Cos'è?
ADR E' una lista che rappresenta la
mia corrente preferenza per la musica dei 90's. Si tratta di pop e rock. Era nata come i 250 migliori pezzi, ma è presto abortita per mancanza di materiale online, su Youtube. Quindi è diventata i 250 migliori artisti
rigorosamente "off", indies o hipster o alternativi, dei '90. Un solo pezzo per artista con relativo video. 'Sta faccenda del video ha fortementissimamente condizionato la lista, va detto e ridetto. Si è bloccata a 206, continuo da lì poi.
Perchè?
ADR Non lo so neanch'io ma mi serve. Con quella degli anni '80 e '00, a dire il vero. A cosa qui non lo dico, ma serve. Diciamo che qui fa contenuto e si può parlare di musica extra MJ.
Come funziona?
ADR Uno la legge, se vuole. Sennò, no.
Come si fa a leggerla o peggio, ad apprezzarla?
ADR E' lievemente ipertestuale, quindi basta cliccare sul titolo del pezzo e questo per magia dovrebbe apparire in forma di video dal tubo. Così tutti valutano se è una zuzza o no.
E' tutto qui?
ADR Sì. ma c'è da sapere che fare la lista ci si impiega un attimo, cercare i video, abbinarli, trascriverli e fare il commento, eccetera, ci vuole un eone di tempo. Paradossalmente i commenti, che forse erano la cosa più importante, li ho fatti tutti stasera e solo per i primi 50 pezzi. Mi risevo di cambiare il testo che sarà pieno di errori, non solo di ortografia. Non ci crederete ma non l'ho ancora riletto.
E io che faccio?
ADR Se vuoi puoi postare quello che ti pare. Soprattutto critiche e soprattutto insulti, anche a caso. Se proprio sei in vena, puoi dare critiche costruttive, tipo "non si può tirare un po' più in giù x o y", eccetera.
p.s. le altre quattro parti mi auguro arrivino presto, dipende dalla mia indolenza.
Ok.
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250.
Pavement - "Gold Soundz"
Allora, questo pezzo è il pezzo pop degli anni ’90 per antonomasia [1992], è il Pitchfork n. 1 degli anni ‘90, il pezzo hipster più famoso e probabilmente il più amato da molti (e certamente anche il più odiato, ovvio). Va anche detto che non è il pezzo migliore dei Pavement e questa la dice lunga su di loro. E’ anche il motivo per cui ho fatto questa classifica, ispirato dalla lista della webzine più famosa d’America per l’alt-pop. “Gold Soundz” potrebbe benissimo stare in qualunque punto della mia classifica ma ho preferito che aprisse questa lunga lista proprio perché costituisce il punto di incontro e unione con la lista di Pitchfork. Va bene, non vi annoio. I Pavement sono il gruppo di riferimento per il lo-fi, ovvero per quel genere minimale, tra pop e rumore, che ha fatto degli anni 90 un decennio unico. Gold Soundz è come al solito una ballata ambigua a là Pavement, dove la voce sembra sempre calare, l’incedere del ritmo pure, mai perfettamente a tempo, le chitarre mai del tutto perfettamente accordate, e dove si respira un’aria di tristezza mista a speranza, incoscienza, coraggio…fate voi. Poi va detto che Malkmus ha di suo una particolare voce malinconica ed un timbro morbido ed affranto; le chitarre paiono sempre andarsene per arpeggi eterei ed estatici ma sempre su scale minori ed in territori dove nulla è perfettamente al suo posto. Perfino un ipotetico pentagramma dove si trascrivesse il pezzo dovrebbe avere le righe non perfettamente diritte ma ondeggianti, flessibili come fili dell’alta tensione, con le note posizionate in modo insolito ed ambiguo, magari appoggiate ambiguamente al rigo, in modo indecifrabile alla lettura. Anche le liriche sono in sintonia con il suono tutto intellettuale del pezzo e meriterebbero un capitolo a parte (“so drunk in the august sun, and you’re the kind of girl I like becasue you’re empty and I’m empty”). In Gold Soundz c’è tutto questo ma c’è anche di più, poiché v’è anche quella sensazione, quel retrogusto di piacere che fa avvertire, per un attimo, come questa sia una di quelle ballate irripetibili, sospese nel vuoto di in un mercato immobile, fatto di musica tutta uguale, e che ci fanno sentire, per un istante, diversi e tutt’uno con l’ignoto.
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249.
Quasi – “Our Happiness Is Guaranteed” [1998]
Il noise-pop dei Quasi è una ricerca stilistica, un vezzo di gente con l’innato senso della melodia. A me è anche troppo congeniale, sebbene in odore di easy listening. Si tratta di dream-pop ma con una solida base ritmica, alle volte più confusa che psichedelica; i pezzi di un album dei Quasi sono bozzetti di pop lunatico e stravagante, ma sempre dotato di un contagioso appeal. L’eccentricità infatti è limitata alla parte strumentale, mentre la voce recita con distacco la melodia, di solito semplice ma eterea, con un buon effetto finale di immediata empatia. “Our Happiness is Guaranteed” è tratta da “Featuring Birds” [1998], un eccellente album di spirito eelsiano ed è sintomatica del genere: ha un inzio fortemente ritmico che pare un solo di batteria, pochi attimi e si leva un maelstrom di tastiere solarizzate in un amalgama confuso a metà fra serio e faceto, in ipotesi a mezza via fra Genesis e Inspiral Carpets. Quando il vortice si calma parte la serafica melodia di Coomes, che sovrasta soavemente un semplice bordone di feedback, quasi che il pezzo fosse una prova di Lou Reed mentre dalla veranda contempla il mare.
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248.
Heather Duby -"Judith" [1999]
Anche chi non ama il trip-hop dei 90’s dovrebbe poter apprezzare Heather Duby. A parte i terribili video della Duby (che poi sono comuni a tutto il mondo indies o alternativo, probabilmte i soldi contano) , le soluzioni musicali di questa sono sempre abbastanza ricercate e non vivono solamente del drum&bass tipico del genere. Atmosfere oniriche, arpeggi che ricalcano carillion vagamente stonati, una certa dose di energia nelle parti vocali ancora più soavi di quelle portisheadiane infondono una certa attitudine a sprofondare nella poltrona per l’ascoltatore, alla ricerca del brandy giusto per gustare il brano, più che fornire la colonna sonora per viaggi mentali. E’ anche una bella pupazza, cosa che non guasta mai (se avete gli anni giusti per pensare a cosa le fareste con quel make up così, ma che lo dico a fare in un forum a maggioranza di donne…).
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247.
Mansun – The Chad Who Loved me [1997]
Ora, definirli brit-pop mi sembra un poco ingiusto visto che si tratta di una voce enciclopedica che oramai è un dispregiativo al pari di trash o junk-pop. Quanto meno i Mansun non sono stati solo quello ed hanno realizzato un album “Attack Of The Grey Lantern” [1997] che ha un set di hit di grande fortuna in Gb, un po’ meno qui da noi, dove sono poco conosciuti. Il pezzo: si tratta di un pop a tratti sinfonico, una cantilena tra suoni dilatati alla ricerca dell’estasi sonora, interpretata con convinzione dalla voce che si stende rilassata (ma processata) e sognante anche per il resto dell’album. Un plauso particolare alle chitarre che tolgono un po’ di epicità al pezzo, dando una certa misura complessiva. Anche considerandoli Brit-pop mi pare una delle cose migliori del genere; in ogni caso ritengo si possa dopo tanti anni tributare qualcosa al brit-pop che ha dominato le classifiche universali dei primi anni ’90 (oltretutto con band tipo gli Oasis, che non erano certo la milgiore espressione del movimento). Si sente putroppo il manierismo nei Mansun, va detto, e questo forse è stata causa di profonde critiche (e di qui la bolla di brit-pop, ovvero di “forma- ma- poco-contenuto”) ma uno sdoganamento ci starebbe tutto ad una band altrimenti destinata all’oblio.
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246.
Stone Temple Pilots - “Vasoline” [1994]
Gli Stone Temple Pilots non ebbero lo stesso successo di altri gruppi della scene di Seattle, forse perché il loro suono ritornava su percorsi di un rock più classico, ma proprio per questo rispetto ai nomi più altisonanti avevano una maggiore apertura verso soluzioni ibride, potendo sempre fare affidamento ad un tecnica superiore ai gruppi più famosi. Va detto che c’è sempre qualcosa di non completamente soddisfacente nei loro album ed il suono non è mai particolarmente originale. In ogni caso, si tratta di pezzi sempre di ottima fattura, ed il layout complessivo risulta superiore per caratura al valore medio del mercato di consumo al quale comunque appartengono (ancorchè forse un po’ ai margini). “Vasoline” è tutto ciò e di più: un riff accattivante tra Pearl Jam e Soundgarden attorno al quale ruota tutto il brano; una forma –canzone di lunghezza e struttura classica, un assolo in stile Jimmy Page e una solida armonia tra voci conferiscono al brano un impianto lontano dall’asperità dell’hard rock (che ne ha decretato un certo successo anche commerciale, cosa mai da disprezzare).
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245.
The Pogues – The Sunny side Of The Street
Secondo un celebre critico gli inventori del “Rogue-Folk”. Più semplicemente il folk irlandese suonato con la foga punk di un gruppo di college-rock. Ritengo Shane Mac Gowan un cantante eccezionale oltre che un buon autore e talvolta, come in questo pezzo, sa unire tradizione folk e rock in ballate trascinanti. Anche qui la voce tradisce il tasso alcolico, ovviamente credo solo rappresentato, idealizzato, non necessariamente ritengo fosse sbronzo il giorno dell’incisione, cosa tipica della produzione dei Pogues dei 90’s. Ma è da copione, credo sia ciò che ci si aspetta da un irlandese accalorato e dedito alla riscoperta della musica tradizionale in chiave rock. Se ascoltate l’ottimo Hell’s Ditch [1991] troverete anche altri pezzi di un certo spessore, talora perfino accorate elegie, per nulla ebbre, anzi raccolte, venate da una certa tristezza come Lorca’s Novena che ha perfino velleità di folk trans-nazionale. Un disco da portarsi assolutamente con se in Irlanda, in caso di viaggio.
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244.
Juliana Hatfield – “I See You” [1992]
La Hatfield è da sempre idolatrata dai critici dell’alt-pop. Vabbe’, è brava e carina e ci può anche stare di diritto qua dentro; va detto che pare belinda carlisle oppure le gogo’s ma pazienza… In ogni caso, non può essere messa in dubbio la sua innata capacità di trovare melodie più che discrete ed un impianto complessivo di dream-pop che le permette di dare alle stampe melodie esili e pezzi a strumentazione rarefatta come questo. L’album di riferimento, Hey Babe [1992], ha più di un pezzo assolutamente da top 10, in un contesto assolutamente indie e da college pop per cui Juliana Hatfield merita la collocazione in ogni classifica del decennio (magari nei gradini più bassi). Addirittura il pezzo in questione ha qualche rimarchevole stop&go che fanno levitare il giudizio complessivo. Poi, certamente la tipa è una di quelle da coltivare per un rapporto stanziale, sarà questo che piace tanto ai critici maschi (a me pochissimo: ecco perché se ne sta oltre il 200° posto…)
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243.
Jeff Buckley – “Eternal Life” [1994]
Allora, su questa lista mi ero ripromesso di non mettere grandi nomi che (cosa rara, del resto) avessero effettivamente fatto qualcosa di realmente meritevole di risultare fra le cose migliori del decennio in questione. Così non ci sta Beck, ad esempio, che pure aveva fatto qualcosa di eccellente, non parliamo di altri grandi nomi. Però per Jeff Buckley mi è parso equo inserirlo qua dentro. Un po’ perché temo sia lentamente destinato all’oblio in quanto non certo leggendario come il padre; poi perché è stato una meteora, potendosi contare solo un lavoro effettivo a suo carico. Non è un vero autore ma più che altro un cantante e quindi a me non sta molto simpatico, eppure ... eppure… Qualcosa di rimarchevole c’è visto che le sue cover mi paiono sempre le migliori (Halleluiah è il pezzo che chi non ama le mie interminabili liste ricorda sempre per primo, e così lo metto sempre nelle liste tanto per fare catchy. In ogni caso non è –mi pare- un nome troppo noto quello di Jeff Buckley (ma forse è il più noto di questa lista), quindi mi pare risarcitorio inserirlo qui. Niente di nuovo al sole ma c’è “grazia” ovunque in questo Grace [1994] ed in questo pezzo in particolare, Eternal life. Anche qui la voce è pura e cristallina benché sia in fondo di un blues intriso di rabbia e dolore: non è una prova semplicissima di canto. Se poi c’è una cosa buona di Jeff Buckley è che non si lascia mai prendere la mano e non vuole mai eccedere nel dare saggio delle sue pure indubbie capacità vocali. Oltretutto, vista la sua giovane età, la voce è tanto solida quanto ancora fresca. Il blues è quindi energico, talora esplosivo, congegnato ad hoc per fare risaltare l’interpretazione. Ecco, il problema di Jeff Buckley non è tanto se si sia guadagnato o meno un posto nella storia per questo suo unico album; il problema è piuttosto che la sua triste vicenda umana evoca e induce sempre al confronto con l’altrettanto infelice esistenza del padre. Questo confronto, francamente, mi pare troppo ed ingiusto per chiunque; l’unico modo quindi per ricompensarlo ex post mi pare sia quello di tributargli un posto fra i grandi di tutti i tempi.
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242.
Aimee Mann “Save Me” [1999]
Aimee Mann è l’ex leader dei Till Tuesday che qualcuno di voi ricorderà avendo avuto una certa notorietà negli ’80, proponendo un pop commerciale di discreta fattezza (ma legato agli schemi musicali e perfino visuali di quegli anni). In seguito, lasciato il gruppo ha cominciato a proporre un folk più intimista ed introspettivo, guadagnandosi l’incarico di realizzare il soundtrack del film Magnolia. Cosa che ha fatto bene e di qui prende spunto il pezzo di Save Me, divenuto un hit internazionale di un certo successo. Mi ha sempre lasciato il dubbio che si tratti di una viaggiatrice di territori comuni a Dido (da quando è uscita dai Faithless, almeno), non proprio arte. Ma se si può concedere qualcosa in più ad Aimee Mann, a mio parere è perché oltre a scriversi tutti i pezzi, non indulge in alcun atteggiamento edonistico, per il gusto di piacere a tutti i costi al pubblico. E Save Me è una ballata che ricorda molto da vicino la Younghiana Out On The Weekend ma con un retrogusto dolceamaro di piacevole estrazione pop in più. Alla fine appare simile a Tom Petty, non al grande Neil… Piacevoli le armonie sognanti ed il taglio delle chitarre, di solito fattore determinante per portare un pezzo (abbastanza) in alto nelle vendite.
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241.
The Faint – “Worked Up So Sexual” [1999]
Si tratta di epigoni di un genere assolutamente coinvolgente lanciato dai Suicide negli anni ’70; nella fattispecie, un cross over fra dance-pop degli 80’s e l’elettronica mainstream dei ‘90s. Sono tangibili i riferimenti agli OMD, ma se ne distanziano perché amano inserire qualche elemento futurista di disturbo elettronico (senza comunque alterare un’immeditata fruizione del pezzo). Odiati ovvero amati a seconda della rilevanza che si voglia tributare al criterio dell’innovazione nel giudizio della musica, i Faint hanno resuscitato con successo negli anni ’90 la danza macabra di Alan Vega. “Worked Up So Sexual” prende inizio in un vortice sconnesso di vibrazioni elettroniche a cui si unisce il midtempo di una drum machine. Quando Todd Fink inizia a cantare dà l’incipit ad una ballata dance con qualche elemento dark-pop degli 80’s; con una buona intuizione al min. 1:52 la voce si ritrova a declamare il motivo accompagnato dai soli inserti elettronici, forse per ricordare che il synth-pop è definitivamente tramontato e così, di lì a poco, termina anche il pezzo. Tutto sommato breve ed è bene così.
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240.
Jane’s Addiction – “Stop!” [1990]
I Jane’s Addiction ebbero qualche merito ed ottennero molto più che qualche favore della critica all’epoca dei loro esordi, sul finire degli anni ’80. Ricordo a me stesso (mai tanto come questa sera, dopo aver letto il commento di Joe Vogel sui migliori dischi del ’91) che l tempo dei Jane’s Addiction era quello stesso che vedeva concretizzarsi il successo planetario di gruppi come i RHCP e I Guns&Roses, in epoca pre-grunge (ed anzi aprendo la strada, guarda caso, a gruppi come i Nirvana) Mentre però questi ultimi si dedicavano apertamente alla raccolta del maggior consenso possibile, i Jane’s Addiction conservavano quel fascino di gruppo di strada, coltivando qualche aspirazione artistica in un genere prossimo all’hard rock. Erano certamente eccessivi e sovrabbondanti, ma hanno anche saputo offrire qualche soluzione originale e alternativa al cliché del genere. Talvolta irruenti, concitati, forse dispersivi, ma sempre solari e divertenti, mi pare abbiano divertito tutti, lasciando anche ritenere di valere qualcosa di più del mucchio di musicisti dediti a finne 80’ alla riscoperta dell’hard rock. Di qui un paio di album che, ricordo ancora benissimo le sviolinate del mucchio o rockerilla, gridavano alla rivelazione. In effetti Ritual de Lo Habitual [1990] è tutt’oggi un disco pieno di energia, con qualche momento travolgente, come in questo “Stop!”. Qui si trova tanta adrenalina ed un certo sentimento di imprecisione che conferisce molta libertà nell’architettura complessiva del pezzo. Questo non segue infatti uno schema preciso: inizia infatti in un’esplosione nevrotica, per poi rallentare e ripartire ancora con l’assolo infernale dell’ineccepibile Navarro. Si sente che Stop! è fatto più per stupire il suo pubblico (non proprio avvezzo ai momenti di quiete), perché riprende con un coro a cappella e si conclude nel solito gorgo di chitarre che travolge tutto. Per dovere di completezza qui, si deve ricordare che, pubblicato Ritual De Lo Habitual, di lì a poco i Juan Addiction portarono a termine la loro vicenda sciogliendosi e a nulla (se non per la cronaca) è valso un ritorno abbastanza imbarazzante avvenuto pochi mesi fa con l’uscita di un disco passato in silenzio ma strapazzato dalle riviste di settore.
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239.
Black Crowes – “Remedy” [1992]
Uno dei pochi video di questa lista che poteva contare su passaggi per MTV. In effetti è mainstream ma lasciato ai margini del settore di largo consumo. Per capire un genere che comunque dovrebbe appassionare perché pieno di vitalità rock, si ascolti anche “Sting me”. I Black Crowes sono da sempre uno dei gruppi più amati in America dai cultori del blues-rock ma stranamente non sono mai stati popolari in Europa (paradossalmente sono stati riscoperti di recente, quando sono stati inseriti nella colonna sonora di un popolare videogioco). Tacciati da sempre di essere epigoni di un genere antico quanto la chitarra elettrica, il loro sporco lavoro l’hanno fatto sempre alla perfezione e recentemente anche Jimmy Page si è aggiunto al gruppo per ragioni ignote (magari semplicemente ama questo suono). Al solito famoso critico italiano, detrattore di tutto quello che non è assolutamente innovativo, non piacciono molto: io direi che se di classic blues-rock si tratta, questo è stato un tentativo di riportare in auge il southern rock, con influenze ben più vaste di quella in predicato degli Aerosmith (e comunque, anche se fosse, superiore al modello di riferimento). Strumentalmente ineccepibile, Remedy era in un album “The Southern Harmony And Musical Companion [1992] ricco di stomp di un certo valore che comprendeva oltre che pezzi rhythm-blues e southern rock anche gospel e boogie, con oltretutto una buona componente psichedelica assolutamente in controtendenza nel pieno del periodo grunge, disfattista e ben poco onirico.
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238.
Ocean Colour Scene – “The Day We Caught The Train” [1996]
A mio parere gli Ocean Colour Scene hanno realizzato il miglior brit-pop (che, ok, è stato spesso spazzatura ma non solo, dato che è stata l’unica “The Next Big Thing” inglese realmente universale dell’ultimo ventennio, sempre se escludiamo il trip hop, che non mi pare però così commercialmente importante). Gli OCS hanno infatti influenzato, direttamente o indirettamente, gran parte della produzione pop dell’epoca e molti di voi sapranno certamente che anche i nostrani Lunapop li hanno saccheggiati (non so se abbiano mai pagato le royalties per Better Day – Giorno Migliore). Mi ricordo che fino a che il termine di Britpop aveva una qualche valenza positiva, anche i Dj più alternativi osavano inserire The Day We Caught The Train nella scalette che comprendevano perfino i Kyuss. Il pezzo: Si tratta di una delle tante melodie molto risucite del gruppo, al quale dovrebbe aver collaborato Paul Weller; non c’è molto da dire ma tra contrappunti melodici ben riusciti ed un impianto chitarristico brillante, volente o nolente è destinato a rimanere nella mente, quale tormentone di qualità. Se pensate che “one” degli U2 sia la cosa peggiore fatta dall’umanità dopo Auschwitz, magari sostituirlo mentalmente con questo non potrà che farvi bene. Ho scelto la versione acustica perché meno pomposa.
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237.
Alice In Chains “ Down In A Hole” [1992]
Gli AiC univano una indiscutibile competenza strumentale ad un’innata capacità di comporre melodie di facile o largo consumo; ma la caratteristica principale del loro successo era una discreta componente psichedelica che conferiva una certa armonia ed appetibilità ai loro pezzi, riuscendo a raggiungere anche ad un pubblico più vasto di altri gruppi altrettanto validi (o perfino più) quali i Soundgarden, ad es. Forse per questo motivo non sono mai stato tanto amati dai puristi del grunge ma hanno comunque rappresentato uno dei riferimenti per la scena di Seattle, ampliando il ristretto genere del grunge ed aprendo a nuove influenza. “Down In a Hole” ricorda un po’ i Cult di Love [1985] per quella atmosfera sognante e vagamente psichedelica su cui Layne Staley canta in modo ispirato, senza mai putroppo graffiare. Nel pezzo c’è un po’ di tutto ed alla fine sembrano un ibrido pericoloso tra gli Aerosmith e Bon Jovi (e con questo ho detto tutto). Sempre leggermente stucchevoli ritengo piacciono ai puristi del suono ed in ogni caso talora sembrano i Byrds per quelle armonie delicate (si sente che non voglio infierire su “Luca Ktfaith”, vero, a cui mi pare piacciano? ). Definirlo “progressive grunge” era una cosa che mi è pure passata per la testa ma non avrei mai osato fare finché non mi sono accorto che anche altri si lanciano in queste pericolose definizioni.
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236.
Destroyer – “ The Space Race” [1998]
In fase di piena affermazione estetica del lo-fi, vi sono stati cantautori e gruppi che sono emersi per le loro incisioni su di un semplice registratore a cassette (Songs Ohia, Built To Spell, Elliot Smith, Guided By Voices, Mountain Goats, Daniel Johnston…). Oltre a questi più famosi, v sono stati i Destroyer (rectius Daniel Bejar) che hanno piazzato qualche buon disco nei primi ’90 per poi dare forma ad un’espressione musicale più elevata nel decennio successivo e per il quale meritano un capitolo a parte. Il fascino di questo pop risiede nella carica dissacrante di un linguaggio sonnolento, votato all’understatement, al fascino che è proprio dell’arte incompiuta. Non per questo i pezzi non sono (o potenzialmente sarebbero) di valore assoluto se (e solo se) fossero prodotti secondo i canoni tradizionali del music-business. “The Space Race” cattura questo manifesto programmatico di stile. Nasce come ballata lo-fi del tutto catatonica, con una strumentazione ridotta ed abbastanza rarefatta, ma presto prende convinzione, Bejar acquista sicurezza e la melodia prende coraggio, raggiungendo così la perfezione ideale del bozzetto pop minimalista,in una sorta di glam pop a bassa fedeltà.
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235.
Teenage Fanclub – Everything Flows [1990]
ma sentire anche “Goody Gum Gum Drops” [1993] che non inserisco qui come prima indicazione solo perché è una cover. Allora, i Teenage Fanclub non li troverete tanto facilmente in una lista dei 100 o 200 pezzi più famosi del decennio ma qui sì, ci stanno, per un giusto tributo al merito se non altro alla longevità (suonano tuttora). In realtà, si tratta di un gruppo valido, che si richiama agli antichi Hollies, Byrds e ai Beatles, e che sa aggiungere sonorità garage e da college-rock. Ebbene in vent’anni hanno prodotto decine di melodie assolutamente brillanti e riuscite che meriterebbero una singola scheda su una rivista musicale (ma già ci sta pensando qualcuno, ahem…). Anche volendoli definire derivativi, i TF avrebbero quantomeno meritato un posto al sole nella musica di consumo, ma temo che per loro valga il detto “troppo alternativi per le classifiche, troppo mainstream per il circuito underground”. L’anno scorso è uscito un ottimo album dei TF ma qui ovviamente voglio fare sentire i TF quando hanno iniziato e lo faccio con un pezzo che pochi conoscono. E’ quanto di più underrated vi sia al mondo, oltre che di sconosciuto: ma anche in un pezzo minimale del genere i TF, sempre positivi, ci mettono l’energia ed entusiasmo da high school band. Niente di arte, ma questo è l’essenza del vero pop e le melodie dei TF non stancano mai (ok, un po’ sì. Del resto, tutte le melodie stancano. “No more mAladies”, dice giustamente Fiona Apple).
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234.
Rocket From The Crypt – “Ditch Digger” [1993]
volevo short lip fuser, pazienza. Non c’è sul tubo. Una garage band non troppo arrabbiata che produce un power pop incline al punk, incisivo e di impeto, ok, ma sempre orecchiabilissimo e piacevole anche a chi non ama troppo il genere. Provenendo dall’hardcore la carriera dei RftC ha dapprima ricercato qualche velleità estetica per poi passare (o scadere) rapidamente ad una produzione volta alla fruizione immediata e più spontanea (vedi la comunque eccellente “Born In 69” dal vivo; questo è rock e forse dovrei indicare questo pezzo come rappresentativo del gruppo). Sono sempre stati assolutamente travolgenti, dal vivo come in studio, sebbene non abbiano mai raggiunto un’ampia notorietà, forse per una certa rozzezza di toni (ma strumentalmente sono ineccepibili forse talora perfino sofisticati) Si tratta di produzione interessante perché la band è attenta all’espressione musicale che risente di diverse influenze, dal pop anni ‘60 all’hard rock, cosicché l’album “Circa Now” [1993] non ha riempitivi e tutti i pezzi mantengono alta la tensione. In “Ditch Digger”, pezzo meno tirato del solito e insolitamente più introspettivo, i R.f.t,C dimostrano cultura ed un innato senso della melodia, ancorché insana e febbrilmente amplificata. Il pezzo gira attorno ad tema circolare di chitarre che la voce segue segnando le battute con scoppi di ira; l’effetto è quello di una ballata elettrica, un sorta di Valzer frenetico di fine millennio. Dice bene l’innominabile critico quando afferma che qui “si sente più sudore che rabbia”; è assolutamente apprezzabile nei RftC questa mancanza di delirio psicotico che caratterizza tanto rock di primi anni ’90.
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233.
DevendraBanheart – “Sight To Behold” [1993]
Si tratta di un vero e proprio mistero dell’alt-folk o pre-war folk, come è stato definito (quindi l’anello evolutivo antecedente al “post-folk” proprio del decennio successivo). La mia idea di Devendra Banheart è che questi sarebbe il più grande autore musicale del genere di tutti i tempi se e solo se… tutti i pezzi durassero come per decreto meno di trenta secondi. Il punto è che… così non è e nella musica di Banheart al di là del tema annunciato dalla chitarra non si va molto oltre, anzi, si ritorna sempre allo stesso punto, in unico grande loop che spazia tutta la durata dei brani. Detto questo, i dischi di quest’autore sono tutti realmente imperdibili perché sono un collage di bozzetti di altissimo livello autorale. E’ egli stesso un personaggio che definire eccentrico pare perfino ingiusto perché riduttivo e la sua vita è leggendaria, noto perfino per avere sfasciato la propria chitarra in testa al batterista dei _Metallica (la cosa più pericolosa del mondo visto il tipo non proprio pacifista e remissivo). Avevo previsto di indicare At The Hop , come esemplificativo della vita ed arte di Devendra Banheart ma poi ho ceduto al fascino del pezzo più noto e qui ascoltate pertanto “Sight to Behold”, un semplicissimo folk in Am-G, come milioni prima di questo, ma con un fascino del tutto originale, perché vibra sull’armonia più triste di questo facile giro. E per me è proprio nei lenti ovvero nelle cose più semplici dove si avverte la grandezza del musicista. Anche il video è imperdibile (e i commenti degli youtubers).
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232.
Aurora Sutra – “Posen 1793” [1993]
Definire la musica degli Aurora è un esercizio di stile perché in rete si può leggere di tutto: crossover di ambient-music e new-age, oppure gotico sinfonico; kosmische muzik ovvero prog-dark wave, insomma fate voi che si fa prima. Non tutti amano questo genere che adesso è in fase stagnante dopo avere conosciuto una crescita esponenziale proprio nei 90’s: ma è un peccato perché qui v’è molto di più che semplice buona musica. Epigoni degli esiti psichedelici dello space- rock dei 60’s e della cosmic-music degli anni ’70 (questo sì), i tedeschi Aurora Sutra vantano numerose prove convincenti anche chi non ama tetre colonne sonore sul cd di casa. A differenza di altri gruppi affini, non vogliono creare solo della musica ambientale e quindi si dilettano a mettere assieme delle vere e proprie sinfonie aventi un propria identità musicale e un certo spessore. Fiabe gotiche, melodie medievali, salmi religiosi, canti gregoriani e mantra elettronici vengono convogliati sovente in unico pezzo, la cui amalgama acquista un’atmosfera tenebrosa, immobile, ed un’aura di angoscia avvolge il suono. “Posen 1793” è emblematico di tutto ciò; l’iniziale drone elettronico si accompagna a lugubre esplosioni ed un canto femminile, lontano ed algido, si spinge fino alle porte dell’inferno e lascia intravedere lo spazio dell’abisso. Alcuni suoni vengono mutuati dal black-metal, come il recitato maschile, ma gli Aurora non si spingono mai in territori di alt-rock, almeno in quest’ album, “The Land Of Harm And Appletrees” [1993]
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231.
Mouse On Mars – Bib [1995]
In effetti la scena tedesca si addice in modo speciale alla sperimentazione in campo musicale ed è così anche per i Mouse On Mars: qualunque etichetta si scelga (post techno, jungle-dub, eccetera), questo duo potrebbe dirsi capofila di un genere a sé; a parte il solito eclettismo da crossover e l’infinità di derogazioni ambigue dei suoni, si respira un’eccentricità diffusa nei pezzi dei MoM che è la caratteristica tipica dei loro lavori, unitamente ad una intensa poliritmia ed un tribalismo digitale. “Bib” sembra partire quale pezzo drum&bass ma finisce presto per raccogliere influenze jungle e di world-music; la caratteristica peculiare (aggiungete “a mio parere” a tutto quello che dico, ovvio) è che mentre il ritmo pulsa frenetico e costante, il canto è del tutto in contrappunto e disegna cantilene infantili e celestiali sullo sfondo. Piace ‘sta cosa. Anche se vi è qualche cambio di ritmo e l’evidente ostentazione di qualche dissonanza ed effetto a stupire, “Bib” va alla ricerca del magnetismo e della trance che solo la techno che trova l’estasi può offrire.
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230.
Robin Holcomb – “Hand me down All Stories” [1990]
Avevo scelto “Poem IS A Memory Of!” ma ci sono solo 8 video di Robin Holcomb su youtube a fronte di una produzione immensa; difficile fare I difficili Di regola i musicisti classici (come Robin Holcomb, ovvio) non sanno fare musica pop: hanno un approccio sbagliato, una sensibilità diversa ed i risultati sono quasi sempre deludenti. Robin Holcomb smentisce questa regola e con una ensemble jazz produce alcuni album sospesi a metà strada fra erudizione e piacere d’ascolto. Forse anche troppo legata all’orecchiabilità ed alle melodie tradizionali, la Holcomb segue una miriade di spunti, spaziando dal folk-rock, dal jazz al funk al chambre-pop ed al gotico. Sempre con passo leggero e bassa ambizione nel canto, R. Holcomb produce diversi pezzi da classifica che perdono il passo con il mainstream per l’impossibilità dell’autore di costruire (almeno una) hit. “Rockabye” [1991] è un buon album, ma tutto trascorso al piano, invece “Robin Holcomb”, dell’anno precedente, è un po’ più versatile ed il jazz di this poem is a memory Of risulta vicino alle atmosfere spettrali dei Cowboy Junkies.
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229.
Connels - “Slackjawed [1993]
Allora, I Connels. I Connels sono il simbolo di tutto ciò che é indie ed un po’sfigato. Zenith del nerd, climax della classica college band american, apoteosi dell’errore e dell’improvvisazione casareccia, non avrebbero sfondato nemmeno dietro raccomandazione della madonna in persona o di san pietro. Qui, dal vivo, riescono a riunire tutti gli errori di look e di rock gestures, per cui per me sono gli Stones del mondo alla rovescia (il tipo alla chitarra ritmica nei primi secondi del video mi fa morire per l’aria innocente e il fare da party liceale). Basti dire che il cantante oggi di lavoro fa l’avvocato e con questo avrei detto tutto). Ok, mi tocca aggiungere qualcosa perché se sono qui c’è un motivo: i misconosciuti Connels facevano allora delle melodie incredibili ed un indie-rock appassionato che, al tempo, l’italianissima Planet rock era arrivata a ritenerli sullo stesso piano dei Nirvana. “Slackjawed” scivola via alla perfezione su binari tracciati da chitarre energiche e brillanti, con un morbido jingle jangle delle chitarre, ed il tutto mentre, quasi per contraltare, il canto è esile e perfino delicato, forse perché la grana della voce non consente alcuna interpretazione. Altro che auto-tune. Ma meglio così perché le canzoni dei Connels si reggono da solo nella loro (im)perfezione pop-rock. ‘Sti poveracci avevano sempre riff effervescenti come questo, e si veda come qui il pezzo viene lanciato nel finale a maggior velocità, così da terminare tra la foga della batteria e le armonie del party-boy che mi fa morire, ‘sto Keith Richard del mondo alla rovescia. Comunque sia, una delle tante underrated band dei 90’s.
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228.
Arcana - “Angel Of Sorrow”[1996]
Gli Arcana sono svedesi ed hanno realizzato un ambient-gothic essenziale ma di impatto. Benchè l’immaginario evocato dagli Arcana sai il consueto adolescenziale da Medioevo mitologico al limite del fantasy, il suono non è maestoso ed immobile nella sua ripetitività come in gruppi di generi limitrofi quali gli Aurora. Quindi per quanto possente sia il muro sonoro degli Arcana si percorre velocemente ogni brano, quest’ultimo una sorta di territorio di viaggio, di quadro ambientale, un po’come accade nei “Love Is Colder Than Death.” E’ musica spettrale, dall’incedere solenne e costante, con ritmi marziali e suoni stracolmi d’eco e riverbero. L’atmosfera di riferimento è quella delle tenebre, ma si tratta di musica ambientale, descrittiva, evocativa dei recessi di una cattedrale, dei ritmi di un rituale primitivo, non è terrorizzante come nel doom e nelle derive metal. “Angel Of Sorrow” è di breve durata e si apre su battiti imponenti le cui vibrazioni si librano nello spettro con un effetto di cupa definitività. Il suono di un organetto prima e le tastiere poi, preparano il terreno per le melodie eteree wagneriane di Ida Bengtsson, ninfa dark da immaginario erotico adolescenziale (ma non solo, purtroppo...) senza alcun legame con la forma canzone pop.
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227.
Dimitri From Paris – “Souvenirs De Paris” [1996]
La produzione di questo chanssonier elettronico è costituita da percorsi sonori che spaziano tra lounge, jazz, atmosfere vintage da radio-days ed effetti ambientali, dove gli inserti di rumore concreto evocano ambientazioni che sono veri e propri stereotipi francesi, anzi parigini. L’esito finale è un’opera di ambient-music a tema, indefinibile a priori, che conferisce un piacere estatico per il senso olofonico dell’immersione aurale. “Souvenirs De Paris” indica chiaramente dove si svolge questo percorso guidato (album “Sacrebleu”, 1996); le voci che aprono il pezzo paiono infatti appartenere ad un mercato popolare, ma ben presto appare il tema glamour e vintage, una sorta di chill-out elettronico e a quel punto parte davvero il brano. Durante il pezzo infatti si incontra di tutto, dai clacson e i motorini che partono nel traffico, alla musica da dance-hall, il chill out, una voce che sussurra, ma insomma si sente tutta Parigi, quantomeno quella stereo tipizzata, ed ogni souvenir sembra compresso in questo bozzetto sonoro senza inizio o fine. Oggi è uno dei DJ più famosi e pagati al mondo.
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226.
Peter Jeffereies – “Index” [1998]
Si tratta di un disco (Substatic) che non si fa definire facilmente: post-rock, art-rock, alt-classic: insomma, meglio ascoltarlo. Cinque pezzi per un ora circa di musica, divisi in movimenti, a loro volta suddivisi in una infinità di variazioni e sottocomposizioni. Mai cacofonico, Jefferies è troppo preciso e chiaro nei suoni per risultare un bluff di avant-rock. Odio quando nei suoi pezzi entra il piano melodioso e celestiale, ma devo dare atto che Jefferies è eclettico al massimo livello, non esagera mai e si tratta di pezzi rock eruditi, sempre tenuti sotto una rigida regia (del resto nel ’91 aveva fatto “The Last Great Challenge in a Dull World” che è un’opera maestrale di modern classic, tra piano ed isnerti di musica concreta, con inframezzi elettronici). Vabbe’, a trovare il pelo nell’uovo vorrei dire una cazzata: bravi tutti a fare Satie: io vorrei i nuovi Doors.
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225.
New Order – “Regret” [1999]
Va detto che avevo immaginato e preparato un pezzo dei Crescent da inserire qui, ma è stato da ultimo oscurato sul tubo, per cui credo di poterlo sostituire con una hit dei New Order, intercambiabile per ragioni di valore. Va altresì detto che i New Order degli anni ’90 sono la sbiadita fotocopia di quelli del decennio prima, quando erano dediti ad un synth-pop di classe. In ogni caso, Regret è un godibilissimo pezzo che costituisce la summa del manierismo pop dei NO, costruito con il suono del decennio anteriore, una cantilena da Pet Shop Boys, se fate caso, impiantata su trame fitte di chitarre, mentre i synth vengono fatti rimanere in secondo piano. La melodia è semplice e accattivante, perfino rassicurante. Forse il più grande successo di questi eredi dei Joy Division, ma proprio per questo intollerabile da sopportare (alla luce del grande passato banalizzato da siffatto manierismo) e, infatti, poco dopo questo pezzo i New Order si sono sciolti (uno dei pochi casi in cui i fan di un gruppo pregano affiché questo si sciolga).
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224.
Stone Roses – “Love Spreads” [1994]
Parlare degli Stone Roses è molto difficile e farlo in poche righe è pressoché impossibile. Creod che tutti li conoscano, ma dopo aver visto che al Rolling Stone di Mi eravamo dentro in 50, al massimo, mi viene un dubbio. Vediamo in estrema sintesi: hanno letteralmente condotto alla luce il fenomeno di Mad-chester, segnando il momento di passaggio per la musica pop inglese dagli 80’s ai 90’s, spalancando le porte al brit pop che avrebbe prelevato e copiato quasi tutto da Ian Brown, leader degli SR. Il primo album degli SR è oramai leggendario, vera e propria pietra miliare del pop inglese, non c’è un pezzo sbagliato a cercarlo con il lanternino. Il secondo album che si fece attendere a lungo (si chiamò “Second Coming” [1994] per irridere la stampa che lo aveva preannunciato da anni) giunse quando il gruppo era disunito da tempo e tutto era cambiato attorno a loro. In realtà c’era ancora qualcosa di un certo valore, come questo “Love Spreads, lontano dall’antica perfezione, ma interessante per lo stile. Ancora in sintesi sul pezzo: qui la solita linea melodica rubata agli anni ’60 e cantata con il solito distacco irriverente ed un timbro sempre leggermente afono ed affannato di Ian Brown viene calata questa volta in un mare di chitarre che riversa ondate incessanti dal suono metallico e distorto. Il basso e batteria hanno stop & go ma quando prendono forza, pulsano in modo ossessivo, riversando la loro carica al pezzo. Le pause, infatti, servono solo per stemperare il pathos complessivo e quando il tema (“let me put you in the picture let me show you…) viene ripetuto ostinatamente la nevrosi sale ed il pezzo finisce in crescendo, con un discreto effetto complessivo.
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223.
Pegboy – “Field Of Darkness” [1991]
I Pegboy sono una band di pop-core che quando tutto va bene assomigliano agli Husker Du o ai Rites Of Spring, quando invece non ci pensano troppo su diventano i Green Day, male per loro. Per una volta concordo con l’innominabile Critico laddove trova “Field Of Darkness” uno dei pezzi più riusciti del loro repertorio (ma si senta anche “Sinner Inside”). In ogni caso la foga rauca di Damore, il giro di accordi hard rock assolutamente emozionale, ed un ritmo sempre trascinante fanno apprezzare sempre e comunque i Pegboy che hanno riempito i 90’s di opere sempre all’altezza dei loro maestri predecessori (Earwig 1994; Strong Reaction 1991 Cha cha DAmore 1997, sono tutti album di buon livello) . “Field Of Darkness” parte come un pezzo dei Ramones, voce rauca e armonie verticali sullo sfondo, e prosegue come il più classico degli esercizi di stile, un esercizio corretto di combinazione di elementi di melodia-ritmo-armonia, dove il ritornello è più melodico e la strofa è invece in stile recitativo; la foga serve solo per arrivare di corsa al ritornello melodico e stemperare l’animo nel chorus; così anche i ragazzi borghesi più agitati sono contenti e possono sognare i loro amori tanto disperati.
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222.
Kula Shaker – “Govinda” [1996]
I Kula Shaker sono certamente una bandiera del brit-pop inglese, ma mi sentirei di spendere buone parole loro. Se altri gruppi brit pop hanno letteralmente saccheggiato la tradizione melodica britannica per riproporre solo melodie accattivanti o poco più, i K.S. hanno cercato di ricostruire il linguaggio musicale di quegli anni, con particolare attenzione alle influenze indiane nel rock, non una semplice copia di vecchie melodie o imitazione di episodi musicali, come hanno invece fatto Blur e Oasis. Govinda, ad es. fa parte di questa operazione (qui dal vivo) ed è un tentativo di mescolare come in passato brit-rock con raga indiani per formare una sorta di psychedelic-rock dei 90’s. Si tratta di musica che risente certamente delle esperienze passate di Kinks, Beatles, Charlatans, eccetera, ma anche e soprattutto del pop indiano contemporaneo, così come arriva in Inghilterra (mentre è paradossale che i cittadini del Regno Unito di origine indiana siano maggiormente propensi all’elettronica ed al dancefloor, non proprio tradizionali generi indiani). In Govinda il canto indiano (femminile) introduce il pezzo, in modo certo affascinante; quando questo parte si riporta immediatamente alla tradizione britannica, ma è notevole che anche la voce maschile debba seguire l’armonia orientale. Peccato che non osino di più.
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221.
Moose – “Ballad OF Adam And Eve” [1993]
Per I Moose va detto fin da subito che non v’è nulla in rete di quello che vorrei mostrare, trattandosi di una delle più underrated band di sempre. E ciò del tutto ingiustamente. Vengono completamente a torto inseriti tra i precursori del brit-pop da chi non li ha mai sentiti o che li ha sentiti per ragioni di lavoro ma solo magari tre pezzi in croce; e così sono finiti nel dimenticatoio. Ora non ho spazio per parlarne compiutamente ma i Moose sono un’incredibile band che putroppo verrà dimenticata, ma va ricordato che hanno fatto bene di tutto, spaziando dallo shoegaze al psychedelic-pop e perfino allo slow-core senza mai badare al ritorno commerciale delle loro (impopolari) scelte. Qui ho a mia volta “scelto” (si fa per dire, con 6-7 pezzi in tutto su youtube…) Ballad Of Adam And Eve [1993], ovvero un turbinio di chitarre che crea un vortice dove affonda tutto, anche la voce e perfino la batteria, con un ritmo che pare arrendersi al gorgo distortore. Le esplosioni sono quelle dello shoegaze, così come le ondate progressive di chitarre e come il canto, ispirato e estatico, leggermente catatonico. Il suono perde presto l’iniziale equilibrio all’aumentare del ritmo (e del caos): è una buona cosa perché ne guadagna il pathos (così come la qualità complessiva) del pezzo
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220.
Hefner – “Love Will Destry Us In The End [1997]
Gli Hefner hanno fatto delle ottime ballate elettro-acustiche con gusto minimale e decisamente lo-fi: questa è una di quelle. Ricordano un po’ i più fortunati Weezer, per quel gusto un po’ goliardico di certe armonie e per le melodie scanzonate e testi deliranti (e così viene da domandarsi perché i Weezer hanno avuto tanto successo, mentre gli Hefner sono abbastanza ignorati perfino nel circuito indies). In questo pezzo tratto da un ottimo “Braking’s God Heart” [1997] c’è tutto per piacere (e per non vendere). Si tratta di una ballata dall’iniziale incedere un po’ marziale ed un po’martellante, ma tutto sommato “normale”, che alterna presto momenti di maggiore tranquillità con momenti dissacranti, caratterizzati da inserti di chitarre dissonanti che non provano a mettere ordine nel brano, anzi. Finisce tra suoni disarmonici che compaiono solo al termine del pezzo (cosa non proprio ortodossa nel codice linguistico del pop) ed un clima da aumentato tasso alcolico che trova riscontro nel febbrile timbro della voce.
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219.
Catherine Wheel - “Black Metallic” [1992]
Avrei voluto “the nude that broke my heart”, ma è introvabile sul tubo. I CW sono una shoegaze band a dire poco eccellente, una mia passione che rasenta la venerazione. Va detto che sono la forma commerciale del genere più per una naturale propensione del leader, Rob Dickinson a creare pezzi sentimentali e sognanti più che per una loro spendita del nome verso lidi di musica mainstream. Quindi, ok, banali talvolta ma talentuosi. Infatti tonnellate di riverberi, quintali di feedback e gain degli amplificatori a palla corredano ogni avventura musicale dei CW. Dickinson ha di suo una voce rauca e sognante; poi merito suo o posa non si sa, ma sembra sempre rapito quando canta dal clima descritto dai suoni. La voce non ritorna mai a terra ma rimane lì in aria, appesa al flusso dei suoni, in pezzi che di solito terminano in un mare di chitarre. Black Metallic è così: vive di un paio di versi ed una minima forma di chorus. Tutto il resto è una cascata di chitarre, trame su più livelli, e con diversi effetti (vado a memoria perché è notte e voglio fare presto) che trascina via la voce già persa di suo. Tutto ottimo (ok, innominabile, non sono i capostipiti, lo so). P.s. Ci sarebbe una cover di
The Nude disponibile sul tubo: interpretazione autentica, giacché cover acustica del suo autore, ma senza quell’universo di chitarre viene a mancare quasi tutta la bellezza del pezzo, la sua drammaticità, la perfezione della sua rappresentazione. Insomma, sentitela lo stesso ed immaginatela con una sinfonia di plettrate, ed una voce lontana che racconta lo stato di ebbrezza che pervade un uomo davanti al nudo di una donna (“far, deep, phantom seekin’, I can’t see”. Dedicata ad una mjj user mi ha risposto” “tutto qui? Mi aspettavo qualcosa di più alternativo da te.” Ehmm ok, ma era il mio tentativo più pop possibile per una mezza dichiarazione).
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218.
Orbital – “Planet Of The Shapes” [1993]
Techno-avantgarde. Quando la techno si occupa di disegnare astratte figure e si leva ogni preoccupazione trance diventa un fatto estetico assolutamente appetibile (e quindi pop). Gli Orbital campionano in maniera gelida, con l’ambizione di realizzare un linguaggio estetizzante, senza alcuna deriva hardcore (e quindi non lo fanno mai per scioccare), con il solo intento di realizzare una sinfonia compassata, algida e distaccata, un prodotto piacevole ma al tempo stesso intellettuale. Da un eccellente album (“2”, 1993) ho scelto il pezzo in questione per l’etereo bordone di sitar, ma mi dispiace lasciare “Remind” che sebbene sia un filo lounge è più morbido e coinvolgente. Comunque sia, il pezzo parte con un suono vintage a ricordare il vecchio vinile con relativi rumori in sotto fondo (davvero un’intuizione che rimane impressa; ok, l’hanno fatto anche altri, ma qui fa più senso in quanto ambiente techno); la voce poi è campionata in samples ripetuti che sarebbero pure normalizzanti se non fosse che di lì a presto l’elettronica prende il sopravvento ed inizia un tempo cupo. Ma anche questa è una falsa partenza e di lì in poi passa di tutto, dalla jungle music, ai droni orientali, dal drum’n’bass ad una morbida house.
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217.
Dot Allison - “Colour Me” [1999]
Dot Allison ha grande tecnica ed ha la capacità di rappresentare senza sbavatura o forzatura generi diversi, mai eccedendo nell’interpretazione. A seconda che vogliate definire questo genere come trip-hop, oppure house (ma se ne va anche per territori ambient ,oltre che per un più che normale dream-pop), emerge sempre la capacità di Dot Allison di lasciare il pezzo scorrere, immegendosi totalmente nell’atmosfera onirica, senza creare un marchio di fabbrica che finirebbe per annoiare. “Colour Me” deve molto ai Portishead, è evidente, ma c’è anche il “neo dream-pop” dei Goldfrapp di cui Allison Dot è leader indiscusso: non mi pare mai monotona la sua musica, nemmeno quando fa del trip-hop (che è abbastanza monolitico come genere): “Colour Me” raggiunge pertanto i vertici di Dummy, ripercorrendone la medesima sensualità ed eleganza. Voglio sottolineare il chorus perché la voce dialoga con il sintetizzatore in una sorta di “call and response” futurista, creando una specie di di armonia robotica. Che Dot Allison ami le scelte sofisticate è evidente anche poi in quella sorta di bridge all’incirca a metà del pezzo dove la trama ritmica si fa da parte per lasciare spazio perfino un clavicembalo che accompagna i vocalizzi celestiali e decadenti. Non poco (ma nemmeno molto, e quindi se ne sta oltre il 200 posto anche lei)
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216.
The NAtion Of Ulysses - "N-Sub Ulysses" [1992]
Considerati come una band di hardcore ovvero, e al limite, post punk, in realtà avevano assimilato gli stilemi della new-wave, finendo per fare un largo uso di fiati e ritmiche eterogenee nei loro pezzi; la tensione musicale complessivamente espressa dai N.of U. appare pertanto ingentilita (e al contempo più sofisticata) rispetto al genere di riferimento. Nel pezzo in questione ad esempio, opening track di “Plays Pretty For Baby” [1992], ci sono sincopi e contrattempi di un certo appeal anche per chi non ama la musica scomposta, anarchica e barabarica dell’hardcore. L’atmosfera rimane comunque tesa ed oscura; Ian Svenonius aggredisce i brani a squarciagola e perfino le trombe (!) appaiono trillare schizofreniche. Il clima complessivo galleggia tra un garage sound ed una new-wave con qualche velleità artistica. L’emotività del cantante, che pare imitare John Lydon per foga ed impeto, è per una volta tanto tenuta a freno dalla…stessa concitazione del pezzo, al quale probabilmente Svenonius affida la riuscita dell’effetto delirante complessivo (altrimenti avrebbe gridato fino a distruggere l’ugola).
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215.
Grandaddy - “Summer here Kids” [1997]
Parlare dei Grandaddy è parlare della tradizione lo-fi e quindi di Tall Dwarfs e Pavement, in primis. I Grandaddy non hanno il tocco incantato di Malkmus ma sanno produrre motivi validi ed i pezzi risultano sempre strutturati…ancorché profondamente distorti. Si tratta di musica e personaggi esclusi a priori da ogni possibilità di buon esito commerciale. Ancora una volta però, è un problema di linguaggio che non paga, che non rende economicamente, ma non per questo meno valido. Come detto per i Pavement, il lo-fi si fa amare senza compromessi da tutti coloro che sentono quel suono armonicamente debole una delle grandi invenzioni di fine secolo. Così è per “Summer Here Kids”, un pop sostenuto ritmicamente ma suadente, talora quasi sussurrato. Folate di chitarre irrompono nel pezzo ma poi, altrettanto improvvisamente, lasciano la scena n favore di un suono acustico. Ma la quiete è solo apparente nei 90’s, dove in molti pezzi l’equilibrio fra forte e piano è instabile, psicotico, cosicché anche in questo pezzo le chitarre ritornano per riprendere nuovamente la corsa fino al termine.
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214.
Eat Static – “Science Of The Gods” [1997]
La techno ed il post-rock sono forse i due momenti centrali degli anni ’90, diciamo il maggior contributo musicale del decennio. Gli Eat Static hanno prodotto alcune suite techno, ricche di tutti gli archetipi del genere: glitch, suoni sintetici in forte riverbero, drum-machine, basso a ridottissima frequenza, poliritmia con frequenti cambi di ritmo (anche se quasi mai sopra i 160-180 BPM) eccetera, ma il tutto sempre con un’attenzione particolare per la ricerca e l’effetto di sorpresa. In sintesi: erano espressamente dediti alla ricerca di nuovi orizzonti sonori in ambito techno, tout court. “Science of The Gods”, tratta dall’album omonimo, raccoglie decine di influenze diverse e si struttura per movimenti: si inizia con un drum&bass dall’effetto abbastanza acido avente regolari increspature di suoni sintetici e freddi; si prosegue al medesimo ritmo con un movimento maggiormente legato alla poliritmia ed ispirato ad un ambiente esotico, in ipotesi asiatico (così mi pare per lo stacchetto a 2:42); cresce quindi di intensità e ritmo e giunge al termine sostituito da un loop sintetico glitchato; infine il pezzo termina tra sonorità puramente elettroniche ed un beat congegnato per il dancefloor. Notevole commistione (ma non mi convince pienamente)
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213.
Blonde Redhead – “Pier Paolo” [1995]
I Blonde redhead sono un trio: due italiani trapiantati in America (chitarra e batteria) ed una giapponese alla chitarra (e per lo più anche alla voce). Fanno usualmente del noise-rock venato da una certa malinconia, mai violento ed abbastanza introspettivo. “Pier Paolo” è dedicato a Pasolini ed è tratto dall’album “La Mia Vita Violenta” [1995], un tributo sulla vita dello scrittore italiano, che per una volta ha ottenuto il successo internazionale che si merita, almeno nel circuito delle indies.. “Pier Paolo” inizia su un arpeggio per poi partire con riff di power chords che contribuisce a dare solidità e spessore al brano. Il rimo sostenuto fa da contraltare alla voce suadente, esile, leggermente calante, conferendo al pezzo quella necessaria aura di drammaticità e tensione che il soggetto richiede. Di bellezza spettrale le piccole scale di voce e basso che terminano in battute e melodie incompiute, lasciate alla voce dal timbro triste, perfetto per questo paesaggio dalle tinte fosche. Il tutto termina con le chitarre che crescono di forza ed intensità e risolvono la circolarità del pezzo.
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212.
Sugarsmack – “Pokey” [1993]
L’opera maggiore degli Sugarsmack è “Top Loader” del 1993. Si tratta di un lavoro di difficile collocazione di genere, per la presenza di un certo eclettismo orizzontale per cui ogni pezzo va alla ricerca di uno spunto diverso. Lo stile dei Sugarsmack appare mutuato da quello di certe riot girrrls ma si distingue per un suono meno lineare, disposto ad abbandonare il rigore (o la semplicità) del genere. Si intravedono tracce evidenti di new-wave, talora si rinviene la presenza di qualche elemento novelty e burlesque, oppure di arpeggi dissonanti (fatto infrequente in atmosfere votate all’hard rock). Il risultato è comunque spiazzante e gli Sugarsmack vanno sentiti. “Pokey” è tutto questo e di più in odore di new wave. A dire il vero, più che a Psycho Killer dei Talking Heads (indubbia citazione) assomiglia alla sua cover caricaturale, ovvero “Psycho Chicken” dei Fools, proprio per la presenza di una certa autoironia. E benchè la cantante Hope Nicholls sia una gran voce rock (stranamente non una mia ossessione erotica), il pezzo ricorre anche alle nursery rhimes ed alle cantilene infantili, proprio per non lasciare un genere inquadrabile Per un suono più duro ma non privo di originalità c’è da sentire Bring on The Ufo’s
qui che parte con un bordone di sitar per finire seppellito da riff hard rock e dal rumore.
211.
Eden – “Heads On Earth” [1991]
Gli Eden sono gli ennesimi epigoni di un genere che si riconduce ai Dead Can Dance (in questa lista c’è più avanti Brendan Perry, leader dei DCD), divulgatori di un genere di chambre-pop dalle decise sonorità cupe e lugubri, al limite del psichedelico. Col tempo hanno costruito una forma di balata più terrena, ma sul tubo sono rinvenibili solo pezzi da Gateway to Mysteries [1991], un concept-album a tema medievale, ricco di sonorità acustiche e tamburi dai suoni squillanti, evocativi (almeno in ipotesi) delle sonorità antiche. “Heads On Earth” è per l’appunto una danza medievale, con un ritmo allegro ed un chitarra acustica al suo seguito, ma con una melodia triste e ricca di riverbero, alla ricerca di armonie celestiali. Il fine ultimo è, credo, quello di cogliere la spiritualità della musica antica, tentativo in parte riuscito nonostante la necessaria artificiosità di un’operazione del genere. Nella produzione successiva gli Eden si sono dedicati, con successo, alla creazione di ambient di alta qualità.
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210.
Death In June – “But, What Ends When The Symbols Shutter” [1992]
I Death In June hanno vissuto una vicenda complessa che si dipana lungo gli anni 80 e prosegue per tutti i 90’s per arrivare perfino ai nostri giorni. Nonostante la lunga carriera ed i cambi di genere e stile, vi sono buoni momenti in tutti i decenni: “But what Ends When The Symbols Shutter” [1992]ivè un album di neo folk-rock, lievemente decadente e con qualche influsso di dark-wave. Il pezzo che dà il titolo all’album è abbastanza esemplificativo del genere ed è una solenne ballata, ritmata da un incedere marziale, sottolineato da percussioni ed da un voce in odore di crooning, lievemente inespressiva. La melodia è limitata a semplici variazioni regolari di tono, ed il tutto conferisce un’aura di inevitabilità, di amarezza e di ineludibilità al pezzo, che sembra segnare un tempo drammatico, riesumando eventi passati a futura memoria (non a caso il video riporta fatti storici di epoca nazista). Si veda anche Little Black Angel” [1992]
qui , dove la voce declama le strofe, scandendole ancora in modo più pronunciato (e perciò più lugubre) della title-track.
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209.
Ash – “Kung fu” [1996]
Punk-pop, come solo i Ramones. Devo ammettere che per gli Ash ho un certo debole, non fosse che per Charlotte Hatherley, la mia vera ossessione erotica (ah, a parte Blondie-Debby Harry quando avevo 9 anni): Charlotte è stata –lo è tuttora ma nella sua carriera solista- un’incredibile chitarrista che girava su e giù per il palco, scalza e con una gonna dimessa, mentre bombardava a centinaia di watt il pubblico; pareva avesse un bazooka ed un metronomo nella mano destra. Mentre Tim Wheeler, il leader, alzava il flanger e giocava a fare il Jimmy Page prendendo invece lucciole, lei teneva in piedi il suono della band. Kung Fu è qui dal vivo a Tokyo, un posto incredibile per i live, visto che la gente è scatenata. Che dire? Si tratta di un pezzo a massima velocità, un classico giro punk, dotato di una melodia pop semplice, pura e incisiva. L’album 1977 [1996] è davvero brillante, ingiustamente bollato come pop di consumo, perché se è vero che si tratta di materiale di fruizione immediata, era un collage di pezzi tutti di livello che arrivavano diritti al loro obiettivo, ovviamente senza alcuna pretesa artistica, ma tutti perfettamente funzionanti e perfino memorabili nel loro genere. Credo tutti infatti ricordino “The Girls from Mars” che girava su MTV, altro pezzo di power-pop con qualche stop&go brillante, da vedere dal vivo
qui quantomeno per la presenza di Charlotte (aargh che eros, non devo guardare quello che metto in link. Tim, Flying V a tracolla produce l’ennesimo solo…non proprio a piombo, ma guardate Charlotte al min 0:56 e poi al min 1:46; si intravede sempre seria, forse fatta ok -punto in più- lavoro sporco ok, ma sempre robotica tra levare e battere).
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208.
Rage Against The Machine - “Killing In The Name Of” [1991]
Un gruppo sulla sponda seria del crossover funk e nu-metal, impegnati politicamente o quantomeno dotati di una certa coscienza sociale, finiti perfino al n. 1 delle classifiche (e forse da questa lista andrebbero eliminati per ragioni aprioristiche di scelta di campo). Della cosa ne hanno fatto una bandiera che spesso è utilizzata a fini scenografici. Nel video che ho scelto, Zack De Rocha prima di dare lo start carica il pubblico urlando che sono tutti vittima delle decisioni di altri, che si finisce per fare quello che altri decidono, eccetera, eccetera. Posa o reale denuncia sociale, fatto sta che dal vivo i RatM sapevano come caricare l’audience risultando travolgenti come pochi altri (benché limitrofi ai RHCP si trattava di due pubblici diversi). “Killing In The Name of” ha, oltre il classico suono metal-funk, deliziose varizioni di ritmo, una rappata in coro col pubblico, alternanza di momennti esplosivi con altri mood più introspettivi, che funzionavano bene anche live, costituendo episodi di decompressione prima della ripresa di scariche adrenaliniche. Interessantissima la ripresa che fa il video dell’uso degli effetti alle chitarre.
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credits:
www.scaruffi.com
Archivio di O.R.
Baldini-Castoldi: Enciclopedia del ROck
Punkedelica
www.pitchfork.com
G. Sibilia I linguaggi della musica pop
[Modificato da °Mark Lanegan° 11/02/2012 04:51]