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LITTLE SUSIE © (in corso). Rating: verde

Ultimo Aggiornamento: 11/02/2012 17:51
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07/01/2012 10:31
 
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Capitolo 1


Era il 9 dicembre 1996. Sdraiata su uno scomodo letto di un ospedale di Manila,con le cuffiette dell’MP3 nelle orecchie,guardavo inorridita il liquido biancastro contenuto in un sacchetto trasparente appeso ad una specie di gruccia di metallo farsi strada lungo un tubicino che terminava in un ago,infilato direttamente nel mio braccio.
Erano passate quasi cinque settimane da quando i dottori mi avevano diagnosticato una leucemia mieloide acuta,in realtà piuttosto rara nei giovani,in uno stadio ormai avanzato. Mi avevano ricoverata immediatamente,sottoponendomi a cicli regolari di chemioterapia,ma in cuor mio sapevo che sarebbe stato inutile. Era come se fossi già morta.
Il mio fratello gemello Javier mi fissava terrorizzato dalla parte opposta della stanza,con la schiena appoggiata allo stipite della porta. Non osava nemmeno avvicinarsi.
Nei suoi occhi leggevo lo stesso dolore che riempiva i miei ormai da giorni. Ricordo che gli sorrisi per tranquillizzarlo. Gli volevo bene. E lui ne voleva a me. Ero pienamente cosciente del fatto che,se i miei genitori gliel’avessero permesso,si sarebbe immediatamente sottoposto ad un prelievo di midollo per salvarmi. La chemio non poteva tenermi in vita,ma un trapianto midollare sì. I nostri midolli ossei avevano una compatibilità di sei su sei. Non c’era alcun rischio per me,dunque,di contrarre la G.V.H.
Ma i miei genitori ,entrambi mezzosangue spagnoli,tutti e due ferventi cattolici,si erano opposti all’idea sin dal principio: in realtà, non avevano mai riposto troppa fiducia nella medicina e nella scienza in generale, che ritenevano un “affronto a Dio onnipotente”. L’uomo non doveva nemmeno osare elevarsi al livello del Padre: solo lui era in grado di stabilire le sorti delle sue creature. Inoltre, sebbene si rifiutassero di ammetterlo e nonostante la scienza dimostrasse il contrario, temevano che la malattia fosse contagiosa e che Javier avrebbe potuto contrarla. Erano molto superstiziosi a riguardo e il loro atteggiamento poteva anche venir considerato stupido e denotazione d’ignoranza, ma nulla poteva far cambiare loro idea.
-Il Signore ti sta mettendo alla prova,Susie. Devi essere forte. L’Altissimo ti salverà. – continuava a ripetermi la mamma,accarezzandomi la fronte madida di sudore.
Mio padre e mia madre mi amavano moltissimo e ovviamente non desideravano la mia morte: semplicemente credevano che il Padre avesse un piano per ognuno di noi e che nessuno dovesse interferire con esso. Bloccai qui il flusso dei miei pensieri,prima che divenissero troppo penosi per me.
In quel mentre nostro cugino Phil si precipitò all’interno della stanza e,visibilmente eccitato,sussurrò qualcosa all’orecchio di Javier accompagnando alle parole ampi gesti delle mani.
Mio fratello ascoltò attentamente,dopodiché sgranò gli occhi incredulo e sorrise.
-Cosa succede? – domandai,perplessa,fermando la musica dell’MP3. Riconoscevo quella luce negli occhi di Javier e quel suo sorriso furbesco: aveva in mente qualcosa.
-Non preoccuparti. Ehm … Io e Phil ... andiamo giù al primo piano a prendere qualcosa da bere. Torno subito. – mi promise.
Ero troppo stanca per indagare,quindi semplicemente chiusi gli occhi e strinsi i denti per combattere la nausea causata dai medicinali somministratimi.
Probabilmente mi addormentai,perché la prima cosa che percepii dopo quella breve conversazione furono le dita fredde e delicate di qualcuno che percorrevano leggere il profilo del mio viso,dalla tempia fino al mento.
Mi stropicciai gli occhi e sbadigliai. Avevo la vista ancora appannata dal sonno,ma riuscii a scorgere accanto al mio letto una figura scura,decisamente poco familiare. Socchiusi gli occhi,cercando di mettere a fuoco la persona che mi sorrideva,timida …
-Oh mio Dio! – gridai,sbalordita,mettendomi a sedere immediatamente e facendo cadere a terra l’MP3. Per qualche secondo,mentre il sangue rifluiva,mi girò la testa.
-Perdonami. Non avevo intenzione di spaventarti. – si scusò Michael Jackson,mentre giocherellava con le dita della mia mano.
Non riuscivo a spostare lo sguardo dal suo viso,così pallido e perfetto. I suoi tratti delicati non sembravano umani … Erano alieni,diversi e … bellissimi. Studiai il suo volto,contemplandolo a lungo, e mi piacque molto.
Javier si accostò a noi e mi spiegò:
-Phil mi aveva detto che Michael Jackson stava visitando l’ospedale,così ho pensato che ti sarebbe piaciuto incontrarlo. Non è stato facile avvicinarlo,ma n’è valsa la pena. –
Michael aggiunse,ridacchiando:
-Non ho mai visto un ragazzino tanto determinato quanto tuo fratello,Susie. Si è fatto largo tra la folla … Per un momento,le mie guardie del corpo hanno temuto che volesse assalirmi! –
Javier abbassò lo sguardo e arrossì,imbarazzato.
-Ehm … Vi lascio un po’ soli. – farfugliò,dopo qualche secondo.
Lo seguii con gli occhi finchè non richiuse la porta dietro di sé. In quel mentre capii che mi stava regalando l’istante più bello della mia breve vita: pochi ma preziosi minuti con il mio idolo.
-Ti vuole molto bene. – osservò Michael. Sospirai. I nostri pensieri erano sulla stessa lunghezza d’onda.
Si chinò per raccogliere l’MP3 che avevo fatto cadere prima. Invece di porgermelo,infilò una delle due cuffiette,ascoltando la musica assorto nelle sue riflessioni. Sorrise.
-You are not alone. La mia canzone. – mormorò compiaciuto e prese a canticchiarla tra sé e sé. Mi sentivo a disagio: non sapevo come comportarmi.
-E’ la mia preferita. – ammisi a bassa voce.
-Perché? – domandò lui,improvvisamente animato,sollevando il capo per potermi guardare negli occhi.
La mia mente si svuotò. Scrollai la testa per riordinare le idee.
-Ehm … non c’è un motivo preciso. – mentii,stringendomi nelle spalle,ma Michael non se la bevve.
-Secondo me sì. – sentenziò.
Arrossii violentemente. Imbarazzante.
-Ti vergogni?- mi chiese,perplesso.
Feci cenno di no con il capo.
-Allora,per favore,raccontami la storia di questa canzone … Perché ti piace tanto? –ripeté. Si sedette dolcemente sul bordo del letto,attento a non urtarmi e mi sorrise,incoraggiandomi. I suoi occhi neri ardevano di curiosità. Come resistere ad una così dolce supplica?
Feci un respiro profondo,poi lasciai che le parole sgorgassero in un flusso di verità:
-Penso sia molto rassicurante sapere di non essere soli nelle difficoltà che s’incontrano nel corso di una vita,breve o lunga che sia. Ci sarà sempre qualcuno al nostro fianco a sostenerci e a guidarci. Esistono momenti in cui ci sentiamo completamente abbandonati,situazioni che ci mettono a dura prova logorandoci e consumandoci. Ma c’è sempre qualcuno disposto a portare i nostri fardelli e questo è ciò che rende magica un’esistenza. Dobbiamo solo permettere a quel qualcuno di entrare nella nostra vita e ci porterà luce nei momenti più bui,ci terrà per mano lungo i sentieri più impervi … -
La mia voce si affievolì,sino a perdersi nel silenzio che riempiva la stanza. Chiusi gli occhi,concentrandomi per non cedere alla tentazione di piegarmi in due per il dolore lancinante allo stomaco.
-Ti senti bene? – mi domandò preoccupato Michael,scostando una ciocca dei miei lunghi capelli neri dalla fronte sudata e appiccicosa.
-Sì … Adesso passa. È solo la chemio. – sussurrai a denti stretti.
Odiavo l’idea che uno sconosciuto mi vedesse in quelle condizioni; a maggior ragione se quello sconosciuto era il Re del Pop.
Ma,nonostante l’avessi pregato più volte di andarsene,rimase con me stringendomi la mano e sussurrandomi all’orecchio le dolci parole della mia canzone preferita.
-Mi sembra che vada meglio. – osservò,più tranquillo.
Annuii. Il dolore era svanito cedendo il posto alla stanchezza.
Si alzò in piedi. Non era particolarmente alto,né tantomeno un uomo possente,eppure pareva circondato da un’aura impalpabile di solennità e regalità, tanto che si sarebbe distinto ovunque fosse andato anche se non fosse stato uno degli artisti più famosi del mondo.
-Ora devo andare. Sono davvero molto felice di averti conosciuto,Susan. Spero che ci rincontreremo presto.- mormorò,mentre le labbra si schiudevano appena sui denti bianchissimi sino a disegnare un sorriso angelico.
Si chinò su di me,baciandomi la fronte e accarezzandomi il braccio,dopodiché lasciò l’ospedale con la stessa velocità con cui era arrivato.








Capitolo 2



Fui dimessa due giorni dopo. Quando tornai a casa,ripresi subito a frequentare le lezioni di danza di Mrs. Sullivan,una simpatica e possente signora ormai sessantenne che si era trasferita da Chicago nelle Filippine solo tre anni prima.
Ero la sua allieva prediletta.
-Potresti farti ammettere alla Julliard,un giorno. – usava ripetermi,orgogliosa,mentre eseguivo con grazia gli esercizi alla sbarra.
Ballare in America era il sogno di una vita per me.
Lo accarezzavo dolcemente con il pensiero ogni notte,nel buio,immobile e familiare silenzio della mia camera,nel segreto del mio cuore,cosciente del fatto che se avessi osato rivelare ai miei genitori le mie ambizioni,mi avrebbero obbligata in casa. Credevano che una mezzosangue spagnola ignorante non sarebbe mai riuscita a trovare il suo posto nel mondo, il posto in cui brillare: pensavano dovessi semplicemente accontentarmi di sopravvivere,il che prevedeva sposarmi e procreare. Era una concezione assurda della vita, soprattutto considerando che ormai eravamo nel ventesimo secolo.
-Sei ancora troppo debole. Dovresti aspettare di riprenderti prima di ritornare a ballare.– mi ammonì Javier.
Alzai malvolentieri la testa dall’interessante romanzo che stavo leggendo sdraiata sul divano del nostro modesto salotto e fulminai mio fratello con lo sguardo.
-Sai che non ho più tempo. Io voglio vivere ancora. – mormorai.
Javier mi squadrò con apprensione, dopodiché mi si avvicinò e mi afferrò all’altezza delle spalle,scuotendomi leggermente avanti e indietro ma attento a non farmi male,come se fossi un oggetto troppo fragile tra le sue mani grandi e forti.
-La chemio funzionerà. Devi crederci. –
Ma persino nei suoi occhi leggevo il dubbio.
-Sai che non servirà a niente. – mugugnai,rassegnata.
-Ho bisogno di sperare nel contrario. – mi confessò,stringendomi improvvisamente a sé e abbracciandomi forte.
Mi cullò per qualche secondo,dopodiché si allontanò e mi scompigliò i capelli.
-Allora,cosa vuoi fare oggi? – mi chiese,obbligandosi a sorridere.
Sapevo che tentava in ogni modo di proteggermi,sforzandosi di non mostrarmi il dolore che provava quando mi guardava negli occhi e vi leggeva rassegnazione nei confronti di ciò che mi attendeva.
-Andiamo in spiaggia? – proposi,titubante.
In realtà farmi vedere in giro in quelle condizioni era proprio l’ultimo dei miei pensieri. Ma mi mancavano terribilmente quegli infuocati tramonti mozzafiato,quando il sole brillava basso,come se lottasse per non lasciare spazio alla notte e poi si spegneva immergendosi nel mare quieto e infinito in un’ultima,accecante esplosione di luce.
In quel mentre qualcuno bussò alla porta.
Javier andò ad aprire. Allungai il collo, cercando di capire chi fosse: non aspettavo visite. Sentii una voce profonda parlare sottovoce e velocemente, tanto che non riuscii a carpire una parola.
Dopo poco più di un minuto, mio fratello richiuse la porta dietro di sé e mi si avvicinò con una busta bianca in mano.
Studiai la sua espressione insolita e, per la prima volta, non seppi catalogarla.
Mi consegnò la busta e ordinò, con una voce da automa:
-Aprila. –
Obbedii. Mi aveva intimorita. Cosa poteva essere successo di tanto grave sulla soglia della porta, in così poco tempo, da averlo sconcertato in quel modo?
Estrassi da quella custodia di carta costosa e pesante due biglietti per un concerto. Li studiai meglio, avvicinandoli agli occhi.
-O mio Dio! – urlai di gioia, balzando in piedi sul divano e rischiando di rovesciarlo.
Javier mi guardò impassibile mentre correvo e saltavo euforica per tutta la stanza.
-O mio Dio, o mio Dio! Javier,guarda! Sono … sono due biglietti! Oh,non ci posso credere! Due biglietti per il concerto di Michael nel Brunei! –
Mio fratello raccolse la busta da terra e la esaminò, riluttante. Ne estrasse altri due biglietti, di un formato e di un colore diverso rispetto a quelli del concerto che stringevo nella mano, oltre ad una lettera destinata a me.
Quasi gliela strappai dalle mani, tanto ero elettrizzata. Ma c’era qualcosa che ancora non mi convinceva … Esitai prima di aprirla e di leggerla. Nessuno dei miei parenti o conoscenti era così ricco da potersi permettere di farmi un simile regalo. E come spiegare l’espressione di Javier?
-Okay … Cosa succede? – domandai, finalmente seria, facendo un respiro profondo per calmarmi e per cercare di essere razionale.
Mio fratello si strinse nelle spalle, ma non rispose.
-Chi era alla porta? –
Anche questa domanda si perse nel vuoto, rimanendo senza risposta.
-Javier! – gridai,spazientita, esigendo la sua attenzione. Perché m’ignorava?
Alzò le mani, sulla difensiva.
-Okay, siediti. –
Seguii il suo consiglio e mi accomodai sul pavimento duro e fresco del soggiorno.
Con la coda dell’occhio lo vidi sospirare ma non commentai.
-Era un uomo enorme, sulla quarantina. Sinceramente non l’ho mai visto in vita mia. Ha detto che doveva fare una consegna molto importante. E mi ha dato quella.– mi spiegò, indicando la busta ormai vuota, poi s’interruppe e si morse le labbra, come se non volesse proseguire.
-Da parte di chi? – m’informai.
Passò non poco tempo prima che si decidesse ad aprir bocca:
-Da parte di Michael Jackson. -
Mi ci volle qualche minuto perché il mio cervello assimilasse quelle parole impossibili e irreali.
Michael Jackson? Assurdo. Non mi conosceva. Come aveva ottenuto il mio indirizzo? Mi tornò in mente il nostro breve dialogo all’ospedale.
“Spero che ci rincontreremo presto.” aveva mormorato. Forse diceva sul serio … Mi sembrava incredibile. Troppo, troppo bello per essere vero.
-Stai attenta, Susie. –
L’ammonimento severo di mio fratello interruppe bruscamente le mie riflessioni.
-Attenta? – ripetei, incredula. Mi sembrò che non esistesse un aggettivo più fuori luogo in quel momento.
-Quello che voglio dire è che non devi montarti la testa e devi sempre stare all’erta. Sai ciò che si dice sul suo conto … - brontolò.
-Tutte cose false. – sibilai,riducendo gli occhi a due fessure. Dove voleva arrivare?
-Tu non puoi saperlo.- disse, a denti stretti. Non riuscivo a spiegarmi l’improvviso rancore di Javier nei confronti di Michael. Era assolutamente immotivato.
-Pensavo ti piacesse. È un brav’uomo. – osservai in un soffio.
-Tu non puoi saperlo. – ripeté.
Mi alzai in piedi di scatto, tremando per la collera repressa. Perché si comportava in quel modo?
-Nemmeno tu! Sei nella condizione più sbagliata per giudicare! Non devi nemmeno osare pronunciarti in merito a questo argomento! Chi sei tu per criticare? – sbraitai. Gli voltai le spalle e corsi verso la porta, furibonda. Esitai qualche secondo prima di aprirla, vedendo che non si era mosso di un centimetro. L’avevo ferito nel profondo: io e Javier non avevamo mai litigato prima d’allora. Ma non poteva pretendere di fare simili insinuazioni sul conto di una persona che non conosceva e che io ammiravo, pretendendo che non reagissi. Sbuffai e uscii.
Non avevo una meta precisa: volevo solo camminare un po’, per sbollire la rabbia. Il sole splendeva alto nel cielo con maestosità e arroganza, scaldandomi fin nelle ossa.
Era un piacere assaporare di nuovo la sensazione di tepore dei suoi raggi sulla mia pelle scura. Ora che stavo morendo sentivo la disperata necessità di godermi ogni aspetto della vita che prima avevo sempre dato per scontato.
Ogni sasso, ogni albero, ogni granello di sabbia sembrava aver assunto un significato diverso, più profondo, tanto che spesso rimanevo a contemplarli per ore ed ore, spinta da un’insaziabile sete di vivere e da un’irrefrenabile e nuova curiosità.
Finalmente giunsi alla scuola di danza di Mrs. Sullivan, un vecchio edificio di mattoni scuro, all’apparenza austero e poco invitante. Era completamente deserto: ciò gli conferiva un’insolita aria magica.
Non dovetti nemmeno forzare la serratura per entrare: la porta era aperta. D’altronde, cosa avrebbero potuto rubare? Le pareti erano spoglie, gli innumerevoli sgabuzzini (che spesso e volentieri fungevano da spogliatoi) erano vuoti, eccezion fatta per i bagni, alcune stanze del complesso cadevano addirittura a pezzi, tanto che ne era stato proibito l’accesso a tutti.
Era facile capire che quell’edificio esisteva da molto, troppo tempo e purtroppo nessuno poteva permettersi di finanziare personalmente un’operazione di restauro.
Riuscii ad intrufolarmi all’interno e, orientandomi fra i vari corridoi, gli sgabuzzini e alcune stanzette buie e polverose, giunsi nella sala centrale, l’unica che non facesse pensare a quel posto come ad una vecchia fabbrica abbandonata. Mi sedetti sul pavimento di legno solido e duro e inspirai, osservando per qualche istante la mia immagine riflessa nell’immenso specchio che rivestiva per intero la parete di fronte a me. La chemio e la malattia mi avevano indebolita e fiaccata. Fissai l’attenzione sui miei lunghi capelli spenti e ogni giorno sempre più deboli e radi: presto avrei dovuto tagliarli, separandomi dalla mia unica fonte di vanità ed orgoglio.
Trattenni a stento un gemito d’orrore che si era inconsapevolmente fatto strada lungo la mia gola. Sospirai ed aprii la lettera:

“Carissima Susie,
mi è rimasto impresso il ricordo del giorno in cui ti ho incontrata. La tua visione della vita mi ha molto colpito e toccato nel profondo: mi hai regalato pochi ma preziosi momenti durante i quali mi sono sentito onorato che mi fosse stata concessa la possibilità di conoscerti. Sei una brava ragazza. Molto intelligente e profonda. Ti prego, dunque, di accettare il mio umile regalo: so che non sarà mai in grado di eguagliare quello che mi hai donato,cioè un importante stralcio delle tue attente e meticolose riflessioni .
Suppongo tu non abbia mai partecipato ad un concerto. In tal caso, mi sentirò doppiamente felice se mi omaggerai con la tua presenza, perché sarò in grado di regalarti un’esperienza che ritengo indispensabile.
Credo che nessuno possa dichiararsi davvero felice e completo se non ha mai avuto l’occasione di accostarsi a qualcosa e di dedicarsi a questo qualcosa con tutto se stesso. Questo è il mio rapporto con la musica e con tutto ciò che è legato al suo mondo che,ormai da decenni,è diventato anche il mio mondo. Nella busta che ti è stata consegnata troverai, oltre ai due tagliandi che ti consentiranno l’ingresso al concerto, anche due biglietti aerei (andata e ritorno) già pagati. Per quanto riguarda i tuoi genitori, non hanno di che preoccuparsi. Uno di loro può tranquillamente usufruire del secondo biglietto, anche se immagino che Javier non vorrà certo perdersi un’occasione del genere ed insisterà affinché quel biglietto venga prontamente destinato a lui. Nel frattempo, ti auguro tutta la serenità possibile. Dio ti benedica. Spero di vederti presto. Con immenso affetto,

Michael Jackson”
07/01/2012 11:21
 
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Capitolo 3
Il volo da Manila a Bandar Seri Begawan durò poco più di due ore. Non ero mai stata su un aereo prima d’allora. Tutto era nuovo e magico.
Javier sedeva imbronciato accanto a me, sui comodi e spaziosi sedili di prima classe. La tensione tra noi era ancora palpabile. Ma, tutto sommato, eravamo insieme: questo era ciò che contava davvero.
Ogni tanto sentivo il bisogno di rileggere la lettera di Michael, solo per assicurarmi che quello che stavo vivendo non fosse solo un semplice e bellissimo sogno dal quale prima o poi mi sarei svegliata.
-Mi stai innervosendo. – sbottò improvvisamente mio fratello, arrestandosi di colpo e inchiodandomi con un’occhiata gelida.
Stavamo cercando di orientarci in mezzo a quella massa disordinata di turisti eccitati e uomini d’affari in giacca e cravatta, per incanalarci e uscire finalmente dall’aeroporto.
Javier non mi rivolgeva la parola da più di ventiquattro ore ormai, quindi colsi quell’occasione al volo.
-Non capisco a cosa tu ti stia riferendo. – mormorai, accennando appena un timido sorriso.
Alzò gli occhi al cielo, sbuffando spazientito.
-Ritira quella dannata lettera, Susie … e cerca di tenere il passo. -
Obbedii senza protestare. Quando fummo all’esterno, tirammo entrambi un sospiro di sollievo: non eravamo abituati a tutta quella confusione.
Rimanemmo qualche minuto in silenzio, ad ammirare attoniti la città che si apriva snodandosi davanti ai nostri occhi: la gente che fino a pochi istanti prima si era ammassata nei pressi dell’ingresso dell’aeroporto, impaziente di uscire da quel luogo, ora si disperdeva per le vie della capitale, a piedi oppure a bordo di taxi e mezzi pubblici.
Javier mi sfiorò appena il braccio, reclamando la mia attenzione.
-Qual è l’indirizzo dell’albergo?
Estrassi uno stralcio di carta spiegazzato dalla tasca sul quale avevo annotato poco tempo prima il nome dell’hotel in cui avremmo alloggiato.
Lo consegnai ad Javier, che strizzò gli occhi nel tentativo di decifrare la mia scrittura, dopodiché fermò un taxi.
-Poteva almeno darci un passaggio su una delle sue innumerevoli limousine. Non penso sarebbe stato troppo dispendioso per lui. - bofonchiò Javier, quando il tassista mise in moto l’auto e alzò il volume della radio.
-Javier! – lo ammonii.
Mi fissò accigliato. L’ultima cosa che desideravo era offenderlo nuovamente, quindi cercai di rivolgermi a lui in modo pacato e gentile:
-Sai bene che non avrebbe potuto. I paparazzi e i fans lo seguono ovunque, sembrano perseguitarlo. Lo adorano e lui contraccambia, certo, ma a volte può risultare fastidioso questo comportamento,non trovi? Non piacerebbe nemmeno a te essere così popolare. È assurdo. Non può andare al cinema, al supermercato o all’aeroporto che subito viene circondato da masse di ragazze urlanti che gridano il suo nome come delle ossesse. –
Ridacchiai. Prima della nostra partenza, avevo avuto l’occasione di discuterne al telefono con Mike, che mi era sembrato tra il divertito e il terrorizzato.
Javier non commentò: semplicemente si voltò verso il finestrino. Lo imitai.
Quando giungemmo all’albergo, fummo condotti in un’ala dell’edificio che era stata destinata solo a Michael e che comprendeva un totale di otto stanze: sei camere di modeste dimensioni e due suite spaziose ed eleganti, perennemente sorvegliate.
In una di queste dormiva Michael.
-Secondo me ha qualche mania di grandezza. – mi sussurrò all’orecchio Javier, poco prima di entrare nella camera più ampia e lussuosa che avessi mai visto.
L’arredamento denotava raffinatezza e buon gusto, sebbene ci trovassimo all’interno di un hotel. Il mobilio era semplice e consono all’ambiente, ma comunque molto elegante e all’altezza della situazione. Di fronte a noi, vi era un’enorme portafinestra chiusa rigorosamente a chiave, che dava sul balcone. Dubitavo che Mike l’avrebbe mai utilizzata: probabilmente desiderava essere il più discreto possibile e teneva alla sua privacy e alla sua sicurezza.
-Susie! – esclamò Michael, correndomi incontro con un sorriso caloroso e accogliendomi con un abbraccio. Sembrava ci conoscessimo da sempre.
-Ciao. – mormorai, impacciata. Non avevo idea di come comportarmi con lui. Temevo di offenderlo se gli avessi dato troppa confidenza e, viceversa, speravo di non turbarlo con la mia apparente freddezza.
Rise come un bambino,poi salutò Javier che cercò di mostrarsi cordiale e affabile.
-Prego! Accomodatevi! Com’è stato il viaggio? – s’informò, dirigendosi verso un grande divano al centro della stanza dall’aria estremamente comoda e confortevole e sprofondando con eleganza tra i cuscini.
-Piuttosto bene, grazie. – risposi. Pareva deluso dalla mia risposta evasiva,per cui aggiunsi, affinché non ne avesse a male:
- Era la prima volta che volavo. Non è stato così terribile.-
Rise. Era così gentile e di buon umore che poco a poco mi rilassai e presi a parlare con maggiore spontaneità.
-I tuoi genitori come hanno reagito?-
Feci una smorfia scomposta al ricordo delle suppliche che avevo rivolto a mamma e papà affinché mi permettessero di partire. In principio mi erano apparsi irremovibili, ma poi, a causa della mia insistenza, mi avevano concesso, anche se malvolentieri e con qualche riserbo, quella breve vacanza. Comunque, erano rimasti molto delusi. Michael, divertito, cercò d’imitare la mia espressione che evidentemente trovava incredibilmente buffa. Ridemmo entrambi. Con la coda dell’occhio notai però che Javier, seduto sul divano di fianco a me, ci controllava attentamente, con la schiena ritta come un fuso, quasi fosse in procinto d’intervenire per rimettere ciascuno al proprio posto.
Il suo comportamento mi irritava, per cui poco dopo mi congedai con una scusa banale e non troppo credibile.
-Michael, forse dovremmo andare a riposarci un poco. Sono piuttosto stanca. – dissi alzandomi e avviandomi verso la porta della camera. Javier mi seguì.
-D’accordo. Ci vediamo stasera.- mi salutò Mike.
Ma poi, più tardi, all’ora di cena, mi rifiutai di raggiungerlo nella sua camera: troppi pensieri mi affollavano la mente, e un turbinio di emozioni diverse mi stringevano il cuore. Non volevo affrontare la cordialità di Mike e l’inquietudine di mio fratello in quello stato: non avrei saputo far fronte né all’una, né all’altra.
Mi sdraiai sul mio letto e mi misi ad osservare il soffitto immacolato. Il bianco uniforme del muro sembrava riflettere il bianco in cui galleggiavano le mie riflessioni in quel momento: riflessioni fini a se stesse, che non mi portavano da nessuna parte, se non alla deriva.
Chiusi gli occhi, tuttavia non riuscii ad addormentarmi.
Scesi dal letto, furiosa, e presi a passeggiare per la stanza. Ma ad ogni mio passo, la camera sembrava stringersi intorno al mio esile e debole corpo, diventando sempre più piccola e soffocante.
Lacrime di rabbia e confusione mi rigarono le guance mentre l’oscurità pareva farsi sempre più fitta e impenetrabile.
“Devo uscire da qui!”
Allungai le mani dritte davanti a me alla ricerca della maniglia della porta. Incespicai diverse volte ma infine la trovai, soffocai un grido di gioia ed uscii quasi correndo.
Mi ritrovai in corridoio.
In fondo ad esso vi era la camera di Michael, dalla cui porta socchiusa proveniva un sottile fascio di luce. Guadai l’orologio che portavo al polso e che troppo spesso dimenticavo di togliere quando andavo a dormire: segnava le due di notte. Possibile che fosse ancora sveglio?
Mi avvicinai, spinta dalla curiosità, quasi strisciando contro il muro, che trasudava calore e famigliarità, contrariamente a quelli della mia fredda e austera stanza d’albergo,nella quale ritenevo fosse impossibile trascorrere anche una sola notte.
Quando fui a poco più di due metri dalla porta, avvertii un rumore sordo, accompagnato da un fruscio di passi leggeri e da un gemito di dolore.
Entrai quasi istintivamente. Trovai Michael seduto per terra, a gambe incrociate, con la testa fra le mani.
Alzò lo sguardo verso di me, stupito. Non vidi mai degli occhi più addolorati dei suoi quella notte, né prima, né dopo.
Mi gettai al suo collo, stringendolo forte a me e piangendo con lui, colta da un’improvvisa malinconia e da uno sconforto straziante.
Ogni singhiozzo lo attraversava e lo faceva tremare fra le mie braccia magrissime, trasferendosi dal suo corpo al mio.
Non saprei dire quanto tempo rimanemmo accoccolati su quel pavimento duro e freddo, a consolarci, a scambiarci l’un l’altro dolori e preoccupazioni, lacrime e sorrisi di gratitudine.
Ma più tardi, esausti e svuotati, ci addormentammo l’uno nelle braccia dell’altra, senza trovare la forza per alzarci e tornare nei nostri rispettivi letti.
Il mattino dopo mi risvegliai sul divano della suite di Mike.
Mi guardai intorno, spaesata. Sul tavolino di fronte al divano era stato appoggiato un vassoio elegante e capiente decorato con motivi floreali, colmo di ogni ben di Dio: dalla fetta biscottata alle uova strapazzate, dal caffelatte alla spremuta, dalla torta al cioccolato al bacon.
Mi misi a sedere. Un tiepido raggio di sole filtrava dalla portafinestra della suite e si posava sulla mia schiena, scaldandomi.
Michael sbucò all’improvviso da una stanza adiacente, che probabilmente fungeva da camera in quella suite che più che a una stanza d’albergo assomigliava a un lussuoso appartamento. Mi sorrise impacciato e stanco.
-Non sapevo che cosa preferissi mangiare per colazione. – si giustificò, di fronte al mio sguardo sbigottito. Annuii.
-Mi fai compagnia? – gli domandai, accennando un sorriso timido e tamburellando con le dita il posto vicino al mio.
Si sedette accanto a me, così vicino che potevo respirare il profumo della sua pelle,fresco e intenso, quasi inebriante.
Addentai la fetta di torta al cioccolato, il cui aspetto era così invitante che mi sembrò quasi un sacrilegio non assaggiarla.
Masticai pensosa, osservando con la coda dell’occhio Mike che se ne stava in silenzio di fianco a me, evidentemente a disagio.
-A che cosa pensi?- chiese, per rompere il silenzio.
La mia bocca parlò quasi da sola:
-A ieri notte.-
Appena le ebbi pronunciate, desiderai rimangiarmi subito quelle parole. Michael levò lo sguardo dai miei occhi, imbarazzato e teso. Era piuttosto chiaro che avrebbe preferito non tornare mai più sull’argomento. Tacque per qualche minuto, mentre sorseggiavo la spremuta. Dopodiché domandò, in un soffio, senza guardarmi:
-E che cosa pensi? –
Sospirai. Michael cercava sempre di aprirsi un varco per insinuarsi nella mia testa, ma la sua per me e per il mondo intero rimaneva un mistero insondabile.
-Sto pensando come sia possibile, dopo quello che è successo, cercare di ricostruire di nuovo quel muro. – mormorai.
Mike si voltò verso di me.
-Quale muro? –
- Questo. – risposi, posandogli con delicatezza la mano sul cuore.
Lui si scostò con un fremito. Annuii a me stessa.
-Ieri notte sono state abbattute tutte le barriere imposte dal buon senso e dal pudore. Oggi, invece, ti sento così distante che tutte le volte che cerco di riafferrarti svanisci come labile fumo e mi scivoli via dalle dita. Ieri avevo un amico. Oggi non so. -
Il suo sguardo si ammorbidì.
-Sono qui, Susie. Sono sempre io. – mi giurò.
A quel punto, assillata da mille dubbi, alzai la voce:
-Ma chi è Michael Jackson? Il Re del Pop? L’artista più venduto del mondo? O un uomo solo, lo stesso che ieri sera ho visto piangere seduto sul pavimento di questa stanza? Non lo so. Non so chi sei. –
Si strinse nelle spalle.
-Non mi aspetto che tu mi comprenda perché nessuno l’ha mai fatto. Forse hai ragione. Forse per godere appieno di tutti gli aspetti di un rapporto d’amicizia oppure anche solo, semplicemente, del mondo che ci circonda, bisogna imparare ad aprire le porte dell’anima. Ma cerca di metterti nei miei panni,Susan: tante volte ho amato, tante volte ho riposto la mia fiducia in persone che credevo essere sincere, e troppo spesso questa mia fiducia è stata tradita. Non biasimarmi, dunque, se prendo le distanze da tutto e da tutti, perché penso sia una sorta di istinto di sopravvivenza, una specie di corazza che m’impedisce di soffrire ancora. – mormorò.
Strinsi la sua mano fra le mie.
-Ma tu chi sei? – gli chiesi, di nuovo, in un soffio.
Avrei anche voluto porgli un’altra domanda, ma mi pareva troppo ardita e quasi infantile. La tenni dunque per me.
Mi sorrise.
-Io sono semplicemente Michael Jackson. -
07/01/2012 14:55
 
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Hey Lily!
Ho appena finito di leggere e devo dire che questi primi tre capitoli mi piacciono...la storia coinvolge il lettore [SM=g27836]
Vedo che tu stai affrontando un argomento molto delicato che è quello della Leucemia....beh, dato che ne stai parlando, spero che tu o qualcuno della tua famiglia non abbiate questo problema perchè non è facile da affrontare!! Comunque voglio dirti che mi piace il fatto che Michael l'abbia invitata al suo concerto e...a dire la verità...sono rimasta colpita quando Michael stava piangendo in camera [SM=g27831] spero che ci spiegherai i motivi di questo sfogo e che proseguirai presto con la tua storia! [SM=g27828] Io ti seguirò e farò del mio meglio per esprimere il mio parere! [SM=g27838]
Dady [SM=g27836]
07/01/2012 20:20
 
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Finito di leggere i Primi Tre Capitoli sono belli ed emozionanti. Attenderò il prossimo per sapere il motivo del pianto di Michael.
07/01/2012 21:55
 
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La storia prosegue ...
CAPITOLO 4:
Il nome di Michael gridato all’unisono dalle migliaia di fans che partecipavano a quel concerto si levò nell’aria simile ad un canto che spezzava l’immobilità altrimenti uniforme di quella notte.
Lo volevano, lo pretendevano.
Io, seduta in prima fila, tacevo, ascoltando e assaporando ogni istante di quel momento: le luci quasi abbaglianti provenienti dal palco, l’eccitazione della massa disordinata che fremeva intorno a me, il cielo che si chiudeva scuro e minaccioso su quel luogo.
Javier, di fianco a me,sorrideva quasi euforico. Aveva cominciato a metter da parte il suo astio immotivato nei confronti di Mike e stava iniziando a godersi davvero quella breve vacanza: ciò non poteva che allietarmi e rassicurarmi.
Ad un tratto, un boato ancor più forte fece quasi tremare la terra sotto i nostri piedi: il concerto era iniziato.
La figura di Michael si stagliava immobile e superba sul palco illuminato a giorno, mandando in fibrillazione gli spettatori.
Quasi inquietante nella sua tuta dorata, diede le spalle al pubblico con grande teatralità e con gesti lenti e misurati cominciò a togliersi il casco e le altre parti di quella che più che a una divisa assomigliava ad un’armatura.
Dopo pochi secondi, le note di Scream fecero accelerare i battiti del mio cuore e mi ritrovai a cantare a squarciagola insieme a tutto lo stadio.
In quel momento,Mike pareva così distante e irraggiungibile che quasi non riuscivo a credere che fosse lo stesso uomo che avevo abbracciato e consolato la notte prima e con il quale avrei trascorso amichevolmente l’ultimo giorno dell’anno in una qualche camera d’albergo.
Sembrava provare un gusto perverso nell’accostarsi alle persone e ad escluderle poi improvvisamente dalla sua vita, lasciandole perplesse, frustrate ed ingiustamente emarginate.
Non riuscivo mai a comprenderlo appieno, sebbene fossimo diventati molto intimi in così poco tempo e ci raccontassimo pressoché tutto; ciononostante era sempre lui ad avere il controllo della situazione. Se si accorgeva di essersi spinto troppo oltre, di essersi aperto in modo esagerato, allora rimbalzava indietro come un elastico e avvicinarlo nuovamente diventava un’impresa ardua. D’altronde, la gente che lo incontrava rimaneva così affascinata dai suoi comportamenti, che si abbandonava quasi inconsciamente a lui, diventando uno strumento incredibilmente malleabile nelle sue mani in un modo quasi patetico. Mike sapeva di avere questo potere e, forte di questa consapevolezza, quasi si divertiva a farne un gioco.
La sua non era cattiveria, ma piuttosto una sorta di ingenuo e relativamente innocente sadismo.
Cominciò a girarmi la testa per i tanti pensieri che mi affollavano la mente. Strizzai gli occhi, sorpresa più che preoccupata: avevo la sensazione di fluttuare. I rumori provenienti dall’ambiente circostante mi giungevano come lontani e sordi, attutiti da una qualche barriera invisibile che mi avvolgeva come una bolla fastidiosa.
-Che c’è, Susie? Stai male?- mi domandò Javier, costretto ad urlare per farsi sentire.
Feci cenno di no con il capo ma in realtà mi sentivo molto debole: mi tremavano le gambe anche da seduta.
Lui spalancò gli occhi, mi accarezzò i capelli in apprensione, dopodiché tentò con un gesto della mano di attirare l’attenzione di uno dei tanti uomini che indossavano una maglietta scura di cotone con la scritta “Michael Jackson Security” e che cercavano di mantenere l’ordine, soprattutto nelle prime file. Ci riuscì.
L’uomo si avvicinò sospettoso.
-Sta male!- gridò Javier all’addetto alla sicurezza, indicandomi.
Ero accasciata sulla sedia, con un sottile velo di sudore sulla fronte e sul collo.
-Lascia. La porto dietro. – mugugnò l’uomo. Si avvicinò pigro e mi domandò se riuscivo a camminare. Non ne ero sicura, ma ci provai comunque.
Un po’ incerta sulle gambe, mentre quel tale mi aiutava a sollevarmi in piedi e a muovere qualche passo, alzai lo sguardo verso il palco e vidi che Michael mi fissava confuso e preoccupato.
Abbassai gli occhi immediatamente, imbarazzata.
Nello stesso istante, Javier bloccò afferrandolo il braccio dell’addetto alla sicurezza, che lo guardò bieco.
-E’ amica di MJ- spiegò mio fratello.
-Me lo puoi dimostrare? – ribatté l’altro.
Javier gli mostrò un tesserino e uno stralcio di carta sul quale Mike aveva annotato qualcosa, forse un numero di telefono o un indirizzo.
-Questo tesserino ci permette di accedere ai suoi camerini e di muoverci liberamente dietro le quinte. E questa è la sua calligrafia. – gli assicurò.
L’uomo studiò seccato entrambi i documenti, poi sbuffò.
-D’accordo. E che cosa dovrei farci io con queste cartacce? – brontolò, ma si rivolgeva più a se stesso che a noi.
Javier gli si fece vicino e gli bisbigliò qualcosa all’orecchio, velocemente e rivolgendomi uno sguardo di tanto in tanto, quindi l’addetto alla sicurezza mi fissò per pochi secondi, con un lampo di consapevolezza negli occhi.
Poi sospirò.
-Va bene. Si può anche fare. Forse è meglio così. – convenne alla fine.


CAPITOLO 5
-Cos’è successo? –
Michael si precipitò al mio fianco, in ansia.
L’addetto alla sicurezza mi aveva quasi trascinata via con sé. Del percorso che avevamo seguito ricordavo molto poco: un passaggio buio, una scala male illuminata e poi quella sorta di stanzetta umida, disordinata e affollata dove mi trovavo in quel momento, seduta con la schiena appoggiata ad una parete di metallo.
-Susie, mi senti? Chiamate un paramedico, per favore! – ordinò burbero a qualcuno che stava al suo fianco. Riuscii a percepire l’urgenza nella sua voce vellutata.
-Susan, guardami. – m’intimò. Obbedii di malavoglia: desideravo solo dormire.
Vidi il suo viso squisito a pochi centimetri dal mio e d’un tratto mi costrinsi a tenere gli occhi aperti: nulla, nemmeno il sonno, mi avrebbe impedito di ammirarlo in tutta la sua dannata perfezione.
Sospirò di sollievo, o almeno così mi parve.
-Ti senti debole? – domandò un’altra voce, che non riuscii ad identificare. Probabilmente proveniva da qualcuno al mio fianco ma non mi voltai a verificare: in quell’istante esisteva solo il viso di Michael, la sua pelle diafana leggermente velata di sudore e i suoi occhi grandi, neri e dolci che mi scrutavano preoccupati.
-Sì. – biascicai, dopo qualche minuto.
Michael si rivolse alla voce:
-Susan ha la leucemia. L’ultimo ciclo di chemioterapia è stato … -
Mi guardò con aria interrogativa e la fronte corrugata.
-Cinque o sei giorni fa, mi pare. – risposi, con la voce impastata.
-Certo, capisco. – disse lo sconosciuto. –Ora ti misuriamo la pressione. Cerca di stare sveglia, d’accordo? –
Annuii. Qualcuno ebbe il buon senso di portarmi da bere qualcosa di caldo e zuccherato, un tè forse: non ci prestai troppa attenzione. Lo sorseggiai cauta, temendo una reazione negativa dello stomaco che però non si verificò,anzi: la bevanda miracolosa mi donò un immediato sollievo.
-Va meglio? – domandò la voce, accorgendosi probabilmente che il peggio era passato.
Risposi di sì. Lentamente, la testa prese a girarmi meno e la debolezza abbandonò il mio corpo. Cercai di alzarmi in piedi: ora che mi rendevo conto di avere decine di occhi puntati addosso, mi sentivo terribilmente in imbarazzo.
-Ti serve aiuto,cara? – mi chiese una donna bionda e possente, dal sorriso gentile e lo sguardo materno.
-Sì,grazie.- sussurrai.
La donna mi cinse le spalle con un braccio, sostenendomi mentre mi sollevavo con cautela.
Fino a quando non ebbi riacquistato completamente il senso dell’equilibrio la gentile sconosciuta sorresse quasi tutto il mio peso, senza mostrare sul suo adorabile volto segni di fastidio o impazienza.
-Ora sto bene, grazie. – la rassicurai dopo qualche minuto.
La donna mi guardò con aria interrogativa.
-Sei sicura? – domandò, con una lieve sfumatura d’indecisione nella voce. Annuii. Un poco mi commosse quella sua preoccupazione sincera, che sembrava nascere da un affetto improvviso, inspiegabile e disinteressato.
Lei mi assecondò ma mi tenne gli occhi puntati addosso per qualche istante ancora, come se fosse pronta a riafferrarmi qualora avessi avuto un altro mancamento.
Mossi qualche passo: in effetti, mi sentivo abbastanza bene. Anche la donna lo capì e sorrise rincuorata.
-Sono felice che ti sia ripresa. Gli hai fatto prendere un bello spavento. – spiegò con un sorrisetto, inclinando leggermente la testa, come ad indicare qualcosa alla sua sinistra.
Inarcai un sopracciglio, confusa dalle parole di lei.
La donna parve ricordarsi di qualcosa: i suoi occhi s’illuminarono e, ridendo di sé, mi porse la mano, che strinsi con delicatezza cercando, invano purtroppo, di sembrare disinvolta e naturale quanto lei.
-Sono Karen Faye. – si presentò. – Lavoro con Mike dai tempi di Thriller. Ti posso assicurare che non l’ho mai visto così turbato in vita mia. Deve tenere molto a te. Si vede dal modo in cui ti guarda … - aggiunse, questa volta pensierosa.
Arrossii e abbassai lo sguardo.
Karen ridacchiò e annuì tra sé, tornando subito seria. Era difficile seguire il filo dei suoi pensieri.
-Michael è una persona molto speciale e … rara,se devo dire il vero. La sua natura l’ha sempre spinto ad abbandonarsi completamente alle emozioni e alle sensazioni, a fidarsi della gente, confidando nella sincerità e nell’ingenuità di quelli che lo circondavano. Purtroppo, troppi hanno approfittato di lui, spingendolo a poco a poco a chiudersi in se stesso: forse già lo sai… Ma con te è diverso. È come se si riaccendesse una scintilla… Un bagliore. – mormorò, senza guardarmi veramente, ma scrutando attraverso i miei occhi nella mia anima,forse per comprendere se fossi anche io una approfittatrice, una sorta di traditrice crudele, insomma. O forse stavo semplicemente lasciando correre la mia immaginazione a briglia sciolta. Mi ricomposi, per non far notare quanto patetici fossero i miei ragionamenti in quel momento.
-Non so … A volte, mi sembra che, per quanto amici possiamo diventare, non saremo mai veramente vicini. Mi tiene a distanza. Perlomeno, questo è ciò che percepisco talvolta quando sono in sua compagnia. – risposi, un po’ in ritardo.
Karen scosse la testa,ribadendomi:
-Ti vuole bene, Susie, non dubitarne. Dagli tempo. Sei importante per lui.-


CAPITOLO 6

-Sì, certo. Abbi cura di te. Chiamami se hai novità. Ciao. -
Michael riattaccò sospirando e spiandomi con la coda dell’occhio dall’angolino in cui si era rintanato per fare una breve telefonata a Debbie, sua moglie, l’ultimo giorno dell’anno che, come avevo previsto, avremmo passato in quella elegantissima camera d’albergo.
Non avevo esperienze in proposito,ovviamente, ma quella non mi era affatto sembrata una conversazione tra innamorati: non che Michael fosse stato freddo e distaccato con Deborah, ma comunque sembrava rivolgersi a lei più come ad un’amica che come ad una moglie e ciò non poteva che incuriosirmi e lasciarmi un poco meravigliata.
Mike probabilmente aveva previsto la mia reazione, o perlomeno si aspettava domande al riguardo. In tutta risposta, feci finta di niente: non volevo forzarlo.
Sentivo che non era disposto a parlarne. Già prima avevo vagamente intuito quanto poco Debbie facesse parte della vita di Michael e quella telefonata non faceva altro che confermare le mie supposizioni: il loro non era un matrimonio d’amore. Ovviamente, potevo anche sbagliarmi: apparentemente, però, non vi erano prove che confutassero la mia tesi.
Mike mi mostrò la lingua, indispettito:
-Bhè, perché quella faccia? –
Decisi di stare al gioco.
-Questa faccia, - sottolineai, indicando me stessa –è l’unica faccia che possiedo. Mi dispiace, ma ti dovrai accontentare. –
Mi strinsi nelle spalle con finta aria sconsolata. Era facile scherzare con lui: mi veniva sempre spontaneo e naturale.
Michael scoppiò a ridere di fronte alla mia espressione e venne a sedersi accanto a me, di fronte al camino in cui crepitava un timido fuocherello che gettava piccoli, scoppiettanti bagliori tutt’ intorno. Rimasi a contemplarlo a lungo, indecisa su come addentrarmi nell’argomento.
La risata angelica di Mike s’interruppe improvvisamente quando si accorse di quanto fossi taciturna e impensierita.
-A che cosa pensi? – mi chiese e mi passò delicatamente una mano tra i capelli neri, che avevo tagliato fin sotto al mento: la parrucchiera mi aveva assicurato che così sarebbero divenuti più forti e che probabilmente non li avrei persi tutti con la chemio. Non ci speravo troppo, comunque.
-Che forse in questo momento dovresti essere con Debbie. Lei è la tua famiglia. – gli feci notare, dopo qualche minuto, rispondendo alla sua domanda in ritardo. Ero stata incerta se mentire o essere sincera. Alla fine, come sempre, avevo optato per la verità.
Michael scosse la testa lentamente ma non rispose. Forse non trovava le parole. Forse non aveva intenzione di farlo.
La possibilità, anche solo remota, che si fosse stancato della mia compagnia e che le mie domande e i miei rimproveri suonassero alle sue orecchie terribilmente noiosi ed inadeguati mi fece impallidire: forse era proprio così.
Ma poi Mike si decise a parlare, sebbene lo facesse con fatica, come fortemente provato dal peso che la verità esercitava su di lui.
-Voglio bene a Debbie. È una donna fantastica ed è molto innamorata di me. La considero una cara amica, una persona splendida, affettuosa e disponibile … - mormorò, ma poi la sua voce si affievolì. Abbassò lo sguardo, come se d’un tratto fosse improvvisamente assorto e concentrato mentre studiava piccoli granelli di polvere rimasti intrappolati tra le fibre del tappeto su cui sedevamo.
-Ma non la ami. – conclusi. La mia non era una domanda,ma una semplice constatazione.
-Non giudicarmi, ti prego. – mi supplicò guardandomi negli occhi. Non riuscii a sostenere quello sguardo. Avevo visto quanto soffrisse, quando la solitudine fosse in grado di opprimerlo con il suo peso insostenibile. L’avevo visto piangere e l’avevo stretto e cullato tra le mie braccia a lungo.
Pensando un poco al suo immenso dolore, quell’atto, quel matrimonio basato esclusivamente sull’utile, sulla procreazione, mi parve subito molto meno ignobile ed egoista. Voleva dei figli. Deborah amava Michael, provava nei suoi confronti un affetto molto vicino all’adorazione. Sarebbe stata pronta ad offrirgli tempo, pazienza e una famiglia. E sebbene lui non l’amasse, le voleva molto bene, abbastanza per informarsi sulla sua salute e per mettere a sua disposizione tutto ciò che poteva servirle. Era davvero così terribile? Debbie poteva davvero essere considerata una semplice madre-surrogato, come la definivano i tabloid?
-Ti capisco. – sospirai infine.
Mike accennò un sorriso amaro, che non infiammò le sue guance né accese i suoi occhi.
Quelli restarono fissi su di me, penetrandomi.
-Davvero? Saresti veramente pronta a giustificare un comportamento come il mio? Un matrimonio che è stato concepito esclusivamente con lo scopo di mettere al mondo degli eredi? Un rapporto fondato non sull’amore, ma su un compromesso? –
Il suo tono di voce si fece man mano più aspro. Riuscivo a percepire tutta la condanna e la critica del mondo in quelle parole dense di odio. Michael stesso era incredulo di fronte a ciò che stava facendo: si detestava per come stava sfruttando Debbie.
Ma, allo stesso tempo, non aveva scelta.
-Non ho detto che ti giustifico … Ma che capisco perché lo fai. Alcuni potrebbero considerarlo un atto egoista e forse un poco lo è, ma è la prima volta da quando sei entrato nel mondo della musica che fai qualcosa per te, se non sbaglio. Ti sei già sacrificato troppo. Perché dovresti rinunciare anche alla gioia di avere dei bambini? –
Mike non rispose. Era profondamente combattuto: lo si capiva dalle sopracciglia aggrottate, dalla fronte corrugata e da come torturava un piccolo lembo del tappeto con le dita agili e sottili.
-Non è giusto. – sbottò infine, dopo una decina di minuti trascorsi immersi nel silenzio.
-Che cosa? – mormorai confusa. Si riferiva a Debbie? Dal tono di voce non si sarebbe detto. Che alludesse ad altro?
-Una ragazza di sedici anni dovrebbe andare incontro alla vita, non alla morte! – esclamò frustrato e chinò di colpo il capo tra le mani.
Sussultai, spaventata dall’improvviso cambio di direzione che aveva preso il filo dei suoi pensieri. Le sue parole mi avevano intimamente commossa.
Mi feci ancora più vicina a lui, sfiorandogli una spalla, come a rassicurarlo.
-Non dovresti preoccuparti di questo, ora. – sussurrai con tono gentile.
Mike scosse la testa, come un bambino capriccioso.
-Non voglio perderti .. – disse, sincero, con la voce rotta dal pianto. E poi aggiunse:- E’ come se il Cielo ti avesse mandata quaggiù ad illuminare la mia vita. Mi comprendi molto più di me stesso. –
Con il viso rigato di lacrime lo guardai e vidi un amico. Un amico che mi voleva bene, che non voleva perdermi e che aveva un disperato bisogno di qualcuno disposto ad ascoltarlo e a consolarlo.
Ed io volevo essere quel qualcuno.

07/01/2012 21:58
 
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Rispondo a WalkerDady e a Streetwalker ..
Il motivo del pianto di Michael è abbastanza a libera interpretazione. Michael non si apre facilmente neanche con Susie, quindi non è semplice nemmeno per lei "indovinare" il motivo di tutta quella tristezza ... Lei intuisce che sia uno sfogo, che il peso opprimente e gravoso della solitudine e della celebrità lo stia logorando ...

Per quanto riguarda la leucemia, tranquille, nessuno dei miei familiari, per fortuna, ne è affetto. Però mi sono interessata molto all'argomento, soprattutto dopo la guarigione da un tumore al seno di mia mamma e dopo aver visto un film che mi ha molto colpita.
07/01/2012 22:54
 
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Lily...ho finito di leggere il testo ed il tuo commento. Grazie per la risponsta [SM=g27823] e brava di nuovo! Mi piace la storia! Si capisce che tra di loro sta nascendo qualcosa...forse un'amicizia...beh lei ha 16 anni...seguirò la tua storia perchè mi stai incuriosendo!
Baci Dady [SM=g27836] [SM=g27838]
07/01/2012 23:05
 
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Continua....è bellissimaaaaa

...MICHAEL JACKSON...
07/01/2012 23:16
 
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La storia prosegue ...
CAPITOLO 7

-Mi mancherai tantissimo. – sussurrò Michael, stringendomi forte a sé e cullandomi per qualche istante.
-Anche tu. Sii felice. – risposi, in un soffio, ricacciando indietro le lacrime che stavano per affiorare. Il mio non era solo un augurio: era una raccomandazione, una necessità. Non avrei potuto vivere così lontano da lui sapendolo triste o preoccupato. Doveva promettermi che avrebbe cercato di raggiungere quel minimo di serenità che gli era concessa.
-Tu guarisci. – mormorò al mio orecchio, sfiorandomi una guancia con la punta del naso e facendomi rabbrividire.
Ridacchiai, per spezzare quell’attimo drammatico e interrompendo l’abbraccio.
Michael mi posò le mani sulle spalle, come se mi stesse guardando per la prima volta. O per l’ultima. Quel gesto mi mise tristezza: fui costretta ad abbassare lo sguardo per nascondere gli occhi lucidi.
-Ti porterò a Neverland. – mi promise, d’un tratto, cogliendomi di sorpresa. Diceva sul serio? Era disposto a portarmi nel suo regno eterno? Apparentemente, sì.
Un pensiero mi offuscò la mente all’improvviso: avrei fatto in tempo a vedere con i miei occhi quell’angolo di paradiso che Michael aveva costruito e trasformato nel suo rifugio felice?
Lo fissai, in cerca delle parole giuste per dirgli ciò che sentivo di non poter tacere, per esprimere in qualche modo il turbamento che mi sconvolgeva i pensieri. Per dirgli addio per sempre. Perché, lo sapevo, la leucemia mi avrebbe condotta alla morte: quando i dottori me l’avevano ripetuto più volte, con la spietatezza e la freddezza negli occhi, di fronte ai loro numeri, alle loro statistiche, alle loro spiegazioni, di fronte alla scienza, mi ero rassegnata. Mi ero arresa già molto prima di iniziare a combattere. Di tanto in tanto mi stupivo ancora nell’osservare come il mondo intorno a me mutasse lentamente: ma quando guardavo un tramonto, o ammiravo un ciottolo in riva al mare, o vedevo un gabbiano sorvolare pigro la mia terra, sentivo di aver rinunciato. Perché, invece di trarre da ciò che mi circondava la forza per andare avanti, mi lasciavo semplicemente portare alla deriva da flutti violenti che percuotevano il mio corpo, tentando di smembrarmi, di farmi a pezzi. Avevo incassato in silenzio ogni colpo, senza nemmeno aver provato a reagire.
Ma ora che i secondi ticchettavano imperterriti e tediosi verso la fine, ricordandomi che il tempo rimasto a mia disposizione era scarso, sentivo la sete di vivere esplodermi nello stomaco, invadermi il petto e farsi strada lungo la gola.
Sapevo che non era merito della mia forza morale, né della mia famiglia: quelle non erano affatto cambiate rispetto a prima. Era stato Michael, ne ero certa. Con la sua vitalità, mi aveva strappata alla morte. Era come se mi avesse presa per mano e mi avesse mostrato con pazienza paterna quanto stupefacente ed interessante potesse essere la vita,di cui lui aveva forse conosciuto il lato peggiore, quello più doloroso e che ciononostante lui continuava ad amare.
Con Michael, mi sentivo importante e indispensabile.
Ma, essenzialmente, non era cambiato nulla.
Io forse ero diversa, ero tornata viva, ma la leucemia non era sparita: era ancora lì, non si sarebbe mai dissolta,anzi. Con il tempo sarebbe stato sempre peggio. Ne ero pienamente consapevole, lo ero stata fin dall’inizio, eppure fu come se lo avessi scoperto in quell’istante, perché solo in quel momento capii davvero che cosa avrei perso se me ne fossi andata per sempre.
-Michael, tu credi nel Paradiso? – gli chiesi dunque, senza osare guardarlo mentre gli ponevo la domanda: temevo che si sarebbe adirato con me. Mi invitava sempre ad essere ottimista: perciò si arrabbiava tanto quando toccavo l’argomento della mia morte imminente.
-Sono sicuro che esiste. – rispose con convinzione: nella sua voce non vi era alcuna traccia del rancore che avevo temuto di trovarvi.
-Perché questa certezza? – domandai, ora incuriosita.
Michael mi sollevò delicatamente il mento con un dito, per potermi guardare negli occhi.
-Perché esisti tu. – mormorò, con gli occhi gonfi di lacrime.
A quel punto lo abbracciai saltandogli al collo quasi con violenza e inzuppando di lacrime la sua bella camicia.
-Ma come può essere il Paradiso, se tutto ciò che amo, se tutto ciò a cui tengo lo lascio quaggiù? La mia famiglia, la danza e te … Perché sono costretta a perdere tutto questo? – gridai, con la voce rotta dal pianto. Mike mi accarezzava la schiena e sentivo che anche lui tratteneva a stento i singhiozzi.
Quando mi fui calmata lo pregai:
-Parlami di Neverland. Raccontamela … -
Se non potevo vederla, potevo sempre immaginarla, quasi ne conservassi un vivido ricordo da rievocare ogni qualvolta ne avessi sentita la necessità.
Le labbra di Michael dipinsero un sorriso sghembo mozzafiato sul suo volto.
Cominciò ed io, dimentica dell’ora, di Javier che mi aspettava fuori dall’albergo, dell’aereo che mi avrebbe portata a casa e che rischiavo di perdere, mi apprestai ad ascoltarlo.
-E’ verde e blu. Il cielo terso e perfetto si fonde con prati sconfinati e con boschetti che promettono frescura e sollievo dal caldo in estate. Ad ogni angolo vi sono giardini costellati di fiori che crescono spontanei, oppure circondati da roveti, arbusti o siepi ordinate. C’è uno zoo, con tanti animali. Le scimmie sono così buffe … E anche da lontano puoi scorgere la ruota panoramica e altre giostre, che si ergono quasi con arroganza verso l’alto, stagliandosi sul cielo lambito solo di tanto in tanto da qualche rara nuvola bianca, che quasi mai porta pioggia. La California è così assolata. -
Sospirò, perso nel lontano ricordo di casa sua.
E il cellulare squillò.
Michael lo avvicinò all’orecchio.
-Pronto?- chiese, titubante.
Qualcuno all’altro capo della cornetta parlò frettoloso. Mike annuì serio e riattaccò.
-Era tuo fratello. – mi spiegò, paziente. –Dovete sbrigarvi. L’aereo parte presto. Ha già chiamato un taxi. Ti sta aspettando.-



















Capitolo 8

-Non so come sia possibile … ma è così. Davvero. Tutti gli esami a cui ti sei sottoposta nel corso di questa settimana lo confermano. Il livello dei globuli bianchi nel tuo sangue è tornato normale e il tuo midollo è sano: sei guarita. Non c’è alcun bisogno di ulteriori accertamenti: la leucemia è scomparsa. Credo si tratti di una sorta di miracolo. Sarebbe difficile definirlo altrimenti. – mi ripeté per l’ennesima volta il dottor Torres.
Non lo ascoltai.
Non riuscivo a credergli. Non potevo farlo. Non potevo permettere alla speranza di radicarsi nel mio cuore, perché sapevo che ciò che il medico stava cercando di spiegarmi e che lui mi descriveva con tanta cura non poteva essere altro che un sogno evanescente. Quella non era la realtà. La leucemia non può sparire. Era assurdo. Rimasi a fissarlo apatica, indifferente, certa che si trattasse di uno scherzo di cattivo gusto.
Mia madre mi cinse le spalle con un braccio e mi scosse delicatamente, un poco ansiosa di fronte alla mia mancanza di reazioni.
-Hai sentito,cara? Sei guarita! È un miracolo! – mi sussurrò all’orecchio con voce gioiosa.
Ero molto più che confusa. Mi scrollai di dosso il braccio di mamma, che mi guardò allibita e turbata dalla mia improvvisa e apparentemente immotivata scontrosità. Cercai di riflettere, di trovare un senso a quel turbinio di voci, lacrime e volti che avevo intorno.
-Non è vero. – bofonchiai, infine, quasi per un riflesso automatico. La mia mente rifiutava di accettare quella situazione.
Il dottor Torres mi sorrise bonario e mi si fece vicino, con fare esperto.
-So che può essere difficile da comprendere, ma non avrei alcun motivo di mentirti. Stai bene. – disse, e nel farlo mi rivolse lo sguardo più convincente di cui era capace.
Fu allora che capii. Soffocai con un pugno il grido d’incredulità che si stava facendo strada attraverso la mia gola.
Javier mi corse incontro dall’altra parte della stanza e mi abbracciò stretta, baciandomi i capelli e bisbigliando parole incomprensibili. I miei genitori si tennero a distanza, ma i loro volti rimanevano distesi e sereni: sprizzavano felicità e gratitudine da tutti i pori.
Quando tornai a casa dall’ospedale, la prima cosa che feci fu chiamare Michael. In fondo, ero più che sicura che quella guarigione inspiegabile fosse, almeno in parte, merito suo.
Il telefono squillò un paio di volte, quando all’altro capo della cornetta rispose una voce profonda molto poco famigliare.
-Pronto? – domandò l’uomo, cauto. Aveva un accento strano e insolito.
-Sono Susan. Con chi parlo? – m’informai diffidente.
- Con Dieter Wiesner. –
Riflettei velocemente. Quel nome non mi era affatto nuovo. Mi pareva di averlo sentito pronunciare da Michael in una qualche occasione … Ma al momento non ricordavo.
-Posso aiutarla, signorina? – chiese cortese Dieter, riportandomi con i piedi per terra.
Scossi la testa per riordinare le idee.
-Dov’è Michael? – domandai con impazienza, utilizzando un tono autorevole che non sapevo di possedere.
-Al momento non è qui. Desidera lasciargli un messaggio? –
Dieter era terribilmente professionale. In quell’istante ricordai: Mike me l’aveva nominato un paio di volte.

“E’ molto più che efficiente. Penso che lo assumerò.” aveva detto un giorno, ridacchiando, durante la mia breve vacanza nel Brunei.
Forse non aveva scherzato, forse diceva sul serio. Ad ogni modo, non mi andava di intromettermi nei suoi affari nemmeno in quel momento.
-No, grazie. Dica solo che ho chiamato.- risposi.
-Ehm, sì, sì … -
Sentii Dieter tentennare.
-C’è qualcos’altro? – chiesi incuriosita dal cambiamento del suo tono di voce.
-In realtà è appena tornato. – confessò, dopo un po’, lievemente imbarazzato.
-Bhè, allora me lo passi. – lo esortai, perplessa.
L’uomo mugugnò qualcosa ma non si oppose. Dopo qualche minuto, udii la voce di Michael, più stanca e affaticata di come la ricordavo, ma comunque vellutata e dolcissima.
-Susan. – sospirò, sollevato. Forse attendeva una mia telefonata. Mi rimproverai tra me e me: avrei dovuto chiamarlo prima.
-Ti devo dire una cosa. – annunciai, con tono solenne, sebbene il suo tono avesse un poco smorzato il mio entusiasmo.
Rimase in silenzio, in attesa che proseguissi. Non era da lui, decisamente.
-Sono … sono guarita. – mormorai, ma nella mia voce non vi era traccia di alcuna emozione. Ero troppo preoccupata. Che cos’aveva Michael? Perché all’improvviso lo sentivo distante?
Era passata poco più che una settimana: possibile che i rapporti tra noi fossero mutati così velocemente?
Mike non rispose subito.
Dopo un paio di minuti, sussurrò piano il mio nome. Poi riattaccò.






Capitolo 9

Ripresi a frequentare le lezioni di danza di Mrs. Sullivan, perché erano l’unica cosa che m’impedisse davvero di rimuginare e ritornare con la mente a Michael e a quella telefonata.
Ma, sebbene mi obbligassi a tenere a bada i pensieri e a non rievocare con la memoria quei giorni trascorsi insieme a quello che avevo creduto, forse erroneamente,esser diventato il mio migliore amico, talvolta cedevo e cadevo in preda allo sconforto e al dolore.
L’abitudine e la speranza mi spingevano a controllare ogni giorno la posta e i messaggi in segreteria: m’illudevo che probabilmente avrebbe chiamato presto e che avremmo chiarito tutto.
Ma non fu così. Passarono le settimane, lente ed inesorabili. Non si fece più sentire.
Cercai di non farci caso: non era facile. Avevo bisogno di qualcosa che mi assorbisse completamente, anima e corpo; sentivo la necessità di distrarmi.
Ma ovunque fuggissi – alla scuola, in riva al mare, a casa di un’amica – il ricordo di lui non mi abbandonava. Il suo volto era pronto a far capolino tra i miei pensieri quando meno me l’aspettavo.
Stavo malissimo: le mie notti erano popolate da incubi.
Ero pienamente consapevole del fatto che il mio atteggiamento non fosse né maturo né tantomeno sensato: ciononostante, sentivo di non essere dotata di sufficiente autocontrollo per rimanere completamente indifferente di fronte a tutto ciò né di sufficiente tenacia per mantenere un minimo di decoro davanti alla mia famiglia e per decidere di andare avanti superando questo ostacolo.
Lessi da qualche parte – forse su una rivista di gossip – che Debbie aveva dato alla luce un maschio, Prince, il giorno 13 febbraio: Mike era diventato padre.
Quel giorno rimasi in attesa invano, seduta di fronte al telefono di casa, con lo sguardo sempre più vacuo man mano che passavano i minuti immersi nel silenzio. Avevo sperato inutilmente che almeno in quell’occasione mi avrebbe chiamato, forse per ripristinare quel rapporto di amicizia che si era stabilito fra noi, forse per mettergli fine una volta per tutte.
Javier, notando il mio sconforto, mi suggerì di provare a scrivergli una lettera, ma rifiutai a priori l’idea: ero troppo codarda per affrontare davvero Michael e, anche se non volevo ammetterlo di fronte a mio fratello, mi sentivo ferita nel profondo dal suo comportamento.
Nel 1998 Michael divenne padre per la seconda volta: sua figlia, Paris, era nata quel 3 aprile senza le stesse complicazioni riscontratesi con Prince.
Il 28 maggio compii diciotto anni. Due settimane dopo, con un’ audacia che mai avrei immaginato di avere e che, in realtà, mi si addiceva ben poco, me ne andai di casa, con grande disappunto dei miei genitori. Javier non si oppose né mostrò mai quale fosse la sua opinione al riguardo, ma in seguito ripensai al suo come ad un muto consenso, quasi condividesse la mia scelta e l’approvasse appieno ma non osasse pronunciarsi comunque.
Mrs. Sullivan, fiera di me e al settimo cielo, mi aveva fissato un provino per entrare ad una famosa accademia di danza americana. Ai miei genitori che chiedevano spiegazioni, raccontai che sarei andata lì.
Ma sapevo che non ci avrei mai messo piede.
Volevo solo andarmene, cambiare cielo, cambiare vita.
Desideravo cancellare le tracce che aveva lasciato su di me Michael, il cui vivido ricordo era ancora presente nella mia testa: sapevo che non sarebbe stato facile, ma lo sarebbe stato ancora meno continuare a vivere in quel modo.
Ma prima, prima di eliminarlo completamente dalla mia vita, prima di allontanarmi da lui una volta per tutte, volevo rivederlo.
Era assurdo, lo sapevo, oltre che incredibilmente masochista. Ma era l’unico modo che mi era rimasto per accertarmi che stesse bene.
Era strano come ciò mi toccasse ancora tanto: dopo il trattamento che mi aveva riservato, avrei dovuto essere arrabbiata, o quantomeno una sorta di istinto di sopravvivenza rimasto sepolto per anni chissà dove avrebbe dovuto spingermi lontano da Mike, verso altri orizzonti. Ma non era così che mi sentivo. Dopo tutto quello che mi aveva fatto (consciamente o meno) ciò che mi preoccupava ancora era che lui stesse bene. Sapevo che la chiave di tutto era in quel dettaglio. Ma quella chiave … che porte apriva?
Questa era la domanda che mi perseguitava ovunque andassi: persino quando toccai il suolo americano non potei fare a meno di chiedermi chi era Michael Jackson per me.
Un amico? No, molto di più, era ovvio. Forse il mio migliore amico. Plausibile. Ma non mi sembrava abbastanza per esprimere tutto l’affetto che provavo nei suoi confronti.
Di una cosa ero più che certa, però: le nostre vite ormai erano intrecciate in modo inevitabile. Non vi era alcun modo di dividerci senza arrecare danni a uno o all’altra.
Ma, se un po’ di dolore era la cosa peggiore che avrei dovuto sopportare quel giorno pur di ottenere delle risposte, l’avrei fatto.
Quando giunsi a New York, presi il primo volo diretto per Los Angeles. Non sapevo dove si trovasse Michael in quel momento, ma la California mi sembrava un buon punto di partenza da cui iniziare la mia ricerca.
Arrivata a Los Angeles, mi resi conto di aver quasi esaurito il mio budget. Rimpiansi di non aver portato con me più contanti, ma era troppo tardi per lamentarsi.
Fui costretta, dunque, a spostarmi verso l’interno del continente, sempre rimanendo,però, nel distretto di L.A. , per trovare un albergo più economico.
Lo trovai quando ormai l’orologio che portavo al polso segnava le nove meno un quarto. Era un edificio dalla struttura solida e compatta, alla periferia di una qualche cittadina della California al cui nome non avevo fatto caso. Si ergeva stipato tra due costruzioni decisamente molto più imponenti ed eleganti: il raffronto era quasi comico. Entrai.
Vi era una hall dal soffitto basso, quasi claustrofobica, arredata in modo decisamente insolito: non c’era un mobile che facesse il paio con un altro,ciononostante trasudava calore e famigliarità. Una scrivania d’acero era accostata a un bancone in noce e poco lontano vi era un tavolino basso e rotondo di produzione sicuramente industriale affiancato da sedie anonime e sgangherate, tutte di colore diverso. In un angolino era stata incastrata alla bell’e meglio una vecchia credenza color crema che ora era utilizzata come una libreria. Mi avvicinai ghignando tra me e me a una ragazza, probabilmente di origini messicane, che con aria annoiata attendeva dietro al bancone che finisse il suo turno.
Quando finalmente mi fu assegnata la camera – una stanzetta poco più grande di uno sgabuzzino molto capiente- disfai l’unico bagaglio che avevo ed estrassi il cellulare dalla tasca laterale dello zaino che avevo portato con me.
Dopo un sospiro, digitai sulla tastiera del mio decrepito telefono il numero che conoscevo a memoria, nonostante fossero passati mesi dall’ultima volta che l’avevo usato.
Attesi cinque minuti. Niente.
Misi giù e riprovai, lanciando di tanto in tanto un’imprecazione.
Al quarto tentativo, qualcuno ebbe il buon senso di rispondere.

-Pronto?-
Chiusi gli occhi. La sua voce era ancora più dolce di come la ricordassi.
-Ciao, Michael. – lo salutai, timida. Mi avrebbe chiuso la comunicazione in faccia? Come avrebbe giustificato il suo comportamento? Sarebbe stato in grado di mentire o mi avrebbe confessato la verità? E io … ero capace di perdonarlo o, qualora si rivelasse necessario, di lasciarlo andare?
-S-Su-Susie?!?! – balbettò il mio nome incredulo.
Riuscii a percepire la sorpresa in lui, ma non vi era traccia del rancore o della tensione che avevo temuto di incontrare.
Non era affatto ostile. Forse, da qualche parte, in lui, c’era ancora il mio Michael. Forse quella telefonata di quasi due anni prima non aveva più alcun significato. Magari non ne aveva mai avuto alcuno.
A quel pensiero mi si gonfiò il cuore di gioia, ma cercai di ricompormi il più velocemente possibile.
-Sono a Los Angeles. – mormorai, incerta. Ora che lo dicevo ad alta voce, quasi non potevo crederci. Ero a Los Angeles! Bhè, insomma, nei dintorni, perlomeno.
In realtà ignoravo in quale strano ed insignificante agglomerato urbano mi trovassi.
A Mike si bloccò il respiro: riuscii a sentirlo nonostante fossimo probabilmente a chilometri di distanza e sebbene la linea minacciasse, con gracchi e suoni metallici, di cadere da un momento all’altro.
-Sei qui? In America? – domandò, allibito, cercando di capacitarsene. Ero più vicina a lui di quanto immaginasse.
-Sono qui. – sussurrai dolcemente. Solo lui non riuscì a cogliere il doppio senso della frase.
-Ma perché? È successo qualcosa? – chiese allarmato.
Ma che cosa poteva importargliene? Fosse stato per lui, avrei potuto morire investita da un autobus, o buttandomi da uno scoglio: non lo sarebbe mai venuto a sapere. Mi aveva abbandonata a me stessa.
-No, affatto. Piuttosto, però, sarei io a doverti fare la stessa domanda.-
La mia determinazione lo colse alla sprovvista. Esitava.
-Susie, mi dispiace. – riuscì a mormorare dopo qualche istante.
Non potevo accontentarmi di quelle scuse, sebbene la tentazione di lasciar correre e dimenticare tutto fosse forte.
-Non ti aspetterai che io mi arrenda così dopo due anni di inspiegabile silenzio, vero? Voglio sapere. Ne ho il diritto. -
-E’ vero … - mi concesse lui ancora restio.
Il suo comportamento mi esasperava e rischiava di farmi saltare i nervi. Inspirai profondamente per cercare di mantenere la calma: urlargli contro non avrebbe affatto giovato al nostro già delicato rapporto d’amicizia.
-Bene. Pensavo t’importasse abbastanza di me per gioire del fatto che non sarei morta. Evidentemente non è così. – dissi, in un soffio, cercando di vincere il dolore che mi attanagliava da dentro. Michael non mi lasciò quasi finire la frase.
-No, no, Susie, ma che dici? Io ti voglio bene, davvero … è che … è colpa mia, vedi, non ti posso spiegare. Mi odieresti troppo. Ma non dipende da te! Sei la persona più importante della mia vita, lo sei diventata due anni fa e sempre lo sarai! -
Scossi il capo impercettibilmente, per impedire a quelle parole di radicarsi nel mio cuore. Non potevo credergli.
-Tu non hai idea di come mi sono sentita. – mormorai meccanicamente con una voce che sembrava non appartenermi.
-Lo so, credimi, è ciò che ho provato anche io.- mi assicurò. La sua voce si spezzava in punti strani. E da ognuna di queste fratture uscivano cascate di dolore che bussavano direttamente alla porta del mio cuore, mettendomi terribilmente in difficoltà: ma non potevo cedere.
-Esigo una spiegazione. – ripetei, determinata, ignorando le sue suppliche disperate.
-Non posso. – singhiozzò. Vacillavo: il mio intento iniziale stava scemando, sostituito da un sentimento di pena verso l’uomo che mi aveva sì ferita irreparabilmente, ma mi aveva anche aiutata a guarire. Ne ero certa: Mike mi aveva donato una vita nuova. Che lui fosse destinato a farne parte o meno, questa era un’altra storia.
Pensai che, forse, avrei dovuto essergli grata per avermi regalato una seconda possibilità: perché, ne ero più che certa, Michael, in qualche modo, mi aveva guarita. Forse era un angelo. Forse solo un uomo a conoscenza di qualche strano meccanismo psicologico per il quale la leucemia era scomparsa. Ad ogni modo, avrei dovuto essergli riconoscente. No?
Eppure avevo la strana sensazione che una vita senza di lui non potesse essere così piena da valer lo sforzo e la fatica di viverla tutta.
Perché mi aveva fatto questo? Perché aveva deciso di salvarmi per poi farmi precipitare di nuovo nelle tenebre?
-Michael … ti prego. – mormorai, piangendo, e non mi riferivo affatto alla conversazione di poco prima, o al male che mi aveva procurato, o al fatto che mi ero preposta, già prima di toccare il suolo americano, di cavargli di bocca qualche stralcio d’informazione o di giustificazione, per falsa che sarebbe potuta essere. Intendevo dire: “Michael, ti prego, resta con me.”
Avevo un disperato bisogno di lui. La necessità impellente di stringerlo forte a me e la constatazione che ciò non era al contempo possibile, mi distrussero. Mi lasciai crollare sul pavimento.
-Susie, stai bene? – domandò Michael preoccupato. Forse aveva capito che in realtà mi sentivo molto peggio di quanto dessi a vedere.
Ripresi il controllo di me stessa in pochi secondi, quel tanto che bastava a degnarlo di una risposta sensata.
-Come puoi farmi una domanda del genere? Sai come sto. – gli ricordai, severa. E la mia frase suonava come se sottintendessi che la causa di tutti i miei mali fosse lui.
-Finalmente stai bene.- mormorò. Sapevo che si riferiva alla leucemia e non al mio stato d’animo, ma la sua osservazione mi parve comunque fuori luogo: poco si addiceva a come in realtà mi sentivo dentro.
Cercai di ragionare.
-Forse. Forse, grazie a te o a un miracolo sono guarita. Sono viva. Ma non mi sono mai sentita più morta, più spenta e stanca di così. Perché non sono mai stata più sola di così. C’è il vuoto intorno a me,Michael. Mi hai abbandonata … Magari … magari, se ci vedessimo, uno di questi giorni … - cominciai ad ipotizzare e mi maledissi nella mia mente per quella manifestazione aperta e palese di nostalgia: perché non si trattava d’altro. Mi mancava terribilmente, più di quanto in realtà avrei gradito ammettere.
Ma era così, davvero. All’improvviso scoprii che il suo comportamento non aveva scatenato nessun effetto deterrente in me. Ero ugualmente ed inevitabilmente attratta da lui, come una figlia da un padre, una discepola da un maestro, un pianeta dal suo sole …
-E’ meglio di no,Susie. – rispose, pacato, freddo e distaccato.
Quel suo improvviso cinismo mi stupì, ferendomi e rendendomi di colpo dura.
-Bene. Anzi, perfetto. Hai ragione tu: perché dovrei rovinarmi un’esistenza per rincorrerti, come una povera e patetica stupida? Ho ancora tante cose da fare, tanti posti da vedere, molte persone da incontrare … Non voglio perdermi tutto questo. Non ne vale la pena, giusto? – dissi, acida, con tono volutamente sarcastico.
Michael non rispose. Lo sentivo respirare affannosamente all’altro capo della cornetta,come se quella conversazione l’avesse affaticato. E riattaccai.
07/01/2012 23:56
 
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Michael ha illusso Susie facendole credere di tenere alla sua amicizia invece non è cosi perchè ha sposato Dabbie con cui ha avuto due figli ed infine quando vuole vederlo gli ha risposto in modo freddo. Attenderò il prossimo
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