LITTLE SUSIE © (in corso). Rating: verde

Ultimo Aggiornamento: 11/02/2012 17:51
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08/01/2012 00:02
 
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La storia prosegue ...
Capitolo 10

Trovai un modesto lavoro presso un locale della zona come cameriera e addetta alle pulizie. I miei genitori, a lungo andare, smisero di telefonarmi: lasciavo squillare il cellulare a vuoto da troppo tempo. Avevo solo bisogno di restare un po’ sola con me stessa,mi ripetevo. Dovevo distrarmi. Poi sarei tornata a casa, da Javier e dalla mia famiglia, nella mia terra che tanto amavo. Ma non andò così.
Dopo circa otto mesi, il 17 gennaio del 1999, mi sposai, ubriaca e strafatta, con il proprietario del pub in cui ero stata assunta: si chiamava Liam. Erano due settimane che mangiavo solo avanzi, che bevevo superalcolici e mi facevo di eroina e cocaina per rifugiarmi per qualche ora in luoghi del tutto irreali che mi aiutassero a non pensare a ciò che in verità mi stava accadendo.
Sarei stata disposta a tutto pur di scacciare la terribile sensazione di quel vuoto incolmabile nello stomaco causato dalla fame, la stessa che quasi m’impediva di reggermi in piedi ultimamente.
Mio marito era dieci anni più vecchio di me e lo conoscevo da appena due mesi quando obbligammo, un po’ per gioco, un po’ per dare una svolta imprevista alle nostre vite, un po’ perché spinta dai morsi della fame a cercare una soluzione alternativa a quella che stavo vivendo,un sacerdote incontrato per caso pochi istanti prima a sposarci in una manciata di minuti in cambio di una cospicua somma di denaro.
Il nostro viaggio di nozze consistette in una sola,interminabile notte trascorsa nella sua lussuosa villa di Los Angeles, in cui Liam viveva immerso nel lusso e nell’agiatezza.
Ma già la mattina seguente, quando recuperai la lucidità sufficiente a rendermi conto di ciò che era successo, abbandonai il suo fianco per fuggire lontano.
Ero sposata, affamata, esausta e tormentata.
Camminai a lungo nella polvere, cercando vie nascoste agli occhi della gente: non volevo farmi vedere. Mi vergognavo di me stessa, di ciò che ero diventata. Avrei voluto nascondermi persino a me stessa.
Soffiava un vento insistente quel giorno, che mi scompigliava i capelli e mi frustava il viso e che mi diede una sorta di energia elettrica che alimentò la mia confusione e la velocità della mia andatura.
Verso sera, dopo un’intera giornata trascorsa a scappare, inseguita forse solo dalla mia ombra, il numero del mio nuovo marito comparve sul display del mio cellulare.
-Pronto? – domandai, incerta su come giustificare la mia assenza, con la mano che mi tremava mentre portavo il telefono all’orecchio.
-Dove sei?!?! – ruggì Liam.
Trattenni il fiato, spaventata ed incredula di fronte all’uomo violento che avevo conosciuto quella notte. In realtà, quel lato era sempre riuscito a mascherarlo molto bene, nascondendolo dietro ad una facciata impeccabile ed impenetrabile. Ricordo che quando lo conobbi la prima volta mi fece un’ottima impressione: l’avevo giudicato estremamente gentile, anche se un poco misterioso. Mi aveva offerto da bere e mi aveva tenuto compagnia tutta la notte quella volta. Gliene ero stata infinitamente grata: di tanto in tanto mi sentivo un fantasma che errava senza meta, e avevo bisogno di parlare con qualcuno che mi ascoltasse per sentirmi nuovamente viva e reale.
Ma i ricordi di Liam che abusava di me, sua moglie, la prima notte di nozze, ritornarono a galla, terribilmente vicini e nitidi.
Fui scossa da un tremito.
-Lontano da te. – sussurrai, sempre terrorizzata.
Fui attraversata da qualcosa che assomigliava molto ad un conato di vomito: non seppi se attribuire quella nausea all’alcol o a Liam.
-L’ho notato. Ma il tuo posto è qui, ora. – disse, con la voce impastata. Intuii che non era affatto sobrio. Aggiunse:- Ieri sera mi hai sposato perché eri così disperata che per sfamarti, in alternativa, avresti solo potuto cominciare a concederti al primo che passava, giusto per metter da parte un po’ di soldi.-
Rise, perfido e spietato, divertito dall’idea che potessi essere venduta come della merce di poco valore al migliore offerente. Lo lasciai parlare, troppo preoccupata per interromperlo. Proseguì, perentorio: -Io me ne sono stato zitto e ti ho accolto in casa mia come una delle mie protette: ora adempi ai tuoi doveri di moglie e torna da me. Subito. –
Cercai di trovare la forza per rifiutarmi.
Sentii una voce in sottofondo: intuii che apparteneva ad una donna e mi aggrappai a quel dettaglio quasi fosse un appiglio in grado di tirarmi fuori dal corso di un fiume impetuoso che mi trascinava via con sé senza concedermi il tempo di rendermi conto di dove stessi andando.
-C’è qualcuno in casa? – chiesi, fingendomi sorpresa. In realtà ero semplicemente molto spaventata.
-Due o tre amiche che molto gentilmente e premurosamente rimediano alla tua negligenza. – sputò, ironico, tra i denti.
Riattaccai di scatto. Tremavo.
Desideravo solo cancellare tutti quegli errori che avevo commesso ultimamente, lasciarli scivolare in fondo alla memoria, quasi non fossero altro che sogni evanescenti. Volevo dimenticare e tornare sui miei passi prima che fosse troppo tardi.
Così feci una cosa che avrei dovuto fare molto prima.






Capitolo 11

-Michael? – domandai, incerta, con un filo d’isteria nella voce.
Non mi ero ancora del tutto ripresa dalla discussione con Liam e avevo paura che presto mio marito sarebbe venuto a prendermi con la forza se non avessi fatto ritorno a casa.
-Susan? Susan, stai bene? – chiese Mike all’altro capo della cornetta, in apprensione. Aveva capito che qualcosa non andava.
-No. – singhiozzai, sincera. Non seppi aggiungere altro. Cosa potevo raccontargli? Che mi ero sposata il giorno prima e che il mio sposo aveva osato violentarmi, trattandomi al pari di una miserabile bestia? Come avrebbe potuto consolarmi, anche se gliel’avessi detto?
Michael si inquietò e sentii che si stava spostando. Probabilmente l’avevo svegliato con quella mia telefonata notturna e si stava alzando dal letto.
-Dove sei? – s’informò, cercando d’infondermi un po’ di sicurezza. Ci riuscì.
-In una sorta di ristorante alla periferia di Los Angeles. – risposi, in un lampo di lucidità.
Gli dettai l’indirizzo meccanicamente.
-Susie, vengo a prenderti. – mi promise, dolcemente. La sua voce era una cucchiaiata di miele.
“Oh, sì, Michael. Vieni a prendermi per mano e a trascinarmi fuori da questa situazione. Ti prego.” pensai. Avevo bisogno del mio angelo custode in quel momento più che mai.
-Fai in fretta.- lo pregai. Carpì l’urgenza nella mia voce e non aggiunse altro. Chiusi la comunicazione.
“Ho fatto la cosa giusta” mi ripetevo, in continuazione, per convincermene. Ma i dubbi persistevano. Michael si era rifiutato di starmi accanto, mi aveva respinta come amica non molto tempo prima.
Mi aveva fatto soffrire. Davvero era stato un bene chiedere aiuto a lui?
Esitavo. Cosa gli avrei detto una volta che mi avrebbe raggiunta?
Tra noi non era rimasto più nulla: ogni legame si era dissolto.
Ogni probabilità di ripristinarlo era svanita otto mesi prima. Avevo deciso di arrendermi, di lasciarlo andare. Anzi, io stessa l’avevo allontanato da me. Avevo creduto che dopo qualche tempo sarei riuscita a dimenticarlo. Ma non era successo, quasi non fosse possibile rimuoverlo veramente dalla mia mente. Ci appartenevamo, eppure ci eravamo fatti del male a vicenda fino a ritrovarci ad un punto di non ritorno.
Lanciai un’occhiata nervosa all’orologio a muro appeso alla parete di fronte: mancavano due minuti a mezzanotte.
Sospirai.
In quel mentre, la porta a vetri del ristorante si spalancò, lasciando entrare nel locale un soffio d’aria fresca.
Un uomo che non riconobbi mi si avvicinò. Era alto, indossava un cappotto scuro con il bavero tirato su ad oscurargli il viso, sebbene non facesse affatto freddo, e un paio di occhiali scuri, oltre che ad un cappello.
Lo fissai sospettosa, indecisa se scappare o fingermi indifferente finché non fosse passato oltre.
-Susan. – sussurrò allora lo sconosciuto, con un sospiro di sollievo, quando fu a soli due metri da me; si guardava intorno furtivamente per appurare che nessuno potesse averlo sentito e dunque riconosciuto.
-Michael? – domandai, incredula. Travestito in quel modo, solo la voce inconfondibile l’avrebbe tradito.
Annuì.
-Vieni. Sali in macchina. – ordinò, ma non sembrava una costrizione: più che altro, una promessa di conforto e calore, un gentile invito, l’offerta di un vecchio amico, che potevo decidere di declinare se l’avessi ritenuta inopportuna. Ma non vi era nulla di più opportuno del farmi rapire da quell’uomo per qualche ora in quel momento.
Così mi alzai senza dir nulla,avviandomi a capo chino verso l’uscita. Michael mi seguì. Vidi che si teneva a distanza, forse perché temeva di turbarmi, forse per osservarmi meglio senza farsi notare.
Percepivo il suo sguardo critico ed insistente su di me.
Quando fummo in macchina – chissà perché mi stupii di trovare una Volvo nera tirata a lucido ad aspettarmi al posto di una senz’altro più appariscente limousine – finalmente si tolse occhiali, cappello e baffi finti.
Prima di mettere in moto si volse verso di me accennando una smorfia e indicandomi.
-Sei molto dimagrita. – osservò con disappunto.
I suoi occhi erano freddi e severi.
-Anche tu. – ribattei, balbettando e trattenendo a sento l’impulso di mostrargli la lingua per dispetto.
Mi girai verso il finestrino leggermente offesa.
Michael sospirò e accese l’auto che prese vita con delle fusa appena percepibili.
Mi rannicchiai contro il sedile incredibilmente confortevole e non proferii parola mentre i palazzi, i parchi e le vie di Los Angeles mi sfrecciavano davanti agli occhi.
-Non sapevo sapessi guidare. – osservai, ad un certo punto, con aria annoiata, sperando di avviare una sorta di conversazione.
-Ho la patente. – mormorò Mike,distratto, ed intuii che stava pensando ad altro, così lasciai cadere il discorso.
Trascorremmo ancora qualche minuto in silenzio.
-Susie. – mi chiamò. Poi tacque.
-Susie. – ripeté ancora, addolorato. Mi voltai verso di lui incuriosita. Guardava la strada, dritto davanti a sé, con la mascella contratta e gli occhi socchiusi ridotti a due fessure.
-Dimmi. – lo incitai, vedendo che non proseguiva.
Accostò improvvisamente con una manovra sicura su un lato della strada. Per la prima volta in vita mia, lo vidi furioso.
Prese il mio viso scarno tra le sue mani grandi e pallide e mi guardò fisso negli occhi:
-Perché? Perché hai rinunciato a vivere?-
-Io non ho … - cominciai, ma non mi permise di terminare la frase.
Con due dita tracciò leggero il profilo del mio volto, dalla tempia fino al mento, poi accarezzò con lentezza misurata le ombre pesanti che mi cerchiavano gli occhi ormai da tempo .
Avevo il fiato grosso.
-Ti sei lasciata portare alla deriva, Susie … - mi fece notare,scuotendo impercettibilmente il capo.
Le sue labbra perfette erano a pochi centimetri dalle mie, così deliziose ed irresistibili da sentirne quasi il sapore sulla punta della lingua.
-Michael … - mormorai. Poi lo baciai.
















Capitolo 12

Nel momento in cui si verificò il contatto, in cui le mie labbra carnose incontrarono quelle fredde e sorprese di Michael, sentii il suo corpo irrigidirsi e trasformarsi in statua, reazione insolita e inaspettata.
Cercò di scostarsi con delicatezza per non ferirmi.
-No,Susan … è sbagliato. – mi fece notare, in un soffio. Ma la sua voce era debole quanto la sua volontà, o almeno così la percepivo.
Ridacchiai, nervosa eppure finalmente felice, completa. Il mio cuore aveva ripreso a battere. Me lo sentivo rimbombare nel petto, in preda all’euforia.
-Baciami.- lo pregai, in un soffio. Per un breve istante le sue labbra si mossero in sincrono con le mie, adattandosi alla mia bocca che cercava ingorda la sua e rispondendo ad ogni mia richiesta inespressa.
Ma poi, improvvisamente, Mike mi afferrò all’altezza delle spalle, allontanandomi da sé e tenendomi a distanza di sicurezza dal suo viso squisito. La sua incertezza era disarmante.
Chiuse gli occhi, come per concentrarsi meglio.
-No. – disse poi, fermo, perentorio ed irremovibile.
Mi sentii come se il mondo avesse preso a girare al contrario.
-Non … non mi vuoi? – chiesi, in un sussurro quasi incomprensibile, e cominciai a piangere in silenzio. Le lacrime che sgorgavano dai miei occhi mi rigavano le guance e morivano tra le mie labbra. Cercai di spazzare via quella strana sensazione che mi stava nascendo dentro.
Inspiegabilmente, mi ero comportata da ingenua e in modo avventato. Ora, a quanto pareva, dovevo pagarne le terribili conseguenze.
Quante volte può essere lacerato un cuore prima di smettere di battere?
Michael si mordicchiò il labbro inferiore con gli occhi lucidi, come se non intendesse rispondermi.
-Io ti amo. – mormorai, sincera, e sapevo che era la verità.
Ma quanto poteva contare in quel momento? Avevo lasciato che quel sentimento sgorgasse fuori come un torrente impetuoso e ora il dolore straziante che ne derivava mi lasciava senza fiato.
Perché doveva fare così male?
-Perché piangi? – domandò, tormentato e sorpreso.
I suoi occhi danzavano inquieti dal mio volto alle mie mani con le quali stavo martoriando quasi inconsciamente un lembo della maglia di cotone grigia e insignificante che indossavo.
In quel mentre pensai che quella maglia potesse in realtà essere un riflesso di ciò che ero veramente: una ragazzina anonima e banale. Che cosa avrebbe potuto rendermi interessante agli occhi di un uomo talentuoso, sottile e sensibile come Mike? Emisi una sorta di rantolo di frustrazione quando mi resi conto della sua palese superiorità.
Michael mi strinse forte a sé, cullandomi dolcemente. Respirai a lungo sul suo collo marmoreo, riflettendo e tornando con la mente a ricordi lontani e più piacevoli, immersi nella pace e nella serenità che avevano caratterizzato il mio rapporto con Michael fino a due anni prima, quando tutto risultava più spontaneo e naturale.
-A che cosa pensi? – mi chiese Mike, dopo qualche minuto.
Vi era una strana sfumatura d’angoscia nel suo tono di voce, quasi fosse sofferente. Quasi il mio dolore non fosse che un’eco lontana del suo, più profondo e antico.
-A scomparire. – risposi, sincera. Non ero sufficientemente forte per mentire o nascondere anche solo in parte la verità.
Michael si scostò appena, per scrutarmi e studiare attentamente il mio volto con i suoi occhi che bruciavano d’intensità.
-Non voglio che tu te ne vada. –
Queste sue parole rimasero sospese nell’aria, intrise di un significato magico che al momento mi sfuggiva.
-Non posso restarti accanto in questo modo. – mormorai, cercando di dar ascolto al mio buon senso almeno quella volta.
Ciò che ancora era rimasto intatto tra noi dopo quelle telefonate, l’avevo mandato in frantumi nel giro di pochi secondi. Non potevo vivergli vicino con questa consapevolezza. Né potevo costringermi in continuazione a seppellire i miei sentimenti sotto strati di raziocinio: non ne ero mai stata in grado e sarei finita con il fare del male sia a me stessa, sia a lui.
-Ma io ho bisogno di te.-
Michael m’implorava e io, da parte mia, non capivo il significato di quella triste supplica. Sorrisi mesta, posandogli una mano tremante sulla guancia, dopodiché aprii la portiera. Ero già in procinto di scendere quando qualcosa mi trattenne per un braccio. Michael mi tirò di nuovo dentro all’abitacolo con foga, mi strinse a sé e si arrese con un gemito a quell’amore che, per troppo tempo, avevamo deciso di celare ma che quella notte intasava l’ambiente e si trasmetteva da una cosa all’altra, da un corpo all’altro come energia pura, frizzante ed inarrestabile.












Capitolo 13

Quando mi svegliai, il mattino seguente, tra le lenzuola fresche ed immacolate del letto di Michael, ci misi qualche minuto per rimettere in moto il cervello e cercare di ricordare che cosa fosse successo la notte prima.
Mike era ovunque: l’aria era quasi satura del suo profumo inebriante che sapeva di sole, fiori e vaniglia,e la sensazione delle sue labbra sulla mia pelle non mi aveva ancora abbandonata del tutto. Mi misi a sedere e mi guardai intorno, incantata dal pulviscolo che danzava trascinato da una leggera brezza e illuminato da un fascio di luce proveniente da un’ampia e luminosa finestra spalancata.
Avvolta in un lenzuolo lungo e svolazzante mi avvicinai ad essa, sporgendomi appena, come per assaporare meglio le fragranze e gli aromi portati dal vento che, dopo aver accarezzato i prati e i fiori di Neverland, giungeva sino a me, in quella stanza dai contorni sfocati ed evanescenti come quelli di un sogno.
Sospirai, appagata e in pace.
In quell’istante eterno mi parve di sentire di nuovo le braccia di Michael che mi cingevano la vita mentre oltrepassavamo la soglia di quella casa, più simile ad una reggia in realtà, che ad una vera e propria abitazione; le sue mani delicate e leggere sul mio corpo, le mie dita intrecciate ai suoi capelli lunghi e neri.
E poi le sue labbra, la loro infinita dolcezza mentre sfioravano le mie, folli, piene di disperato amore; mentre si accostavano al mio orecchio e sussurravano tremanti il mio nome; quando, sulla mia pelle, esprimevano mute il loro incontenibile e travolgente bisogno di me, un insaziabile desiderio che poteva essere colmato soltanto da quei momenti in cui ci fondevamo insieme sino a formare una lega indistruttibile, che sarebbe resistita,pensavo, anche al logorio del tempo.
In quel mentre, la porta della camera si socchiuse appena.
Rimasi immobile, senza voltarmi, in balia di sensazioni ancora troppo vicine e intense per lasciare il mio corpo così velocemente.
-Susie. – mormorò quella voce terribilmente familiare, che ogni volta mi faceva sentire a casa, al sicuro, lontana da tutto e da tutti.
Michael mi abbracciò da dietro posando le labbra sulla punta della mia spalla nuda.
Un brivido mi corse lungo la schiena.
Feci un respiro profondo e mi voltai verso il mio angelo dalla pelle diafana e il volto serafico e splendente. Irradiava una strana luce celestiale tutt’intorno a sé, specie in quel momento, in cui il suo sorriso da solo sembrava capace d’illuminare l’intera stanza.
Gli passai una mano tra i ricci lunghi e disordinati.
-Ti amo. – dissi, in un soffio, rivolta più a me stessa che a lui.
Dare finalmente un nome e un volto al sentimento che provavo nei suoi confronti e che inevitabilmente ci legava quasi mi rasserenò.
-Ti amo. – mi fece eco, dopodiché mi baciò, tenero.
Ricambiai con trasporto e per qualche momento restammo così, avvolti da quel vortice di sospiri,sussurri e cuori che battevano all’unisono. Ma poi Mike si scostò, come se si fosse ricordato di qualcosa.
-Ti amo, però … - accennò, e il sorriso sul suo volto si spense.
Divenne improvvisamente e inspiegabilmente serio.
-Però? – domandai io,tentennando ma cercando di non far trapelare il panico che cominciava a stringermi il cuore e a tormentarmi lo stomaco, con mille schegge di ghiaccio che si agitavano simultaneamente dandomi la nausea. Non ero sicura di voler sentire il seguito della frase.
Michael, in silenzio, mi posò le mani sulle spalle. Dopo qualche secondo, le fece scivolare lentamente lungo le mie braccia, che ora tenevo incrociate sul petto, per sorreggere il lenzuolo bianco che mi copriva. Mi afferrò i polsi con delicatezza.
-Lascia … - sussurrò.
Il cuore mi batteva all’impazzata e avevo il fiato corto.
Obbedii. Sentii il lenzuolo scivolarmi lungo i fianchi e cadere ai miei piedi. Tremavo.
-Ora … - cominciò Mike, in un soffio, e posò le labbra nell’incavo del mio collo.
-Sì? – lo incitai a proseguire, mentre la sua bocca assaporava ogni centimetro della mia pelle.
-Spiegami … che cos’è questo.-
Michael si allontanò un poco, per concedermi di respirare.
Dopo qualche secondo, la testa prese a girarmi un po’ meno, così trovai la forza di chiedere delucidazioni.
-Questo? – mormorai, incuriosita, e intenta a capire a che cosa si riferisse.
-Questo. – indicò Michael con un cenno della testa, puntandomi gli occhi addosso. Seguii il suo sguardo.
Capii che alludeva ad una piccola macchia violacea e dolorosa all’altezza di una mia costola.
Sapevo bene a cos’era dovuta. I ricordi della violenza di Liam erano ancora vividi, solo attenuati dalla dolcezza della notte appena trascorsa con Michael.
-Non è nulla. – cercai di rassicurarlo, ma lui non se la bevve.
-E questo? – chiese nuovamente, afferrandomi questa volta il polso e puntando il dito ad un centimetro di distanza da quattro chiazze ravvicinate – corrispondenti con le dita della mano di mio marito – stampate sul mio avambraccio.
“Sono solo lividi.” ripetei a me stessa. “Passeranno.”
Ma non ero sicura che se ne sarebbero andati senza lasciare tracce. La ferita che Liam aveva aperto nel mio cuore avrebbe continuato a pulsare, ne ero più che certa. Quelli erano solo i danni superficiali, ma l’abuso di quella notte era andato ben oltre la pelle.
-Sto bene. – mentii, facendo spallucce.
-Non è vero! – sbraitò lui, dirigendosi con passi lunghi e decisi verso la parte opposta della stanza. Era furioso. Spalancò l’armadio, frugando al suo interno con gesti nervosi delle mani.
Fu di nuovo al mio fianco in pochi secondi e mi lanciò dei vestiti appallottolati, tra i quali riuscii a distinguere solo una camicia bianca.
-Copriti! – mi ordinò, pieno di rabbia e cinismo, come se all’improvviso la mia vista fosse diventata per lui insopportabile.
Rimasi interdetta a fissarlo.
Nel frattempo, il mio cellulare, appoggiato sul comodino alla destra del letto, squillò, insistente. All’inizio pensai d’ignorarlo, ma rinunciai subito al mio proposito iniziale.
Portai il telefono all’orecchio, esasperata, senza nemmeno lanciare un’occhiata al display per verificare chi potesse aver avuto l’ardire di chiamare a quell’ora.
-Pronto? – domandai, distratta.
Solo in quel momento mi resi conto, in un lampo di lucidità, che non avrebbe mai potuto essere nessun altro, se non lui.
-Moglie mia! – esclamò, ironico, perfido. Odioso.
Rimasi di sasso. Probabilmente Mike si accorse della mia espressione smarrita, perché mi si avvicinò ansioso.
“Chi è?” lo vidi mimare con le labbra. Lo ignorai.
-Che cosa vuoi?- chiesi a Liam, cercando di mostrarmi scontrosa e augurandomi di apparire forte e spavalda.
-Lo sai … - mi stuzzicò, con la sua voce ruvida. Mi mandò un bacio sonoro attraverso il telefono. Sussultai.
-Non mi rivedrai mai più. – gli promisi. Ma avevo la sensazione che prima o poi mi avrebbe scovata.
Nascondersi sarebbe stato inutile. Liam era ricco ed influente. Avrebbe delegato i suoi scagnozzi affinché mi trovassero e mi riportassero da lui. Era solo questione di tempo,lo sapevo. Eppure non riuscivo a cancellare quel filo sottile di speranza, che strisciava tra i miei pensieri e le mie constatazioni più razionali e realistiche, tentando di incendiarle: ma il fuoco non attecchiva,purtroppo.
-Ho come l’impressione che tu ti stia sbagliando. – disse, facendo eco ai miei pensieri.
A quel punto Michael, al mio fianco, s’irrigidì. Aveva capito.
Nel corso della sua vita fu sempre descritto dai giornali e dai media come un uomo bizzarro ed ingenuo, fuori dal mondo. Ma, se era vero che dentro, almeno in parte, rimase un bambino per sempre, era anche vero che Michael non era uno stupido,anzi: spesso il suo acume e la sua pronta intelligenza stupirono le persone che lavorarono e fecero affari con lui e che ebbero quindi modo di stargli accanto.
-Passamelo. – mi ordinò, con voce calma, fredda ed impassibile. Lo fissai a lungo negli occhi e decisi che forse non era una buona idea.
Gli feci cenno di no e Mike contrasse la mascella,nervoso.
-Chi c’è lì con te,Susan? – domandò allora Liam, che aveva evidentemente udito una voce maschile in sottofondo.
Indugiai troppo a lungo.
-Non .. non sono più affari tuoi. – balbettai infine, incerta.
A quel punto, Michael intervenne.
Mi strappò il cellulare dalle mani.
-Lo sono eccome, bastardo. Perché io sono colui che ti sbatterà in prigione. – disse, con voce ferma e convinta.
Non l’avevo mai sentito imprecare prima d’allora.
Mi misi le mani tra i capelli.
“Non istigarlo!” lo pregai, con un muto movimento delle labbra.
Che diamine stava facendo?
Sentii una risata secca, di scherno, all’altro capo del telefono ma non riuscii a sentire nulla di ciò che Liam rispose. Potevo però immaginarlo. Non si sarebbe affatto lasciato intimidire da una persona come Michael,anzi: avrebbe raccolto volentieri la sfida.
Mike, in ascolto, mi fissò con aria protettiva, come se temesse di perdermi da un momento all’altro. Sbiancai.
-Non permetterò che tu le faccia del male. – mormorò, abbracciandomi nel contempo, come se potesse trarre da quella vicinanza la forza che gli serviva per combattere mio marito e sconfiggerlo.
Per qualche secondo la stanza piombò nel silenzio, silenzio interrotto solo di tanto in tanto da una voce metallica all’altro capo della cornetta, che biascicava qualche parola che riuscii ad udire appena e snocciolava qualche constatazione.
-Non è la tua donna! – abbaiò Mike al mio fianco, all’improvviso, spaventandomi.
Poi chiuse la comunicazione con un gesto secco e scaraventò il cellulare contro il muro.
08/01/2012 10:11
 
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Liam se si azzarderà ad andare a Neverland per farle del male dovrà vedersela con Michael.
08/01/2012 10:56
 
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Re:
(StreetWalker ), 08/01/2012 10.11:

Liam se si azzarderà ad andare a Neverland per farle del male dovrà vedersela con Michael.




Assolutamente! Michael non gli permetterà di farle del male <3 Presto pubblicherò gli altri capitoli <3
09/01/2012 22:32
 
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Ok...sono senza parole [SM=g27816]
Non so da dove cominciare....ehm...intanto credo che abbia fatto bene a partire da sola per trasferirsi in America...non era solo un modo per scappare ma anche un modo per avvicinarsi a Michael e questo rende ancora più vivo l'amore che prova nei suoi confronti. Poi....Liam farà la fine di questo computer [SM=x47978] se solo prova a toccarla o a toccare Michael o Neverland!!!! Sus deve chiedere il divorzio immediatamente!!! Lo devono mettere alle strette per farlo firmare...è uno str***o!! Infine....Michael [SM=g27836] finalmente insieme e....che incontro!!! [SM=x47962] Adoro il fatto che sia così protettivo nei suoi confronti...anche Sus lo è...li rende speciali! [SM=x47928]
PS: ti chiedo scusa se non rispondo sempre ma oltre la scuola ho altri impegni e ho poco tempo per leggere....
Comunque continua così!!! Spero di poter leggere al più presto i prossimi!!!
Dady [SM=g27838]
09/01/2012 23:32
 
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Ho letto tutto di un fiato la tua ff e devo dire che è veramente bella!!! complimenti... aspetto il seguito... baci!
10/01/2012 14:32
 
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Re:
WalkerDady, 09/01/2012 22.32:

Ok...sono senza parole [SM=g27816]
Non so da dove cominciare....ehm...intanto credo che abbia fatto bene a partire da sola per trasferirsi in America...non era solo un modo per scappare ma anche un modo per avvicinarsi a Michael e questo rende ancora più vivo l'amore che prova nei suoi confronti. Poi....Liam farà la fine di questo computer [SM=x47978] se solo prova a toccarla o a toccare Michael o Neverland!!!! Sus deve chiedere il divorzio immediatamente!!! Lo devono mettere alle strette per farlo firmare...è uno str***o!! Infine....Michael [SM=g27836] finalmente insieme e....che incontro!!! [SM=x47962] Adoro il fatto che sia così protettivo nei suoi confronti...anche Sus lo è...li rende speciali! [SM=x47928]
PS: ti chiedo scusa se non rispondo sempre ma oltre la scuola ho altri impegni e ho poco tempo per leggere....
Comunque continua così!!! Spero di poter leggere al più presto i prossimi!!!
Dady [SM=g27838]



Quanto a scuola ti capisco ... anche io sono messa malissimo e penso che riuscirò a postare altri quattro o cinque capitoli solo stasera o domani pomeriggio. Abbiate pazienza, per favore <3 E grazie per l'approvazione. Non immaginavo che sarebbe riuscita la storia *w*
15/01/2012 16:22
 
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Capitolo 14

-L’hai sposato. – sussurrò Michael, sconfitto, incapace di muoversi. La rabbia che sino a quel momento aveva alimentato ogni suo gesto o parola era ormai scemata, lasciando il posto ad una sensazione di vuoto e di solitudine. Glielo leggevo negli occhi.
-Michael, guardami. – gli ordinai, seria, prima che potesse distruggere tutto il mio mondo con poche, dure parole. M’ignorò.
-Guardami!- urlai, esasperata dalla sua ostinazione.
Obbedì di malavoglia. Si girò verso di me lentamente, con una smorfia di fastidio dipinta sul volto. Quella sua espressione mi gelò il cuore, ma mi costrinsi a farmi forza e a non credere a quella sua apparente freddezza: quella era solo una maschera, una delle tante che Mike amava indossare per sottrarsi al confronto diretto con le difficoltà e gli ostacoli che inevitabilmente s’incontrano nel corso di un’esistenza. Era una barriera che ergeva tra lui e il mondo quando combattere diventava troppo difficile. Michael, in realtà, era terribilmente fragile.
Gli presi il volto fra le mani e,inspiegabilmente,cominciai a piangere. La mia vita mi sembrava ormai un enorme, sconfinato mare salato, formato da tutte le lacrime che avevo versato e che ancora i miei occhi avrebbero lasciato cadere.
Perché la vita è dolore. Se non soffri, vuol dire che non stai vivendo davvero. Chi crede che l’indifferenza sia la migliore arma per vincere la paura e la morte, in realtà troverà proprio in questa insensibilità un potente strumento di distruzione.
Perché la vita è incontrare qualcuno, amarlo, perderlo, ritrovarlo … La vita è un pianto senza fine: lacrime di gioia,dolore, paura, confusione …
E per Mike avevo versato tante, troppe lacrime: perché l’avevo vissuto fino in fondo, ne avevo assaporato ogni pregio e difetto, lo avevo amato intensamente, aprendogli le porte dell’anima.
E ancora l’avrei amato, perché non potevo fare a meno di vivergli accanto, di dedicargli la mia vita, che era l’unica cosa che possedevo.
-Sarei morta di fame,Michael. Tu non sai cosa significa. Io l’ho provato sulla mia pelle. Ti giuro che avrei fatto qualsiasi cosa per colmare quel vuoto all’interno del mio stomaco. – gli confessai, come se fosse una terribile colpa.
Lo sguardo di Michael si addolcì e si riempì d’antica tristezza.
-Non lascerò che ti faccia del male. – mi promise, poi mi strinse a sé in un abbraccio che speravo sarebbe durato in eterno.
Eravamo due tessere di un puzzle che s’incastravano perfettamente: ci completavamo a vicenda. Ognuno colmava i vuoti dell’altro, ne levigava gli spigoli, ne riduceva le imperfezioni.
In quel mentre, una risata giocosa e un urlo divertito di bimbo raggiunse le nostre orecchie. Sorrisi.
-Vado a darmi una sistemata. – annunciai, in un soffio.
Mi allungai sulle punte dei piedi per baciarlo e poi mi allontanai, diretta verso il bagno enorme indicatomi da Mike.
Quando tornai in camera, Michael stava ingaggiando sul letto una lotta all’ultimo solletico con un bambino dai lineamenti angelici deformati da smorfie buffe ed esilaranti.
Il bimbo urlò, divertito, cercando di afferrare le mani del padre per fermarle. Sorrisi e mi mantenni a distanza, come si conviene ad uno spettatore, un intruso che si limita ad osservare perché sente di non poter far parte, per qualche oscura ragione, del mondo gioioso e spensierato che sta esaminando con tanta attenzione e un filo d’invidia.
Prince saltò al collo di suo padre, stampandogli un bel bacio sulla guancia.
-Ti voglio bene. – balbettò il piccolo, con la trasparente e commovente sincerità dei bambini.
Michael sorrise, lo abbracciò forte e,appena ebbe intercettato il mio sguardo rapito, mi fece segno di avvicinarmi per unirmi a loro. Indugiai un poco. Che cosa avrebbe pensato Prince di me?
Il fatto che possedesse l’ingenuità tipica dell’infanzia non mi rassicurava affatto,anzi: questo sicuramente lo avrebbe portato a pormi domande difficili con il candore e la schiettezza di chi si aspetta che per ogni cosa esista una spiegazione.
Se mi avesse chiesto perché mi trovavo in camera di suo padre a quell’ora? Sarei stata capace di mentirgli per non turbare la sua innocenza e non destare in lui alcun tipo di dubbio?
Ma quando mi sedetti sul grande materasso accanto a loro, compresi che mi ero preoccupata troppo e inutilmente: Mike ci presentò pieno di tranquillità – tanto che a poco a poco mi quietai anch’io - e Prince mi salutò con la manina paffuta, sorridendo timido. Parlammo poco, ma subito mi parve chiaro che doveva aver ereditato l’intelligenza del padre: era estremamente sveglio e sagace per la sua età. Non si lasciava sfuggire assolutamente nulla e, quando ci lasciò per andare a fare colazione insieme alla “Tata Grace”, ringraziai il cielo che non avesse fatto caso proprio al dettaglio più importante, cioè la mia presenza lì, in quella stanza, a quell’ora.
Michael, allora,ormai di buonumore, mi prese per mano e m’invitò a conoscere anche Paris, la sua bambina.
Era una neonata deliziosa. Mike era orgoglioso e al contempo molto geloso dei suoi figli, però mi permise di tenerla in braccio per qualche minuto e cullarla lentamente: ne rimasi incantata.
Gli occhi di Paris erano magnetici e indimenticabili: contenevano una sapienza antica e lontana, come se avessero attraversato spazi e tempi inimmaginabili per giungere sino a lì, sul suo visetto adorabile, come due diamanti incastonati sul più prezioso dei gioielli.
Dio solo sa quanto ho amato quella bambina, quasi fosse stata mia figlia.































Capitolo 15

-Questo è il Giving Tree. – annunciò Mike, orgoglioso ed eccitato, lasciando la mia mano e correndo incontro ad un magnifico albero, dalla chioma ampia e dal tronco scuro e nodoso.
Appoggiò delicatamente l’orecchio su quel legno vecchio di secoli probabilmente, e prese ad accarezzarne la superficie ruvida e dura. Chiuse gli occhi e sorrise, come se stesse parlando con quella strana creatura, quell’essere immobile e saggio che innalzava i suoi rami verso il cielo, come se tentasse di afferrarlo, e al contempo sprofondava le sue radici nella terra fertile ai suoi piedi, come se cercasse di raggiungere il centro del pianeta, per assicurarsi una stabilità eterna.
Mi avvicinai a Michael e lo imitai, appoggiando la guancia contro la corteccia dell’albero miracoloso che aveva ispirato al maggiore intrattenitore di sempre alcune tra le sue canzoni più belle.
-Lo senti? – chiese in un sussurro Mike, estasiato.
Rimasi in ascolto: una sorta di soffio vitale, di respiro secolare, attraversava il Giving Tree, che sembrava quasi sospirare paziente e docile come un animale domestico al tocco del proprio padrone. Ancora oggi sono convinta che Michael avesse riposto in quella pianta prodigiosa una parte della sua anima e che quell’albero fosse, in qualche modo, vivo e magico.
-Muori dalla voglia di arrampicarti fino in cima, non è così? – tentai d’indovinare, ridacchiando, dopo qualche istante di silenzio.
Michael ammiccò, con finta aria colpevole.
-Vieni con me. – propose, offrendomi una mano, per aiutarmi a salire.
Feci cenno di no e Mike corrugò la fronte, confuso e forse un poco deluso.
-E’ il tuo albero. Voglio che rimanga tale. Va’, ti aspetto quaggiù.- gli spiegai, serena.
In effetti, non volevo risultare invadente: mi sentivo ancora una specie d’infiltrata in quel regno magico e segreto che Michael si era costruito intorno nel corso degli anni per riconquistare quel minimo di autonomia e privacy che dovrebbero essere dovute ad ogni uomo e delle quali lui era stato privato.
Neverland, l’atmosfera di pace che si poteva respirare al suo interno, non mi appartenevano. Non ancora,perlomeno. Un giorno forse ne avrei fatto parte, speravo.
Michael comprese e non insistette.
-Vuoi rientrare? – mi domandò, cortese. La leggera brezza mattutina si stava trasformando in un vento forte ed insistente.
Feci cenno di sì.
Mi prese sottobraccio e cominciammo ad avviarci verso casa. Quando rientrammo, Michael si offrì di mostrarmi il resto dell’abitazione.
Accettai di buon grado, spinta dalla curiosità, e ciononostante un poco timorosa di fronte all’ignoto.
L’edificio in sé era affascinante e misterioso,dall’aria solida e maestosa. Questa sua magnificenza si rifletteva anche all’interno, come era facile dedurre dalle stanze elegantemente arredate secondo i gusti particolari e raffinati di Michael, dai mobili in legno massiccio, dai corridoi interminabili, dai soffitti alti ed elaborati e dagli innumerevoli oggetti che decoravano ogni angolo della casa. Ciò suscitava soggezione e incuteva un senso d’inferiorità un po’ fastidioso. Ma nel complesso mi sentii felice di seguirlo mano nella mano ad esplorare ogni angolo della villa.
Le varie stanze si assomigliavano tra loro,erano accomunate da qualcosa che non seppi identificare subito, quindi lasciai perdere.
Ma l’unica che suscitò davvero il mio interesse fu una sala particolare, dal pavimento di legno e dai muri ricoperti interamente da specchi. Entrai estasiata, senza nemmeno aprir bocca.
Mai avrei immaginato di trovare all’interno di una casa una stanza adibita a ciò che più amavo nella mia vita dopo Mike: la danza.
-Wow. – riuscii a sussurrare dopo qualche minuto di silenzio. Michael, al mio fianco, mi osservava attentamente, rapito forse dall’espressione incantata del mio viso.
-Ti va di ballare? – mi chiese improvvisamente, cingendomi la vita.
Sorrisi.
-Ma non c’è la musica … - protestai.
Mike si mordicchiò il labbro inferiore, pensoso. Poi gli venne un’idea.
Afferrò la mia mano destra e la posò con delicatezza sul suo cuore che batteva forte, euforico, energico. La lasciai lì, affascinata da quel suono.
Così cominciammo a muoverci, lentamente, attraverso la stanza.
Stavamo ballando al ritmo del SUO cuore.














Capitolo 16

-Susan? – domandò Javier, incredulo, all’altro capo del telefono.
Sorrisi. Era evidente che non si aspettava una mia chiamata.
-Come stai? – chiesi, felice di sentire la sua voce dopo tanto tempo.
Avevo deciso di riprendere i contatti con la mia famiglia su invito di Michael. Sentivo la loro mancanza e avevo nostalgia di casa, ma fino a quel momento mi ero comportata da codarda, facendo perdere le mie tracce, nascondendomi. Non avevano saputo più nulla di me. Probabilmente pensavano ancora che fossi partita per l’America in cerca di fortuna e che frequentassi la scuola di danza per la quale l’adorabile Mrs. Sullivan mi aveva fissato prontamente un provino circa un anno prima.
Ma poi Mike aveva avuto la brillante idea d’infondermi un poco di coraggio. E nessuno sapeva essere più persuasivo di lui.
“Non temere di esser giudicata, Susie. Loro sono la tua famiglia e lo saranno sempre.” aveva detto.
In quel momento più che mai sperai che le sue parole fossero state sincere e che corrispondessero pienamente al vero.
Aveva sempre avuto la tendenza ad idealizzare un po’ troppo l’istituzione “famiglia”. Forse non c’era da stupirsene: era cresciuto insieme a cinque fratelli e tre sorelle ed era ancora molto legato ad alcuni valori che giudicava fondamentali.
Se Michael e la sua famiglia, nonostante vivessero a chilometri di distanza e si vedessero assai raramente, riuscivano comunque a mantenersi in contatto e a volersi bene, pensai, non vi era alcuna ragione che potesse realmente impedirmi di fare lo stesso.
-Non ci posso credere … Sono passati mesi dall’ultima volta che…- cominciò mio fratello, ma lo interruppi.
-Lo so. Mi dispiace. Ho telefonato per domandarvi perdono. Purtroppo … non è stato un periodo facile per me. – ammisi, con un filo di malinconia nella voce. Desiderai – invano,purtroppo – che non mi chiedesse i dettagli. La delusione sarebbe stata dolorosa per entrambi.
Sfortunatamente, Javier mi pose la fatidica domanda che tanto temevo.
Tre parole che ne prevedono, in risposta, altre mille. E io non sapevo dove e come trovarle.
-Cos’è successo? –
Sospirai, rassegnata. Prima o poi avrebbe dovuto saperlo comunque. Certo, avrei preferito spiegarglielo con più calma e magari di persona. In circostanze migliori, insomma. Ma ormai sembrava che non avessi scampo.
-Mi sono sposata. – annunciai, dopo aver fatto un respiro profondo. Quelle parole risultarono assurde persino alle mie orecchie.
Dall’altra parte non si udì alcuna risposta.
-Hai capito? – chiesi dopo qualche minuto, infastidita da quel silenzio imbarazzante.
Javier si riprese. Chissà cosa gli passava per la testa. Non che fosse difficile immaginarlo,comunque.
-Sì. – rispose, in un soffio.
-Non dici niente?- lo incalzai, sempre più turbata.
Certo non mi ero aspettata che reagisse positivamente alla notizia, ma quell’apparente mancanza di emozioni mi preoccupava. Forse una sfuriata sarebbe stata meno inquietante di quella freddezza inaspettata.
-Cosa dovrei dire? Tante felicitazioni. – disse, cinico, con falso entusiasmo.
Ridussi gli occhi a due fessure, indispettita.
-Bene. Anzi, benissimo! – esclamai, acida.
Sapevo perfettamente che quella conversazione non sarebbe sfociata in nulla di buono, eppure ciò non fece altro che accrescere la mia irritazione. Non poteva, dopo tanto tempo, dimostrarsi più gentile e comprensivo?
Se solo avesse saputo cos’era successo davvero, allora avrebbe cambiato idea: sarebbe stato dalla mia parte, invece di condannarmi così impietosamente.
-Posso aver l’onore di sapere come si chiama lo sposo? – domandò Javier, pungente. Era veramente insopportabile quando si comportava in quel modo.
Fu a quel punto che persi definitivamente le staffe.
Io e Michael avevamo stabilito di tener nascosta la nostra relazione sia perché voleva evitare di creare problemi a me con Liam, visto che perlomeno su carta noi rimanevamo ufficialmente sposati e che lui poteva risultare talvolta assai pericoloso e determinato quando si trattava di ottenere qualcosa che desiderava ardentemente, sia perché avrebbe preferito che il mondo intero non s’intromettesse tra noi due, ostacolandoci e limitandoci in un rapporto che, ne eravamo certi, era destinato ad evolversi e a durare in eterno.
-Non dovresti interessarti allo sposo. – osservai allora, alzando la voce di qualche ottava e attirando, dunque, la sua attenzione.
-Perché? – chiese mio fratello, improvvisamente confuso e spaesato.
Ghignai tra me e me, assaporando il gusto della vittoria in quella sorta di dibattito che si era prolungato più del dovuto. La rabbia aveva offuscato tutti i miei buoni propositi e m’impedì di agire razionalmente, come avrei senz’altro fatto se Javier non mi avesse attaccata in modo così esplicito.
A mente fredda me ne sarei poi pentita, ne ero più che certa.
Ma al momento riuscivo solo a pensare alla maniera migliore per rispondere alla sua provocazione in modo esemplare.
-Bhè, perché in realtà ora non sono con lui. – annunciai, con naturalezza.
-E dove ti troveresti? – domandò Javier, di nuovo sarcastico.
-A casa di Michael. – risposi, con finta spontaneità. Ci volle qualche secondo prima che comprendesse cosa ciò significasse.
Ma, quando lo capì, cominciò a sbraitare e ad inveire, furioso.
-Che COSA?!?! Da quanto? E che cosa ci fai lì? Sei impazzita? – gridò, infilando tra una parola e l’altra una sequela di bestemmie che mai mi sarei aspettata di sentire da lui.
-Vuoi davvero sapere che ci faccio con Michael? – chiesi, con un filo d’ironia nella voce. Alla mia domanda retorica seguì un silenzio carico di sottintesi e di tensione.
Javier riattaccò, indignato, ma non prima di aggiungere un “Va’ a farti fottere!” rabbioso.
In quel momento lo detestai più di quanto fosse lecito.





















Capitolo 17

-Papà? Mi passi il pane? – chiese Prince, impaziente, saltellando sulla sedia di fianco alla mia, come a sottolineare l’urgenza.
Sorrisi divertita.
Michael alzò un dito, rimproverandolo bonariamente ma con fermezza:
-Hai dimenticato la parola magica. Lo sai che voglio che siate gentili. –
Prince si batté il palmo della piccola mano sulla fronte, molto teatralmente. Era così buffo.
-Scusa! Mi passi il pane, per favore? – si corresse allora, accompagnando la timida richiesta con un’occhiata irresistibile e molto eloquente.
Mike afferrò il cestino alla sua destra e glielo porse, compiaciuto.
Aveva molto a cuore l’educazione dei suoi figli ed era così orgoglioso di loro – specie quando si comportavano in modo tanto garbato – che sprizzava soddisfazione da tutti i pori.
Paris osservò attentamente Prince mentre allungava la manina paffuta per afferrare una pagnotta dall’aria soffice e deliziosa dal cesto di giunchi intrecciati fra loro, poi reclamò anche lei la sua parte.
-Papà! Papà! Papà! – lo chiamò più volte, per attirare la sua attenzione.
Michael si voltò immediatamente verso di lei, come se temesse che si fosse fatta male in qualche modo o che si sentisse poco bene.
La sua apprensione era quasi commovente.
Mike era il padre migliore dell’universo, altroché.
-Pane! Per favore! – esclamò Paris, tendendo le mani verso l’alto.
Michael ne offrì prontamente anche a lei.
-Ho telefonato ad Javier. – annunciai, dopo qualche minuto di silenzio, osservando con la coda dell’occhio i bambini.
Ma loro continuarono a mangiare, assorti, senza prestarmi troppa attenzione.
-E? – m’incalzò Mike, incuriosito dalla mia espressione sconsolata.
-Abbiamo litigato. – mormorai.
Tagliai e addentai un piccolo pezzo di petto di tacchino, masticandolo pensosa.
Michael allungò una mano verso di me e mi sfiorò il braccio.
-Mi dispiace. – sussurrò, con gli occhi che ardevano di sincerità.
Non riuscii a sostenere quello sguardo.
-Ehm … non è tutto. – aggiunsi, poco convinta, mentre con le dita percorrevo leggera i ricami della tovaglia.
Mike ridacchiò.
-C’è altro? – chiese, incapace di comprendere quell’emozione che mi strisciava nello stomaco, dandomi la nausea. Non avrei saputo catalogarla nemmeno io. Vergogna,forse?
-Sì … gli ho detto, ehm … di noi. – confessai, abbassando ulteriormente la voce per assicurarmi che i bambini non sentissero una parola di quelle che stavo pronunciando.
Michael s’irrigidì.
-Non ha reagito bene. – dedusse, contraendo la mascella.
Feci cenno di no.
-Bhè, è normale. E’ tuo fratello, Susie: si sente responsabile nei tuoi confronti. – cercò di spiegare.
-Perché cerchi di giustificarlo ad ogni costo? – chiesi, incredula.
Non riuscivo a capire come potesse scusare il suo atteggiamento.
Javier aveva sbagliato, era evidente: rifiutava la mia felicità soltanto perché riguardava Michael e dipendeva da lui.
I fratelli non dovrebbero comportarsi così.
-Perché lui ti vuole bene. – mi fece notare, in un soffio, come se fosse qualcosa di lampante.
Un tempo non avevo mai dubitato dell’affetto che Javier provava nei miei confronti, perché era pienamente ricambiato.
L’avevo sempre considerato il mio migliore amico, una sorta di guida, quasi fosse un fratello maggiore, e non un mio gemello.
Fin da piccoli eravamo stati così legati che ai nostri genitori risultò impossibile separarci: anche a scuola le maestre erano state costrette a sistemarci in due banchi vicini.
Ma poi era subentrato Michael, al quale mi ero aggrappata sin dal primo istante, perché da lui dipendeva la mia vita.
Il mio amore per Javier era rimasto immutato, solo era stato sovrastato da qualcosa di più grande e incontrastabile.
In un primo momento avevo pensato che mio fratello fosse geloso ma poi mi ero dovuta ricredere: nemmeno la gelosia e l’invidia avrebbero potuto giustificare le sue parole.
Mi aveva ferita e io avevo risposto con la stessa moneta.
Quando sarebbe finito tutto ciò? Ero stanca dei litigi. Desideravo soltanto vivere in pace con Michael, nutrirmi di tutto quell’amore che mi offriva per poi restituirglielo in dose maggiore.
La serenità che Neverland aveva apportato alla mia anima veniva però continuamente offuscata da diverbi, preoccupazioni, timori.
Tra Javier e Liam, in quel momento, non avrei saputo decidere per chi angustiarmi maggiormente: sembrava facessero a gara per distruggere la mia quiete, squarciandola e sostituendola con l’angoscia.
-Non lo so. Non avrebbe dovuto reagire così. – osservai.
Michael annuì veementemente.
-Certo, hai perfettamente ragione. Nulla può giustificare il suo comportamento. Nulla … se non l’amore. Sai che è molto legato a te, e non ci vorrà molto tempo prima che richiami. Susie, non voglio obbligarti a metterti contro la tua famiglia per me, lo capisci questo, vero? Io non sono nessuno. Voglio che tu abbia una vita all’infuori di questa. Non puoi isolarti dal mondo, perché tutto ciò – ed evidenziò le parole con un ampio gesto delle mani - non durerà per sempre. –
Sussultai.
Avrei voluto piangere. Ma non potevo crollare di fronte agli occhi ingenui ed innocenti di Paris e Prince. Se l’avessi fatto, si sarebbero chiesti il motivo di quell’improvvisa disperazione. Come potevo spiegar loro che il colpevole era loro padre, che si era servito di poche parole come di un coltello per uccidere e sgonfiare tutti i sogni che la mia mente aveva finalmente liberato?
-Non … non durerà per sempre. –
Ripetei le sue parole, sforzandomi di non far apparire la mia fragilità in quel momento.
Michael capì. Senza badare ai suoi figli, mi abbracciò stretta a sé, sussurrandomi all’orecchio:
-Non voglio che tutto finisca, Susan. Ma voglio essere previdente. Desidero che, se qualcosa dovesse andare storto, tu abbia una seconda opportunità. Un piano B, insomma. –
Si allontanò da me lentamente, ridacchiando. Era così ilare quella sera!
-Non angosciarti! Io ti amo più della mia stessa vita. Ma non ho null’altro da offrirti se non me stesso e il mio cuore, che già ti appartiene. E non posso sapere se questo, per te, sarà abbastanza, per sempre. – mi spiegò.
Prince alzò gli occhi dal piatto che ormai aveva già ripulito.
-Anche io ti amo! – esclamò, sorridendo.
Paris gli lanciò un’occhiataccia, poi si rivolse a me:
-Io di più. –
E batté le mani eccitata.
Scossi il capo impercettibilmente e sorrisi, in risposta a quelle parole che si erano conficcate direttamente nel mio cuore. Poi mi voltai verso Michael.
-E tu, ricordati che sei tutto per me. La mia vita non ha alcun senso senza di te, tienilo bene a mente,sciocchino! – mormorai.
E gli stampai un bel bacio sulla guancia.
16/01/2012 16:16
 
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Javier non deve essere arrabbiato perchè Susie gli ha detto che sta con Michael. Io,WalkerDady e Keepthefaith attenderemo il prossimo
20/01/2012 17:49
 
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Capitolo 18

-Vorrei restare così per sempre. – mormorai, con aria trasognata.
Appoggiai delicatamente la testa sul petto nudo di Michael, segnato da macchie color caffelatte che si mescolavano a chiazze più chiare, bianche, presenti ormai in netta maggioranza sulla sua pelle rispetto alle loro sorelle più scure.
Erano le tracce inconfondibili della vitiligine, di cui Mike soffrì per tutta la vita. Lo dichiarò per la prima volta al pubblico durante un’intervista con Oprah, ma i media continuarono a preferire l’altra versione, quella che avevano formulato e consolidato da soli nel corso degli anni, secondo cui il Re del Pop aveva schiarito gradatamente, per mezzo d’interventi chirurgici, il colore della propria pelle per diventare bianco.
Ciò che forse ignoravano era che Michael era molto più che orgoglioso di essere nero. Ebbi l’occasione di constatarlo più volte e, fortunatamente, seppi dare ascolto alla mia mente e al mio cuore, invece che ai giornali, spesso capaci d’infangare il buon nome di una brava persona come Michael diffondendo notizie prive di qualsiasi fondamento.
-Per sempre è davvero tanto, tantissimo tempo. – osservò lui, ridacchiando.
Il suo volto era illuminato dalla luce fioca della luna, che si stagliava pallida sul cielo nero ed uniforme ed emetteva, attraverso la finestra aperta della camera di Mike, insoliti bagliori argentei che bastavano a rischiarare l’intera stanza.
-Sembra che l’idea di trascorrere l’eternità con me ti rattristi. – notai, delusa, abbassando lo sguardo sul mio indice che sfiorava leggero la sua pelle, tracciando il profilo fantasioso e incostante di svolazzi e ghiribizzi immaginari.
Michael mi strinse forte tra le sue braccia e mi baciò i capelli.
-No. Io ti amo, Susie. Più di quanto abbia mai amato qualcun altro. Più di quanto io ami fare musica. Solo che … non credo più nel “per sempre”. La vita mi ha insegnato che raramente esiste qualcosa d’immutato e d’immutabile. – mi spiegò, paziente.
Mi lasciai cullare per qualche istante dalla sua voce vellutata, sebbene in quel momento accompagnasse parole e ragionamenti che non condividevo affatto.
-L’amore non è immutabile. L’amore si trasforma. – gli concessi.
-Ma cambiamento non è sinonimo di “fine”. – aggiunsi, pensosa.
Con la coda dell’occhio vidi Michael sorridere.
Mi appoggiai sul gomito per osservarlo meglio.
-Ascoltami bene, signor Jackson. – cominciai, scherzando. – Io con te non voglio una storia a lieto fine, d’accordo? –
Aggrottai le sopracciglia, imitando l’espressione burbera che talvolta assumeva mio fratello Javier con me, quando eravamo più piccoli, per impartirmi una qualche lezione. Peccato che gli risultasse impossibile non apparire alquanto buffo.
Michael non rise. Sembrava concentrato a capire quali pensieri mi passassero per la testa, prima ancora che li trasformassi in parole.
Sbuffai.
-Io con te voglio una favola senza fine. – conclusi, in un sussurro.
Nell’aria, per qualche secondo, rimase l’eco dell’aura di infinita dolcezza in cui era stata avvolta quella frase, sgorgata come un fiume di sincerità, amore e speranza dalle mie labbra.
Poi Michael parlò.
-Io ti prometto, Susan, che farò tutto ciò che si rivelerà necessario per assecondare ogni tuo desiderio e renderti una donna felice. È la tua felicità, la tua vita che mi sta a cuore. La mia non vale nulla: prendila, è tutto ciò che ho da darti. Ma la tua è così preziosa per me, che non potrei mai in nessun modo abusarne, o distruggerla. Desidero solo proteggerla e custodirla. E sono così immensamente onorato che tu me l’abbia affidata in questo modo che non saprei come ringraziarti. – mormorò.
Lacrime di gioia mi rigarono le guance.
Le asciugai con il dorso della mano, senza staccare gli occhi da Michael.
-Perché piangi? – mi chiese, sorpreso, accarezzandomi la schiena.
Scossi la testa impercettibilmente.
-Non lo sai? – domandai, in un soffio.
Lui tacque. E annuì, serio.
Poi le sue labbra sfiorarono le mie e riprendemmo da dove ci eravamo interrotti poco prima.
02/02/2012 11:55
 
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Capitolo 19

-Buon compleanno! – esclamammo all’unisono io e Michael, con lo sguardo acceso dalla gioia e dall’eccitazione.
Prince si stropicciò gli occhietti e sbadigliò, sorpreso da tanta allegria e leggermente infastidito da quella che poteva sembrare,ai suoi occhi, un’interruzione inopportuna di un sonno pacifico e riposante, ma in realtà ci mise ben poco ad adeguarsi a quell’atmosfera di festa.
Mi abbracciò all’istante,affondando la sua testolina bionda nella mia spalla.
-Grazie! – sussurrò, pieno di riconoscenza. Gli baciai una tempia con delicatezza, meravigliata di quanto il suo profumo fosse buono: non ci avevo mai fatto caso.
-Scusa se ti abbiamo svegliato. Ma tuo padre voleva farti una sorpresa. – gli spiegai, sottovoce, cercando di dissimulare il mio disappunto nei confronti di quella decisione. Avevo sinceramente provato a persuaderlo affinché rimandasse quel momento a quando suo figlio si fosse alzato da solo, ma non aveva voluto sentire storie.
Prince si scostò un poco, facendo spallucce.
-Mi piacciono le sorprese. – eclissò, poi sorridendo balzò in braccio a Michael, che lo coccolò finché Grace, bussando timidamente alla porta e socchiudendola appena, venne a ricordarci che Paris ci aspettava in cucina.
Scendemmo tutti insieme, mentre Prince si dimenava come un forsennato tra le braccia di Michael, protestando perché sosteneva di essere “abbastanza grande da camminare da solo,ormai”.
-Dài,papà, mettimi giù! Ho già tanti anni così!- si lamentò, mentre faceva il numero tre con le dita.
-Oh, allora sei proprio grande. È davvero vergognoso che il tuo papà debba portarti ancora in braccio. – scherzava Michael, senza accennare a posarlo per terra.
Eppure Prince si divertiva un mondo.
-Auguri! – gridò Paris, con voce squillante,quando varcammo la soglia della cucina e la trovammo seduta compostamente a tavola. Le andai incontro e mi stampò un bel bacio sulla guancia.
-Ciao, Sue! – mi salutò.
Di solito non mi chiamava con il mio nome per intero: ormai ci avevo fatto l’abitudine.
Non mi aveva mai dato davvero fastidio quella confidenza, anzi: era una dimostrazione della sua approvazione e del fatto che ormai ai loro occhi fossi entrata a far parte – speravo definitivamente- della famiglia.
Prince fremeva dalla voglia di scartare i regali e pregò suo padre affinché gli permettesse di aprirli immediatamente.
Inutile dire che Michael non oppose resistenza e cedette quasi subito a quelle tenere suppliche.
Paris si offrì di aiutarlo a trasportare i pacchetti dal salone in cui si trovavano fino in cucina, dove avremmo potuto assistere tutti insieme alla scena più toccante di quella giornata.
Alcune scatole erano troppo grandi e pesanti, quindi dovetti intervenire per evitare che i piccoli le rovesciassero rischiando di mandarne inconsapevolmente in frantumi il contenuto, ma tutto sommato furono abbastanza diligenti ed efficienti da terminare il lavoro in breve tempo.
Ci radunammo dunque tutti intorno a Prince, che afferrò subito il primo regalo – ricoperto da un involucro rosso con fantasie dorate – e cominciò a scartarlo, impaziente.
Trattenne a stento un urlo di gioia quando capì di cosa si trattava.
-Un trenino! Mi hai regalato un trenino! – esclamò, al settimo cielo.
Lo avvicinò agli occhi per esaminarlo meglio.
Grace osservava lo spettacolo da lontano, sorridendo compiaciuta.
Immaginai che, visto che raramente Michael poteva uscire a far compere senza essere notato, gran parte delle commissioni fossero toccate a lei.
Mike si fidava ciecamente di quella donna: non poteva essere altrimenti, visto che le aveva affidato i due tesori più preziosi che possedeva.
Non avevo mai avuto l’occasione di parlarci, e non dubitavo del fatto che sapesse svolgere il suo mestiere alla perfezione.
Tuttavia, talvolta, sentivo il suo sguardo critico su di me.
Non ne avevo fatto parola con Michael, perché temevo si sarebbe preso gioco di queste mie fissazioni, e in parte perché sapevo che mi avrebbe rimproverata per esser diventata così paranoica nei confronti di una brava persona che non conoscevo affatto.
-Signor Jackson? – lo chiamò una voce grave e profonda, interrompendo le mie riflessioni.
Michael divenne improvvisamente serio e s’incamminò immediatamente verso la porta. Il sorriso di Prince svanì.
Maledissi quell’uomo tra me e me per aver rovinato un momento così magico.
Poi mi spostai anch’io verso l’ingresso, facendo un cenno a Grace affinché si occupasse dei bambini.
-Michael, si può sapere che diamine è successo? – domandai, irritata, appena gli fui accanto.
Stava parlando con un uomo alto e nerboruto, dalle spalle grosse e possenti: solo a guardarlo incuteva timore. Era vestito abbastanza elegantemente, specie se si teneva conto che erano solo le nove di mattina.
Mi chiesi da dove fosse saltato fuori: certo non apparteneva a Neverland, con quell’aria seria e perennemente guardinga, come se temesse che qualcosa di brutto potesse celarsi dietro ogni arbusto e in ogni angolo, persino il più luminoso, della casa.
Mike mi fece cenno di tacere. Indispettita, incrociai le braccia sul petto, mordicchiandomi il labbro inferiore,nervosa, rischiando persino di farlo sanguinare.
L’uomo grosso stava bisbigliando qualcosa al suo orecchio, qualcosa che sfortunatamente non fui in grado di decifrare.
-Fatelo entrare.- ordinò dunque Michael, alla fine.
L’uomo rispose con un cenno obbediente e sottomesso e uscì con la stessa velocità con cui era entrato.
-E’ il terzo compleanno di tuo figlio. – feci notare a Mike, sgridandolo .
Il mio tono di voce era un po’ troppo severo. Cercai di moderarlo: non volevo litigare con lui.
-Lo so. Mi dispiace. – si scusò, abbassando lo sguardo.
Sospirai, pentita di averlo rimproverato a quel modo.
-Dai,andiamo. – sussurrai, sorridendo e sfiorandogli una spalla, come a chiedergli perdono della mia durezza.
Michael esitò.
-Ehm … forse è meglio se tu resti qua. – osservò, incerto su come proseguire.
-E perché mai? – domandai, incredula. Aveva deciso improvvisamente di escludermi da quella scena di vita famigliare? Forse aveva ragione. Non avevo alcun diritto di prendervi parte.
Che ingenua! Mi ero illusa che i cancelli di Neverland, dopo settimane, finalmente si fossero aperti per me; invece ero sempre rimasta all’esterno, una spettatrice curiosa e troppo invadente.
Desiderai piangere, ma non riuscivo a trovare la forza per versare una sola lacrima.
-Non fraintendermi … - disse subito Mike, come se avesse capito cosa mi frullasse per la testa. –Ma … - aggiunse – C’è qui tuo fratello.-
Capitolo 20

-Che cosa ci fai qui? – domandai, scontrosa ma sottovoce, per non farmi sentire da Prince e da Paris che, proprio nella stanza accanto, stavano testando i loro nuovi giocattoli.
-Sono venuto a salvarti. – dichiarò, con una fierezza nello sguardo che mi parve totalmente estranea e lontana.
Era incredibile quanto fosse diventato alto nel giro di un anno: ormai era più vicino ai due metri che al metro e ottanta.
Anche i tratti del suo viso si erano fatti più marcati, come induriti dal dolore e dalle delusioni che aveva dovuto sopportare. Non mi somigliava più come un tempo; nei suoi lineamenti non riuscivo a scorgere i miei, come senz’altro avrei potuto fare fino a poco tempo prima. In quell’uomo che stava ritto di fronte a me non riconobbi nessuno; era un semplice estraneo, che provava una piacere perverso ad intromettersi nella mia vita per guastarne la felicità.
-Da chi?!?! – chiesi, incredula e sempre più infastidita, man mano che il tempo passava. Desideravo solo concludere quella conversazione il più presto possibile.
-Da te stessa! – sbraitò, allora.
Abbassai lo sguardo, terrorizzata da quella reazione. Il fratello che ricordavo e che popolava la mia memoria era un ragazzo mite, affettuoso e incredibilmente gentile: che fine aveva fatto?
-Non ho bisogno di te. Io qui sto bene. –
Scandii le parole una ad una, nella speranza che gli entrassero in testa. Ma non voleva sentire ragioni.
-Oh, sì, certo. Quello lì potrebbe essere tuo padre! – gridò, esasperato. Capii bene a chi si riferiva, e sentii il sangue ribollirmi nelle vene. Cercai comunque di mantenere la calma: sarebbe stato meglio per tutti se avessimo risolto la questione civilmente.
-Almeno lui mi ama. – gli feci notare, riducendo gli occhi a due fessure.
-Hai anche un marito che ti ama. Se vi siete sposati ci sarà un motivo. – mi ricordò, sarcastico.
Sfortunatamente, lui non conosceva il resto della storia. Bhè, tanto valeva raccontargliela.
“Ora o mai più” pensai, e feci un respiro profondo.
-Javier, forse ti sfugge un piccolo dettaglio. – cominciai, forse con un po’ troppa enfasi.
-Un piccolo dettaglio? – fece eco lui, improvvisamente incuriosito.
Fui lieta di aver catturato la sua attenzione. Finalmente.
-Michael non mi ha mai violentata. – osservai, a bassa voce.
Non capì.
-Certo che no! Ci mancherebbe anche! Gli avrei spaccato quel brutto muso che si ritrova,altrimenti! – esclamò, confuso.
Cercai di non prestare troppa attenzione a ciò che era appena uscito dalla sua bocca, altrimenti avrei rischiato di prenderlo a pugni.
-Liam invece … - sussurrai, interrompendo la frase a metà, incapace di continuare.
-Chi è Liam? – s’informò serio, Javier.
-Mio marito. –
Divenne livido.
Fu come se tutta la rabbia accumulata fosse svanita con quella terribile scoperta, lasciandolo vuoto per qualche secondo. I suoi occhi si fecero vacui, le sue mani presero a tremare.
-Dov’è ora. –
Non sembrava affatto una domanda,quindi non risposi. Quel suo tono di voce, da automa, mi aveva turbata.
-Susan, pretendo di sapere dove si trova ora quel cane. – sibilò.
Mi misi a sedere e crollai il capo tra le mani. Tutta quella tensione non mi stava facendo affatto bene.
-Non lo so. – confessai infine. –Quando sono scappata, mi ha chiamata un paio di volte. Sa che sto con un altro uomo ma … non sa che si tratta di Michael, per fortuna. Non voglio immaginare che cosa potrebbe fare se solo scoprisse dove sono adesso. Javier,ascoltami: voglio solo dimenticare tutto,okay? Io amo Michael, lo amo con tutto il cuore,davvero. E lui, per qualche assurda ragione che va oltre la mia comprensione … mi ricambia pienamente. Voglio solo essere felice, Javier. E … Liam è un uomo troppo potente per essere contrastato. Ti prego, ti prego … Lascialo perdere. Possiamo solo aspettare che si dimentichi di tutto ciò e che smetta presto di cercarmi. –
Lui ascoltò attentamente le mie parole, profondamente toccato ma poco convinto. Non riuscivo a persuaderlo a lasciarmi vivere accanto a Michael, nonostante tutti i miei tentativi disperati di spiegargli quanto fosse buono, disinteressato e affettuoso.
-Susan, io … capisco che tu ti sia innamorata di lui. È il tuo mito da sempre. Ma lui … lui è sbagliato per te, fidati. Torna a casa,Susie. – mi pregò, inginocchiandosi di fronte a me e tornando all’improvviso il ragazzo che avevo conosciuto durante la mia infanzia e nel corso della mia adolescenza.
Mi commossi.
-Non posso,Javier. Può sembrarti strano ma … ci amiamo davvero. – gli ripetei.
Perché gli risultava così impossibile credermi?
-No. Tu sei innamorata del Re del Pop. – sussurrò, fissandomi gelido.
Lo guardai dritto negli occhi.
-Io amo Michael Jackson. Non il Re del Pop. Io amo lui, la sua famiglia … amo Neverland. Amo questa vita. Javier, non posso abbandonare tutto per seguirti. Laggiù non c’è niente per cui valga la pena vivere. Qui, invece, qui c’è il mio cuore. Non voglio separarmi dall’uomo accanto al quale desidero trascorrere il resto della mia vita. – gli spiegai, seria.
Javier cominciò a piangere. Mi afferrò all’altezza delle spalle, scuotendomi con forza.
-Ma non capisci? Susan, noi siamo la tua famiglia! Non lui! Non è questa casa tua. Vieni con me … mi manchi. Tutte le mattine mi svegliavo con la speranza di vederti varcare la soglia di casa con un sorriso. Ho desiderato con tutto il cuore che tu tornassi. Susie, ti prego … Non voglio perderti di nuovo. – mi supplicò, in un soffio.
Osservai quel viso, adesso di nuovo familiare nella sua infinita fragilità, che mi era sempre stato caro.
Sangue del mio sangue, carne della mia carne. Ci eravamo appartenuti fin dalla nascita. I nostri fili erano sempre stati intrecciati, tanto che si era rivelato impossibile dividerci davvero.
A chi avrei dato retta questa volta? Sarei ritornata nella mia terra, della quale avevo una terribile nostalgia ma che sentivo ormai lontana a distante? O sarei rimasta a fianco dell’uomo che più amavo, e senza il quale non ritenevo fosse possibile vivere?
















Capitolo 21

-Non preoccuparti per me. – mi rassicurò Michael, sfiorandomi la fronte con le labbra fredde.
Eravamo accoccolati sul divano del salone, abbracciati, come a farci forza l’un l’altro. Quella separazione avrebbe sgretolato il nostro amore, ne ero certa.
Non volevo abbandonarlo così, rinchiudere tutte le emozioni e sensazioni provate in quell’ultimo periodo in un cantuccio della mia mente, come se fossero solo labili e fragili ricordi.
Non volevo andarmene Neverland e lasciarmi così alle spalle il senso di magia che si poteva respirare al suo interno. Mai più di allora mi sentii legata ad un luogo come a quel regno incantato.
Se ancora oggi mi chiedeste di scegliere una città o un posto in cui tornare, anche solo per un giorno, sceglierei senz’altro quello sconfinato ranch della California. Era più casa mia di quanto non lo fossero le Filippine, o la Spagna, terra da cui provenivano i miei nonni e i miei genitori.
Inoltre, non volevo separarmi da Prince e da Paris, ai quali ormai volevo troppo bene per allontanarmi da loro senza soffrirne.
Erano riusciti fin da subito a suscitare in me un senso di simpatia, che ben presto si trasformò in vero e proprio affetto, nei loro confronti.
-Non è per te che mi preoccupo. – ribattei. – E’ per me. Non so vivere se non posso starti accanto. –
Sebbene non avessi ancora preso nessuna decisione definitiva, mi sentivo già lontana. Javier aveva bisogno di me, gli ero mancata troppo in quei lunghissimi mesi di distanza. L’avevo visto logorato e consumato. Era ciò che mi aveva persuasa a prendere in considerazione l’idea di tornare nella mia terra, idea che altrimenti avrei senz’altro scartato immediatamente, visto il numero di addii e la sofferenza che avrebbe sicuramente comportato.
-Hanno diritto a riaverti con loro. – osservò Michael, riferendosi alla mia famiglia. Scossi il capo. Era vero? Avevano il diritto di negarmi la felicità?
Avrei preferito che mi avessero strappato il cuore dal petto: sarebbe stato meno doloroso di avere un fantasma al suo posto, un pallido riflesso di ciò che in realtà sarebbe appartenuto per sempre all’uomo che amavo.
Affondai il viso nella sua camicia rossa, inzuppandola di lacrime.
-Ma non voglio, Michael, non voglio perderti! – singhiozzai, come una bambina. Dio solo sapeva quanto quelle parole fossero vere. Eppure, sembrava fossi destinata ad essere portata via con la forza dalla dolce prigione delle braccia di Michael. Ero obbligata a dimenticare il suo profumo, il sapore delle sue labbra … Ne valeva la pena? La risposta era ovviamente negativa.
Lo abbracciai più forte: nessuno avrebbe potuto strapparmi dal suo fianco.
Mike mi sollevò il mento con un dito, per potermi guardare negli occhi arrossati dal pianto.
-Non voglio che tu te ne vada. Voglio che tu resti qua con me. Ma i miei desideri sono insignificanti di fronte a ciò che è meglio per te. Devi fare ciò che reputi giusto. E opportuno. – mormorò, serio.
Le sue parole erano sagge, quasi fredde. Ma il suo sguardo rivelava una fragilità che sbriciolò tutta la determinazione che mi ero sforzata di raccogliere per partire. Lui, sebbene cercasse di non darlo a vedere, aveva bisogno di me. Avrebbe sofferto se l’avessi lasciato. Perché dunque farci del male? Non sarebbe stato più semplice restare, rimandando mio fratello a casa?
Se la sarebbe presa, ma perlomeno io sarei stata felice.
Era ciò di cui cercavo di convincermi. Purtroppo, però, il mio cuore sapeva meglio di me che quella non era la chiave per la serenità. Non potevo lasciare Michael, perché sarebbe equivalso a morire, ma non potevo nemmeno abbandonare Javier a se stesso: non solo avevo dei doveri verso di lui, in quanto mio fratello, ma gli volevo bene. Saperlo lontano, ora che avevamo chiarito e messo da parte ogni diverbio, mi sarebbe comunque costato tante sofferenze.
-Ma che cosa è giusto? – domandai, retorica. Ormai non lo sapevo più nemmeno io. –E’ giusto rinunciare al proprio amore, rinnegare i propri sogni e i propri desideri pur di regalare un po’ di gioia e sollievo ai propri genitori? Mi è stata concessa una seconda possibilità, Michael. Una seconda vita. La voglio vivere con te. – sussurrai,sincera.
Ma davvero contava qualcosa il mio volere? Sembrava che Javier, venendo laggiù, avesse già deciso per me: non mi lasciava vie di scampo.
-E che cosa farai? Li abbandonerai per me? Non valgo tutto questo sacrificio, Susie, davvero. – mi fece notare.
Avrei voluto dirgli che si sbagliava: che lui valeva questo e molto altro, ma non lo feci. Avrei solo peggiorato la situazione e mi ero preposta di tentare di rendere quell’ultimo saluto il meno doloroso possibile.
Sopirai e posai un orecchio sul suo petto, per ascoltare un’ultima volta i battiti frenetici del suo grande e nobile cuore, quando qualcosa di umido mi bagnò la guancia. Sollevai lo sguardo, sorpresa e spaesata, e vidi i suoi occhi versare lacrime amare e silenziose. Lacrime d’addio.
Tracciai con due dita il profilo del suo viso e poi lo baciai teneramente, addolorata. Fu come se qualcosa avesse scavato nel mio petto una voragine profondissima e, soprattutto,inguaribile.
Non sarei mai riuscita a riempirla, a rimediare a quel vuoto.
Infine, mi alzai e mi allontanai, lasciando su quel divano l’unica cosa veramente preziosa che possedevo.

Capitolo 22

-Susie, hai sentito che cosa ti ho detto? – mi domandò Javier con irritazione, leggermente infastidito dalla mia disattenzione.
Non risposi.
Ero troppo concentrata a ripetere i conti mentalmente un’ultima volta, e poi un’altra ancora, quasi certa di essermi sbagliata in qualche modo.
Non riuscivo a capacitarmi del fatto che tutto ciò stesse succedendo proprio a me.
-Susan? – mi chiamò nuovamente mio fratello, sfiorandomi una spalla. –Ehi? Stai bene? – chiese, ormai preoccupato dall’espressione scioccata sul mio viso. –Sembri un po’ pallida. – aggiunse, ansioso.
-No … no, sto … bene. – mormorai, balbettando. –E’ solo che … devo … parlare con Michael. Non so se … Credo di essermi dimenticata una cosa. – conclusi infine, dopo qualche incertezza.
Javier mi squadrò stranito, chiedendosi probabilmente che cosa mi stesse passando per la testa. Gli lasciai il beneficio del dubbio.
Mollai di scatto per terra le due valigie che stavo portando all’esterno dei cancelli di Neverland, diretta all’aeroporto, e poi mi voltai in direzione della casa.
-Susan! – esclamò mio fratello, confuso.
Ma non lo ascoltai e cominciai a correre senza nemmeno girarmi indietro. Non potevo perdere un minuto di più.
Scansai abilmente due giardinieri dall’espressione allibita ma, qualche metro più avanti, quasi inciampai nei miei stessi piedi per cercare di evitare una carriola colma di terriccio fresco.
Imprecai tra me e me.
Non riuscivo ad interrompere il flusso di pensieri che mi attraversò la mente all’idea di ciò che stavo per fare. Sarebbe stato un atto azzardato. E incosciente, forse. Ma da quel mio gesto sarebbe dipesa tutta la mia vita.
Quella certezza mi diede energia e così allungai ulteriormente la falcata.
Davanti ai miei occhi comparve presto la casa, che si ergeva maestosa ed imponente. La sua superba bellezza mi costrinse a rallentare quasi inconsapevolmente.
Un uomo vestito elegantemente e dall’aria piuttosto insignificante cercò di bloccarmi afferrandomi per un braccio, ma me lo scrollai di dosso irritata. Nessuno mi avrebbe fermato.
Mi precipitai direttamente dentro la villa, ansimando un poco per lo sforzo, e presi a chiamare Michael a squarciagola.
Il suo nome rimbombò per qualche secondo attraverso le stanze vuote, che me ne restituivano una debole eco. Ma dove si era cacciato?
Grace era sopraggiunta insieme a quelle che pensai essere delle domestiche e m’implorò di abbassare la voce e di calmarmi, ma la ignorai senza degnarla nemmeno di un’occhiata.
Mike scese le scale di corsa dopo pochi istanti, perplesso e turbato.
-Che cosa sta succedendo? – mormorò, confuso, quando scorse il mio viso. Mi fu accanto quasi immediatamente, probabilmente temendo che fossi impazzita.
Aprii la bocca, come per parlare, ma la richiusi subito con uno scatto sonoro. Avrei voluto spiegargli tutto e confessargli le mie supposizioni, per convincerlo della mia salute mentale.
Ma non trovavo le parole. Pensai che non ne avessero ancora inventate per esprimere quella gioia incontenibile che mi gonfiava il cuore, rischiando di farmelo scoppiare.
Così lo baciai, gettandogli le braccia al collo e avvinghiandomi a lui. Non era puro e semplice desiderio, ma una vera necessità. Avevo un disperato bisogno delle sue labbra sulle mie, di sentirne il sapore sulla lingua, di poter respirare di nuovo il suo profumo inebriante. Volevo riaprire gli occhi e ritrovare i suoi a guardarmi, dolci e profondi, un mare nero nel quale potermi immergere. Volevo aggrapparmi così forte a lui in modo tale che più nessuno avrebbe potuto dividerci.
Grace, di fianco a me, ridacchiò tra sé e sé di fronte alla mia impetuosità, ma quasi subito, con molto buon senso, fece in modo di lasciarci soli. Pensai che, in seguito, avrei dovuto scusarmi con lei per il modo a dir poco sgarbato in cui l’avevo trattata pochi secondi prima, ma in quel mentre non riuscii a percepire null’altro che non fosse Mike, come se i confini del suo corpo si fossero dissolti e lui fosse diventato l’infinito e mi avvolgesse completamente.
Quando le nostre bocche si staccarono per riprendere fiato, anche Michael ansimava. E non certo per la corsa giù per le scale.
-Wow. – commentò, meravigliato, con un sorrisetto malizioso.
Il suo viso era una tentazione alla quale era impossibile resistere, ancora così vicino al mio da farmi sentire le farfalle nello stomaco. Cercai ancora le sue labbra, incapace di farne a meno.
Dannazione! Provai a concentrarmi, ma non ci riuscii. Avevo la testa piena della dolcezza del suo respiro.
Mi obbligai ad mantenermi a distanza di sicurezza dal suo volto: se fosse andato avanti così presto avrei dimenticato il motivo per cui ero lì. Scrollai il capo e gli posai le mani sulle spalle, mordicchiandomi il labbro inferiore, come facevo solo quando ero nervosa.
-Mi sono dimenticata una cosa. – mormorai, infine.
Michael mi abbracciò, cullandomi lentamente per qualche secondo.
-Che cosa? – domandò, dolcemente, mentre le sue labbra seguivano leggere la linea del mento. Avevo il fiato grosso.
-Che cosa? – ripetè, di nuovo, mordicchiandomi il lobo dell’orecchio. Sussultai.
-Ehm … scusa, ho … bisogno di … lucidità. – balbettai, con la voce che mi tremava, con mio grande imbarazzo.
Michael rise e obbedì.
-Adesso sei nel pieno delle tue facoltà mentali? – chiese, scherzoso. –Che cosa devi dirmi? -
-Che sono incinta. – annunciai, squittendo e baciando ancora una volta le sue labbra dure e sorprese.
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