagliore emanato dalla luna non bastava ad illuminare quei due visi. Così sparirono dietro l’angolo prima ancora che potessi identificarli. Li seguii con lo sguardo per un breve momento.
-No. – mormorai poi, in risposta a Liam, che mi fissava incuriosito e lievemente irritato dal mio silenzio prolungato.
-No? – fece eco lui. Vedendo che non proseguivo, mi si avvicinò ulteriormente, percorrendo con due dita il profilo delle mie labbra. –Bhè, meglio così … - continuò, -cominciava a darmi sui nervi l’idea che qualcun altro potesse godere di così tanta bellezza. Tu sei mia. Solo mia. Capito? –
Feci un passo indietro, allontanandomi tremante dalla sua mano, che rimase sospesa ad afferrare l’aria.
Gli leggevo negli occhi quello che sarebbe successo di lì a qualche minuto, ma cercai di ritardare il più possibile quel momento.
-Senti, Liam … - sussurrai, impaurita. –Sono tornata. Ma … questo non cambia nulla. Tu hai le tue prostitute, io il ricordo costante del mio cuore assente. Non voglio … che tu fraintenda, ecco. Io … vedi, tra me e te, oltre la vicinanza, non c’è assolutamente nulla … -
Mentre cercavo di spiegarmi, balbettando, lui fece qualche passo avanti.
Ormai avevo il suo viso a pochi centimetri dal mio.
-Bhè, allora dovremmo rimediare. – osservò, calmo.
Appoggiai entrambe le mani sul suo petto, cercando di spingerlo indietro, per creare una sorta di distanza di sicurezza tra me e quel mostro: ma non ero abbastanza forte e riuscii solo a peggiorare la situazione.
-No, Liam … ti prego. Perché, perché io? – domandai, retorica, scoppiando in lacrime. La tensione accumulata era decisamente troppa: i miei nervi non avrebbero potuto reggere un attimo di più.
Lui ghignò, ironico. Odioso.
-In realtà, forse hai ragione. Sei un esserino piuttosto insignificante. Ma il fatto che io non possa averti, ti rende decisamente più intrigante ed eccitante. – confessò, alitandomi in faccia.
Non fui in grado di rispondere, o di affannarmi alla ricerca di altre scuse che mi permettessero di salvarmi in qualche modo.
Mi sentivo indifesa, smarrita …
Così chiusi gli occhi, aspettando che sopraggiungesse la fine.
Ma questa non arrivò.
Ci fu dapprima uno spostamento d’aria, un tonfo, e poi un grido gutturale e terrificante, che mi fece rabbrividire.
Qualcosa – una mano, forse – mi trascinò per qualche metro, poi mi spinse a terra, dove rimasi, rannicchiata su me stessa, per qualche interminabile minuto, mentre alcune voci, in lontananza, si confondevano, sovrapponendosi e squarciando il silenzio della notte.
Mi tappai le orecchie con le mani, spaventata, appoggiando una guancia sull’asfalto freddo e ruvido.
04/02/2012 22:52
 
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Liam va assulutamente denunciato. Attenderò il prossimo per vedere cosa accadrà
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La storia prosegue ...
Capitolo 29

-Susie? Susie, mi senti? Stai bene? – domandò, affannata, una voce d’angelo, simile ad uno scampanellio celestiale.
Avrei voluto rispondere, ma non riuscivo a trovare le labbra: mi ero persa all’interno del mio stesso corpo.
Correvo, alla ricerca di una via d’uscita, lungo i corridoi del labirinto della mia mente, immersa nell’oscurità. Ogni volta che imboccavo una strada, subito, dopo averla percorsa, avevo la terribile e schiacciante sensazione di aver preso la direzione sbagliata, e la tentazione di tornare indietro era quasi pari a quella di raggomitolarmi su me stessa e chiudere gli occhi.
-Oh, ti prego, Susan, torna da me! – gemette l’angelo, addolorato.
Le lacrime che avrei desiderato versare in quel momento scivolarono dentro di me, depositandosi sul fondo del mio cuore.
Dovevo fare uno sforzo, combattere ed uscire, riaffiorare in superficie ed aprire gli occhi: non potevo permettere che l’angelo piangesse. Il suo tormento quasi stuzzicava anche il mio.
Ma mi sentivo pesantissima: con le braccia e le gambe intorpidite, come potevo affrettarmi verso l’uscita?
All’improvviso, un dolore lancinante e diffuso, proveniente da qualche parte dentro di me, mi scosse e mi riportò quasi alla realtà. Cercai una qualche sporgenza a cui aggrapparmi, per evitare che le tenebre m’inghiottissero nuovamente.
Così, all’improvviso, vidi una luce abbagliante di fronte a me che mi costrinse a strizzare gli occhi.
Quando li riaprii, qualcuno mi stava puntando addosso una torcia.
-Accecante … - mormorai, infastidita, mentre riprendevo il controllo del mio corpo.
Mi riparai il volto con le mani.
-Spegnila.- ordinò sollevato Michael, il cui viso stava sospeso a poca distanza dal mio.
Che cosa lì l’uomo che tanto amavo e che avevo cercato disperatamente di salvare?
-Scusa … - mormorai, quando mi resi conto di ciò che era successo. In qualche modo, doveva aver capito dove mi ero diretta e mi aveva seguita, intervenendo e salvandomi.
Lo accarezzai con lo sguardo, grata del suo tempismo, ma lui ricambiò con uno sguardo duro e pieno di disappunto per la mia azione da incosciente.
Avrei voluto dirgli che non avevo avuto scelta, ma non ne ebbi il tempo: una fitta straziante al ventre mi troncò il respiro.
Spalancai gli occhi, più sorpresa che preoccupata.
-Ahi! – esclamai, piegandomi in due e stringendo i denti.
Mike mi fissò, in apprensione, tastandomi il polso e la fronte madida di sudore.
-Che succede? – domandò, in un soffio, confuso.
“Vi prego, uccidetemi!” implorai,nella mia testa. Ma non riuscii a trasformare quella preghiera, solo pensata, in parole: il dolore me lo impediva.
-Erms, ti prego! Aiutami a capire! – supplicò Michael, rivolto ad una figura scura accanto a lui.
Mi chiesi se questo Erms fosse un medico. Sperai di sì.
-Che cos’hai,Susan? Cosa succede? – mi domandò l’uomo, chinandosi su di me.
Le fitte s’interruppero, concedendomi di respirare e di guardare negli occhi la persona a cui Mike aveva chiesto aiuto.
Non aveva affatto un’aria professionale, anzi: era confuso e spaventato almeno quanto l’uomo che affiancava. Quindi scartai la mia ipotesi: era chiaro che non si trattava affatto di un dottore.
Sbuffai, spazientita.
-Mi fa male … la pancia … mi fa male! – mi lamentai, ma la mia voce si spense a poco a poco quando mi resi conto di ciò che poteva voler dire. La pancia …
-Il bambino! Michael, ti prego! Il bambino! – gridai allora, all’improvviso, con quanto fiato avevo in corpo.
Con gesti ansiosi e frettolosi, cercai di sollevare la maglia, come se potessi così assicurarmi della salute di mio figlio.
Mike sgranò gli occhi.
-Oh, no … - balbettò, quasi senza muovere le labbra, fissando qualcosa fuori dal mio campo visivo.
Quello che si chiamava Erms non capì.
-Spiegami! – sibilò, rivolto a Michael. Ma lui non rispose. Abbaiò, piuttosto, un ordine: -Tienila calma mentre chiamo il 911!-
Mi bloccai, turbata.
Quindi seguii inorridita lo sguardo di Mike, fino a notare, sull’asfalto, una macchia scura: una macchia rosso sangue.
















Capitolo 30

Il tragitto verso l’ospedale fu il viaggio più traumatico e terribile di sempre.
Nonostante i calmanti e gli antidolorifici, riuscivo a percepire tutto: lo sguardo spaurito di Michael, le sue dita fra i miei capelli, un paramedico che si affannava attorno alla mia barella alla ricerca di chissà quali strumenti, il volto serio e pensoso di quell’uomo che Mike aveva chiamato “Erms” e nel quale riponeva la massima fiducia, come si poteva facilmente dedurre dal tono di voce con cui gli si era rivolto.
Riuscivo persino a sentire il mormorio sommesso degli infermieri e dei dottori che spinsero il lettino su cui ero sdraiata attraverso un corridoio che mi parve prolungarsi all’infinito, e poi svoltare, portandomi all’interno di una sala luminosa e bianca.
Fu a quel punto che qualcuno mi accarezzò la fronte, sussurrando al mio orecchio, con voce rassicurante:
-Rilassati, adesso ti diamo qualcosa per dormire. Devi solo stare calma. Così, brava … chiudi gli occhi … -
Non volevo stare calma: perché non lo capivano? Perché non facevano nulla? Mio figlio stava morendo dentro di me, prima ancora di cominciare a vivere.
Mi sarei strappata il cuore con le mie stesse mani per donarglielo, per sostituire il suo che probabilmente ormai non batteva più.
In quel momento di panico, cominciai a pregare, non come mi avevano insegnato i miei genitori, ferventi credenti, ma come mi suggeriva il cuore, stretto dalla morsa della disperazione.
“Ti prego, Signore, fa’ che viva. Non portarmelo via così presto, permettimi di guardarlo negli occhi, di vederlo ridere, piangere, innamorarsi … Ti prego,ti prego! Ho amato questo bambino sin dal primo istante: lascialo a me.”
La mia supplica era densa di sconforto e di speranza.
“Per favore … non riprenderti il magico dono che mi hai fatto. E’ il mio piccolo principe … Soffia nei suoi polmoni un respiro di vita, fai battere il suo cuore! Ti prego, Signore, per favore …”
I miei pensieri si fecero sempre più confusi, fino a quando la mia mente venne avvolta da una sottile nebbia che mi donò un po’ di pace e di torpore.
Mi svegliai in una stanza anonima, dall’aria scialba e comune.
-Finalmente! – mormorò sollevato Michael, seduto su una poltroncina bianca al mio fianco.
Sembrava infinitamente stanco: gli occhi erano cerchiati da pesanti occhiaie violacee simili a lividi, mentre il sorriso, sebbene fosse dettato da un sincero conforto, era tirato e tradiva la sua spossatezza.
-Quanto ho dormito? – m’informai, con la voce ancora impastata. Mi risultava tremendamente difficile parlare, forse a causa degli anestetici che mi avevano somministrato.
-Non molto. Un giorno, più o meno. – rispose Mike, stringendomi la mano e baciandomi la fronte.
Lo trattenni per qualche secondo, inspirando forte il suo profumo fresco e inebriante, l’unica cosa che potesse darmi la forza necessaria a porre la domanda fatale e inevitabile:
-E il bambino? –
Michael chiuse gli occhi e prese a massaggiarsi le tempie, poi raccontò, meccanicamente:
-Quando sono arrivato, ho colpito Liam allontanandolo. Ma c’erano delle persone con lui, di cui una armata. Non potevo immaginare … che … avrei soltanto peggiorato la situazione.-
S’interruppe, colto da un fremito al ricordo di quei terribili istanti che per me erano durati un’eternità.
-A chi hanno sparato? – chiesi, preoccupata.
A quel tizio di nome Erms? Eppure mi era sembrato che stesse bene … A una guardia del corpo di Mike? Probabile.
Lui mi fissò stranito:
-A te. –
Non mi lasciò il tempo di assimilare tale informazione e proseguì, imperterrito:
-Ho visto che quell’uomo ti puntava la pistola contro, così ho cercato di trascinarti il più lontano possibile, ma era troppo tardi. Forse l’adrenalina ha giocato la sua parte, perché non hai mostrato alcun segno di sofferenza, forse non ti sei nemmeno accorta che ti avevano colpito. Assurdo. Ad ogni modo, sono riusciti a scappare. Tutti. Anche se li avrei volentieri uccisi con le mie stesse mani. Solo allora mi sono accorto che eri svenuta. Dio solo sa che cosa ho provato in questo momento. Temevo fossi morta. Mio fratello Jermaine, che aveva acconsentito ad accompagnarmi (gli sarò debitore per il resto della mia vita), mi ha rassicurato, ha detto che la ferita non era grave e che eri solo svenuta. Ma poi … quando ti sei svegliata … -
A quel punto s’interruppe, nascondendo il viso tra le mani.
-Tutto quel sangue … ho avuto paura … - confessò, tra un singhiozzo e l’altro.
Tesi un braccio verso di lui, sino ad accarezzargli i capelli, lentamente.
Quasi non mi accorsi delle lacrime che rigavano anche le mie guance.
-Ho perso il bambino? – domandai allora, con la voce che si spezzava in punti strani.
Mi sentii come se mille lame affilate mi attraversassero tutte contemporaneamente, sgonfiando all’improvviso ogni mia fantasia di una vita quieta, piena e felice.
A Michael ci volle qualche secondo per rispondere, in un soffio:
-No. Hai perso molto sangue e persino i medici non riescono a spiegarsi questo miracolo, ma il bambino sta bene. O, perlomeno, è vivo. Bisognerà aspettare, però, per sapere se ci sono state ripercussioni sul feto, anche a causa degli anestetici. I dottori hanno fatto tutto ciò che era in loro potere: ora dobbiamo aver pazienza e tenere sotto stretto monitoraggio la situazione. –
Inspiegabilmente, incominciai a ridere.
E’ strano come le reazioni possano essere molteplici, di fronte ad un pericolo scampato.
Mike mi osservò, incuriosito, poi sorrise, finalmente alleggerito.
-Ti amo ... – sussurrai, quando i singulti di riso me lo permisero.
-Ti amo anche io. Ma se ti azzardi un’altra volta a fare una cosa del genere, giuro che ti strangolo. – rispose, sempre sogghignando, e mi baciò.
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