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LITTLE SUSIE © (in corso). Rating: verde

Ultimo Aggiornamento: 11/02/2012 17:51
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07/01/2012 21:55
 
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La storia prosegue ...
CAPITOLO 4:
Il nome di Michael gridato all’unisono dalle migliaia di fans che partecipavano a quel concerto si levò nell’aria simile ad un canto che spezzava l’immobilità altrimenti uniforme di quella notte.
Lo volevano, lo pretendevano.
Io, seduta in prima fila, tacevo, ascoltando e assaporando ogni istante di quel momento: le luci quasi abbaglianti provenienti dal palco, l’eccitazione della massa disordinata che fremeva intorno a me, il cielo che si chiudeva scuro e minaccioso su quel luogo.
Javier, di fianco a me,sorrideva quasi euforico. Aveva cominciato a metter da parte il suo astio immotivato nei confronti di Mike e stava iniziando a godersi davvero quella breve vacanza: ciò non poteva che allietarmi e rassicurarmi.
Ad un tratto, un boato ancor più forte fece quasi tremare la terra sotto i nostri piedi: il concerto era iniziato.
La figura di Michael si stagliava immobile e superba sul palco illuminato a giorno, mandando in fibrillazione gli spettatori.
Quasi inquietante nella sua tuta dorata, diede le spalle al pubblico con grande teatralità e con gesti lenti e misurati cominciò a togliersi il casco e le altre parti di quella che più che a una divisa assomigliava ad un’armatura.
Dopo pochi secondi, le note di Scream fecero accelerare i battiti del mio cuore e mi ritrovai a cantare a squarciagola insieme a tutto lo stadio.
In quel momento,Mike pareva così distante e irraggiungibile che quasi non riuscivo a credere che fosse lo stesso uomo che avevo abbracciato e consolato la notte prima e con il quale avrei trascorso amichevolmente l’ultimo giorno dell’anno in una qualche camera d’albergo.
Sembrava provare un gusto perverso nell’accostarsi alle persone e ad escluderle poi improvvisamente dalla sua vita, lasciandole perplesse, frustrate ed ingiustamente emarginate.
Non riuscivo mai a comprenderlo appieno, sebbene fossimo diventati molto intimi in così poco tempo e ci raccontassimo pressoché tutto; ciononostante era sempre lui ad avere il controllo della situazione. Se si accorgeva di essersi spinto troppo oltre, di essersi aperto in modo esagerato, allora rimbalzava indietro come un elastico e avvicinarlo nuovamente diventava un’impresa ardua. D’altronde, la gente che lo incontrava rimaneva così affascinata dai suoi comportamenti, che si abbandonava quasi inconsciamente a lui, diventando uno strumento incredibilmente malleabile nelle sue mani in un modo quasi patetico. Mike sapeva di avere questo potere e, forte di questa consapevolezza, quasi si divertiva a farne un gioco.
La sua non era cattiveria, ma piuttosto una sorta di ingenuo e relativamente innocente sadismo.
Cominciò a girarmi la testa per i tanti pensieri che mi affollavano la mente. Strizzai gli occhi, sorpresa più che preoccupata: avevo la sensazione di fluttuare. I rumori provenienti dall’ambiente circostante mi giungevano come lontani e sordi, attutiti da una qualche barriera invisibile che mi avvolgeva come una bolla fastidiosa.
-Che c’è, Susie? Stai male?- mi domandò Javier, costretto ad urlare per farsi sentire.
Feci cenno di no con il capo ma in realtà mi sentivo molto debole: mi tremavano le gambe anche da seduta.
Lui spalancò gli occhi, mi accarezzò i capelli in apprensione, dopodiché tentò con un gesto della mano di attirare l’attenzione di uno dei tanti uomini che indossavano una maglietta scura di cotone con la scritta “Michael Jackson Security” e che cercavano di mantenere l’ordine, soprattutto nelle prime file. Ci riuscì.
L’uomo si avvicinò sospettoso.
-Sta male!- gridò Javier all’addetto alla sicurezza, indicandomi.
Ero accasciata sulla sedia, con un sottile velo di sudore sulla fronte e sul collo.
-Lascia. La porto dietro. – mugugnò l’uomo. Si avvicinò pigro e mi domandò se riuscivo a camminare. Non ne ero sicura, ma ci provai comunque.
Un po’ incerta sulle gambe, mentre quel tale mi aiutava a sollevarmi in piedi e a muovere qualche passo, alzai lo sguardo verso il palco e vidi che Michael mi fissava confuso e preoccupato.
Abbassai gli occhi immediatamente, imbarazzata.
Nello stesso istante, Javier bloccò afferrandolo il braccio dell’addetto alla sicurezza, che lo guardò bieco.
-E’ amica di MJ- spiegò mio fratello.
-Me lo puoi dimostrare? – ribatté l’altro.
Javier gli mostrò un tesserino e uno stralcio di carta sul quale Mike aveva annotato qualcosa, forse un numero di telefono o un indirizzo.
-Questo tesserino ci permette di accedere ai suoi camerini e di muoverci liberamente dietro le quinte. E questa è la sua calligrafia. – gli assicurò.
L’uomo studiò seccato entrambi i documenti, poi sbuffò.
-D’accordo. E che cosa dovrei farci io con queste cartacce? – brontolò, ma si rivolgeva più a se stesso che a noi.
Javier gli si fece vicino e gli bisbigliò qualcosa all’orecchio, velocemente e rivolgendomi uno sguardo di tanto in tanto, quindi l’addetto alla sicurezza mi fissò per pochi secondi, con un lampo di consapevolezza negli occhi.
Poi sospirò.
-Va bene. Si può anche fare. Forse è meglio così. – convenne alla fine.


CAPITOLO 5
-Cos’è successo? –
Michael si precipitò al mio fianco, in ansia.
L’addetto alla sicurezza mi aveva quasi trascinata via con sé. Del percorso che avevamo seguito ricordavo molto poco: un passaggio buio, una scala male illuminata e poi quella sorta di stanzetta umida, disordinata e affollata dove mi trovavo in quel momento, seduta con la schiena appoggiata ad una parete di metallo.
-Susie, mi senti? Chiamate un paramedico, per favore! – ordinò burbero a qualcuno che stava al suo fianco. Riuscii a percepire l’urgenza nella sua voce vellutata.
-Susan, guardami. – m’intimò. Obbedii di malavoglia: desideravo solo dormire.
Vidi il suo viso squisito a pochi centimetri dal mio e d’un tratto mi costrinsi a tenere gli occhi aperti: nulla, nemmeno il sonno, mi avrebbe impedito di ammirarlo in tutta la sua dannata perfezione.
Sospirò di sollievo, o almeno così mi parve.
-Ti senti debole? – domandò un’altra voce, che non riuscii ad identificare. Probabilmente proveniva da qualcuno al mio fianco ma non mi voltai a verificare: in quell’istante esisteva solo il viso di Michael, la sua pelle diafana leggermente velata di sudore e i suoi occhi grandi, neri e dolci che mi scrutavano preoccupati.
-Sì. – biascicai, dopo qualche minuto.
Michael si rivolse alla voce:
-Susan ha la leucemia. L’ultimo ciclo di chemioterapia è stato … -
Mi guardò con aria interrogativa e la fronte corrugata.
-Cinque o sei giorni fa, mi pare. – risposi, con la voce impastata.
-Certo, capisco. – disse lo sconosciuto. –Ora ti misuriamo la pressione. Cerca di stare sveglia, d’accordo? –
Annuii. Qualcuno ebbe il buon senso di portarmi da bere qualcosa di caldo e zuccherato, un tè forse: non ci prestai troppa attenzione. Lo sorseggiai cauta, temendo una reazione negativa dello stomaco che però non si verificò,anzi: la bevanda miracolosa mi donò un immediato sollievo.
-Va meglio? – domandò la voce, accorgendosi probabilmente che il peggio era passato.
Risposi di sì. Lentamente, la testa prese a girarmi meno e la debolezza abbandonò il mio corpo. Cercai di alzarmi in piedi: ora che mi rendevo conto di avere decine di occhi puntati addosso, mi sentivo terribilmente in imbarazzo.
-Ti serve aiuto,cara? – mi chiese una donna bionda e possente, dal sorriso gentile e lo sguardo materno.
-Sì,grazie.- sussurrai.
La donna mi cinse le spalle con un braccio, sostenendomi mentre mi sollevavo con cautela.
Fino a quando non ebbi riacquistato completamente il senso dell’equilibrio la gentile sconosciuta sorresse quasi tutto il mio peso, senza mostrare sul suo adorabile volto segni di fastidio o impazienza.
-Ora sto bene, grazie. – la rassicurai dopo qualche minuto.
La donna mi guardò con aria interrogativa.
-Sei sicura? – domandò, con una lieve sfumatura d’indecisione nella voce. Annuii. Un poco mi commosse quella sua preoccupazione sincera, che sembrava nascere da un affetto improvviso, inspiegabile e disinteressato.
Lei mi assecondò ma mi tenne gli occhi puntati addosso per qualche istante ancora, come se fosse pronta a riafferrarmi qualora avessi avuto un altro mancamento.
Mossi qualche passo: in effetti, mi sentivo abbastanza bene. Anche la donna lo capì e sorrise rincuorata.
-Sono felice che ti sia ripresa. Gli hai fatto prendere un bello spavento. – spiegò con un sorrisetto, inclinando leggermente la testa, come ad indicare qualcosa alla sua sinistra.
Inarcai un sopracciglio, confusa dalle parole di lei.
La donna parve ricordarsi di qualcosa: i suoi occhi s’illuminarono e, ridendo di sé, mi porse la mano, che strinsi con delicatezza cercando, invano purtroppo, di sembrare disinvolta e naturale quanto lei.
-Sono Karen Faye. – si presentò. – Lavoro con Mike dai tempi di Thriller. Ti posso assicurare che non l’ho mai visto così turbato in vita mia. Deve tenere molto a te. Si vede dal modo in cui ti guarda … - aggiunse, questa volta pensierosa.
Arrossii e abbassai lo sguardo.
Karen ridacchiò e annuì tra sé, tornando subito seria. Era difficile seguire il filo dei suoi pensieri.
-Michael è una persona molto speciale e … rara,se devo dire il vero. La sua natura l’ha sempre spinto ad abbandonarsi completamente alle emozioni e alle sensazioni, a fidarsi della gente, confidando nella sincerità e nell’ingenuità di quelli che lo circondavano. Purtroppo, troppi hanno approfittato di lui, spingendolo a poco a poco a chiudersi in se stesso: forse già lo sai… Ma con te è diverso. È come se si riaccendesse una scintilla… Un bagliore. – mormorò, senza guardarmi veramente, ma scrutando attraverso i miei occhi nella mia anima,forse per comprendere se fossi anche io una approfittatrice, una sorta di traditrice crudele, insomma. O forse stavo semplicemente lasciando correre la mia immaginazione a briglia sciolta. Mi ricomposi, per non far notare quanto patetici fossero i miei ragionamenti in quel momento.
-Non so … A volte, mi sembra che, per quanto amici possiamo diventare, non saremo mai veramente vicini. Mi tiene a distanza. Perlomeno, questo è ciò che percepisco talvolta quando sono in sua compagnia. – risposi, un po’ in ritardo.
Karen scosse la testa,ribadendomi:
-Ti vuole bene, Susie, non dubitarne. Dagli tempo. Sei importante per lui.-


CAPITOLO 6

-Sì, certo. Abbi cura di te. Chiamami se hai novità. Ciao. -
Michael riattaccò sospirando e spiandomi con la coda dell’occhio dall’angolino in cui si era rintanato per fare una breve telefonata a Debbie, sua moglie, l’ultimo giorno dell’anno che, come avevo previsto, avremmo passato in quella elegantissima camera d’albergo.
Non avevo esperienze in proposito,ovviamente, ma quella non mi era affatto sembrata una conversazione tra innamorati: non che Michael fosse stato freddo e distaccato con Deborah, ma comunque sembrava rivolgersi a lei più come ad un’amica che come ad una moglie e ciò non poteva che incuriosirmi e lasciarmi un poco meravigliata.
Mike probabilmente aveva previsto la mia reazione, o perlomeno si aspettava domande al riguardo. In tutta risposta, feci finta di niente: non volevo forzarlo.
Sentivo che non era disposto a parlarne. Già prima avevo vagamente intuito quanto poco Debbie facesse parte della vita di Michael e quella telefonata non faceva altro che confermare le mie supposizioni: il loro non era un matrimonio d’amore. Ovviamente, potevo anche sbagliarmi: apparentemente, però, non vi erano prove che confutassero la mia tesi.
Mike mi mostrò la lingua, indispettito:
-Bhè, perché quella faccia? –
Decisi di stare al gioco.
-Questa faccia, - sottolineai, indicando me stessa –è l’unica faccia che possiedo. Mi dispiace, ma ti dovrai accontentare. –
Mi strinsi nelle spalle con finta aria sconsolata. Era facile scherzare con lui: mi veniva sempre spontaneo e naturale.
Michael scoppiò a ridere di fronte alla mia espressione e venne a sedersi accanto a me, di fronte al camino in cui crepitava un timido fuocherello che gettava piccoli, scoppiettanti bagliori tutt’ intorno. Rimasi a contemplarlo a lungo, indecisa su come addentrarmi nell’argomento.
La risata angelica di Mike s’interruppe improvvisamente quando si accorse di quanto fossi taciturna e impensierita.
-A che cosa pensi? – mi chiese e mi passò delicatamente una mano tra i capelli neri, che avevo tagliato fin sotto al mento: la parrucchiera mi aveva assicurato che così sarebbero divenuti più forti e che probabilmente non li avrei persi tutti con la chemio. Non ci speravo troppo, comunque.
-Che forse in questo momento dovresti essere con Debbie. Lei è la tua famiglia. – gli feci notare, dopo qualche minuto, rispondendo alla sua domanda in ritardo. Ero stata incerta se mentire o essere sincera. Alla fine, come sempre, avevo optato per la verità.
Michael scosse la testa lentamente ma non rispose. Forse non trovava le parole. Forse non aveva intenzione di farlo.
La possibilità, anche solo remota, che si fosse stancato della mia compagnia e che le mie domande e i miei rimproveri suonassero alle sue orecchie terribilmente noiosi ed inadeguati mi fece impallidire: forse era proprio così.
Ma poi Mike si decise a parlare, sebbene lo facesse con fatica, come fortemente provato dal peso che la verità esercitava su di lui.
-Voglio bene a Debbie. È una donna fantastica ed è molto innamorata di me. La considero una cara amica, una persona splendida, affettuosa e disponibile … - mormorò, ma poi la sua voce si affievolì. Abbassò lo sguardo, come se d’un tratto fosse improvvisamente assorto e concentrato mentre studiava piccoli granelli di polvere rimasti intrappolati tra le fibre del tappeto su cui sedevamo.
-Ma non la ami. – conclusi. La mia non era una domanda,ma una semplice constatazione.
-Non giudicarmi, ti prego. – mi supplicò guardandomi negli occhi. Non riuscii a sostenere quello sguardo. Avevo visto quanto soffrisse, quando la solitudine fosse in grado di opprimerlo con il suo peso insostenibile. L’avevo visto piangere e l’avevo stretto e cullato tra le mie braccia a lungo.
Pensando un poco al suo immenso dolore, quell’atto, quel matrimonio basato esclusivamente sull’utile, sulla procreazione, mi parve subito molto meno ignobile ed egoista. Voleva dei figli. Deborah amava Michael, provava nei suoi confronti un affetto molto vicino all’adorazione. Sarebbe stata pronta ad offrirgli tempo, pazienza e una famiglia. E sebbene lui non l’amasse, le voleva molto bene, abbastanza per informarsi sulla sua salute e per mettere a sua disposizione tutto ciò che poteva servirle. Era davvero così terribile? Debbie poteva davvero essere considerata una semplice madre-surrogato, come la definivano i tabloid?
-Ti capisco. – sospirai infine.
Mike accennò un sorriso amaro, che non infiammò le sue guance né accese i suoi occhi.
Quelli restarono fissi su di me, penetrandomi.
-Davvero? Saresti veramente pronta a giustificare un comportamento come il mio? Un matrimonio che è stato concepito esclusivamente con lo scopo di mettere al mondo degli eredi? Un rapporto fondato non sull’amore, ma su un compromesso? –
Il suo tono di voce si fece man mano più aspro. Riuscivo a percepire tutta la condanna e la critica del mondo in quelle parole dense di odio. Michael stesso era incredulo di fronte a ciò che stava facendo: si detestava per come stava sfruttando Debbie.
Ma, allo stesso tempo, non aveva scelta.
-Non ho detto che ti giustifico … Ma che capisco perché lo fai. Alcuni potrebbero considerarlo un atto egoista e forse un poco lo è, ma è la prima volta da quando sei entrato nel mondo della musica che fai qualcosa per te, se non sbaglio. Ti sei già sacrificato troppo. Perché dovresti rinunciare anche alla gioia di avere dei bambini? –
Mike non rispose. Era profondamente combattuto: lo si capiva dalle sopracciglia aggrottate, dalla fronte corrugata e da come torturava un piccolo lembo del tappeto con le dita agili e sottili.
-Non è giusto. – sbottò infine, dopo una decina di minuti trascorsi immersi nel silenzio.
-Che cosa? – mormorai confusa. Si riferiva a Debbie? Dal tono di voce non si sarebbe detto. Che alludesse ad altro?
-Una ragazza di sedici anni dovrebbe andare incontro alla vita, non alla morte! – esclamò frustrato e chinò di colpo il capo tra le mani.
Sussultai, spaventata dall’improvviso cambio di direzione che aveva preso il filo dei suoi pensieri. Le sue parole mi avevano intimamente commossa.
Mi feci ancora più vicina a lui, sfiorandogli una spalla, come a rassicurarlo.
-Non dovresti preoccuparti di questo, ora. – sussurrai con tono gentile.
Mike scosse la testa, come un bambino capriccioso.
-Non voglio perderti .. – disse, sincero, con la voce rotta dal pianto. E poi aggiunse:- E’ come se il Cielo ti avesse mandata quaggiù ad illuminare la mia vita. Mi comprendi molto più di me stesso. –
Con il viso rigato di lacrime lo guardai e vidi un amico. Un amico che mi voleva bene, che non voleva perdermi e che aveva un disperato bisogno di qualcuno disposto ad ascoltarlo e a consolarlo.
Ed io volevo essere quel qualcuno.

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