DARK DARK DARK
Who Needs Who [2012,
Melodic Records
Chamber Folk
7,50
Tracks
Dark Dark Dark - Who Needs Who by Melodic Records
Il chamber folk in tutto il suo grigio splendore
Tutti in piedi. Uno dei dischi pop dell'anno e lo dico adesso mentre lo sto ascoltando al primo colpo. Semplicemente perfetto, lineare nelle sue melodie mai scontate, con sussulti jazzistici, escursioni pianistiche degne di un neoclassical senza bisogno di voce, abissi silenti e vibrazioni verso il cielo. Già, musica che non avrebbe neppure "bisogno di voce"...
Ma la voce c'è ed è semplicemente lo stato dell'arte per quanto riguarda il pop 2012. Nessun bisogno di enfasi, nessuno show off di tecnica vocale fine a sè stessa: Nona Marie Invie guida i Dark Dark Dark (ensemble di alt pop di Minneapolis con numero variabile di elementi, giunti al loro terzo LP) come fosse cosa propria e lo fa divinamente. A differenza di tutto quello che prevede lo show biz, la sua musica non è definita in termini immediatamente emotivi. Non vi sono quindi le tipiche convenzioni del pop femminile, per cui bisogna abbondare di tecniche di riempimento, alterazione timbrica ed enfasi espressiva.
Qui ricorre invece la lezione di Nico e la gelida ambientazione di pezzi pop cantati con inquietante inespressività.
Nona Marie è un contralto naturale che costruisce pezzi attorno ad uno scarno giro di piano ballate rigorose, con un ritmo esile, un tempo in continuo divenire ed una batteria jazzata. Si tratta pezzi "etereo-dossi", non inquadrati e celestiali allo stesso tempo.
Certo la voce è morbida, inflessibile, sempre ispirata e guida pezzi che diventano altrettanto languidi ed inclini al magnifico, assumendo talora orchestrazioni da brassband, altre volte si riducono a scheletriche esecuzioni pianistiche. Cè una punta di esitazione nelle melodie, un fascino arcano aleggia intorno a queste armonie ed impedisce ai pezzi di scendere sul terreno, di sporcarsi, di diventare passionali, di piacere ai sensi con melodie insistite e catchy, che non siano solo cibo per la mente ma anche per il corpo.
Ma qui veramente si tratta del punto di arrivo del pop colto ed armonico. Qui dovrebbe venire la Natalie Merchant e i 10000 maniacs a studiare come si può rimanere nella stratosfera senza scendere a compromessi con le esigenze del commercio musicale.
Si tratta di una sequenza impressionante di perle e piccoli capolavori pop. Potrebbe diventare un piccolo classico del genere, forse solo manca solo di un alt-anthem da poterli mandare nelle orbite dei circuiti underground. E certo, putroppo manca quell'invenzione, quella complessità musicale che potrebbe farli portare in alto. Qui ci si accontenta di grandi melodie ed esecuzioni sì rigorose ma indubbiamente scarne, povere di cifra artistica assoluta e forse perfino di coraggio.
Così
Who Needs Who è un neoclassical, una via di mezzo tra Natalie Merchant e Fiona Apple. Presto passano trombe e un ritmo stanco che insieme trascinano via questa ballata dalla melodia malinconica, portandola verso un clima di mestizia ed in una zona da inno funebre. Ma a circa metà pezzo il tempo pare cambiare, gli strumenti sembrano rinnegare tanto il pezzo quanto il mood complessivo e la band comincia ad improvvisare una mutazione gitana del suono, sorta di parodia momentanea. Ma ecco che rientra la voce glaciale di Nona Marie che impone il ritorno del refrain, sorta di evocazione di ricordi di un amore spezzato (il suo: ha avuto una storia con il chitarrista finita da poco). Mi sembra un'aria che ricorda da vicino il pathos degli excursus pianistici di certi Blitzen Trapper. Qui però il senso drammatico è superiore ed i pezzi hanno una compostezza maggiore: davvero una prova magistrale per i D.D.D.
Tell Me ha un incedere da marcetta, e mentre l'inseparabile piano accompagna il pezzo come fosse una ballata tradizionale del nord dell'inghilterra, una chitarra produce un leggero riverbero di sfondo, quel po' di foschia necessaria per seguire il beat vagamente jumpy che allontana momentaneamente il senso di depressione sparso ovunque lungo quest'album. Alla fine il pezzo si ostina su una nona, ricordando un po' l'espediente dei Coldplay per terminare i pezzi; per fortuna qui c'è del gran talento.
Last Time sembra un esercizio di pop pianistico alla Regina Spektor diventata improvvisamente seria. C'è un'ambientazione folk, con un ritmo bandistico ma i frequenti passaggi in minore lasciano un'impronta piacevole e mai scontata. Certo, qualche critica si può muovere anche qui ed il rischio è quello di rendere l'album monocorde e monocromatico, ripetendosi il suono per tutti i pezzi del disco. Va detto però che ogni brano ha una certa urgenza espressiva: qui ad esempio c'è il suono di un organetto da applausi e la melodia è intoccabile.
Patsy Cline, declinata al piano, mette giù immediatamente due-tre voti di distacco con l'ultimo di Tori Amos, simile per impostazione ma non per esito complessivo, uscito miseramente un paio di settimane fa. La strumentazione è mero contorno, cornice minimale di un pezzo che si gioca tutto tra piano e voce, senza sbavature ed incertezze. Diviene quasi un soul liturgico nella sua coda che è davvero da applausi.
Without You è l'esercizio folk in puro stile Fiona Apple. e che ci porta in un vicolo di qualche città europea, nemmeno tanto identificabile. E' caratterizzata da una indefinibile progressione di accordion, sorta di blues lunare costruito attorno ad un giro di contrabbasso. Alla fine vi sono echi di Kurt Weill, come è logico immaginare allorché vi sono americani ad evocare un ambiente sonoro di tipo europeo.
How It Went Well è un piccolo capolavoro: la rivincita della grande tradizione americana dell'enterpreneurs da jazz club. Cantato come Peggy Lee usava fare, con una semplicità disarmante mentre si accostava a pezzi di tradizione black, qui viene fuori qualcosa che sembra un blues swingato, triste e mantenuto sopra ad un piano decisamente avaro di note ed una chitarra morbidissima. La batteria compone un saggio di ritmica, parendo affidata ad un malato di parkinson che ha trangugiato troppi caffè per starsene sereno. Pezzo da conservare in cassaforte ed inserire in ogni playlist lunare ed alternativa.
It's a Secret non abbassa il livello del disco ed anzi, per quanto possibile, lo innalza, tra clarini, arpeggi pianistici e passaggi in semitoni: una ballata leggermente stralunata, decisamente ricca di grazia.
Hear Me è un miscuglio di rumori e sonorità montanti che imbrogliano e non lasciano cogliere il senso del pezzo. Quando entrano le voci si leva un'armonia decisamente priva di tempo, liturgica, di una bellezza spettrale.
Meet Me In The Dark e
The Great Mistake costituiscono quell'esodo mesto del disco che ci si aspetta da un disco di blue moods come questo. Ma mentre il primo pezzo sfoggia una certa vitalità e qualche ansia espressiva, il secondo è un inno corale, un soul senza tempo, senza angosce e si risolve in un saluto dove la serenità è ritrovata.
Iperconsigliato, senza se e senza ma.