È soltanto un Pokémon con le armi o è un qualcosa di più? Vieni a parlarne su Award & Oscar!
 
Pagina precedente | 1 2 3 | Pagina successiva

LITTLE SUSIE © (in corso). Rating: verde

Ultimo Aggiornamento: 11/02/2012 17:51
Autore
Vota | Stampa | Notifica email    
07/01/2012 11:21
 
Quota
Post: 1
Registrato il: 10/07/2011
Età: 28
Sesso: Femminile
This Is It Fan
OFFLINE
Capitolo 3
Il volo da Manila a Bandar Seri Begawan durò poco più di due ore. Non ero mai stata su un aereo prima d’allora. Tutto era nuovo e magico.
Javier sedeva imbronciato accanto a me, sui comodi e spaziosi sedili di prima classe. La tensione tra noi era ancora palpabile. Ma, tutto sommato, eravamo insieme: questo era ciò che contava davvero.
Ogni tanto sentivo il bisogno di rileggere la lettera di Michael, solo per assicurarmi che quello che stavo vivendo non fosse solo un semplice e bellissimo sogno dal quale prima o poi mi sarei svegliata.
-Mi stai innervosendo. – sbottò improvvisamente mio fratello, arrestandosi di colpo e inchiodandomi con un’occhiata gelida.
Stavamo cercando di orientarci in mezzo a quella massa disordinata di turisti eccitati e uomini d’affari in giacca e cravatta, per incanalarci e uscire finalmente dall’aeroporto.
Javier non mi rivolgeva la parola da più di ventiquattro ore ormai, quindi colsi quell’occasione al volo.
-Non capisco a cosa tu ti stia riferendo. – mormorai, accennando appena un timido sorriso.
Alzò gli occhi al cielo, sbuffando spazientito.
-Ritira quella dannata lettera, Susie … e cerca di tenere il passo. -
Obbedii senza protestare. Quando fummo all’esterno, tirammo entrambi un sospiro di sollievo: non eravamo abituati a tutta quella confusione.
Rimanemmo qualche minuto in silenzio, ad ammirare attoniti la città che si apriva snodandosi davanti ai nostri occhi: la gente che fino a pochi istanti prima si era ammassata nei pressi dell’ingresso dell’aeroporto, impaziente di uscire da quel luogo, ora si disperdeva per le vie della capitale, a piedi oppure a bordo di taxi e mezzi pubblici.
Javier mi sfiorò appena il braccio, reclamando la mia attenzione.
-Qual è l’indirizzo dell’albergo?
Estrassi uno stralcio di carta spiegazzato dalla tasca sul quale avevo annotato poco tempo prima il nome dell’hotel in cui avremmo alloggiato.
Lo consegnai ad Javier, che strizzò gli occhi nel tentativo di decifrare la mia scrittura, dopodiché fermò un taxi.
-Poteva almeno darci un passaggio su una delle sue innumerevoli limousine. Non penso sarebbe stato troppo dispendioso per lui. - bofonchiò Javier, quando il tassista mise in moto l’auto e alzò il volume della radio.
-Javier! – lo ammonii.
Mi fissò accigliato. L’ultima cosa che desideravo era offenderlo nuovamente, quindi cercai di rivolgermi a lui in modo pacato e gentile:
-Sai bene che non avrebbe potuto. I paparazzi e i fans lo seguono ovunque, sembrano perseguitarlo. Lo adorano e lui contraccambia, certo, ma a volte può risultare fastidioso questo comportamento,non trovi? Non piacerebbe nemmeno a te essere così popolare. È assurdo. Non può andare al cinema, al supermercato o all’aeroporto che subito viene circondato da masse di ragazze urlanti che gridano il suo nome come delle ossesse. –
Ridacchiai. Prima della nostra partenza, avevo avuto l’occasione di discuterne al telefono con Mike, che mi era sembrato tra il divertito e il terrorizzato.
Javier non commentò: semplicemente si voltò verso il finestrino. Lo imitai.
Quando giungemmo all’albergo, fummo condotti in un’ala dell’edificio che era stata destinata solo a Michael e che comprendeva un totale di otto stanze: sei camere di modeste dimensioni e due suite spaziose ed eleganti, perennemente sorvegliate.
In una di queste dormiva Michael.
-Secondo me ha qualche mania di grandezza. – mi sussurrò all’orecchio Javier, poco prima di entrare nella camera più ampia e lussuosa che avessi mai visto.
L’arredamento denotava raffinatezza e buon gusto, sebbene ci trovassimo all’interno di un hotel. Il mobilio era semplice e consono all’ambiente, ma comunque molto elegante e all’altezza della situazione. Di fronte a noi, vi era un’enorme portafinestra chiusa rigorosamente a chiave, che dava sul balcone. Dubitavo che Mike l’avrebbe mai utilizzata: probabilmente desiderava essere il più discreto possibile e teneva alla sua privacy e alla sua sicurezza.
-Susie! – esclamò Michael, correndomi incontro con un sorriso caloroso e accogliendomi con un abbraccio. Sembrava ci conoscessimo da sempre.
-Ciao. – mormorai, impacciata. Non avevo idea di come comportarmi con lui. Temevo di offenderlo se gli avessi dato troppa confidenza e, viceversa, speravo di non turbarlo con la mia apparente freddezza.
Rise come un bambino,poi salutò Javier che cercò di mostrarsi cordiale e affabile.
-Prego! Accomodatevi! Com’è stato il viaggio? – s’informò, dirigendosi verso un grande divano al centro della stanza dall’aria estremamente comoda e confortevole e sprofondando con eleganza tra i cuscini.
-Piuttosto bene, grazie. – risposi. Pareva deluso dalla mia risposta evasiva,per cui aggiunsi, affinché non ne avesse a male:
- Era la prima volta che volavo. Non è stato così terribile.-
Rise. Era così gentile e di buon umore che poco a poco mi rilassai e presi a parlare con maggiore spontaneità.
-I tuoi genitori come hanno reagito?-
Feci una smorfia scomposta al ricordo delle suppliche che avevo rivolto a mamma e papà affinché mi permettessero di partire. In principio mi erano apparsi irremovibili, ma poi, a causa della mia insistenza, mi avevano concesso, anche se malvolentieri e con qualche riserbo, quella breve vacanza. Comunque, erano rimasti molto delusi. Michael, divertito, cercò d’imitare la mia espressione che evidentemente trovava incredibilmente buffa. Ridemmo entrambi. Con la coda dell’occhio notai però che Javier, seduto sul divano di fianco a me, ci controllava attentamente, con la schiena ritta come un fuso, quasi fosse in procinto d’intervenire per rimettere ciascuno al proprio posto.
Il suo comportamento mi irritava, per cui poco dopo mi congedai con una scusa banale e non troppo credibile.
-Michael, forse dovremmo andare a riposarci un poco. Sono piuttosto stanca. – dissi alzandomi e avviandomi verso la porta della camera. Javier mi seguì.
-D’accordo. Ci vediamo stasera.- mi salutò Mike.
Ma poi, più tardi, all’ora di cena, mi rifiutai di raggiungerlo nella sua camera: troppi pensieri mi affollavano la mente, e un turbinio di emozioni diverse mi stringevano il cuore. Non volevo affrontare la cordialità di Mike e l’inquietudine di mio fratello in quello stato: non avrei saputo far fronte né all’una, né all’altra.
Mi sdraiai sul mio letto e mi misi ad osservare il soffitto immacolato. Il bianco uniforme del muro sembrava riflettere il bianco in cui galleggiavano le mie riflessioni in quel momento: riflessioni fini a se stesse, che non mi portavano da nessuna parte, se non alla deriva.
Chiusi gli occhi, tuttavia non riuscii ad addormentarmi.
Scesi dal letto, furiosa, e presi a passeggiare per la stanza. Ma ad ogni mio passo, la camera sembrava stringersi intorno al mio esile e debole corpo, diventando sempre più piccola e soffocante.
Lacrime di rabbia e confusione mi rigarono le guance mentre l’oscurità pareva farsi sempre più fitta e impenetrabile.
“Devo uscire da qui!”
Allungai le mani dritte davanti a me alla ricerca della maniglia della porta. Incespicai diverse volte ma infine la trovai, soffocai un grido di gioia ed uscii quasi correndo.
Mi ritrovai in corridoio.
In fondo ad esso vi era la camera di Michael, dalla cui porta socchiusa proveniva un sottile fascio di luce. Guadai l’orologio che portavo al polso e che troppo spesso dimenticavo di togliere quando andavo a dormire: segnava le due di notte. Possibile che fosse ancora sveglio?
Mi avvicinai, spinta dalla curiosità, quasi strisciando contro il muro, che trasudava calore e famigliarità, contrariamente a quelli della mia fredda e austera stanza d’albergo,nella quale ritenevo fosse impossibile trascorrere anche una sola notte.
Quando fui a poco più di due metri dalla porta, avvertii un rumore sordo, accompagnato da un fruscio di passi leggeri e da un gemito di dolore.
Entrai quasi istintivamente. Trovai Michael seduto per terra, a gambe incrociate, con la testa fra le mani.
Alzò lo sguardo verso di me, stupito. Non vidi mai degli occhi più addolorati dei suoi quella notte, né prima, né dopo.
Mi gettai al suo collo, stringendolo forte a me e piangendo con lui, colta da un’improvvisa malinconia e da uno sconforto straziante.
Ogni singhiozzo lo attraversava e lo faceva tremare fra le mie braccia magrissime, trasferendosi dal suo corpo al mio.
Non saprei dire quanto tempo rimanemmo accoccolati su quel pavimento duro e freddo, a consolarci, a scambiarci l’un l’altro dolori e preoccupazioni, lacrime e sorrisi di gratitudine.
Ma più tardi, esausti e svuotati, ci addormentammo l’uno nelle braccia dell’altra, senza trovare la forza per alzarci e tornare nei nostri rispettivi letti.
Il mattino dopo mi risvegliai sul divano della suite di Mike.
Mi guardai intorno, spaesata. Sul tavolino di fronte al divano era stato appoggiato un vassoio elegante e capiente decorato con motivi floreali, colmo di ogni ben di Dio: dalla fetta biscottata alle uova strapazzate, dal caffelatte alla spremuta, dalla torta al cioccolato al bacon.
Mi misi a sedere. Un tiepido raggio di sole filtrava dalla portafinestra della suite e si posava sulla mia schiena, scaldandomi.
Michael sbucò all’improvviso da una stanza adiacente, che probabilmente fungeva da camera in quella suite che più che a una stanza d’albergo assomigliava a un lussuoso appartamento. Mi sorrise impacciato e stanco.
-Non sapevo che cosa preferissi mangiare per colazione. – si giustificò, di fronte al mio sguardo sbigottito. Annuii.
-Mi fai compagnia? – gli domandai, accennando un sorriso timido e tamburellando con le dita il posto vicino al mio.
Si sedette accanto a me, così vicino che potevo respirare il profumo della sua pelle,fresco e intenso, quasi inebriante.
Addentai la fetta di torta al cioccolato, il cui aspetto era così invitante che mi sembrò quasi un sacrilegio non assaggiarla.
Masticai pensosa, osservando con la coda dell’occhio Mike che se ne stava in silenzio di fianco a me, evidentemente a disagio.
-A che cosa pensi?- chiese, per rompere il silenzio.
La mia bocca parlò quasi da sola:
-A ieri notte.-
Appena le ebbi pronunciate, desiderai rimangiarmi subito quelle parole. Michael levò lo sguardo dai miei occhi, imbarazzato e teso. Era piuttosto chiaro che avrebbe preferito non tornare mai più sull’argomento. Tacque per qualche minuto, mentre sorseggiavo la spremuta. Dopodiché domandò, in un soffio, senza guardarmi:
-E che cosa pensi? –
Sospirai. Michael cercava sempre di aprirsi un varco per insinuarsi nella mia testa, ma la sua per me e per il mondo intero rimaneva un mistero insondabile.
-Sto pensando come sia possibile, dopo quello che è successo, cercare di ricostruire di nuovo quel muro. – mormorai.
Mike si voltò verso di me.
-Quale muro? –
- Questo. – risposi, posandogli con delicatezza la mano sul cuore.
Lui si scostò con un fremito. Annuii a me stessa.
-Ieri notte sono state abbattute tutte le barriere imposte dal buon senso e dal pudore. Oggi, invece, ti sento così distante che tutte le volte che cerco di riafferrarti svanisci come labile fumo e mi scivoli via dalle dita. Ieri avevo un amico. Oggi non so. -
Il suo sguardo si ammorbidì.
-Sono qui, Susie. Sono sempre io. – mi giurò.
A quel punto, assillata da mille dubbi, alzai la voce:
-Ma chi è Michael Jackson? Il Re del Pop? L’artista più venduto del mondo? O un uomo solo, lo stesso che ieri sera ho visto piangere seduto sul pavimento di questa stanza? Non lo so. Non so chi sei. –
Si strinse nelle spalle.
-Non mi aspetto che tu mi comprenda perché nessuno l’ha mai fatto. Forse hai ragione. Forse per godere appieno di tutti gli aspetti di un rapporto d’amicizia oppure anche solo, semplicemente, del mondo che ci circonda, bisogna imparare ad aprire le porte dell’anima. Ma cerca di metterti nei miei panni,Susan: tante volte ho amato, tante volte ho riposto la mia fiducia in persone che credevo essere sincere, e troppo spesso questa mia fiducia è stata tradita. Non biasimarmi, dunque, se prendo le distanze da tutto e da tutti, perché penso sia una sorta di istinto di sopravvivenza, una specie di corazza che m’impedisce di soffrire ancora. – mormorò.
Strinsi la sua mano fra le mie.
-Ma tu chi sei? – gli chiesi, di nuovo, in un soffio.
Avrei anche voluto porgli un’altra domanda, ma mi pareva troppo ardita e quasi infantile. La tenni dunque per me.
Mi sorrise.
-Io sono semplicemente Michael Jackson. -
Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 2 3 | Pagina successiva
Nuova Discussione
 | 
Rispondi

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 13:26. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com