Capitolo 10
Trovai un modesto lavoro presso un locale della zona come cameriera e addetta alle pulizie. I miei genitori, a lungo andare, smisero di telefonarmi: lasciavo squillare il cellulare a vuoto da troppo tempo. Avevo solo bisogno di restare un po’ sola con me stessa,mi ripetevo. Dovevo distrarmi. Poi sarei tornata a casa, da Javier e dalla mia famiglia, nella mia terra che tanto amavo. Ma non andò così.
Dopo circa otto mesi, il 17 gennaio del 1999, mi sposai, ubriaca e strafatta, con il proprietario del pub in cui ero stata assunta: si chiamava Liam. Erano due settimane che mangiavo solo avanzi, che bevevo superalcolici e mi facevo di eroina e cocaina per rifugiarmi per qualche ora in luoghi del tutto irreali che mi aiutassero a non pensare a ciò che in verità mi stava accadendo.
Sarei stata disposta a tutto pur di scacciare la terribile sensazione di quel vuoto incolmabile nello stomaco causato dalla fame, la stessa che quasi m’impediva di reggermi in piedi ultimamente.
Mio marito era dieci anni più vecchio di me e lo conoscevo da appena due mesi quando obbligammo, un po’ per gioco, un po’ per dare una svolta imprevista alle nostre vite, un po’ perché spinta dai morsi della fame a cercare una soluzione alternativa a quella che stavo vivendo,un sacerdote incontrato per caso pochi istanti prima a sposarci in una manciata di minuti in cambio di una cospicua somma di denaro.
Il nostro viaggio di nozze consistette in una sola,interminabile notte trascorsa nella sua lussuosa villa di Los Angeles, in cui Liam viveva immerso nel lusso e nell’agiatezza.
Ma già la mattina seguente, quando recuperai la lucidità sufficiente a rendermi conto di ciò che era successo, abbandonai il suo fianco per fuggire lontano.
Ero sposata, affamata, esausta e tormentata.
Camminai a lungo nella polvere, cercando vie nascoste agli occhi della gente: non volevo farmi vedere. Mi vergognavo di me stessa, di ciò che ero diventata. Avrei voluto nascondermi persino a me stessa.
Soffiava un vento insistente quel giorno, che mi scompigliava i capelli e mi frustava il viso e che mi diede una sorta di energia elettrica che alimentò la mia confusione e la velocità della mia andatura.
Verso sera, dopo un’intera giornata trascorsa a scappare, inseguita forse solo dalla mia ombra, il numero del mio nuovo marito comparve sul display del mio cellulare.
-Pronto? – domandai, incerta su come giustificare la mia assenza, con la mano che mi tremava mentre portavo il telefono all’orecchio.
-Dove sei?!?! – ruggì Liam.
Trattenni il fiato, spaventata ed incredula di fronte all’uomo violento che avevo conosciuto quella notte. In realtà, quel lato era sempre riuscito a mascherarlo molto bene, nascondendolo dietro ad una facciata impeccabile ed impenetrabile. Ricordo che quando lo conobbi la prima volta mi fece un’ottima impressione: l’avevo giudicato estremamente gentile, anche se un poco misterioso. Mi aveva offerto da bere e mi aveva tenuto compagnia tutta la notte quella volta. Gliene ero stata infinitamente grata: di tanto in tanto mi sentivo un fantasma che errava senza meta, e avevo bisogno di parlare con qualcuno che mi ascoltasse per sentirmi nuovamente viva e reale.
Ma i ricordi di Liam che abusava di me, sua moglie, la prima notte di nozze, ritornarono a galla, terribilmente vicini e nitidi.
Fui scossa da un tremito.
-Lontano da te. – sussurrai, sempre terrorizzata.
Fui attraversata da qualcosa che assomigliava molto ad un conato di vomito: non seppi se attribuire quella nausea all’alcol o a Liam.
-L’ho notato. Ma il tuo posto è qui, ora. – disse, con la voce impastata. Intuii che non era affatto sobrio. Aggiunse:- Ieri sera mi hai sposato perché eri così disperata che per sfamarti, in alternativa, avresti solo potuto cominciare a concederti al primo che passava, giusto per metter da parte un po’ di soldi.-
Rise, perfido e spietato, divertito dall’idea che potessi essere venduta come della merce di poco valore al migliore offerente. Lo lasciai parlare, troppo preoccupata per interromperlo. Proseguì, perentorio: -Io me ne sono stato zitto e ti ho accolto in casa mia come una delle mie protette: ora adempi ai tuoi doveri di moglie e torna da me. Subito. –
Cercai di trovare la forza per rifiutarmi.
Sentii una voce in sottofondo: intuii che apparteneva ad una donna e mi aggrappai a quel dettaglio quasi fosse un appiglio in grado di tirarmi fuori dal corso di un fiume impetuoso che mi trascinava via con sé senza concedermi il tempo di rendermi conto di dove stessi andando.
-C’è qualcuno in casa? – chiesi, fingendomi sorpresa. In realtà ero semplicemente molto spaventata.
-Due o tre amiche che molto gentilmente e premurosamente rimediano alla tua negligenza. – sputò, ironico, tra i denti.
Riattaccai di scatto. Tremavo.
Desideravo solo cancellare tutti quegli errori che avevo commesso ultimamente, lasciarli scivolare in fondo alla memoria, quasi non fossero altro che sogni evanescenti. Volevo dimenticare e tornare sui miei passi prima che fosse troppo tardi.
Così feci una cosa che avrei dovuto fare molto prima.
Capitolo 11
-Michael? – domandai, incerta, con un filo d’isteria nella voce.
Non mi ero ancora del tutto ripresa dalla discussione con Liam e avevo paura che presto mio marito sarebbe venuto a prendermi con la forza se non avessi fatto ritorno a casa.
-Susan? Susan, stai bene? – chiese Mike all’altro capo della cornetta, in apprensione. Aveva capito che qualcosa non andava.
-No. – singhiozzai, sincera. Non seppi aggiungere altro. Cosa potevo raccontargli? Che mi ero sposata il giorno prima e che il mio sposo aveva osato violentarmi, trattandomi al pari di una miserabile bestia? Come avrebbe potuto consolarmi, anche se gliel’avessi detto?
Michael si inquietò e sentii che si stava spostando. Probabilmente l’avevo svegliato con quella mia telefonata notturna e si stava alzando dal letto.
-Dove sei? – s’informò, cercando d’infondermi un po’ di sicurezza. Ci riuscì.
-In una sorta di ristorante alla periferia di Los Angeles. – risposi, in un lampo di lucidità.
Gli dettai l’indirizzo meccanicamente.
-Susie, vengo a prenderti. – mi promise, dolcemente. La sua voce era una cucchiaiata di miele.
“Oh, sì, Michael. Vieni a prendermi per mano e a trascinarmi fuori da questa situazione. Ti prego.” pensai. Avevo bisogno del mio angelo custode in quel momento più che mai.
-Fai in fretta.- lo pregai. Carpì l’urgenza nella mia voce e non aggiunse altro. Chiusi la comunicazione.
“Ho fatto la cosa giusta” mi ripetevo, in continuazione, per convincermene. Ma i dubbi persistevano. Michael si era rifiutato di starmi accanto, mi aveva respinta come amica non molto tempo prima.
Mi aveva fatto soffrire. Davvero era stato un bene chiedere aiuto a lui?
Esitavo. Cosa gli avrei detto una volta che mi avrebbe raggiunta?
Tra noi non era rimasto più nulla: ogni legame si era dissolto.
Ogni probabilità di ripristinarlo era svanita otto mesi prima. Avevo deciso di arrendermi, di lasciarlo andare. Anzi, io stessa l’avevo allontanato da me. Avevo creduto che dopo qualche tempo sarei riuscita a dimenticarlo. Ma non era successo, quasi non fosse possibile rimuoverlo veramente dalla mia mente. Ci appartenevamo, eppure ci eravamo fatti del male a vicenda fino a ritrovarci ad un punto di non ritorno.
Lanciai un’occhiata nervosa all’orologio a muro appeso alla parete di fronte: mancavano due minuti a mezzanotte.
Sospirai.
In quel mentre, la porta a vetri del ristorante si spalancò, lasciando entrare nel locale un soffio d’aria fresca.
Un uomo che non riconobbi mi si avvicinò. Era alto, indossava un cappotto scuro con il bavero tirato su ad oscurargli il viso, sebbene non facesse affatto freddo, e un paio di occhiali scuri, oltre che ad un cappello.
Lo fissai sospettosa, indecisa se scappare o fingermi indifferente finché non fosse passato oltre.
-Susan. – sussurrò allora lo sconosciuto, con un sospiro di sollievo, quando fu a soli due metri da me; si guardava intorno furtivamente per appurare che nessuno potesse averlo sentito e dunque riconosciuto.
-Michael? – domandai, incredula. Travestito in quel modo, solo la voce inconfondibile l’avrebbe tradito.
Annuì.
-Vieni. Sali in macchina. – ordinò, ma non sembrava una costrizione: più che altro, una promessa di conforto e calore, un gentile invito, l’offerta di un vecchio amico, che potevo decidere di declinare se l’avessi ritenuta inopportuna. Ma non vi era nulla di più opportuno del farmi rapire da quell’uomo per qualche ora in quel momento.
Così mi alzai senza dir nulla,avviandomi a capo chino verso l’uscita. Michael mi seguì. Vidi che si teneva a distanza, forse perché temeva di turbarmi, forse per osservarmi meglio senza farsi notare.
Percepivo il suo sguardo critico ed insistente su di me.
Quando fummo in macchina – chissà perché mi stupii di trovare una Volvo nera tirata a lucido ad aspettarmi al posto di una senz’altro più appariscente limousine – finalmente si tolse occhiali, cappello e baffi finti.
Prima di mettere in moto si volse verso di me accennando una smorfia e indicandomi.
-Sei molto dimagrita. – osservò con disappunto.
I suoi occhi erano freddi e severi.
-Anche tu. – ribattei, balbettando e trattenendo a sento l’impulso di mostrargli la lingua per dispetto.
Mi girai verso il finestrino leggermente offesa.
Michael sospirò e accese l’auto che prese vita con delle fusa appena percepibili.
Mi rannicchiai contro il sedile incredibilmente confortevole e non proferii parola mentre i palazzi, i parchi e le vie di Los Angeles mi sfrecciavano davanti agli occhi.
-Non sapevo sapessi guidare. – osservai, ad un certo punto, con aria annoiata, sperando di avviare una sorta di conversazione.
-Ho la patente. – mormorò Mike,distratto, ed intuii che stava pensando ad altro, così lasciai cadere il discorso.
Trascorremmo ancora qualche minuto in silenzio.
-Susie. – mi chiamò. Poi tacque.
-Susie. – ripeté ancora, addolorato. Mi voltai verso di lui incuriosita. Guardava la strada, dritto davanti a sé, con la mascella contratta e gli occhi socchiusi ridotti a due fessure.
-Dimmi. – lo incitai, vedendo che non proseguiva.
Accostò improvvisamente con una manovra sicura su un lato della strada. Per la prima volta in vita mia, lo vidi furioso.
Prese il mio viso scarno tra le sue mani grandi e pallide e mi guardò fisso negli occhi:
-Perché? Perché hai rinunciato a vivere?-
-Io non ho … - cominciai, ma non mi permise di terminare la frase.
Con due dita tracciò leggero il profilo del mio volto, dalla tempia fino al mento, poi accarezzò con lentezza misurata le ombre pesanti che mi cerchiavano gli occhi ormai da tempo .
Avevo il fiato grosso.
-Ti sei lasciata portare alla deriva, Susie … - mi fece notare,scuotendo impercettibilmente il capo.
Le sue labbra perfette erano a pochi centimetri dalle mie, così deliziose ed irresistibili da sentirne quasi il sapore sulla punta della lingua.
-Michael … - mormorai. Poi lo baciai.
Capitolo 12
Nel momento in cui si verificò il contatto, in cui le mie labbra carnose incontrarono quelle fredde e sorprese di Michael, sentii il suo corpo irrigidirsi e trasformarsi in statua, reazione insolita e inaspettata.
Cercò di scostarsi con delicatezza per non ferirmi.
-No,Susan … è sbagliato. – mi fece notare, in un soffio. Ma la sua voce era debole quanto la sua volontà, o almeno così la percepivo.
Ridacchiai, nervosa eppure finalmente felice, completa. Il mio cuore aveva ripreso a battere. Me lo sentivo rimbombare nel petto, in preda all’euforia.
-Baciami.- lo pregai, in un soffio. Per un breve istante le sue labbra si mossero in sincrono con le mie, adattandosi alla mia bocca che cercava ingorda la sua e rispondendo ad ogni mia richiesta inespressa.
Ma poi, improvvisamente, Mike mi afferrò all’altezza delle spalle, allontanandomi da sé e tenendomi a distanza di sicurezza dal suo viso squisito. La sua incertezza era disarmante.
Chiuse gli occhi, come per concentrarsi meglio.
-No. – disse poi, fermo, perentorio ed irremovibile.
Mi sentii come se il mondo avesse preso a girare al contrario.
-Non … non mi vuoi? – chiesi, in un sussurro quasi incomprensibile, e cominciai a piangere in silenzio. Le lacrime che sgorgavano dai miei occhi mi rigavano le guance e morivano tra le mie labbra. Cercai di spazzare via quella strana sensazione che mi stava nascendo dentro.
Inspiegabilmente, mi ero comportata da ingenua e in modo avventato. Ora, a quanto pareva, dovevo pagarne le terribili conseguenze.
Quante volte può essere lacerato un cuore prima di smettere di battere?
Michael si mordicchiò il labbro inferiore con gli occhi lucidi, come se non intendesse rispondermi.
-Io ti amo. – mormorai, sincera, e sapevo che era la verità.
Ma quanto poteva contare in quel momento? Avevo lasciato che quel sentimento sgorgasse fuori come un torrente impetuoso e ora il dolore straziante che ne derivava mi lasciava senza fiato.
Perché doveva fare così male?
-Perché piangi? – domandò, tormentato e sorpreso.
I suoi occhi danzavano inquieti dal mio volto alle mie mani con le quali stavo martoriando quasi inconsciamente un lembo della maglia di cotone grigia e insignificante che indossavo.
In quel mentre pensai che quella maglia potesse in realtà essere un riflesso di ciò che ero veramente: una ragazzina anonima e banale. Che cosa avrebbe potuto rendermi interessante agli occhi di un uomo talentuoso, sottile e sensibile come Mike? Emisi una sorta di rantolo di frustrazione quando mi resi conto della sua palese superiorità.
Michael mi strinse forte a sé, cullandomi dolcemente. Respirai a lungo sul suo collo marmoreo, riflettendo e tornando con la mente a ricordi lontani e più piacevoli, immersi nella pace e nella serenità che avevano caratterizzato il mio rapporto con Michael fino a due anni prima, quando tutto risultava più spontaneo e naturale.
-A che cosa pensi? – mi chiese Mike, dopo qualche minuto.
Vi era una strana sfumatura d’angoscia nel suo tono di voce, quasi fosse sofferente. Quasi il mio dolore non fosse che un’eco lontana del suo, più profondo e antico.
-A scomparire. – risposi, sincera. Non ero sufficientemente forte per mentire o nascondere anche solo in parte la verità.
Michael si scostò appena, per scrutarmi e studiare attentamente il mio volto con i suoi occhi che bruciavano d’intensità.
-Non voglio che tu te ne vada. –
Queste sue parole rimasero sospese nell’aria, intrise di un significato magico che al momento mi sfuggiva.
-Non posso restarti accanto in questo modo. – mormorai, cercando di dar ascolto al mio buon senso almeno quella volta.
Ciò che ancora era rimasto intatto tra noi dopo quelle telefonate, l’avevo mandato in frantumi nel giro di pochi secondi. Non potevo vivergli vicino con questa consapevolezza. Né potevo costringermi in continuazione a seppellire i miei sentimenti sotto strati di raziocinio: non ne ero mai stata in grado e sarei finita con il fare del male sia a me stessa, sia a lui.
-Ma io ho bisogno di te.-
Michael m’implorava e io, da parte mia, non capivo il significato di quella triste supplica. Sorrisi mesta, posandogli una mano tremante sulla guancia, dopodiché aprii la portiera. Ero già in procinto di scendere quando qualcosa mi trattenne per un braccio. Michael mi tirò di nuovo dentro all’abitacolo con foga, mi strinse a sé e si arrese con un gemito a quell’amore che, per troppo tempo, avevamo deciso di celare ma che quella notte intasava l’ambiente e si trasmetteva da una cosa all’altra, da un corpo all’altro come energia pura, frizzante ed inarrestabile.
Capitolo 13
Quando mi svegliai, il mattino seguente, tra le lenzuola fresche ed immacolate del letto di Michael, ci misi qualche minuto per rimettere in moto il cervello e cercare di ricordare che cosa fosse successo la notte prima.
Mike era ovunque: l’aria era quasi satura del suo profumo inebriante che sapeva di sole, fiori e vaniglia,e la sensazione delle sue labbra sulla mia pelle non mi aveva ancora abbandonata del tutto. Mi misi a sedere e mi guardai intorno, incantata dal pulviscolo che danzava trascinato da una leggera brezza e illuminato da un fascio di luce proveniente da un’ampia e luminosa finestra spalancata.
Avvolta in un lenzuolo lungo e svolazzante mi avvicinai ad essa, sporgendomi appena, come per assaporare meglio le fragranze e gli aromi portati dal vento che, dopo aver accarezzato i prati e i fiori di Neverland, giungeva sino a me, in quella stanza dai contorni sfocati ed evanescenti come quelli di un sogno.
Sospirai, appagata e in pace.
In quell’istante eterno mi parve di sentire di nuovo le braccia di Michael che mi cingevano la vita mentre oltrepassavamo la soglia di quella casa, più simile ad una reggia in realtà, che ad una vera e propria abitazione; le sue mani delicate e leggere sul mio corpo, le mie dita intrecciate ai suoi capelli lunghi e neri.
E poi le sue labbra, la loro infinita dolcezza mentre sfioravano le mie, folli, piene di disperato amore; mentre si accostavano al mio orecchio e sussurravano tremanti il mio nome; quando, sulla mia pelle, esprimevano mute il loro incontenibile e travolgente bisogno di me, un insaziabile desiderio che poteva essere colmato soltanto da quei momenti in cui ci fondevamo insieme sino a formare una lega indistruttibile, che sarebbe resistita,pensavo, anche al logorio del tempo.
In quel mentre, la porta della camera si socchiuse appena.
Rimasi immobile, senza voltarmi, in balia di sensazioni ancora troppo vicine e intense per lasciare il mio corpo così velocemente.
-Susie. – mormorò quella voce terribilmente familiare, che ogni volta mi faceva sentire a casa, al sicuro, lontana da tutto e da tutti.
Michael mi abbracciò da dietro posando le labbra sulla punta della mia spalla nuda.
Un brivido mi corse lungo la schiena.
Feci un respiro profondo e mi voltai verso il mio angelo dalla pelle diafana e il volto serafico e splendente. Irradiava una strana luce celestiale tutt’intorno a sé, specie in quel momento, in cui il suo sorriso da solo sembrava capace d’illuminare l’intera stanza.
Gli passai una mano tra i ricci lunghi e disordinati.
-Ti amo. – dissi, in un soffio, rivolta più a me stessa che a lui.
Dare finalmente un nome e un volto al sentimento che provavo nei suoi confronti e che inevitabilmente ci legava quasi mi rasserenò.
-Ti amo. – mi fece eco, dopodiché mi baciò, tenero.
Ricambiai con trasporto e per qualche momento restammo così, avvolti da quel vortice di sospiri,sussurri e cuori che battevano all’unisono. Ma poi Mike si scostò, come se si fosse ricordato di qualcosa.
-Ti amo, però … - accennò, e il sorriso sul suo volto si spense.
Divenne improvvisamente e inspiegabilmente serio.
-Però? – domandai io,tentennando ma cercando di non far trapelare il panico che cominciava a stringermi il cuore e a tormentarmi lo stomaco, con mille schegge di ghiaccio che si agitavano simultaneamente dandomi la nausea. Non ero sicura di voler sentire il seguito della frase.
Michael, in silenzio, mi posò le mani sulle spalle. Dopo qualche secondo, le fece scivolare lentamente lungo le mie braccia, che ora tenevo incrociate sul petto, per sorreggere il lenzuolo bianco che mi copriva. Mi afferrò i polsi con delicatezza.
-Lascia … - sussurrò.
Il cuore mi batteva all’impazzata e avevo il fiato corto.
Obbedii. Sentii il lenzuolo scivolarmi lungo i fianchi e cadere ai miei piedi. Tremavo.
-Ora … - cominciò Mike, in un soffio, e posò le labbra nell’incavo del mio collo.
-Sì? – lo incitai a proseguire, mentre la sua bocca assaporava ogni centimetro della mia pelle.
-Spiegami … che cos’è questo.-
Michael si allontanò un poco, per concedermi di respirare.
Dopo qualche secondo, la testa prese a girarmi un po’ meno, così trovai la forza di chiedere delucidazioni.
-Questo? – mormorai, incuriosita, e intenta a capire a che cosa si riferisse.
-Questo. – indicò Michael con un cenno della testa, puntandomi gli occhi addosso. Seguii il suo sguardo.
Capii che alludeva ad una piccola macchia violacea e dolorosa all’altezza di una mia costola.
Sapevo bene a cos’era dovuta. I ricordi della violenza di Liam erano ancora vividi, solo attenuati dalla dolcezza della notte appena trascorsa con Michael.
-Non è nulla. – cercai di rassicurarlo, ma lui non se la bevve.
-E questo? – chiese nuovamente, afferrandomi questa volta il polso e puntando il dito ad un centimetro di distanza da quattro chiazze ravvicinate – corrispondenti con le dita della mano di mio marito – stampate sul mio avambraccio.
“Sono solo lividi.” ripetei a me stessa. “Passeranno.”
Ma non ero sicura che se ne sarebbero andati senza lasciare tracce. La ferita che Liam aveva aperto nel mio cuore avrebbe continuato a pulsare, ne ero più che certa. Quelli erano solo i danni superficiali, ma l’abuso di quella notte era andato ben oltre la pelle.
-Sto bene. – mentii, facendo spallucce.
-Non è vero! – sbraitò lui, dirigendosi con passi lunghi e decisi verso la parte opposta della stanza. Era furioso. Spalancò l’armadio, frugando al suo interno con gesti nervosi delle mani.
Fu di nuovo al mio fianco in pochi secondi e mi lanciò dei vestiti appallottolati, tra i quali riuscii a distinguere solo una camicia bianca.
-Copriti! – mi ordinò, pieno di rabbia e cinismo, come se all’improvviso la mia vista fosse diventata per lui insopportabile.
Rimasi interdetta a fissarlo.
Nel frattempo, il mio cellulare, appoggiato sul comodino alla destra del letto, squillò, insistente. All’inizio pensai d’ignorarlo, ma rinunciai subito al mio proposito iniziale.
Portai il telefono all’orecchio, esasperata, senza nemmeno lanciare un’occhiata al display per verificare chi potesse aver avuto l’ardire di chiamare a quell’ora.
-Pronto? – domandai, distratta.
Solo in quel momento mi resi conto, in un lampo di lucidità, che non avrebbe mai potuto essere nessun altro, se non lui.
-Moglie mia! – esclamò, ironico, perfido. Odioso.
Rimasi di sasso. Probabilmente Mike si accorse della mia espressione smarrita, perché mi si avvicinò ansioso.
“Chi è?” lo vidi mimare con le labbra. Lo ignorai.
-Che cosa vuoi?- chiesi a Liam, cercando di mostrarmi scontrosa e augurandomi di apparire forte e spavalda.
-Lo sai … - mi stuzzicò, con la sua voce ruvida. Mi mandò un bacio sonoro attraverso il telefono. Sussultai.
-Non mi rivedrai mai più. – gli promisi. Ma avevo la sensazione che prima o poi mi avrebbe scovata.
Nascondersi sarebbe stato inutile. Liam era ricco ed influente. Avrebbe delegato i suoi scagnozzi affinché mi trovassero e mi riportassero da lui. Era solo questione di tempo,lo sapevo. Eppure non riuscivo a cancellare quel filo sottile di speranza, che strisciava tra i miei pensieri e le mie constatazioni più razionali e realistiche, tentando di incendiarle: ma il fuoco non attecchiva,purtroppo.
-Ho come l’impressione che tu ti stia sbagliando. – disse, facendo eco ai miei pensieri.
A quel punto Michael, al mio fianco, s’irrigidì. Aveva capito.
Nel corso della sua vita fu sempre descritto dai giornali e dai media come un uomo bizzarro ed ingenuo, fuori dal mondo. Ma, se era vero che dentro, almeno in parte, rimase un bambino per sempre, era anche vero che Michael non era uno stupido,anzi: spesso il suo acume e la sua pronta intelligenza stupirono le persone che lavorarono e fecero affari con lui e che ebbero quindi modo di stargli accanto.
-Passamelo. – mi ordinò, con voce calma, fredda ed impassibile. Lo fissai a lungo negli occhi e decisi che forse non era una buona idea.
Gli feci cenno di no e Mike contrasse la mascella,nervoso.
-Chi c’è lì con te,Susan? – domandò allora Liam, che aveva evidentemente udito una voce maschile in sottofondo.
Indugiai troppo a lungo.
-Non .. non sono più affari tuoi. – balbettai infine, incerta.
A quel punto, Michael intervenne.
Mi strappò il cellulare dalle mani.
-Lo sono eccome, bastardo. Perché io sono colui che ti sbatterà in prigione. – disse, con voce ferma e convinta.
Non l’avevo mai sentito imprecare prima d’allora.
Mi misi le mani tra i capelli.
“Non istigarlo!” lo pregai, con un muto movimento delle labbra.
Che diamine stava facendo?
Sentii una risata secca, di scherno, all’altro capo del telefono ma non riuscii a sentire nulla di ciò che Liam rispose. Potevo però immaginarlo. Non si sarebbe affatto lasciato intimidire da una persona come Michael,anzi: avrebbe raccolto volentieri la sfida.
Mike, in ascolto, mi fissò con aria protettiva, come se temesse di perdermi da un momento all’altro. Sbiancai.
-Non permetterò che tu le faccia del male. – mormorò, abbracciandomi nel contempo, come se potesse trarre da quella vicinanza la forza che gli serviva per combattere mio marito e sconfiggerlo.
Per qualche secondo la stanza piombò nel silenzio, silenzio interrotto solo di tanto in tanto da una voce metallica all’altro capo della cornetta, che biascicava qualche parola che riuscii ad udire appena e snocciolava qualche constatazione.
-Non è la tua donna! – abbaiò Mike al mio fianco, all’improvviso, spaventandomi.
Poi chiuse la comunicazione con un gesto secco e scaraventò il cellulare contro il muro.