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La mia classifica dei migliori artisti anni 90'.

Ultimo Aggiornamento: 30/10/2012 19:12
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10/02/2012 06:30
 
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Cos'è?
ADR E' una lista che rappresenta la mia corrente preferenza per la musica dei 90's. Si tratta di pop e rock. Era nata come i 250 migliori pezzi, ma è presto abortita per mancanza di materiale online, su Youtube. Quindi è diventata i 250 migliori artisti rigorosamente "off", indies o hipster o alternativi, dei '90. Un solo pezzo per artista con relativo video. 'Sta faccenda del video ha fortementissimamente condizionato la lista, va detto e ridetto. Si è bloccata a 206, continuo da lì poi.

Perchè?
ADR Non lo so neanch'io ma mi serve. Con quella degli anni '80 e '00, a dire il vero. A cosa qui non lo dico, ma serve. Diciamo che qui fa contenuto e si può parlare di musica extra MJ.

Come funziona?
ADR Uno la legge, se vuole. Sennò, no.

Come si fa a leggerla o peggio, ad apprezzarla?
ADR E' lievemente ipertestuale, quindi basta cliccare sul titolo del pezzo e questo per magia dovrebbe apparire in forma di video dal tubo. Così tutti valutano se è una zuzza o no.

E' tutto qui?
ADR Sì. ma c'è da sapere che fare la lista ci si impiega un attimo, cercare i video, abbinarli, trascriverli e fare il commento, eccetera, ci vuole un eone di tempo. Paradossalmente i commenti, che forse erano la cosa più importante, li ho fatti tutti stasera e solo per i primi 50 pezzi. Mi risevo di cambiare il testo che sarà pieno di errori, non solo di ortografia. Non ci crederete ma non l'ho ancora riletto.

E io che faccio?
ADR Se vuoi puoi postare quello che ti pare. Soprattutto critiche e soprattutto insulti, anche a caso. Se proprio sei in vena, puoi dare critiche costruttive, tipo "non si può tirare un po' più in giù x o y", eccetera.

p.s. le altre quattro parti mi auguro arrivino presto, dipende dalla mia indolenza.
Ok.

***

250. Pavement - "Gold Soundz"
Allora, questo pezzo è il pezzo pop degli anni ’90 per antonomasia [1992], è il Pitchfork n. 1 degli anni ‘90, il pezzo hipster più famoso e probabilmente il più amato da molti (e certamente anche il più odiato, ovvio). Va anche detto che non è il pezzo migliore dei Pavement e questa la dice lunga su di loro. E’ anche il motivo per cui ho fatto questa classifica, ispirato dalla lista della webzine più famosa d’America per l’alt-pop. “Gold Soundz” potrebbe benissimo stare in qualunque punto della mia classifica ma ho preferito che aprisse questa lunga lista proprio perché costituisce il punto di incontro e unione con la lista di Pitchfork. Va bene, non vi annoio. I Pavement sono il gruppo di riferimento per il lo-fi, ovvero per quel genere minimale, tra pop e rumore, che ha fatto degli anni 90 un decennio unico. Gold Soundz è come al solito una ballata ambigua a là Pavement, dove la voce sembra sempre calare, l’incedere del ritmo pure, mai perfettamente a tempo, le chitarre mai del tutto perfettamente accordate, e dove si respira un’aria di tristezza mista a speranza, incoscienza, coraggio…fate voi. Poi va detto che Malkmus ha di suo una particolare voce malinconica ed un timbro morbido ed affranto; le chitarre paiono sempre andarsene per arpeggi eterei ed estatici ma sempre su scale minori ed in territori dove nulla è perfettamente al suo posto. Perfino un ipotetico pentagramma dove si trascrivesse il pezzo dovrebbe avere le righe non perfettamente diritte ma ondeggianti, flessibili come fili dell’alta tensione, con le note posizionate in modo insolito ed ambiguo, magari appoggiate ambiguamente al rigo, in modo indecifrabile alla lettura. Anche le liriche sono in sintonia con il suono tutto intellettuale del pezzo e meriterebbero un capitolo a parte (“so drunk in the august sun, and you’re the kind of girl I like becasue you’re empty and I’m empty”). In Gold Soundz c’è tutto questo ma c’è anche di più, poiché v’è anche quella sensazione, quel retrogusto di piacere che fa avvertire, per un attimo, come questa sia una di quelle ballate irripetibili, sospese nel vuoto di in un mercato immobile, fatto di musica tutta uguale, e che ci fanno sentire, per un istante, diversi e tutt’uno con l’ignoto.

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249. Quasi – “Our Happiness Is Guaranteed” [1998]
Il noise-pop dei Quasi è una ricerca stilistica, un vezzo di gente con l’innato senso della melodia. A me è anche troppo congeniale, sebbene in odore di easy listening. Si tratta di dream-pop ma con una solida base ritmica, alle volte più confusa che psichedelica; i pezzi di un album dei Quasi sono bozzetti di pop lunatico e stravagante, ma sempre dotato di un contagioso appeal. L’eccentricità infatti è limitata alla parte strumentale, mentre la voce recita con distacco la melodia, di solito semplice ma eterea, con un buon effetto finale di immediata empatia. “Our Happiness is Guaranteed” è tratta da “Featuring Birds” [1998], un eccellente album di spirito eelsiano ed è sintomatica del genere: ha un inzio fortemente ritmico che pare un solo di batteria, pochi attimi e si leva un maelstrom di tastiere solarizzate in un amalgama confuso a metà fra serio e faceto, in ipotesi a mezza via fra Genesis e Inspiral Carpets. Quando il vortice si calma parte la serafica melodia di Coomes, che sovrasta soavemente un semplice bordone di feedback, quasi che il pezzo fosse una prova di Lou Reed mentre dalla veranda contempla il mare.

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248. Heather Duby -"Judith" [1999]
Anche chi non ama il trip-hop dei 90’s dovrebbe poter apprezzare Heather Duby. A parte i terribili video della Duby (che poi sono comuni a tutto il mondo indies o alternativo, probabilmte i soldi contano) , le soluzioni musicali di questa sono sempre abbastanza ricercate e non vivono solamente del drum&bass tipico del genere. Atmosfere oniriche, arpeggi che ricalcano carillion vagamente stonati, una certa dose di energia nelle parti vocali ancora più soavi di quelle portisheadiane infondono una certa attitudine a sprofondare nella poltrona per l’ascoltatore, alla ricerca del brandy giusto per gustare il brano, più che fornire la colonna sonora per viaggi mentali. E’ anche una bella pupazza, cosa che non guasta mai (se avete gli anni giusti per pensare a cosa le fareste con quel make up così, ma che lo dico a fare in un forum a maggioranza di donne…).

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247. Mansun – The Chad Who Loved me [1997]
Ora, definirli brit-pop mi sembra un poco ingiusto visto che si tratta di una voce enciclopedica che oramai è un dispregiativo al pari di trash o junk-pop. Quanto meno i Mansun non sono stati solo quello ed hanno realizzato un album “Attack Of The Grey Lantern” [1997] che ha un set di hit di grande fortuna in Gb, un po’ meno qui da noi, dove sono poco conosciuti. Il pezzo: si tratta di un pop a tratti sinfonico, una cantilena tra suoni dilatati alla ricerca dell’estasi sonora, interpretata con convinzione dalla voce che si stende rilassata (ma processata) e sognante anche per il resto dell’album. Un plauso particolare alle chitarre che tolgono un po’ di epicità al pezzo, dando una certa misura complessiva. Anche considerandoli Brit-pop mi pare una delle cose migliori del genere; in ogni caso ritengo si possa dopo tanti anni tributare qualcosa al brit-pop che ha dominato le classifiche universali dei primi anni ’90 (oltretutto con band tipo gli Oasis, che non erano certo la milgiore espressione del movimento). Si sente putroppo il manierismo nei Mansun, va detto, e questo forse è stata causa di profonde critiche (e di qui la bolla di brit-pop, ovvero di “forma- ma- poco-contenuto”) ma uno sdoganamento ci starebbe tutto ad una band altrimenti destinata all’oblio.

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246. Stone Temple Pilots - “Vasoline” [1994]
Gli Stone Temple Pilots non ebbero lo stesso successo di altri gruppi della scene di Seattle, forse perché il loro suono ritornava su percorsi di un rock più classico, ma proprio per questo rispetto ai nomi più altisonanti avevano una maggiore apertura verso soluzioni ibride, potendo sempre fare affidamento ad un tecnica superiore ai gruppi più famosi. Va detto che c’è sempre qualcosa di non completamente soddisfacente nei loro album ed il suono non è mai particolarmente originale. In ogni caso, si tratta di pezzi sempre di ottima fattura, ed il layout complessivo risulta superiore per caratura al valore medio del mercato di consumo al quale comunque appartengono (ancorchè forse un po’ ai margini). “Vasoline” è tutto ciò e di più: un riff accattivante tra Pearl Jam e Soundgarden attorno al quale ruota tutto il brano; una forma –canzone di lunghezza e struttura classica, un assolo in stile Jimmy Page e una solida armonia tra voci conferiscono al brano un impianto lontano dall’asperità dell’hard rock (che ne ha decretato un certo successo anche commerciale, cosa mai da disprezzare).

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245. The Pogues – The Sunny side Of The Street
Secondo un celebre critico gli inventori del “Rogue-Folk”. Più semplicemente il folk irlandese suonato con la foga punk di un gruppo di college-rock. Ritengo Shane Mac Gowan un cantante eccezionale oltre che un buon autore e talvolta, come in questo pezzo, sa unire tradizione folk e rock in ballate trascinanti. Anche qui la voce tradisce il tasso alcolico, ovviamente credo solo rappresentato, idealizzato, non necessariamente ritengo fosse sbronzo il giorno dell’incisione, cosa tipica della produzione dei Pogues dei 90’s. Ma è da copione, credo sia ciò che ci si aspetta da un irlandese accalorato e dedito alla riscoperta della musica tradizionale in chiave rock. Se ascoltate l’ottimo Hell’s Ditch [1991] troverete anche altri pezzi di un certo spessore, talora perfino accorate elegie, per nulla ebbre, anzi raccolte, venate da una certa tristezza come Lorca’s Novena che ha perfino velleità di folk trans-nazionale. Un disco da portarsi assolutamente con se in Irlanda, in caso di viaggio.

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244. Juliana Hatfield – “I See You” [1992]
La Hatfield è da sempre idolatrata dai critici dell’alt-pop. Vabbe’, è brava e carina e ci può anche stare di diritto qua dentro; va detto che pare belinda carlisle oppure le gogo’s ma pazienza… In ogni caso, non può essere messa in dubbio la sua innata capacità di trovare melodie più che discrete ed un impianto complessivo di dream-pop che le permette di dare alle stampe melodie esili e pezzi a strumentazione rarefatta come questo. L’album di riferimento, Hey Babe [1992], ha più di un pezzo assolutamente da top 10, in un contesto assolutamente indie e da college pop per cui Juliana Hatfield merita la collocazione in ogni classifica del decennio (magari nei gradini più bassi). Addirittura il pezzo in questione ha qualche rimarchevole stop&go che fanno levitare il giudizio complessivo. Poi, certamente la tipa è una di quelle da coltivare per un rapporto stanziale, sarà questo che piace tanto ai critici maschi (a me pochissimo: ecco perché se ne sta oltre il 200° posto…)

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243. Jeff Buckley – “Eternal Life” [1994]
Allora, su questa lista mi ero ripromesso di non mettere grandi nomi che (cosa rara, del resto) avessero effettivamente fatto qualcosa di realmente meritevole di risultare fra le cose migliori del decennio in questione. Così non ci sta Beck, ad esempio, che pure aveva fatto qualcosa di eccellente, non parliamo di altri grandi nomi. Però per Jeff Buckley mi è parso equo inserirlo qua dentro. Un po’ perché temo sia lentamente destinato all’oblio in quanto non certo leggendario come il padre; poi perché è stato una meteora, potendosi contare solo un lavoro effettivo a suo carico. Non è un vero autore ma più che altro un cantante e quindi a me non sta molto simpatico, eppure ... eppure… Qualcosa di rimarchevole c’è visto che le sue cover mi paiono sempre le migliori (Halleluiah è il pezzo che chi non ama le mie interminabili liste ricorda sempre per primo, e così lo metto sempre nelle liste tanto per fare catchy. In ogni caso non è –mi pare- un nome troppo noto quello di Jeff Buckley (ma forse è il più noto di questa lista), quindi mi pare risarcitorio inserirlo qui. Niente di nuovo al sole ma c’è “grazia” ovunque in questo Grace [1994] ed in questo pezzo in particolare, Eternal life. Anche qui la voce è pura e cristallina benché sia in fondo di un blues intriso di rabbia e dolore: non è una prova semplicissima di canto. Se poi c’è una cosa buona di Jeff Buckley è che non si lascia mai prendere la mano e non vuole mai eccedere nel dare saggio delle sue pure indubbie capacità vocali. Oltretutto, vista la sua giovane età, la voce è tanto solida quanto ancora fresca. Il blues è quindi energico, talora esplosivo, congegnato ad hoc per fare risaltare l’interpretazione. Ecco, il problema di Jeff Buckley non è tanto se si sia guadagnato o meno un posto nella storia per questo suo unico album; il problema è piuttosto che la sua triste vicenda umana evoca e induce sempre al confronto con l’altrettanto infelice esistenza del padre. Questo confronto, francamente, mi pare troppo ed ingiusto per chiunque; l’unico modo quindi per ricompensarlo ex post mi pare sia quello di tributargli un posto fra i grandi di tutti i tempi.

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242. Aimee Mann “Save Me” [1999]
Aimee Mann è l’ex leader dei Till Tuesday che qualcuno di voi ricorderà avendo avuto una certa notorietà negli ’80, proponendo un pop commerciale di discreta fattezza (ma legato agli schemi musicali e perfino visuali di quegli anni). In seguito, lasciato il gruppo ha cominciato a proporre un folk più intimista ed introspettivo, guadagnandosi l’incarico di realizzare il soundtrack del film Magnolia. Cosa che ha fatto bene e di qui prende spunto il pezzo di Save Me, divenuto un hit internazionale di un certo successo. Mi ha sempre lasciato il dubbio che si tratti di una viaggiatrice di territori comuni a Dido (da quando è uscita dai Faithless, almeno), non proprio arte. Ma se si può concedere qualcosa in più ad Aimee Mann, a mio parere è perché oltre a scriversi tutti i pezzi, non indulge in alcun atteggiamento edonistico, per il gusto di piacere a tutti i costi al pubblico. E Save Me è una ballata che ricorda molto da vicino la Younghiana Out On The Weekend ma con un retrogusto dolceamaro di piacevole estrazione pop in più. Alla fine appare simile a Tom Petty, non al grande Neil… Piacevoli le armonie sognanti ed il taglio delle chitarre, di solito fattore determinante per portare un pezzo (abbastanza) in alto nelle vendite.

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241. The Faint – “Worked Up So Sexual” [1999]
Si tratta di epigoni di un genere assolutamente coinvolgente lanciato dai Suicide negli anni ’70; nella fattispecie, un cross over fra dance-pop degli 80’s e l’elettronica mainstream dei ‘90s. Sono tangibili i riferimenti agli OMD, ma se ne distanziano perché amano inserire qualche elemento futurista di disturbo elettronico (senza comunque alterare un’immeditata fruizione del pezzo). Odiati ovvero amati a seconda della rilevanza che si voglia tributare al criterio dell’innovazione nel giudizio della musica, i Faint hanno resuscitato con successo negli anni ’90 la danza macabra di Alan Vega. “Worked Up So Sexual” prende inizio in un vortice sconnesso di vibrazioni elettroniche a cui si unisce il midtempo di una drum machine. Quando Todd Fink inizia a cantare dà l’incipit ad una ballata dance con qualche elemento dark-pop degli 80’s; con una buona intuizione al min. 1:52 la voce si ritrova a declamare il motivo accompagnato dai soli inserti elettronici, forse per ricordare che il synth-pop è definitivamente tramontato e così, di lì a poco, termina anche il pezzo. Tutto sommato breve ed è bene così.

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240. Jane’s Addiction – “Stop!” [1990]
I Jane’s Addiction ebbero qualche merito ed ottennero molto più che qualche favore della critica all’epoca dei loro esordi, sul finire degli anni ’80. Ricordo a me stesso (mai tanto come questa sera, dopo aver letto il commento di Joe Vogel sui migliori dischi del ’91) che l tempo dei Jane’s Addiction era quello stesso che vedeva concretizzarsi il successo planetario di gruppi come i RHCP e I Guns&Roses, in epoca pre-grunge (ed anzi aprendo la strada, guarda caso, a gruppi come i Nirvana) Mentre però questi ultimi si dedicavano apertamente alla raccolta del maggior consenso possibile, i Jane’s Addiction conservavano quel fascino di gruppo di strada, coltivando qualche aspirazione artistica in un genere prossimo all’hard rock. Erano certamente eccessivi e sovrabbondanti, ma hanno anche saputo offrire qualche soluzione originale e alternativa al cliché del genere. Talvolta irruenti, concitati, forse dispersivi, ma sempre solari e divertenti, mi pare abbiano divertito tutti, lasciando anche ritenere di valere qualcosa di più del mucchio di musicisti dediti a finne 80’ alla riscoperta dell’hard rock. Di qui un paio di album che, ricordo ancora benissimo le sviolinate del mucchio o rockerilla, gridavano alla rivelazione. In effetti Ritual de Lo Habitual [1990] è tutt’oggi un disco pieno di energia, con qualche momento travolgente, come in questo “Stop!”. Qui si trova tanta adrenalina ed un certo sentimento di imprecisione che conferisce molta libertà nell’architettura complessiva del pezzo. Questo non segue infatti uno schema preciso: inizia infatti in un’esplosione nevrotica, per poi rallentare e ripartire ancora con l’assolo infernale dell’ineccepibile Navarro. Si sente che Stop! è fatto più per stupire il suo pubblico (non proprio avvezzo ai momenti di quiete), perché riprende con un coro a cappella e si conclude nel solito gorgo di chitarre che travolge tutto. Per dovere di completezza qui, si deve ricordare che, pubblicato Ritual De Lo Habitual, di lì a poco i Juan Addiction portarono a termine la loro vicenda sciogliendosi e a nulla (se non per la cronaca) è valso un ritorno abbastanza imbarazzante avvenuto pochi mesi fa con l’uscita di un disco passato in silenzio ma strapazzato dalle riviste di settore.

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239. Black Crowes – “Remedy” [1992]
Uno dei pochi video di questa lista che poteva contare su passaggi per MTV. In effetti è mainstream ma lasciato ai margini del settore di largo consumo. Per capire un genere che comunque dovrebbe appassionare perché pieno di vitalità rock, si ascolti anche “Sting me”. I Black Crowes sono da sempre uno dei gruppi più amati in America dai cultori del blues-rock ma stranamente non sono mai stati popolari in Europa (paradossalmente sono stati riscoperti di recente, quando sono stati inseriti nella colonna sonora di un popolare videogioco). Tacciati da sempre di essere epigoni di un genere antico quanto la chitarra elettrica, il loro sporco lavoro l’hanno fatto sempre alla perfezione e recentemente anche Jimmy Page si è aggiunto al gruppo per ragioni ignote (magari semplicemente ama questo suono). Al solito famoso critico italiano, detrattore di tutto quello che non è assolutamente innovativo, non piacciono molto: io direi che se di classic blues-rock si tratta, questo è stato un tentativo di riportare in auge il southern rock, con influenze ben più vaste di quella in predicato degli Aerosmith (e comunque, anche se fosse, superiore al modello di riferimento). Strumentalmente ineccepibile, Remedy era in un album “The Southern Harmony And Musical Companion [1992] ricco di stomp di un certo valore che comprendeva oltre che pezzi rhythm-blues e southern rock anche gospel e boogie, con oltretutto una buona componente psichedelica assolutamente in controtendenza nel pieno del periodo grunge, disfattista e ben poco onirico.

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238. Ocean Colour Scene – “The Day We Caught The Train” [1996]
A mio parere gli Ocean Colour Scene hanno realizzato il miglior brit-pop (che, ok, è stato spesso spazzatura ma non solo, dato che è stata l’unica “The Next Big Thing” inglese realmente universale dell’ultimo ventennio, sempre se escludiamo il trip hop, che non mi pare però così commercialmente importante). Gli OCS hanno infatti influenzato, direttamente o indirettamente, gran parte della produzione pop dell’epoca e molti di voi sapranno certamente che anche i nostrani Lunapop li hanno saccheggiati (non so se abbiano mai pagato le royalties per Better Day – Giorno Migliore). Mi ricordo che fino a che il termine di Britpop aveva una qualche valenza positiva, anche i Dj più alternativi osavano inserire The Day We Caught The Train nella scalette che comprendevano perfino i Kyuss. Il pezzo: Si tratta di una delle tante melodie molto risucite del gruppo, al quale dovrebbe aver collaborato Paul Weller; non c’è molto da dire ma tra contrappunti melodici ben riusciti ed un impianto chitarristico brillante, volente o nolente è destinato a rimanere nella mente, quale tormentone di qualità. Se pensate che “one” degli U2 sia la cosa peggiore fatta dall’umanità dopo Auschwitz, magari sostituirlo mentalmente con questo non potrà che farvi bene. Ho scelto la versione acustica perché meno pomposa.

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237. Alice In Chains “ Down In A Hole” [1992]
Gli AiC univano una indiscutibile competenza strumentale ad un’innata capacità di comporre melodie di facile o largo consumo; ma la caratteristica principale del loro successo era una discreta componente psichedelica che conferiva una certa armonia ed appetibilità ai loro pezzi, riuscendo a raggiungere anche ad un pubblico più vasto di altri gruppi altrettanto validi (o perfino più) quali i Soundgarden, ad es. Forse per questo motivo non sono mai stato tanto amati dai puristi del grunge ma hanno comunque rappresentato uno dei riferimenti per la scena di Seattle, ampliando il ristretto genere del grunge ed aprendo a nuove influenza. “Down In a Hole” ricorda un po’ i Cult di Love [1985] per quella atmosfera sognante e vagamente psichedelica su cui Layne Staley canta in modo ispirato, senza mai putroppo graffiare. Nel pezzo c’è un po’ di tutto ed alla fine sembrano un ibrido pericoloso tra gli Aerosmith e Bon Jovi (e con questo ho detto tutto). Sempre leggermente stucchevoli ritengo piacciono ai puristi del suono ed in ogni caso talora sembrano i Byrds per quelle armonie delicate (si sente che non voglio infierire su “Luca Ktfaith”, vero, a cui mi pare piacciano? ). Definirlo “progressive grunge” era una cosa che mi è pure passata per la testa ma non avrei mai osato fare finché non mi sono accorto che anche altri si lanciano in queste pericolose definizioni.

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236. Destroyer – “ The Space Race” [1998]
In fase di piena affermazione estetica del lo-fi, vi sono stati cantautori e gruppi che sono emersi per le loro incisioni su di un semplice registratore a cassette (Songs Ohia, Built To Spell, Elliot Smith, Guided By Voices, Mountain Goats, Daniel Johnston…). Oltre a questi più famosi, v sono stati i Destroyer (rectius Daniel Bejar) che hanno piazzato qualche buon disco nei primi ’90 per poi dare forma ad un’espressione musicale più elevata nel decennio successivo e per il quale meritano un capitolo a parte. Il fascino di questo pop risiede nella carica dissacrante di un linguaggio sonnolento, votato all’understatement, al fascino che è proprio dell’arte incompiuta. Non per questo i pezzi non sono (o potenzialmente sarebbero) di valore assoluto se (e solo se) fossero prodotti secondo i canoni tradizionali del music-business. “The Space Race” cattura questo manifesto programmatico di stile. Nasce come ballata lo-fi del tutto catatonica, con una strumentazione ridotta ed abbastanza rarefatta, ma presto prende convinzione, Bejar acquista sicurezza e la melodia prende coraggio, raggiungendo così la perfezione ideale del bozzetto pop minimalista,in una sorta di glam pop a bassa fedeltà.

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235. Teenage Fanclub – Everything Flows [1990]
ma sentire anche “Goody Gum Gum Drops” [1993] che non inserisco qui come prima indicazione solo perché è una cover. Allora, i Teenage Fanclub non li troverete tanto facilmente in una lista dei 100 o 200 pezzi più famosi del decennio ma qui sì, ci stanno, per un giusto tributo al merito se non altro alla longevità (suonano tuttora). In realtà, si tratta di un gruppo valido, che si richiama agli antichi Hollies, Byrds e ai Beatles, e che sa aggiungere sonorità garage e da college-rock. Ebbene in vent’anni hanno prodotto decine di melodie assolutamente brillanti e riuscite che meriterebbero una singola scheda su una rivista musicale (ma già ci sta pensando qualcuno, ahem…). Anche volendoli definire derivativi, i TF avrebbero quantomeno meritato un posto al sole nella musica di consumo, ma temo che per loro valga il detto “troppo alternativi per le classifiche, troppo mainstream per il circuito underground”. L’anno scorso è uscito un ottimo album dei TF ma qui ovviamente voglio fare sentire i TF quando hanno iniziato e lo faccio con un pezzo che pochi conoscono. E’ quanto di più underrated vi sia al mondo, oltre che di sconosciuto: ma anche in un pezzo minimale del genere i TF, sempre positivi, ci mettono l’energia ed entusiasmo da high school band. Niente di arte, ma questo è l’essenza del vero pop e le melodie dei TF non stancano mai (ok, un po’ sì. Del resto, tutte le melodie stancano. “No more mAladies”, dice giustamente Fiona Apple).

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234. Rocket From The Crypt – “Ditch Digger” [1993]
volevo short lip fuser, pazienza. Non c’è sul tubo. Una garage band non troppo arrabbiata che produce un power pop incline al punk, incisivo e di impeto, ok, ma sempre orecchiabilissimo e piacevole anche a chi non ama troppo il genere. Provenendo dall’hardcore la carriera dei RftC ha dapprima ricercato qualche velleità estetica per poi passare (o scadere) rapidamente ad una produzione volta alla fruizione immediata e più spontanea (vedi la comunque eccellente “Born In 69” dal vivo; questo è rock e forse dovrei indicare questo pezzo come rappresentativo del gruppo). Sono sempre stati assolutamente travolgenti, dal vivo come in studio, sebbene non abbiano mai raggiunto un’ampia notorietà, forse per una certa rozzezza di toni (ma strumentalmente sono ineccepibili forse talora perfino sofisticati) Si tratta di produzione interessante perché la band è attenta all’espressione musicale che risente di diverse influenze, dal pop anni ‘60 all’hard rock, cosicché l’album “Circa Now” [1993] non ha riempitivi e tutti i pezzi mantengono alta la tensione. In “Ditch Digger”, pezzo meno tirato del solito e insolitamente più introspettivo, i R.f.t,C dimostrano cultura ed un innato senso della melodia, ancorché insana e febbrilmente amplificata. Il pezzo gira attorno ad tema circolare di chitarre che la voce segue segnando le battute con scoppi di ira; l’effetto è quello di una ballata elettrica, un sorta di Valzer frenetico di fine millennio. Dice bene l’innominabile critico quando afferma che qui “si sente più sudore che rabbia”; è assolutamente apprezzabile nei RftC questa mancanza di delirio psicotico che caratterizza tanto rock di primi anni ’90.

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233. DevendraBanheart – “Sight To Behold” [1993]
Si tratta di un vero e proprio mistero dell’alt-folk o pre-war folk, come è stato definito (quindi l’anello evolutivo antecedente al “post-folk” proprio del decennio successivo). La mia idea di Devendra Banheart è che questi sarebbe il più grande autore musicale del genere di tutti i tempi se e solo se… tutti i pezzi durassero come per decreto meno di trenta secondi. Il punto è che… così non è e nella musica di Banheart al di là del tema annunciato dalla chitarra non si va molto oltre, anzi, si ritorna sempre allo stesso punto, in unico grande loop che spazia tutta la durata dei brani. Detto questo, i dischi di quest’autore sono tutti realmente imperdibili perché sono un collage di bozzetti di altissimo livello autorale. E’ egli stesso un personaggio che definire eccentrico pare perfino ingiusto perché riduttivo e la sua vita è leggendaria, noto perfino per avere sfasciato la propria chitarra in testa al batterista dei _Metallica (la cosa più pericolosa del mondo visto il tipo non proprio pacifista e remissivo). Avevo previsto di indicare At The Hop , come esemplificativo della vita ed arte di Devendra Banheart ma poi ho ceduto al fascino del pezzo più noto e qui ascoltate pertanto “Sight to Behold”, un semplicissimo folk in Am-G, come milioni prima di questo, ma con un fascino del tutto originale, perché vibra sull’armonia più triste di questo facile giro. E per me è proprio nei lenti ovvero nelle cose più semplici dove si avverte la grandezza del musicista. Anche il video è imperdibile (e i commenti degli youtubers).

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232. Aurora Sutra – “Posen 1793” [1993]
Definire la musica degli Aurora è un esercizio di stile perché in rete si può leggere di tutto: crossover di ambient-music e new-age, oppure gotico sinfonico; kosmische muzik ovvero prog-dark wave, insomma fate voi che si fa prima. Non tutti amano questo genere che adesso è in fase stagnante dopo avere conosciuto una crescita esponenziale proprio nei 90’s: ma è un peccato perché qui v’è molto di più che semplice buona musica. Epigoni degli esiti psichedelici dello space- rock dei 60’s e della cosmic-music degli anni ’70 (questo sì), i tedeschi Aurora Sutra vantano numerose prove convincenti anche chi non ama tetre colonne sonore sul cd di casa. A differenza di altri gruppi affini, non vogliono creare solo della musica ambientale e quindi si dilettano a mettere assieme delle vere e proprie sinfonie aventi un propria identità musicale e un certo spessore. Fiabe gotiche, melodie medievali, salmi religiosi, canti gregoriani e mantra elettronici vengono convogliati sovente in unico pezzo, la cui amalgama acquista un’atmosfera tenebrosa, immobile, ed un’aura di angoscia avvolge il suono. “Posen 1793” è emblematico di tutto ciò; l’iniziale drone elettronico si accompagna a lugubre esplosioni ed un canto femminile, lontano ed algido, si spinge fino alle porte dell’inferno e lascia intravedere lo spazio dell’abisso. Alcuni suoni vengono mutuati dal black-metal, come il recitato maschile, ma gli Aurora non si spingono mai in territori di alt-rock, almeno in quest’ album, “The Land Of Harm And Appletrees” [1993]

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231. Mouse On Mars – Bib [1995]
In effetti la scena tedesca si addice in modo speciale alla sperimentazione in campo musicale ed è così anche per i Mouse On Mars: qualunque etichetta si scelga (post techno, jungle-dub, eccetera), questo duo potrebbe dirsi capofila di un genere a sé; a parte il solito eclettismo da crossover e l’infinità di derogazioni ambigue dei suoni, si respira un’eccentricità diffusa nei pezzi dei MoM che è la caratteristica tipica dei loro lavori, unitamente ad una intensa poliritmia ed un tribalismo digitale. “Bib” sembra partire quale pezzo drum&bass ma finisce presto per raccogliere influenze jungle e di world-music; la caratteristica peculiare (aggiungete “a mio parere” a tutto quello che dico, ovvio) è che mentre il ritmo pulsa frenetico e costante, il canto è del tutto in contrappunto e disegna cantilene infantili e celestiali sullo sfondo. Piace ‘sta cosa. Anche se vi è qualche cambio di ritmo e l’evidente ostentazione di qualche dissonanza ed effetto a stupire, “Bib” va alla ricerca del magnetismo e della trance che solo la techno che trova l’estasi può offrire.

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230. Robin Holcomb – “Hand me down All Stories” [1990]
Avevo scelto “Poem IS A Memory Of!” ma ci sono solo 8 video di Robin Holcomb su youtube a fronte di una produzione immensa; difficile fare I difficili Di regola i musicisti classici (come Robin Holcomb, ovvio) non sanno fare musica pop: hanno un approccio sbagliato, una sensibilità diversa ed i risultati sono quasi sempre deludenti. Robin Holcomb smentisce questa regola e con una ensemble jazz produce alcuni album sospesi a metà strada fra erudizione e piacere d’ascolto. Forse anche troppo legata all’orecchiabilità ed alle melodie tradizionali, la Holcomb segue una miriade di spunti, spaziando dal folk-rock, dal jazz al funk al chambre-pop ed al gotico. Sempre con passo leggero e bassa ambizione nel canto, R. Holcomb produce diversi pezzi da classifica che perdono il passo con il mainstream per l’impossibilità dell’autore di costruire (almeno una) hit. “Rockabye” [1991] è un buon album, ma tutto trascorso al piano, invece “Robin Holcomb”, dell’anno precedente, è un po’ più versatile ed il jazz di this poem is a memory Of risulta vicino alle atmosfere spettrali dei Cowboy Junkies.

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229. Connels - “Slackjawed [1993]
Allora, I Connels. I Connels sono il simbolo di tutto ciò che é indie ed un po’sfigato. Zenith del nerd, climax della classica college band american, apoteosi dell’errore e dell’improvvisazione casareccia, non avrebbero sfondato nemmeno dietro raccomandazione della madonna in persona o di san pietro. Qui, dal vivo, riescono a riunire tutti gli errori di look e di rock gestures, per cui per me sono gli Stones del mondo alla rovescia (il tipo alla chitarra ritmica nei primi secondi del video mi fa morire per l’aria innocente e il fare da party liceale). Basti dire che il cantante oggi di lavoro fa l’avvocato e con questo avrei detto tutto). Ok, mi tocca aggiungere qualcosa perché se sono qui c’è un motivo: i misconosciuti Connels facevano allora delle melodie incredibili ed un indie-rock appassionato che, al tempo, l’italianissima Planet rock era arrivata a ritenerli sullo stesso piano dei Nirvana. “Slackjawed” scivola via alla perfezione su binari tracciati da chitarre energiche e brillanti, con un morbido jingle jangle delle chitarre, ed il tutto mentre, quasi per contraltare, il canto è esile e perfino delicato, forse perché la grana della voce non consente alcuna interpretazione. Altro che auto-tune. Ma meglio così perché le canzoni dei Connels si reggono da solo nella loro (im)perfezione pop-rock. ‘Sti poveracci avevano sempre riff effervescenti come questo, e si veda come qui il pezzo viene lanciato nel finale a maggior velocità, così da terminare tra la foga della batteria e le armonie del party-boy che mi fa morire, ‘sto Keith Richard del mondo alla rovescia. Comunque sia, una delle tante underrated band dei 90’s.

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228. Arcana - “Angel Of Sorrow”[1996]
Gli Arcana sono svedesi ed hanno realizzato un ambient-gothic essenziale ma di impatto. Benchè l’immaginario evocato dagli Arcana sai il consueto adolescenziale da Medioevo mitologico al limite del fantasy, il suono non è maestoso ed immobile nella sua ripetitività come in gruppi di generi limitrofi quali gli Aurora. Quindi per quanto possente sia il muro sonoro degli Arcana si percorre velocemente ogni brano, quest’ultimo una sorta di territorio di viaggio, di quadro ambientale, un po’come accade nei “Love Is Colder Than Death.” E’ musica spettrale, dall’incedere solenne e costante, con ritmi marziali e suoni stracolmi d’eco e riverbero. L’atmosfera di riferimento è quella delle tenebre, ma si tratta di musica ambientale, descrittiva, evocativa dei recessi di una cattedrale, dei ritmi di un rituale primitivo, non è terrorizzante come nel doom e nelle derive metal. “Angel Of Sorrow” è di breve durata e si apre su battiti imponenti le cui vibrazioni si librano nello spettro con un effetto di cupa definitività. Il suono di un organetto prima e le tastiere poi, preparano il terreno per le melodie eteree wagneriane di Ida Bengtsson, ninfa dark da immaginario erotico adolescenziale (ma non solo, purtroppo...) senza alcun legame con la forma canzone pop.

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227. Dimitri From Paris – “Souvenirs De Paris” [1996]
La produzione di questo chanssonier elettronico è costituita da percorsi sonori che spaziano tra lounge, jazz, atmosfere vintage da radio-days ed effetti ambientali, dove gli inserti di rumore concreto evocano ambientazioni che sono veri e propri stereotipi francesi, anzi parigini. L’esito finale è un’opera di ambient-music a tema, indefinibile a priori, che conferisce un piacere estatico per il senso olofonico dell’immersione aurale. “Souvenirs De Paris” indica chiaramente dove si svolge questo percorso guidato (album “Sacrebleu”, 1996); le voci che aprono il pezzo paiono infatti appartenere ad un mercato popolare, ma ben presto appare il tema glamour e vintage, una sorta di chill-out elettronico e a quel punto parte davvero il brano. Durante il pezzo infatti si incontra di tutto, dai clacson e i motorini che partono nel traffico, alla musica da dance-hall, il chill out, una voce che sussurra, ma insomma si sente tutta Parigi, quantomeno quella stereo tipizzata, ed ogni souvenir sembra compresso in questo bozzetto sonoro senza inizio o fine. Oggi è uno dei DJ più famosi e pagati al mondo.

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226. Peter Jeffereies – “Index” [1998]
Si tratta di un disco (Substatic) che non si fa definire facilmente: post-rock, art-rock, alt-classic: insomma, meglio ascoltarlo. Cinque pezzi per un ora circa di musica, divisi in movimenti, a loro volta suddivisi in una infinità di variazioni e sottocomposizioni. Mai cacofonico, Jefferies è troppo preciso e chiaro nei suoni per risultare un bluff di avant-rock. Odio quando nei suoi pezzi entra il piano melodioso e celestiale, ma devo dare atto che Jefferies è eclettico al massimo livello, non esagera mai e si tratta di pezzi rock eruditi, sempre tenuti sotto una rigida regia (del resto nel ’91 aveva fatto “The Last Great Challenge in a Dull World” che è un’opera maestrale di modern classic, tra piano ed isnerti di musica concreta, con inframezzi elettronici). Vabbe’, a trovare il pelo nell’uovo vorrei dire una cazzata: bravi tutti a fare Satie: io vorrei i nuovi Doors.

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225. New Order – “Regret” [1999]
Va detto che avevo immaginato e preparato un pezzo dei Crescent da inserire qui, ma è stato da ultimo oscurato sul tubo, per cui credo di poterlo sostituire con una hit dei New Order, intercambiabile per ragioni di valore. Va altresì detto che i New Order degli anni ’90 sono la sbiadita fotocopia di quelli del decennio prima, quando erano dediti ad un synth-pop di classe. In ogni caso, Regret è un godibilissimo pezzo che costituisce la summa del manierismo pop dei NO, costruito con il suono del decennio anteriore, una cantilena da Pet Shop Boys, se fate caso, impiantata su trame fitte di chitarre, mentre i synth vengono fatti rimanere in secondo piano. La melodia è semplice e accattivante, perfino rassicurante. Forse il più grande successo di questi eredi dei Joy Division, ma proprio per questo intollerabile da sopportare (alla luce del grande passato banalizzato da siffatto manierismo) e, infatti, poco dopo questo pezzo i New Order si sono sciolti (uno dei pochi casi in cui i fan di un gruppo pregano affiché questo si sciolga).

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224. Stone Roses – “Love Spreads” [1994]
Parlare degli Stone Roses è molto difficile e farlo in poche righe è pressoché impossibile. Creod che tutti li conoscano, ma dopo aver visto che al Rolling Stone di Mi eravamo dentro in 50, al massimo, mi viene un dubbio. Vediamo in estrema sintesi: hanno letteralmente condotto alla luce il fenomeno di Mad-chester, segnando il momento di passaggio per la musica pop inglese dagli 80’s ai 90’s, spalancando le porte al brit pop che avrebbe prelevato e copiato quasi tutto da Ian Brown, leader degli SR. Il primo album degli SR è oramai leggendario, vera e propria pietra miliare del pop inglese, non c’è un pezzo sbagliato a cercarlo con il lanternino. Il secondo album che si fece attendere a lungo (si chiamò “Second Coming” [1994] per irridere la stampa che lo aveva preannunciato da anni) giunse quando il gruppo era disunito da tempo e tutto era cambiato attorno a loro. In realtà c’era ancora qualcosa di un certo valore, come questo “Love Spreads, lontano dall’antica perfezione, ma interessante per lo stile. Ancora in sintesi sul pezzo: qui la solita linea melodica rubata agli anni ’60 e cantata con il solito distacco irriverente ed un timbro sempre leggermente afono ed affannato di Ian Brown viene calata questa volta in un mare di chitarre che riversa ondate incessanti dal suono metallico e distorto. Il basso e batteria hanno stop & go ma quando prendono forza, pulsano in modo ossessivo, riversando la loro carica al pezzo. Le pause, infatti, servono solo per stemperare il pathos complessivo e quando il tema (“let me put you in the picture let me show you…) viene ripetuto ostinatamente la nevrosi sale ed il pezzo finisce in crescendo, con un discreto effetto complessivo.

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223. Pegboy – “Field Of Darkness” [1991]
I Pegboy sono una band di pop-core che quando tutto va bene assomigliano agli Husker Du o ai Rites Of Spring, quando invece non ci pensano troppo su diventano i Green Day, male per loro. Per una volta concordo con l’innominabile Critico laddove trova “Field Of Darkness” uno dei pezzi più riusciti del loro repertorio (ma si senta anche “Sinner Inside”). In ogni caso la foga rauca di Damore, il giro di accordi hard rock assolutamente emozionale, ed un ritmo sempre trascinante fanno apprezzare sempre e comunque i Pegboy che hanno riempito i 90’s di opere sempre all’altezza dei loro maestri predecessori (Earwig 1994; Strong Reaction 1991 Cha cha DAmore 1997, sono tutti album di buon livello) . “Field Of Darkness” parte come un pezzo dei Ramones, voce rauca e armonie verticali sullo sfondo, e prosegue come il più classico degli esercizi di stile, un esercizio corretto di combinazione di elementi di melodia-ritmo-armonia, dove il ritornello è più melodico e la strofa è invece in stile recitativo; la foga serve solo per arrivare di corsa al ritornello melodico e stemperare l’animo nel chorus; così anche i ragazzi borghesi più agitati sono contenti e possono sognare i loro amori tanto disperati.

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222. Kula Shaker – “Govinda” [1996]
I Kula Shaker sono certamente una bandiera del brit-pop inglese, ma mi sentirei di spendere buone parole loro. Se altri gruppi brit pop hanno letteralmente saccheggiato la tradizione melodica britannica per riproporre solo melodie accattivanti o poco più, i K.S. hanno cercato di ricostruire il linguaggio musicale di quegli anni, con particolare attenzione alle influenze indiane nel rock, non una semplice copia di vecchie melodie o imitazione di episodi musicali, come hanno invece fatto Blur e Oasis. Govinda, ad es. fa parte di questa operazione (qui dal vivo) ed è un tentativo di mescolare come in passato brit-rock con raga indiani per formare una sorta di psychedelic-rock dei 90’s. Si tratta di musica che risente certamente delle esperienze passate di Kinks, Beatles, Charlatans, eccetera, ma anche e soprattutto del pop indiano contemporaneo, così come arriva in Inghilterra (mentre è paradossale che i cittadini del Regno Unito di origine indiana siano maggiormente propensi all’elettronica ed al dancefloor, non proprio tradizionali generi indiani). In Govinda il canto indiano (femminile) introduce il pezzo, in modo certo affascinante; quando questo parte si riporta immediatamente alla tradizione britannica, ma è notevole che anche la voce maschile debba seguire l’armonia orientale. Peccato che non osino di più.

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221. Moose – “Ballad OF Adam And Eve” [1993]
Per I Moose va detto fin da subito che non v’è nulla in rete di quello che vorrei mostrare, trattandosi di una delle più underrated band di sempre. E ciò del tutto ingiustamente. Vengono completamente a torto inseriti tra i precursori del brit-pop da chi non li ha mai sentiti o che li ha sentiti per ragioni di lavoro ma solo magari tre pezzi in croce; e così sono finiti nel dimenticatoio. Ora non ho spazio per parlarne compiutamente ma i Moose sono un’incredibile band che putroppo verrà dimenticata, ma va ricordato che hanno fatto bene di tutto, spaziando dallo shoegaze al psychedelic-pop e perfino allo slow-core senza mai badare al ritorno commerciale delle loro (impopolari) scelte. Qui ho a mia volta “scelto” (si fa per dire, con 6-7 pezzi in tutto su youtube…) Ballad Of Adam And Eve [1993], ovvero un turbinio di chitarre che crea un vortice dove affonda tutto, anche la voce e perfino la batteria, con un ritmo che pare arrendersi al gorgo distortore. Le esplosioni sono quelle dello shoegaze, così come le ondate progressive di chitarre e come il canto, ispirato e estatico, leggermente catatonico. Il suono perde presto l’iniziale equilibrio all’aumentare del ritmo (e del caos): è una buona cosa perché ne guadagna il pathos (così come la qualità complessiva) del pezzo

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220. Hefner – “Love Will Destry Us In The End [1997]
Gli Hefner hanno fatto delle ottime ballate elettro-acustiche con gusto minimale e decisamente lo-fi: questa è una di quelle. Ricordano un po’ i più fortunati Weezer, per quel gusto un po’ goliardico di certe armonie e per le melodie scanzonate e testi deliranti (e così viene da domandarsi perché i Weezer hanno avuto tanto successo, mentre gli Hefner sono abbastanza ignorati perfino nel circuito indies). In questo pezzo tratto da un ottimo “Braking’s God Heart” [1997] c’è tutto per piacere (e per non vendere). Si tratta di una ballata dall’iniziale incedere un po’ marziale ed un po’martellante, ma tutto sommato “normale”, che alterna presto momenti di maggiore tranquillità con momenti dissacranti, caratterizzati da inserti di chitarre dissonanti che non provano a mettere ordine nel brano, anzi. Finisce tra suoni disarmonici che compaiono solo al termine del pezzo (cosa non proprio ortodossa nel codice linguistico del pop) ed un clima da aumentato tasso alcolico che trova riscontro nel febbrile timbro della voce.

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219. Catherine Wheel - “Black Metallic” [1992]
Avrei voluto “the nude that broke my heart”, ma è introvabile sul tubo. I CW sono una shoegaze band a dire poco eccellente, una mia passione che rasenta la venerazione. Va detto che sono la forma commerciale del genere più per una naturale propensione del leader, Rob Dickinson a creare pezzi sentimentali e sognanti più che per una loro spendita del nome verso lidi di musica mainstream. Quindi, ok, banali talvolta ma talentuosi. Infatti tonnellate di riverberi, quintali di feedback e gain degli amplificatori a palla corredano ogni avventura musicale dei CW. Dickinson ha di suo una voce rauca e sognante; poi merito suo o posa non si sa, ma sembra sempre rapito quando canta dal clima descritto dai suoni. La voce non ritorna mai a terra ma rimane lì in aria, appesa al flusso dei suoni, in pezzi che di solito terminano in un mare di chitarre. Black Metallic è così: vive di un paio di versi ed una minima forma di chorus. Tutto il resto è una cascata di chitarre, trame su più livelli, e con diversi effetti (vado a memoria perché è notte e voglio fare presto) che trascina via la voce già persa di suo. Tutto ottimo (ok, innominabile, non sono i capostipiti, lo so). P.s. Ci sarebbe una cover di The Nude disponibile sul tubo: interpretazione autentica, giacché cover acustica del suo autore, ma senza quell’universo di chitarre viene a mancare quasi tutta la bellezza del pezzo, la sua drammaticità, la perfezione della sua rappresentazione. Insomma, sentitela lo stesso ed immaginatela con una sinfonia di plettrate, ed una voce lontana che racconta lo stato di ebbrezza che pervade un uomo davanti al nudo di una donna (“far, deep, phantom seekin’, I can’t see”. Dedicata ad una mjj user mi ha risposto” “tutto qui? Mi aspettavo qualcosa di più alternativo da te.” Ehmm ok, ma era il mio tentativo più pop possibile per una mezza dichiarazione).

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218. Orbital – “Planet Of The Shapes” [1993]
Techno-avantgarde. Quando la techno si occupa di disegnare astratte figure e si leva ogni preoccupazione trance diventa un fatto estetico assolutamente appetibile (e quindi pop). Gli Orbital campionano in maniera gelida, con l’ambizione di realizzare un linguaggio estetizzante, senza alcuna deriva hardcore (e quindi non lo fanno mai per scioccare), con il solo intento di realizzare una sinfonia compassata, algida e distaccata, un prodotto piacevole ma al tempo stesso intellettuale. Da un eccellente album (“2”, 1993) ho scelto il pezzo in questione per l’etereo bordone di sitar, ma mi dispiace lasciare “Remind” che sebbene sia un filo lounge è più morbido e coinvolgente. Comunque sia, il pezzo parte con un suono vintage a ricordare il vecchio vinile con relativi rumori in sotto fondo (davvero un’intuizione che rimane impressa; ok, l’hanno fatto anche altri, ma qui fa più senso in quanto ambiente techno); la voce poi è campionata in samples ripetuti che sarebbero pure normalizzanti se non fosse che di lì a presto l’elettronica prende il sopravvento ed inizia un tempo cupo. Ma anche questa è una falsa partenza e di lì in poi passa di tutto, dalla jungle music, ai droni orientali, dal drum’n’bass ad una morbida house.

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217. Dot Allison - “Colour Me” [1999]
Dot Allison ha grande tecnica ed ha la capacità di rappresentare senza sbavatura o forzatura generi diversi, mai eccedendo nell’interpretazione. A seconda che vogliate definire questo genere come trip-hop, oppure house (ma se ne va anche per territori ambient ,oltre che per un più che normale dream-pop), emerge sempre la capacità di Dot Allison di lasciare il pezzo scorrere, immegendosi totalmente nell’atmosfera onirica, senza creare un marchio di fabbrica che finirebbe per annoiare. “Colour Me” deve molto ai Portishead, è evidente, ma c’è anche il “neo dream-pop” dei Goldfrapp di cui Allison Dot è leader indiscusso: non mi pare mai monotona la sua musica, nemmeno quando fa del trip-hop (che è abbastanza monolitico come genere): “Colour Me” raggiunge pertanto i vertici di Dummy, ripercorrendone la medesima sensualità ed eleganza. Voglio sottolineare il chorus perché la voce dialoga con il sintetizzatore in una sorta di “call and response” futurista, creando una specie di di armonia robotica. Che Dot Allison ami le scelte sofisticate è evidente anche poi in quella sorta di bridge all’incirca a metà del pezzo dove la trama ritmica si fa da parte per lasciare spazio perfino un clavicembalo che accompagna i vocalizzi celestiali e decadenti. Non poco (ma nemmeno molto, e quindi se ne sta oltre il 200 posto anche lei)

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216. The NAtion Of Ulysses - "N-Sub Ulysses" [1992]
Considerati come una band di hardcore ovvero, e al limite, post punk, in realtà avevano assimilato gli stilemi della new-wave, finendo per fare un largo uso di fiati e ritmiche eterogenee nei loro pezzi; la tensione musicale complessivamente espressa dai N.of U. appare pertanto ingentilita (e al contempo più sofisticata) rispetto al genere di riferimento. Nel pezzo in questione ad esempio, opening track di “Plays Pretty For Baby” [1992], ci sono sincopi e contrattempi di un certo appeal anche per chi non ama la musica scomposta, anarchica e barabarica dell’hardcore. L’atmosfera rimane comunque tesa ed oscura; Ian Svenonius aggredisce i brani a squarciagola e perfino le trombe (!) appaiono trillare schizofreniche. Il clima complessivo galleggia tra un garage sound ed una new-wave con qualche velleità artistica. L’emotività del cantante, che pare imitare John Lydon per foga ed impeto, è per una volta tanto tenuta a freno dalla…stessa concitazione del pezzo, al quale probabilmente Svenonius affida la riuscita dell’effetto delirante complessivo (altrimenti avrebbe gridato fino a distruggere l’ugola).

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215. Grandaddy - “Summer here Kids” [1997]
Parlare dei Grandaddy è parlare della tradizione lo-fi e quindi di Tall Dwarfs e Pavement, in primis. I Grandaddy non hanno il tocco incantato di Malkmus ma sanno produrre motivi validi ed i pezzi risultano sempre strutturati…ancorché profondamente distorti. Si tratta di musica e personaggi esclusi a priori da ogni possibilità di buon esito commerciale. Ancora una volta però, è un problema di linguaggio che non paga, che non rende economicamente, ma non per questo meno valido. Come detto per i Pavement, il lo-fi si fa amare senza compromessi da tutti coloro che sentono quel suono armonicamente debole una delle grandi invenzioni di fine secolo. Così è per “Summer Here Kids”, un pop sostenuto ritmicamente ma suadente, talora quasi sussurrato. Folate di chitarre irrompono nel pezzo ma poi, altrettanto improvvisamente, lasciano la scena n favore di un suono acustico. Ma la quiete è solo apparente nei 90’s, dove in molti pezzi l’equilibrio fra forte e piano è instabile, psicotico, cosicché anche in questo pezzo le chitarre ritornano per riprendere nuovamente la corsa fino al termine.

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214. Eat Static – “Science Of The Gods” [1997]
La techno ed il post-rock sono forse i due momenti centrali degli anni ’90, diciamo il maggior contributo musicale del decennio. Gli Eat Static hanno prodotto alcune suite techno, ricche di tutti gli archetipi del genere: glitch, suoni sintetici in forte riverbero, drum-machine, basso a ridottissima frequenza, poliritmia con frequenti cambi di ritmo (anche se quasi mai sopra i 160-180 BPM) eccetera, ma il tutto sempre con un’attenzione particolare per la ricerca e l’effetto di sorpresa. In sintesi: erano espressamente dediti alla ricerca di nuovi orizzonti sonori in ambito techno, tout court. “Science of The Gods”, tratta dall’album omonimo, raccoglie decine di influenze diverse e si struttura per movimenti: si inizia con un drum&bass dall’effetto abbastanza acido avente regolari increspature di suoni sintetici e freddi; si prosegue al medesimo ritmo con un movimento maggiormente legato alla poliritmia ed ispirato ad un ambiente esotico, in ipotesi asiatico (così mi pare per lo stacchetto a 2:42); cresce quindi di intensità e ritmo e giunge al termine sostituito da un loop sintetico glitchato; infine il pezzo termina tra sonorità puramente elettroniche ed un beat congegnato per il dancefloor. Notevole commistione (ma non mi convince pienamente)

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213. Blonde Redhead – “Pier Paolo” [1995]
I Blonde redhead sono un trio: due italiani trapiantati in America (chitarra e batteria) ed una giapponese alla chitarra (e per lo più anche alla voce). Fanno usualmente del noise-rock venato da una certa malinconia, mai violento ed abbastanza introspettivo. “Pier Paolo” è dedicato a Pasolini ed è tratto dall’album “La Mia Vita Violenta” [1995], un tributo sulla vita dello scrittore italiano, che per una volta ha ottenuto il successo internazionale che si merita, almeno nel circuito delle indies.. “Pier Paolo” inizia su un arpeggio per poi partire con riff di power chords che contribuisce a dare solidità e spessore al brano. Il rimo sostenuto fa da contraltare alla voce suadente, esile, leggermente calante, conferendo al pezzo quella necessaria aura di drammaticità e tensione che il soggetto richiede. Di bellezza spettrale le piccole scale di voce e basso che terminano in battute e melodie incompiute, lasciate alla voce dal timbro triste, perfetto per questo paesaggio dalle tinte fosche. Il tutto termina con le chitarre che crescono di forza ed intensità e risolvono la circolarità del pezzo.

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212. Sugarsmack – “Pokey” [1993]
L’opera maggiore degli Sugarsmack è “Top Loader” del 1993. Si tratta di un lavoro di difficile collocazione di genere, per la presenza di un certo eclettismo orizzontale per cui ogni pezzo va alla ricerca di uno spunto diverso. Lo stile dei Sugarsmack appare mutuato da quello di certe riot girrrls ma si distingue per un suono meno lineare, disposto ad abbandonare il rigore (o la semplicità) del genere. Si intravedono tracce evidenti di new-wave, talora si rinviene la presenza di qualche elemento novelty e burlesque, oppure di arpeggi dissonanti (fatto infrequente in atmosfere votate all’hard rock). Il risultato è comunque spiazzante e gli Sugarsmack vanno sentiti. “Pokey” è tutto questo e di più in odore di new wave. A dire il vero, più che a Psycho Killer dei Talking Heads (indubbia citazione) assomiglia alla sua cover caricaturale, ovvero “Psycho Chicken” dei Fools, proprio per la presenza di una certa autoironia. E benchè la cantante Hope Nicholls sia una gran voce rock (stranamente non una mia ossessione erotica), il pezzo ricorre anche alle nursery rhimes ed alle cantilene infantili, proprio per non lasciare un genere inquadrabile Per un suono più duro ma non privo di originalità c’è da sentire Bring on The Ufo’s qui che parte con un bordone di sitar per finire seppellito da riff hard rock e dal rumore.

211. Eden – “Heads On Earth” [1991]
Gli Eden sono gli ennesimi epigoni di un genere che si riconduce ai Dead Can Dance (in questa lista c’è più avanti Brendan Perry, leader dei DCD), divulgatori di un genere di chambre-pop dalle decise sonorità cupe e lugubri, al limite del psichedelico. Col tempo hanno costruito una forma di balata più terrena, ma sul tubo sono rinvenibili solo pezzi da Gateway to Mysteries [1991], un concept-album a tema medievale, ricco di sonorità acustiche e tamburi dai suoni squillanti, evocativi (almeno in ipotesi) delle sonorità antiche. “Heads On Earth” è per l’appunto una danza medievale, con un ritmo allegro ed un chitarra acustica al suo seguito, ma con una melodia triste e ricca di riverbero, alla ricerca di armonie celestiali. Il fine ultimo è, credo, quello di cogliere la spiritualità della musica antica, tentativo in parte riuscito nonostante la necessaria artificiosità di un’operazione del genere. Nella produzione successiva gli Eden si sono dedicati, con successo, alla creazione di ambient di alta qualità.

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210. Death In June – “But, What Ends When The Symbols Shutter” [1992]
I Death In June hanno vissuto una vicenda complessa che si dipana lungo gli anni 80 e prosegue per tutti i 90’s per arrivare perfino ai nostri giorni. Nonostante la lunga carriera ed i cambi di genere e stile, vi sono buoni momenti in tutti i decenni: “But what Ends When The Symbols Shutter” [1992]ivè un album di neo folk-rock, lievemente decadente e con qualche influsso di dark-wave. Il pezzo che dà il titolo all’album è abbastanza esemplificativo del genere ed è una solenne ballata, ritmata da un incedere marziale, sottolineato da percussioni ed da un voce in odore di crooning, lievemente inespressiva. La melodia è limitata a semplici variazioni regolari di tono, ed il tutto conferisce un’aura di inevitabilità, di amarezza e di ineludibilità al pezzo, che sembra segnare un tempo drammatico, riesumando eventi passati a futura memoria (non a caso il video riporta fatti storici di epoca nazista). Si veda anche Little Black Angel” [1992] qui , dove la voce declama le strofe, scandendole ancora in modo più pronunciato (e perciò più lugubre) della title-track.

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209. Ash – “Kung fu” [1996]
Punk-pop, come solo i Ramones. Devo ammettere che per gli Ash ho un certo debole, non fosse che per Charlotte Hatherley, la mia vera ossessione erotica (ah, a parte Blondie-Debby Harry quando avevo 9 anni): Charlotte è stata –lo è tuttora ma nella sua carriera solista- un’incredibile chitarrista che girava su e giù per il palco, scalza e con una gonna dimessa, mentre bombardava a centinaia di watt il pubblico; pareva avesse un bazooka ed un metronomo nella mano destra. Mentre Tim Wheeler, il leader, alzava il flanger e giocava a fare il Jimmy Page prendendo invece lucciole, lei teneva in piedi il suono della band. Kung Fu è qui dal vivo a Tokyo, un posto incredibile per i live, visto che la gente è scatenata. Che dire? Si tratta di un pezzo a massima velocità, un classico giro punk, dotato di una melodia pop semplice, pura e incisiva. L’album 1977 [1996] è davvero brillante, ingiustamente bollato come pop di consumo, perché se è vero che si tratta di materiale di fruizione immediata, era un collage di pezzi tutti di livello che arrivavano diritti al loro obiettivo, ovviamente senza alcuna pretesa artistica, ma tutti perfettamente funzionanti e perfino memorabili nel loro genere. Credo tutti infatti ricordino “The Girls from Mars” che girava su MTV, altro pezzo di power-pop con qualche stop&go brillante, da vedere dal vivo qui quantomeno per la presenza di Charlotte (aargh che eros, non devo guardare quello che metto in link. Tim, Flying V a tracolla produce l’ennesimo solo…non proprio a piombo, ma guardate Charlotte al min 0:56 e poi al min 1:46; si intravede sempre seria, forse fatta ok -punto in più- lavoro sporco ok, ma sempre robotica tra levare e battere).

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208. Rage Against The Machine - “Killing In The Name Of” [1991]
Un gruppo sulla sponda seria del crossover funk e nu-metal, impegnati politicamente o quantomeno dotati di una certa coscienza sociale, finiti perfino al n. 1 delle classifiche (e forse da questa lista andrebbero eliminati per ragioni aprioristiche di scelta di campo). Della cosa ne hanno fatto una bandiera che spesso è utilizzata a fini scenografici. Nel video che ho scelto, Zack De Rocha prima di dare lo start carica il pubblico urlando che sono tutti vittima delle decisioni di altri, che si finisce per fare quello che altri decidono, eccetera, eccetera. Posa o reale denuncia sociale, fatto sta che dal vivo i RatM sapevano come caricare l’audience risultando travolgenti come pochi altri (benché limitrofi ai RHCP si trattava di due pubblici diversi). “Killing In The Name of” ha, oltre il classico suono metal-funk, deliziose varizioni di ritmo, una rappata in coro col pubblico, alternanza di momennti esplosivi con altri mood più introspettivi, che funzionavano bene anche live, costituendo episodi di decompressione prima della ripresa di scariche adrenaliniche. Interessantissima la ripresa che fa il video dell’uso degli effetti alle chitarre.

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credits:
www.scaruffi.com
Archivio di O.R.
Baldini-Castoldi: Enciclopedia del ROck
Punkedelica
www.pitchfork.com
G. Sibilia I linguaggi della musica pop
[Modificato da °Mark Lanegan° 11/02/2012 04:51]
10/02/2012 07:18
 
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OMG!!!!...ma quando avrò il tempo di leggere tutta sta roba? [SM=g27825]

Intanto ti ringrazio
10/02/2012 10:47
 
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Post: 2.743
Registrato il: 12/04/2007
Sesso: Maschile
Dangerous Fan
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Dunque di volo che vado di frettissima.....che mi aspetta un 648 I comma..da appellare con dovizia di particolari... [SM=g27820]

parlo sono di quello che capisco meglio [SM=g27830] :

la Duby non è il mio tipo di donna...occhi troppo azzurri per i miei gusti, ha, invero, la giusta malinconia ed è senza ombra di dubbio bella...
ha le mani brutte, cosa davvero squalificante per una donna...
ha una cosa meravigliosa però, quella cosa con la quale normalmente si mangia....e questo le fa guadagnare molti punti...ma l'inespressività dello sguardo è decisamente troppo accentuata per me....

dunque cosa gli farei?

un buon bicchiere di Teroldego Rotaliano davanti ad un sugo di cinghiale, parlando di musica sarebbe l'ideale...ammesso che beva e mangi...ma ne dubito [SM=g27828]

a tempi migliori per le cose serie... [SM=g27811]
[Modificato da Keep the faith 10/02/2012 10:48]

Ah Avvocà io un termine per note ve lo concedo...però non scrivete troppo perchè io non ce la faccio a leggere
10/02/2012 11:36
 
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Caspiterina, ci sono 6 o 7 artisti che conosco pure io....e 2 o 3 pezzi li ho pure inseriti in the best songs....pazzesco...ahahah.....

Un po’ alla volta mi leggo e mi ascolto tutto [SM=g27823]

p.s. le altre quattro parti mi auguro arrivino presto, dipende dalla mia indolenza.

we...we...fai con calma che ho già l'ansia...ahaha
10/02/2012 13:22
 
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Mah, guarda, son stupita anche io dal numero di artisti che, per lo meno, ho sentito nominare. Credevo peggio, viste le premesse e prima o poi ascolterò qualcosa.
Che razza di lavorone però oh!!
10/02/2012 15:18
 
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Sìsì...super lavorone..

Lo so che vorresti ben altro eh....ma ti devi accontentà...ahahaha

250. Pavement - Gold Soundz, di questo gruppo ho già ascoltato qualcosa (non ricordo cosa), la song in questione non mi ha trasmesso nulla....non posso definirla brutta perché non è fastidiosa....l’ho ascoltata e se ne è andata

249. Quasi - Our Happiness Is Guaranteed, era iniziata bene ma si è persa subito...sigh...a parte i pezzi non cantati che non sono male

248. Heather Duby - Judith, è stato rimosso il video (ne ho cercato un altro) c’è qualcosa di interessante a tratti, ma non mi ha convinta del tutto...è troppo debole per me...ma suppongo che nelle sue intenzioni è proprio quello che vuole

247. Mansun - The Chad Who Loved Me, oddio....all’inizio mi ha ricordato una canzone di Robbie Williams...(possibile? [SM=g27825]) poi prende tutt’altra strada e mi piace assai....bellissima atmosfera, sono d’accordo con la descrizione che hai fatto “una cantilena tra suoni dilatati alla ricerca dell’estasi sonora”

246. Stone Temple Pilots - Vasoline, “un riff accattivante tra Pearl Jam e Soundgarden”, a me veramente sembrano molto più tranquilli...un po’ sottotono, la parte cantata (e anche la musica) a tratti mi ha ricordato i QOTSA, però, appunto, molto più pacati

245. The Pogues - The Sunny Side Of The Street, ecco di questi avevo già ascoltato roba e l’avevo trovata divertente e orecchiabile...null’altro però

244. Juliana Hatfield - I See You, ininfluente...sempre nel senso che non mi ha trasmesso nulla, non che l’abbia trovata brutta

243. Jeff Buckley – Eternal Life, questa l’ho postata in the best songs...mi piace parecchio..per il resto hai già detto tutto tu

242. Aimee Mann – Save Me, no, non lo ricordo..... il pezzo è troppo trascinato e senza scopo (secondo me)... in alcuni punti mi ricorda qualcosa di già sentito....

241. The Faint - Worked Up So Sexual, a me sembra più vecchio di quello che in realtà è....insomma parecchio datato sto pezzo....

240. Jane’s Addiction – Stop!, ecco di questi ho postato varie cose, non ricordo esattamente se anche questa song...trovo azzeccata questa tua definizione “irruenti, concitati, forse dispersivi, ma sempre solari e divertenti”

al momento mi fermo qui

cià
[Modificato da badgirl. 10/02/2012 15:23]
10/02/2012 16:10
 
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- parte II - (207-170)

207 Unwound – “Dragnalus” [1992]

Un noise-garage, dotato di atmosfere cupe, ossessive ma mai raggelanti. Il leader Just Trosper conduce il gruppo -qui come altrove- attraverso sonorità spigolose e spesso dissonanti, al fine di dare sfogo alla propria ansia. “Fake Train” [1993] è un mezzo capolavoro per gli amanti del noise senza compromessi. Il pezzo scelto da quest’album è stato quello “più pop” possibile per essere subito appetibile. Si tratta di un blues malato, cantato (e talora urlato) in stato di eccitazione febbrile, che risente della lezione grunge ed in genrale dell’hard rock dell’epoca. Se la forma canzone è quella tipica, gli elementi di disturbo citati sopra ed in generale la rabbia declamativa della voce porta la melodia verso anfratti sonori di dubbio piacere immediato, come un Kurt Kobain che rinunciasse del tutto al catchy jingle per piacere un po’ a tutti. La ripetitività del brano aumenta la carica ossessiva e nevrotica; la cosa più interessante è che non di rado il leader inserisce dissonanze vocali, vere e proprie stecche, al fine di disturbare e catturare l’attenzione dell’ascolto. Fatto non proprio comune al di fuori di questo genere. Nel corso del decennio in esame gli Unwound sono giunti a soluzioni più pacifiche e perfino pop. “Dragnalus” è un jumpy blues, di sicuro impatto, addirittura piacevole.

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206. Unsane – “Body Bomb” [1993]
I newyorkesi Unsane non dovrebbero piacere ad un grande pubblico di primo acchito, me ne rendo conto: si tratta di noise- hard rock martellante, dove la voce è trattata a tal punto che le esplosioni di urla di Chris Spencer risultano incomprensibili, esse stesse rumore o quanto meno assimilabili ad un suono metallico, frastornante, insalubre appunto. Eppure, benché li avessi stralciati da questa classifica in un primo momento, ritengo di poterli inserire con un colpo di coda, al posto di qualche gruppo più ordinario. Innanzitutto perché il noise rock merita rilievo, costituendo un necessario punto di passaggio della lunga tradizione popolare americana di rock (e di cui questa “Body Bomb” è uno dei suoi pezzi più rappresentativi); poi perché credo che oramai questo linguaggio musicale non provochi più alcun effetto irritante. Ed anche perché al suono di “Are you ready??Are you ready??” gli Unsane non trasgredivano una cippa: al limite rappresentavano la propria angoscia, la mettevano in scena, ottenendo una sorta di effetto catartico (e quindi realmente di arte nel senso più classico aristotelico), ben diversamente da altri generi quali ad es. l’heavy-metal, dove l’ostentazione di potenza e frenesia finisce per avere effetti involontariamente comici o quantomeno parodistici. Il pubblico degli Unsane assisteva agli show inerme, non si muoveva né si agitava, in vero stato di trance, a dimostrazione che il trip era di tipo mentale e, per quanta potenza sonora immettessero nei pezzi, la soddisfazione del pubblico era del tutto mentale. Privi di grazia e per questo destinati a non piacere a chi ricerca la perfezione estetica, gli Unsane sono un punto di transizione utile e necessario per comprendere fenomeni come il digital-hardcore, che ha raggiunto il successo nei rave di massa, ovvero in ambienti inaspettatamente distanti, per tipo di socializzazione, dal genere di club dove suonava questo leggendario gruppo di NY.

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205. In The Nursery – Les Jumeaux – “Strange” [1997]
Il progetto “In The Nursery” dedito alle sinfonie gotiche ed al dark-ambient (così come alle nenie infantili e di qui il nome), aveva una sua derivazione in ambiti musicali diversi e forse meno tenebrosi ed oscuri, sotto l’etichetta di “Les Jemeaux”. Responsabili dei due distinti lavori erano sempre e comunque i due ambigui gemelli Humberstone (davvero mi ricordano le visioni angoscianti dei Twins di Cronemberg). La musica: si tratta di un crossover fra new-age, suoni cosmici e trip- hop che si differenza leggermente dal progetto principale “In The nursery” per una minore attenzione al sinfonismo. Ero tentato di mettere Constance Demby, la perfezionista assoluta del genere, ma poi mi pare davvero estremo in una lista sì “alternativa” ma generalista come questa, per cui new-age o hardcore sono comunque tutti oggetti estranei. Il pezzo: “Strange” (da “Cobalt” [1997]) inizia con il solito inquietante suono di carillon ma di qui presto parte una breve mini-suite di campionamenti trip-hop e drum-machine; quando poi è la volta della voce, questa è un elemento sonoro del paesaggio dark, né più né meno degli altri suoni, e si esprime solo per brevi frasi; ciò mi pare più per conferire il mood funebre all’intero pezzo che per esprimere qualcosa a mezzo delle liriche. Anche qui vi sono gli archi che riempiono lo spettro, dipingendo a tinte fosche quanto sia “strano” (vedi il titolo) l’ambiente sonoro descritto. Per nulla ossessivo, bensì lievemente morboso, è questo mondo in penombra.

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204. Billy Bragg “My Youngest Son Came Here Today” [1996]
Per parlare di Billy Bragg ci vorrebbe lo spazio di un mini-saggio. Probabilmente la sua fama crescerà post-motem perché da vivo è un personaggio difficilissimo ed ingestibile. Ma si tratta del più grande folk-singer inglese vivente, già leggendario, e probabilmente, uno dei più grandi della storia del genere universale. Immenso perché a differenza del mito dei miti, Dylan, Billy Bragg è davvero un cantautore precisamente collocato politicamente, anzi, letteralmente schierato, e qui lo vedete mentre intona (stona, a dire il vero) l’internazionale in strada, durante (!) gli scontri e il pestaggio londinese della folla al G20 di Londra, con tanto di morto a pochi passi. Ha fatto album eccezionali negli anni ’80 (talking with taxman about poetry non ha un pezzo fuori posto), è un po’ calato nei 90’s ma si è ripreso suonando con i Wilco. Avrà fatto centinaia di incredibili melodie in un folk-rock talmente appassionato che qualunque suo collega-artista folk-rock ne parla con un’aura di rispetto che rasenta la devozione. Questo che ho scelto (un po’ a caso fra le centinaia) è l’ennesimo bozzetto autentico che nella fattispecie dà luce su una melodia tradizionale irlandese. My youngest came home today narra gelidamente del ritorno del figlio, trasportato nella bara, visto ovviamente con gli occhi del padre che non capisce più il massacro irlandese in corso, l’odio e la divisione fra fazioni, ma vede solo il figlio morto.

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203. Wilco - ”Via Chicago” [1999]
E’ davvero un caso che in questa lista siano vicini a Billy Bragg, cosa che ricorda le frequenti collaborazioni fra questi artisti. I Wilco hanno fatto ottimi numeri di folk-rock dalla sponda americana, in modo non molto lontano da molti cugini britannici. Sono sempre abbastanza malinconici, con frequenti derive pop che ne stralciano le tinte fosche per approdare a bozzetti potenzialmente di consumo. “Via Chicago” è da Summerteeth [1999] che risente da vicino delle influenze del pop inglese classico, con i soliti nomi dei 60’s. Si tratta di una ballata elettro-acustica al rallentatore, dove la voce sembra percorrere indolente il pezzo mentre si accompagna stancamente alla batteria trascinata. Un accenno minimale di tastiere che ripetono la melodia azzeccata; ma la cosa davvero originale è che l’inserto delle chitarre elettriche pare talmente pigro che spesso i suoni arrivano distorti, appena abbozzati. Anche le dissonanze si ripercuotono sul campionamento di archi, anch’esso fuori posto, mentre un organo salta qua e là sullo sfondo. Davvero d’atmosfera, il pezzo si chiude rasentando il rumore ed il caos, e vabbe’, alla fine uno si immagina che se passi da chicago t’arrivi tutta ‘sta malinconia.

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202. Bad Religion “God Song” [1990]
I Bad Religion sono un gruppo di riferimento dell’’hardcore Americano degli ’80, con il solo difetto di avere proseguito l’attività lungo gli anni ’90, quando non avevano più necessità di aggiungere altro. Ovviamente, è nei 90’s che hanno raggiunto la perfezione formale e un posto, magari fuori dai primi 200, se lo meritano su una lista come questa (quindi doppiamente mazziati, se questa lista vi fa schifo). “God Song” è del ’90 (dall’album “Against The Grain”) ed è un ottimo esempio del loro suono, non troppo esagitato; un hardcore controllato e melodico, venato di malinconia (forse per questo mi piace sempre), magari leggermente banale ma di facile acchito ed altrettanto “easy to forget”. La voce di Griffin, docente universitario in biologia nella vita pubblica, aggiunge profondità ai pezzi come questo, dove le liriche non sono mai causali. E’ un breve bozzetto hardcore, lanciato in velocità alla sua conclusione, con una delicata armonia di tipo verticale, ed un assolo di chitarra breve e pageiano, in corretta simbiosi formale con il pezzo.

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201. Sad Lovers And Giants - “One’s Man Hell” [1991]
Il suono del dark folk-rock dei SLaG ricorda immediatamente certi Smiths degli anni ’80 o certa new-wave maggiormente propensa ad atmosphere malinconiche. In ogni caso, si tratta di suono che pare uscito nolente e nostalgico dagli anni ’80 per entrare giocoforza nei 90’s; in realtà hanno posto in essere numeri di valore anche nel decennio pre-millenario (come mi piace ‘sta parola) ed in ogni caso, se di suono leggermente vintage si tratta, è di ottima fattezza, forse superiore agli archetipi di riferimento. In “One Man’s Hell” (da Threehouse Poetry, 1991) sembra davvero di sentire Morissey con quel timbro leggermente nasale della voce, in un clima di delicata dark-wave. Francamente si tratta di un pop brillante, dove nulla è fuori posto, come tutto l’album da cui è tratto. Il riverbero delle chitarre dell’intro annuncia un pezzo vivace ma composto, trascinato da una allegra batteria e dove voce e strumenti squillano le loro linee, lasciando sullo sfondo le armonie anni 80. Un’ottima eco delle chitarre consente il buon contrappunto con la voce; l’unica cosa debole forse è l’estrema semplicità ed immediatezza della linea melodica, ma si tratta di trovare il pelo nell’uovo (ma va detto, perché ne risente drasticamente la longevità del pezzo).

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200. Primal Scream - “Moving On Up” [1991]
Per I Primal Scream c’è talmente tanto da dire che risulta davvero impossibile parlarne in 10 righe (e mi costa sangue perfino sprecare queste parole per dire ciò). Hanno fatto praticamente di tutto e bene, per cui ogni singola prova è un discorso a sé. Dovendo scegliere qualcosa ho preso la title-track di una pietra miliare del rock, Screamdelica [1991], dove c’è tutto, una sorta di Beatles tra psichedelica ed elettronica (di qui il nome), ma in realtà fanno fatica a stare in un genere e c’è tutta la musica del pianeta qua dentro, ed ecco perché i veri top 200 partono con loro. Album imperdibile. Qui, tanto per dire, il pezzo che ho scelto non c’entra nulla con quanto ho detto fino ad ora. Si tratta di un…mah, pop con venature blues, soul e gospel (e mi fermo per non essere vogeliano), che se l’avesse fatto George Micheal tutti giù a dire quanto è bravo e sarebbe diventata una delle sue hit migliori, universali, invece qui nisba, difficile perfino conoscerli. Voglio ricordare a me stesso che oltre ad avere più di vent’anni, pezzi del genere sono stati prodotti con quattro euro, se non lire, e se il suono convince, con ingegneri del suono di primo piano come qualcuno ha nel mainstream, si sarebbe potuto fare molto di più. Ma già così è un capolavoro… Tra poppettari call and response (ma comunque travolgenti, perché il ritmo viaggia davvero veloce…), il pezzo diffonde entusiasmo ed il piano trascina una melodia maiuscola; addirittura, tanto per esemplificare la forza compositiva e la foga espressiva, in definitiva geniale, al min. 2:03 Gillespie fa “ssshhh” per chiudere l’assolo e lanciare la coda gospel che travolge tutto.

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199. Kenneth Newby (Trance Mission) – Head Light [1997]
Elettronica ambientale, trance music, dove la musica descrive paesaggi per lo più esotici, e sovente gli inserti meta-musicali, diretti a ricreare uno spazio fisico immaginario, hanno il sopravvento sulla musica. Il fascino di queste mini-suite è evidente e non vi è alcun bisogno di sentire la voce per sospendere la nostra incredulità ed essere trasportati in un territorio rappresentato dalla nostra mente con il solo ausilio dell’elettronica. La quale ovviamente, a seconda dei BPM e dell’utilizzo degli effetti prescelti, induce direttamente anche l’umore dell’ascolto. I Trance Mission (rectius Kenneth Newbie) rappresentano forse il vertice della categoria e gli spazi sonori, sono efficaci, vorrei dire perfino reali. L’album Trance Mission [1993] è imperdibile a chi ama il genere. Qui nel pezzo prescelto, Head Light, accanto ad una poliritmia indefinibile per sovrapposizione di percussioni, vi sono inserti jazz, fiati esotici, campionamenti etnici di ogni genere, una ballata tropicale con una amalgama unica di strumenti diversi; ritengo che la suggestività dei pezzi sia tale che alla mente dell’ascoltatore possa venire suggerita perfino la rappresentazione di una temperatura del paesaggio evocato. L’album è una sorta di carovana sonora attraverso atmosfere rarefatte ma di forte impatto evocativo. Difficile scegliere tra pezzi diversi solo per scelta di sottogenere.

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198. Lou Reed - John Cale - Images” [1990]
Non è il decennio di Reed e Cale, mi pare evidente. Ma “Songs Of Drella” [1990] è uno dei gioielli più preziosi della loro collaborazioni. C’è dentro tutta la nevrosi di Reed e la visione allucinata di Cale in tema di musica dissonante che francamente con la viola fa quello che 20 anni dopo avrebbero cercato di fare i Metallica con Reed (è da poco uscito un album sperimentale collaborazione fra questi ultimi due, ma non arriva a questo vertice). Alcuni commenti possibili tra le decine in astratto possibili: con due strumenti “ordinari” quale chitarra e viola, questi due signori, dal vivo (!) sanno trasportare gli ascoltatori in un terriotorio neutrale, che non è né quello della musica contemporanea seria, né quello rock tout court. Questo ibrido è tanto appetibile (perfino commerciale) quanto di valore artistico, riprendendo le lezioni della musica “classica” contemporanea e riportandola a terra ad un pubblico diverso da quello dei due distinti generi. Basterebbe il bordone di Cale per dare fascino al pezzo, ma Reed dà la sua facendo un blues che è quanto di più nevrotico vi sia, senza mai scomporsi, conferendo con la propria interpretazione algida e distaccata la profondità necessaria per spedirlo direttamente nell’empireo della storia della musica rock.

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197. Motherhead Bug – My Sweet Millstar [1993]
“Alt world-music”. L’album di riferimento è “Zambodia” [1993]. Si tratta di materiale estremamente eclettico, appagante ma di non immediata fruizione, forse leggermente nevrotico. L’idea di fondo del progetto M.B è quella di mettere insieme un collettivo di musicisti di diversa estrazione per produrre, assemblare musica per fanfare, bande di paese, folk in senso lato, utilizzando strumentazione insolita dando origini a particolari commistioni, per cui trombe e tromboni possono sovrapporsi a percussioni sudamericane. Ricorrendo a linguaggi musicali di paesi diversi ma con esiti del tutto nuovi e perfino improbabili, Zambodia va ad innovare in un panorama solitamente votato a mielose soluzioni melodiche new age. Impossibile enumerare le infinite influenze musicali di quest’opera, cupa e nevrotica, ma sempre ancorata alla melodia; si parte dalla musica balcana e si arriva alla poliritmia caraibica, passando attraverso salmi mediorientali e trombe messicane; il tutto mentre il cantante sembra incedere come avesse a che un lugubre folk rock degli irlandesissimi Pogues. Se volete convertirvi alla world music questo è un ottimo esempio di dove iniziare (e possibilmente rimanere).

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196. Gutevolk - “Pic-nic” [1999]
volevo una prova solista dell’autrice del pezzo ma non c’è sul tubo, pazienza-. Qui c’è “picnic” Per me questa musica si può definire “carillon hardcore”, per non venire meno all’originalità della composizione. Si tratta di dream pop nella più sua alta accezione e non è un caso che questa produzione sia giapponese, cultura ideale per qualunque estremizzazione occidentale, completamente priva di logica formale. Come riesca Nishiyama-san a creare un pezzo del genere partendo da vibrazioni di un carillon difficilmente accostabili è pura magia o, meglio, puro genio. Pic nic è davvero un’opera di altissima classe autorale, sfortunatamente svilito dall’apparente semplicità del risultato. L’intro è realizzata con il suono di un carillon appunto e di un organetto da fiera; a questi si aggiunge l’organo passato al leslie che pare uguale uguale a quello utilizzato in Strawberry fields forever. Se già fin qui, Gutevolk sarebbe da applausi, quando parte la voce e si declina la melodia accompagnata da carillon, armonie in contrappunto, xilofoni, battiti minimali, tastiere dai suoni teneri ed incantati, originando una melodia difficilmente rinchiudibile in un genere commerciale, ebbene il tutto mi fa pensare che la ragazza sia un piccolo genietto, il cui unico demerito è dato dal fatto che la gente per lo più consuma musichetta per canticchiare e questo pezzo non va bene per tanta attività intellettuale. Da ascoltare e basta.

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195. Swell – At Long Last [1993]
Gli Swell sono una delle band più underrated dei 90’s, ma più che altro credo siano sconosciuti da quasi tutti, molti critici compresi. Hanno invece fatto una serie di pezzi incredibili, e la definizione che mi è più piaciuta della loro musica è che “ ci si sente come se si volesse ballare al funerale di qualcuno”. Fanno ballate elettro acustiche, in territori Eelsiani, ma a differenza di questi non indicano la catarsi dalle tenebre e descrivono sempre paesaggi cupi dai quali non c’è salvezza. Sempre comunque gradevoli e abbastanza melodici nella lora cupa aura, qui ho indicato un pezzo che inizia a là Elliott Smith ma poi si apre a distorsioni elettriche che non resistono comunque al ritorno del pulsare acustico. Su tutto un ostinato incessante lugubre ed una voce algida che danno spessore al pezzo. Da sentire “Kinda Stoned”, quiforse meno rappresentativa degli Swell, ma di facile consumo quale best hit.

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194. Kitchens Of Distinction – "Gone World Gone" [1992]
I K.o.D fanno un elegante pop psichedelico, rappresentando atmosfere suggestive con esplosioni di chitarre tremolanti, voci vibranti, arpeggi squillanti, il tutto filtrato da una profonda eco che accentua il carattere etereo, quasi onirico, del loro suono. Ad un’ideale mezza via tra Church, Sigur Ros e gli U2 di Unforgettable Fire (quando gli U2 erano ancora concentrati sulla musica), i K.o.D hanno fatto diversi bozzetti musicali degni di nota, perfino eccellenti e Gone World Gone rappresenta un tentativo riuscito di pop atmosferico, con un buon timbro di voce che conferisce leggerezza al pezzo, insinuandosi suadente attraverso gli infiniti strati di chitarre che fluttuano sospesi nello spettro sonoro. Gone World Gone nei suoi 8 minuti di durata non obbedisce ai canoni più classici della strategia comunicativa del pop, ma anzi se ne libera subito mettendo in risalto tutte le potenzialità espressive, evidenziando una infinita galleria di suoni ed effetti di chitarre, ed il fatto che vi siano anche suoni acustici mi fa pensare che abbiano utilizzato tutto quello che si poteva o c’era disponibile in studio. Il risultato è una piccola suite romantica per chitarre a vocazione ambientale.

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193. Jarboe – “Listen” [1991]
Credo che la Jarboe abbia provato e testato ogni genere musicale. Evidenzio "Listen", una sorta di pyschedelic-folk da "Thirteen Masks" [1992] che è una assoluta pietra miliare sonora per chi ama la sperimentazione musicale (ma registrato in maniera realmente miserrima). Le tredici tracce dell'album infatti alternano stili, ma credo anche fasi di aberrazione mentale, radicalmente diversi: un aggressivo funk in odore di nu metal e rap in stati di crescente alterazione "Red"); un'incredibile elegia pianistica ricca di vibrazioni e riverbero, appena sussurrata dalla Jarboe sull'orlo di una crisi di nervi ("Shotgun Road" Redemption); un jazz number caricaturale ed appassionato, dove lo swing lunare è un esercizio di parodia del genere ("Wooden Idols"; una ballata di acoustic folk che costituisce quanto di più pop abbia fatto la Jarboe, addirittura munita di un ritornello canticchiabile con armonie verticali ed orizzontali, tra rintocchi metallici ed un'atmosfera evocata di paesaggi esotici con un esito talmente ipnotico che la consiglierei come anestetico ospedaliero("The Never Deserting Shadow"; un folk-act ad alta intesità con brividi mediorientali dove le chitarre acustiche seguono la Jarboe in vibranti loop ("Man Of Hate". Ma questi sono solo alcuni dei pezzi di un album di impatto, al limite della perfezione. La Jarboe ha un canto ipnotico, un approccio espressionista, devo giustificarmi addirittura per avere scelto "Listen" tutto sommato la più tranquilla del lotto per ragioni di immediato appeal. MA credo che chi ha un po' di appetito per questo genere troverà gli altri pezzi più stimolanti. La Jarboe, come sopra accennato, su un disco ci mette di tutto e mi pare che non abbia remore nell’azzardo; non è beninteso un crossover, parola che in critica è anche un dispregiativo perché indica semplice contaminazione superficiale di generi diversi. La Jarboe viceversa entra a mitra spianato in ogni territorio musicale che diviene spazio di conquista: adotta e trasforma linguaggi, non fa crossover in senso stretto del termine.

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192. Honeymoon Killers – “Vanna White” [1991]
Gli Honeymoon Killers hanno fatto un sofisticato garage rock, a differenti stati di allucinazione progressiva, per cui ogni loro produzione ha una certa complessità esecutiva, se non anche una discreta concettualità. I loro pezzi prendono forma cambiando stato, talora partendo da territori di vodoobilly, oppure boogies in stato di alterazione mentale, per terminare immersi in derive sonore, per lo più tendenti al rumore. Così è per il pezzo in questione, preso da “Hung Far Low” [1997] che è un album decisamente insano, dove un rocker trova ogni tipo di gratificazione per la cura artigianale e la varietà di declinazioni, ma vorrei dire per le infinite sevizie stilistiche che deformano le convenzioni sonore di ogni genere che vede protagonista una chitarra. “ Vanna White” mi pare abbastanza sintomatico del loro stile. Una mini suite rock (7:30 min), che inizia come un pezzo di tante garage band in cerca di disarmonicità e dissonanze. Poi il pezzo cresce e si (de)forma e (de)struttura; a far data dal secondo minuto succede tanto se non di tutto: gli HK appaiono posseduti dall’ectoplasma di Jimi Hendrix, il quale deve però essere tornato completamente fatto sulla terra perché a quel punto, quando ti aspetti il consolidarsi del potente suono r&b, le chitarre magicamente si sfaldano ed arriva un inatteso break. Questo a sua volta non alleggerisce la tensione, tra stridii e rumori ma serve solo a modificare il tempo. Ancora una volta il pezzo riparte ed ancora una volta ricomincia di tutto (solo che a quel punto ci si aspetta proprio che accada di tutto e non c’è sorpresa): ah, va detto, nel break pare perfino riaccordino le chitarre mentre suonano (!), in un movimento dove il tempo è scandito da una pulsazione distorta. Infine, la batteria riprende a battere ed il gruppo riparte verso la cavalcata finale, coda di infinite suggestioni rock e ondate di progressiva brutalità. Il brano tende a disunirsi intenzionalmente nel finale dove appare perfino una litania gridata a là Beastie Boys, ma francamente succede di tutto per cui appare superfluo preoccuparsi di isolare qualche episodio specifico.

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191. Jezus Lizard – “There Comes Dudley” [1991]
Mi fa morire ‘sto video (girato di recente): sono passati vent’anni dagli anni 90…ma i JL sono incredibili, questo è contatto con il pubblico, strumentalmente perfetti, un rock di quelli da mettere al louvre e loro così…alla mano? ‘Sto pezzo travolge quasi l’opera omnia di tante band iper-famose degli anni 90 benché i JL mantengano una dimensione da retrobottega. Tra post-rock e noise, i JL meritavano una posizione superiore in questa lista ma solo per mia fretta dell’ultimo momento se ne stanno bassi, qui dove leggo ora i nomi degli artisti sono ancora abbastanza noti ai più. “There Comes Dudley” è tratto da un Lp fondamentale per gli amanti del genere (ma oserei dire dell’intero rock) : Goat. Qui il giro di basso è lievemente suadente, fa molto easy, e trascina una chitarra acida che si preoccupa di non rovinare l’atmosfera blues. Dal vivo i JL suonano divinamente, va detto, e perfino un pezzo un po’ jumpy come questo, senza mai uscire di tempo così come sarebbe abbastanza facile presi dal clima del locale (un commento di YT dice: "la donna più vicina sarà stata a 500 metri…":) ). Il boogie distorto dei JL reca un clima di trance ed il pubblico partecipa con tiepido calore, in quello che è di fatto il cameratismo underground.

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190. Guided By Voices – “Portable Men’s Society” [1990]
Si veda la più popolare, forse l'unica possibile hit dei GbV "I Am A Tree" [1997]
I Guided By Voices sono uno dei miei gruppi preferiti del decennio ed è solo per una sorta di estrema autocritica che li metto in coda, valutando le solite componenti di innovazione, seminalità, originalità espressiva più importanti del mio gusto personale. I GbV sono come i Rolling Stones o i Kinks dell’underground: centinaia di melodie imperdibili, da potenziali n. 1 in classifiche, debordanti perfino, tanto sono belle, ma prodotte in casa, deludenti perfino per l’architettura complessiva, quasi amatoriale. Ma sinceramente si può lasciare nella miseria gente che ha fatto gemme di semplice pop come questa qui che segue? "I Am A Scientist" [1994] ok, è sottoprodotta con un video fatto in casa eccetera ma…è medicina per il cuore. In brevissimo o perdo l’equilibrio di righe per i commenti: si tratta di un lo-fi psichedelico e minimale, derivativo, con sonorità garage: o lo odi o lo ami. Talora suonano come i Pixies e fin qui applausi, molte altre volte invece anche a me viene voglia di ucciderli per l’approssimazione imperante. Qui, in questo pezzo, c’è un’atmosfera un po’ più tesa del solito e la voce, sospesa con una discreta eco, danza tra fraseggi staccati di chitarre; il chorus è malinconico e il bridge non abbassa il pathos. Il tutto per fare sentire che sono anche introspettivi; ritengo co munque che sia nell’easy-listening (di cui I am a scientist, v. sopra) diano il meglio di sé (sì, ma che incredibile lo-fi pecoreccio…).

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189. Sulfur – “Ballad Of Azalea” [1998]
Il suono dei Sulfur è stravagante ed espressivo quanto l’animo della loro leader, Michele Amar, un’interprete a tinte fosche, una versione leggermente poco più controllata della Galas dei versetti satanici. Nella musica dei Sulfur, ancorché loro si siano formati a NYC, si ritrovano le influenze musicali della mitteleuropa del ‘900, passando dal cabaret berlinese al folk balcanico, e finendo nell’avanspettacolo parigino (o come si chiama il genere). In “Ballad of Azalea”, tra bordoni inquietanti di violino, cambi di ritmo sospesi tra operetta e rock, in un clima generale da Kurt Weill, decadente e al limite della fanfara, la Amar danza come poche altre incredibili interpreti (forse solo la Husik), aggredendo il microfono con una carica dadaista di volontà di disgregare del pezzo. Talvolta canta rimanendo apparentemente su un'unica nota; altre volte letteralmente recita. Il ritmo è talora marziale, lanciando organetti in controtempo ed in levare ed allora la voce passa tra l’ossessivo e l’istrionico; altre volte il ritmo si spezza e segue il narrato della Amar. Vi è perfino un’ombra di boogie in una sorta di progressive comedy. Se non si ha paura di sentire qualcosa di originale per una mezz’oretta, allora “Delirium Tremens” [1997] (nomen omen) è il disco perfetto da portare su un’isola deserta (ideale bgm per il golpe delle malidve, comunque).

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188. Pj Harvey - “The Garden” [1999]
Vabbe’, Pj Harvey è brava ma oramai, come dire, troppo di nome per poter validamente finire su una lista alternativa. Eppure, credo che un paio di dischi (come sorprendentemente è stata la sua ultima prova del 2011) realizzati in stato di grazia non dovrebbero fare dimenticare che c’è stato un tempo in cui PJ Harvey era alt- folk di un certo livello. Sempre tra generi diversi e sempre con un pericoloso appeal per la melodia orecchiabile che fa subito catchy ma che fa altresì dimenticare il pezzo dopo poco, PJ è passata attraverso le mode: tra hard-pop, folk-blues, trip-hop, elettronica e funk, soul oh tutto, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Se "Rid Of Me" [1993] è un eccellente Pitchfork 200 (da sentire la titetrack), leggermente magnetico e sufficientemente ossessivo, a mio parere è Is This Desire [1998] l’album della raggiunta maturità. Di lì ho scelto “Garden”, ma tanto poteva andare bene un po' tutto, perché l’opera complessiva non ha pieghe. Questa è una ballata in territori blues, con un ritmo saltellante ed un organo solenne, ma il chorus libera la cosa migliore del tutto che è un ostinato al piano, abbastanza inquietante, cosicché la classica attitudine poshy e un’snob di PjH, diventa per una volta materia oscura ed inquietante, dipingendo una nebbia atmosferica da cui emergono suoni deboli diretti all’anima più che al cervello (ma troppo pop, noiente a che vedere con i Bardo Pond, aspettare per credere).

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187. Wake - "I Told You So" [1994]
I Wake sono un gioiellino presto dimenticato in un cofanetto nella enorme soffitta del pop britannico. Una realtà oscura degli ’80, ma con un paio di colpi di coda nei 90’s, forse le loro prove di maggiore maturità. Pop tanto crepusculare quanto di atmosfera, essenziale ma…come dire…intenzionalmente condotto su tali percorsi di leggera malinconia. Ballate elettriche cadenzate nevriticamente alla suicide (senza il loro pathos estremo), vicino al mood oscuro dei Joy Division, ovvero se si preferisce limitrofi ad un Lou Reed in vena di digressioni pop, sono il principale repertorio dei Wake. Gli scozzesi Wake, hanno il tipico dna delle produzioni del nord della GB: ballate folk-rock che sono la quintessenza del genere. "Make It Loud" [1991] è la loro prova migliore ma non la trovo sul tubo. Qui perciò c'è “I told you So” (da “Tidal Wave Of Hype”, 1994) che ha un beat preciso, quasi da drum-machine, con un taglio delle tastiere sixties, una chitarra che produce un solo lisergico, ed una armonica che alimenta una venatura nostalgica attorno alle gentili armonie ed alle strofe ostinate di una ballata che potrebbe benissimo essere dei Church più ispirati.

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186. Tehni – Huomen [1999]
Un trio finlandese fa sorridere per definizione, la loro musica no; quantomeno non me li immagino con una suoneria nokia sul mobile (anche perché, lenti come sono prima, del secondo accordo partirebbe già la segreteria). A metà strada tra slow e sad-core, mettono in scena un progressive-folk atmosferico che risente nella voce di certe intermezzi acustici di gruppi metal (fateci caso, ma tutti i gruppi metal vogliono inserire un pezzo strappalacrime acustico per dare spessore a tutte le urla); tratti epici e melodie scandite con solennità, ambientazione glaciale, canti monodici e toni profetici questi i tratti del loro suono. L’album da cui è tratto questo pezzo è “Kauan”, una colonna sonora di un folk glaciale, di ballate immerse in una gelida nebbia. Ho scelto Huomen ancora una volta per orecchiabilità di primo impatto. Questa ha più struttura pop del resto dell’album ed è forse più apprezzabile ad un distratto ascolto. E’ un’elegia acustica, poetica e rarefatta; un arpeggio acustico alla moviola su cui si alza (per modo di dire visto il tono basso e sussurrato) una voce catatonica. In realtà il pezzo ha uno sviluppo sinfonico ed una coralità gregoriana che fanno ritenere questi sette minuti vicini a certe soluzioni dei Codeine, ma con una sensibilità artistica perfino maggiore.

185. Bedhead - “Smoke” [1994]
Anche qui, è un caso che proviene dalla metodologia utilizzata con criteri per quanto possibili oggettivi, un gruppo tra slow-core e post-rock, il quale ha realizzato le produzioni migliori del genere a cavallo di due decenni. Meno intellettuali dei capofila del genere, Bedhead coltivano e curano maggiormente la melodia rispetto ai Codeine oppure ai primi Low, lasciando l’effetto ipnotico relegato al crooning ed agli arpeggi, talora non disdegnando efferate esplosioni ed espressioni sonore di una certa vitalità emotiva (così è ad es. per "Bedside Table". Nel pezzo che ho scelto, il tempo non è quello del lento ritmo delle onde ovvero di un flusso naturale che infonde tranquillità (oltre che per la lentezza) anche per la ripetizione costante e rassicurante. “Smoke” infatti (da “Bedheaded” 1996) è un ibrido di generi diversi, la cui litania sembra cullare ma non mi pare rassicurante come un pezzo dei Luna, ad esempio, e non esaspera l’effetto chitarristico del genere (una trama di chitarre dal suono cristallino per creare il clima sospeso e celestiale). La caratteristica dei Bedhead che li fa emergere dal genere è quella di discostarsi dai canoni di lentezza e sacralità del sussurro e bisbiglio elevato ad una dimensione sonica, per cercare un risultato simile affidando i pezzi ad una nenia elettrica che non disdegna una linea melodica in predicato di normalità.

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184. Smashing Pumpkins - “Silverfuck” [1993]
Inserire o no gli Smashing Pumpkins in questa lista, questo è tuttora il mio dubbio. A me pare superfluo recensirli ora che sono dovunque e a pieno titolo strafamosi in tutto il mondo. Stranamente, l’unico pezzo non presente su youtube era proprio quello che volevo nella mia lista, ovvero “Love”. Quindi, cosa mettere qui? Io ritengo che "Bullet WIth Butterfly Wings" [1996] sia il secondo grande rock anthem dei 90’s, dopo Smells like a Teen Spirit dei Nirvana. Credo che tutti la conoscano (anche se la metto in link, perché un sedicenne amante di MJ ha tutto il diritto di non conoscerla). Mi sembra utile quindi fare risaltare un altro pezzo, questa volta da “Siamese Dream” invece che da “Mellon Collie”, un album che non può essere ricacciato nell’etichetta del pop per la presenza di vertigini e rasoiate hardcore (a mio parere il reale vertice degli SP). Il pezzo: efferate chitarre rompono l'equilbrio iniziale, stendendo un tappeto rosso ad una batteria che deve avere il porto d’armi per irrompere così (una sola? Se non è un ragno ad avere le bacchette in mano mi pare impossibile). Batteria e chitarre si scambiano piaceri reciproci perché accade che l’una lanci le altre, e viceversa, lungo vasti abissi sonori. Di derivazione grunge è la presenza di un improvviso stop che consente a Billy Corgan di levare il suo canto psicotico in questo lungo tratto di calma apparente. Comunque sia non è grunge perché l’impianto è quello dell’alt-rock, nei suoi 8:44 sec. di follia sotto difficile controllo. Ed è questo lungo stop che spazia dal min 3:03 al min 6:46 che caratterizza il pezzo e che mi convince a levarlo a status di opera del decennio, perché davvero onirico e psicotico, che da solo consente l’urlo finale con il succedaneo buco nero di chitarre e tastiere.

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183. Ghost – Marrakech [1996]
I Ghost sono un gruppo giapponese all’avanguardia nella sperimentazione creatore di un genere ibrido tra la psichedelia e l’ambient, che da un lato ricorda il prog dei 70’s e dall’altro pare una sorta di insana world-music. L’album è “Lama Rabi Rabi” che fin dal titolo rivela l’intenzione di partire per un viaggio lisergico in paesaggi sonori da evocarsi con una strumentazione eterogenea, al limite del paradossale. Ho scelto Marrakech solo perché quando sfogliavo i vari pezzi mi sono ricordato della città, ma mi pare almeno dal suono che i ghost non ci siano mai stati o, comunque, il luogo non va considerato in senso stretto. Ma mi piace l'energia di Marrakech e va detto che pare proprio di ascoltare qua e là Tago Mago dei Can, cosa non certo male, visto che forse è uno dei dieci dischi di sempre del rock. Il pezzo è di difficile descrizione, subisce pesantissime influenze dal kraut-rock, e le sonorità anni 70 vengono calate in una registrazione digitale. Le chitarre tracciano linee melodiche esotiche e le sovrapposizioni sonore creano stati di alterazione che provocano lo spostamento dell’attenzione dal singolo dettaglio all’ambiente sonoro complessivo, davvero vasto al limite dell’immensità. Per chi non ha coraggio di ascoltare gli originali e vuole qualcosa di rielaborato.

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182. Sparklehorse “Rainmaker” [1995]
Ho già speso buone parole per questo pop in passato, credo di avere messo il video in link nel forum (e credo badgirl l’abbia già mazziato). In realtà questo è il pezzo più famoso e catchy di un album che è letteralmente una meteora unica nell’alt-pop dei 90’s, Vivadixiesubmarinetransmissionplot, è una delle creazioni più eccentriche di un pop che si dirige verso il cuore, un unico salmo accorato, un vero e proprio deposito di idee accatastate in un album privo di brutture, e faccio prima a introdurre alcuni pezzi che a parlarne genericamente: “Spirit Ditch” qui è un salmo eelsiano appena sussurrato in un’atmosfera onirica; “Cow” qui ruba l’arte a Neil Young e si tratta di una ballata dal sapore country immersa in un’atmosfera dimessa e malinconica; “Tears On A Fresh Fruit” qui è una ballata elettroacustica in stato febbrile; “Homecoming Queen” qui è uno splendido lo-fi folk, sorta di accorata preghiera cantata con trasporto ed accorato dolore; Most Beautiful Widow In Town” sarebbe materiale dylaniano ma è affrontata senza coltello nei denti ed alla fine ricorda il Lennon della crisi di identità ed è una cruda rappresentazione dei sentimenti più intimi nel modo più diretto possibile. Da notare che la voce emerge sempre come provenisse da una radiolina degli anni ’60, accentuando il clima surreale di una rappresentazione musicale del tutto onirica.

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181. Porcupine Tree “Radioactive Toy” [1992]
I Porcupine Tree veleggiano da sempre in quel mare espressivo che è il progressive, di difficile collocazione (per cui se non sai cos’è un genere complicato è meglio dire che è progressive-qualcosa -cit. Rarronno-, ne esci sempre con un figurone) passati da un abbraccio alla musica psichedelica all’ambient e l’elettronica di “Signify” [1996]. Radioactive Toy è il loro singolo più famoso, soprattutto da noi, dove credo oramai risieda sabilmente l’autore del progetto che va sotto il nome Porcupine Tree, ovvero il “romano “ex No Man, Steven Wilson. Questi ha definito la propria musica “space progressive infarcito di musica psichedelica” e così facendo si è Rarronnato definitivamente. Radioactive Toy mi pare l’ennesimo tributo ai Kraftwerk ed ai Popol Vuh, rapportato agli standard dell’era digitale e l’atmosfera è di buona fattezza complessiva.

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180. Killing joke - “The Beautiful Dead” [1990]
I Killing Joke hanno costruito delle pagine influenti del rock degli anni ’80, con un dark-punk di impatto e già incline a comprendere soluzioni estetizzanti, volte a superare gli stretti limiti del genere. I KJ sono stati impetuosi, nevrotici, in bilico sullo stretto steccato che divide più generi “deivati” del rock senza mai cadere in un recinto preciso. Le visioni dei KJ degli anni ’80 spaziano sull’industrial, il noise, la più oscura elettronica. Come però spesso accade nei corpi viventi, la dispersione di energia con il trascorrere degli anni ha agito anche su KJ, riducendone la voglia di ricerca e sperimentazione, e la forza espressiva. Nel ’90 c’era solo l’orgoglio e la tecnica a salvare i Killing Joke dal dimenticatoio. Anche così hanno fatto la loro porca figura. Extremities Dirt & Various Repressed Emotions è un validissimo album ed il pezzo scelto è una sorta di sinfonia funebre per chitarre ed elettronica sui quale i KJ paiono perfino divertirsi e gigioneggiare tra un mare di onde sonore che sono tanto jumpy quanto taglienti.

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179. Massive Attack – Risingson [1998]
Il progetto musicale che va sotto il nome di Massive Attack è il soggetto in capo al quale viene ricondotta la genesi o quantomeno la diffusione del trip-hop, fenomeno che lega il dub e dance a propulsione elettronica. Obiettivo finale è stata l’occupazione da pparte di questo genere di territori in precedenza appartenuti al rock. I Massive Attack hanno portato questo attacco al rock con “BLue Lines” [1991] ma l’opera più rappresentativa del gruppo rimane il celebre “Mezzanine” [1998] e da questo ho preso “Risingson”. Risingson ha il pregio (o difetto) di essere completamente cosa nuova rispetto a quanto sino ad allora prefigurato dal dub: è una trance ipnotica, difficilmente ballabile, una sorta di rap alla moviola che non ha alcuna intenzione di utilizzare le liriche per comunicare alcunché. Anzi, l’effetto oscuro e paranoico che avvolge il pezzo è quello determinato in primis dalla voce; così facendo, con un nuovo uso di loop sofisticati, un nuovo timbro di voce ammiccante, la comunità nera inglese (bristol) riesce ancora una volta a filtrare l’originale messaggio “nero” del dub (di matrice giamaicana) e ricostruirlo trasformandolo in trip-hop, con una mano di vernice superficiale, adattandolo ad un nuovo pubblico, quello “bianco” inglese. Il livello di cura per i dettagli, una certo senso di ricercatezza anche nella strumentazione completano quella metamorfosi, quella trasformazione di genere che è del tutto evidente in “Risingson”. Da sentire anche "Angel" e "Teardrop"

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178. Drive Like Jehu - "Luau" [1994]
I Drive Like Jehu sono un nastro trasportatore californiano verso un confine grigio ed indefinito di generi non proprio comuni: non del tutto industrial, non direi grindcore, non del tutto hardcore: in breve post-hardcore o emo. Se fosse metal sarebbero i Picasso del genere. "Luau" è un menù di degustazione dei DlH, ll tutto servito in salsa blues (ma se questa è salsa ci hanno messo dentro uranio arricchito). 9:24 minuti verso un confine di suoni che hanno lo spettro oscillografico appoggiato ad un marasma sonoro composto di loop chitarristici lancinanti. Gli ultimi due minuti strumentali sono uno museo del math rock, così come del suono post-sonic youth: una vera antologia a futura memoria di quelli che possono (potevano) essere gli esiti del rock. Si tratta di una ballata pesante se ci si avvicina a qusto muro sonico per la prima volta, ma è un genere appagante. A conferma che non vi è un pubblico preciso al quale si rivolgono i DlJ a 4:40, ovvero a metà del brano, c'è uno stop dove, appoggiati ai microfoni e lasciate le chitarre, ci si abbandona in un territorio di post-rock che è un piacere per gli amanti del genere. Credo che i tre minuti che seguono siano una colonna sonora di riferimento per chi non crede che il post rock sia la pietra tombale del rock.

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177. Grant Lee Buffalo - "Wish You Well" [1993]
E’ il pezzo che mi accompagana dal day one di uscita dell'album “Fuzzy” [1993], scelta del tutto personale in una tracklist di altissimo spessore. Si tratta di folk-rock, qui declamato più che cantato con solennità(da grant lee in persona). Tra suoni solidi, lucidi e precisi, una buona eco ed il piglio di chi ha qualcosa da dire e ritiene sia importante, questa ballata scorre via lasciando un’immagine di tristezza; c’è ribellione ma anche impotenza, c’è denuncia sociale (leggere il testo) ma anche il tono amaro di chi è consapevole di vivere un’illusione (e mi dà l’idea che il pezzo propenda per la rinuncia). Adoro la dylaniana atmosfera di fervore pessimistico nel canto, e ancora di più l’estasi delle emozioni sospese che la musica lascia nell’atmosfera. L'arpeggio e la voce di Grant Lee che inizia subito con "See the end?", la batteria che esplode ciclicamente, il chorus che è un'ode alla speranza, mentre i versi sono disincantati, beh, questo è rock taumaturgico. Ricordo che Grant Lee è un genio perché a questa carriera si aggiunge quella dei Shiva Burlesque. E scusate se è poco.

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176. Skinny Puppy - "Nature's Revenge" [1990]
Un tentativo di fusione di generi quali la dark-wave degli '80s, corredata di elementi gotici, di cui si fanno visuali latori del look decadente, con il canone imperante nei '90 costituito dal suono grind-core ed industrial; talora il tutto riportato a finalità dance, anche se di danza macabra si tratta. Il brano che ho scelto è, diciamo così, il più "ascoltabile" dell'album "Too Dark Park". Nature's revenge è un abuso di synth su impianto ritmico votato ad un dancefloor leggermente malato e febbrile. La voce rimane tutto fuorché rassicurante, ma almeno (solo in questo pezzo) la visione non è apocalittica ed è abbastanza godibile. Per una volta, un paio di parole sul video. Come spesso accade per questi pezzi, non ci sono soldi e mercato per fare video. Allora ci pensano gli utenti del tubo, da soli. Stranamente preferisco questi video alle boiate visuali che girano nel mainstream, col tempo diventate un cliché per direttori di serie b. Questo video associa immagini di città che bruciano (sequenza finale), con esplorazioni in CG di paesaggi lunari oppure visioni distorte di fenomeni naturali. E' un ottimo viatico per il binomio musica-immagini.

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175. Tom Waits - "I Don't Want To Grow Up" [1992]
Per Tom Waits valgono le considerazioni fatte sugli Smashing Pumpkins. Oramai approdati sulle copertine dei giornali musicali, non vi è più bisogno di sintonizzarsi sulle loro onde di frequenza per scoprire cosa stanno facendo: sono dappertutto e meritatamente. Solo che come tutti sanno, Tom Waits è un archetipo assoluto, l'eroe solitario con la chitarra a tracolla, l'immagine stessa dell'anticonformismo, del bluesman stravagante e non integrato, impossibile non allungare la mano per mettere le mancia nel cappello da busker. Ecco, l'immagine di Tom waits è quella del busker che raccoglie i centesimi per un altro scotch whiskey, prima di andare a suonare in un pub dove tra la coltre di fumo e folate di sudore passerà la nottata. Non c' è niente da dire su Tom Waits che tutti o già conoscono o già si immaginano alla prima occhiata diretta in faccia. Il vertice della sua produzione sta negli '80, più che nei decenni a venire dove prova generi diversi ma ricorrendo al suo cliché. Qui ho scelto il pezzo più famoso, più easy di tutti , più...quello che volete ma sta di fatto che è diventato anche uno dei pezzi più famosi dei Ramones, che non è poco. E poi se uno ha paura di invecchiare (e chi non ce l'ha?), cosa può canticchiare, magari in una corsia di ospedale prima di un intervento? Vai Tom, sei tu il mio peter pan (che poi: se Emanuele Filiberto prima di cantare a Sanremo dice "il mio autore preferito è Tom Waits" e poi fa quello che fa con pupo e non so chi, allora vuol dire che oramai TW è tutta una posa, una licenza di rispettabilità. Diciamo che il blues malato, tossico, la rappresentazione di un bordello sonoro fatta corpo, quel vero e proprio orgasmo aurale che è TW... ha qualcosa da dire a tutti, anche a prìncipi e a chi non ha nulla a che fare con la musica. Ah, se è troppo easy "quando vedo la faccia dei miei genitori non voglio invecchiare" scegliete qualunque cosa sul tubo degli anni '80 e '90 (o magari la cover dei Ramones): il viaggio vale la pena del prezzo del biglietto (gratis). "Seems like folks turn into things, that they'd never want. The only thing to live for ss today...I don't wsnna have to shout it out; I don't want my hair to fall out; I don't wanna be filled with doubt; I don't wanna be a good boy scout; I don't wanna have to learn to count; I don't wanna have the biggest amount; I don't wanna grow up".

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174. Laika - "Bedbugs" [1997]
I Laika sono una sintesi risucita di generi millenari come ambient, dub, jungle, elettronica in senso lato, con jazz e psichedelia. Giusto per non perdersi episodi meno di impatto del titolo segnalato ma di più interesse musicale si ascolti "Prairie Dog", pezzo che fa del trip-hop leggermente addolcito con suoni più morbidi del solito, liquidi e trasognanti, tutto sommato "il" migliore primo ascolto per i laika (se -come immagino- non vi sono noti, cosa normale visto il loro scarso successo). Nel brano riportato in epigrafe invece si tratta di lounge sperimentale, con filtri sonori che trasfigurano anche i fraseggi jungle e gli inserti jazz. Il vero vertice sonoro dei Laika è costituito da "Silver Apples Of The Moon" [1994] dove francamente non c'è nulla fuori posto e a mio parere vale una pietra miliare della musica eettronica, calda, introspettiva ma non minimalista.

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173. Suede - "So Young" [1993]
Con gli Suede chiudo gli episodi di "brit-pop". In realtà, sono un brit-pop originale, dal taglio glam e francamente credo si tratti di pop ispirato. Tra beatles e bowie, passando per marc bolan e t- rex, arrivando vicini ai roxy music, le pagini decadenti degli Suede fanno passare in secondo piano un'esecuzione non ai massimi livelli ed una grinta meno incisiva di tutti questi altri modelli di riferimento. In realtà siedono sulle spalle di giganti e avevano la capacità di fare rapidamente un buon intrattenimento. Cosa importantissima nel pop. "So Young" è una delle loro ballate più memorabili tratta dal loro album di esordio, "Suede" [1993]. Badando alle capacità melodiche i Suede non sono secondi a nessuno, anzi. ALtrettanto va detto del cantante, un... mah ...davvero, io apprezzo tantissimo l'enfasi del tutto femminile con cui va alla guida della canzone. Credo che se uno capisce cosa deve fare di un pezzo quando canta, non è importante come canti: il risultato sarà eccellente lo stesso. Non tutti li amano ma a me i Suede sembrano un gruppo colto, abile nel loro melodramma commerciale. Ma ecco che io vorrei sapere: visto che erano famosi in quegli anni, quanti conoscono i Suede oggi? E' ancora il caso di segnalarli per un loro possibile sdoganamento, oppure vada pure a splendere su di essi la luce perpetua e amen?

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172. Pale Saints - "Thread Of Light" [1992]
Si tratta di dream-pop austero, freddo, rispettoso dei canoni del genere, ma alle volte pronto a scattare in avanti verso forme ibride di shoegaze e, in generale, verso atmosfere di un mondo diafano, dotato di un'aria rarefatta. "Thread of Light" è tratto dal migliore disco dei Pale Saints "In Ribbons", che è la prova più convincente di shoegaze "leggero" nella storia della musica, francamente consigliabile a tutti (unitamente a "Ferment" dei Catherine Wheels) ad un primo approccio con questa musica. "Thread Of Light" è così un pezzo che ricorda, oltre ai citati, i Cocteau Twins, i Lush e perfino i Throwing Muses di Kristine Hersch, nota per un famoso duetto con Stipe degli REM, ma a mio parere superiore due spanne a tanto carismatico leader... (non arriva però alle dieci spanne di Patti Smith, che ha fatto l'unico disco di gran classe degli REM in tanti anni di carriera, ovvero "e-bow the letter" [ma se non c'era il minuto di PS non facevano nemmeno quello]). Thread of light mette in musica passioni e sentimenti come è la caratteristica tipica dello shoegaze, ma qui è tutto controllato, non vi sono chitarre debordanti, per cui il bozzetto è perfetto ma innocente.

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171. Eggs - "Why Am I Tired All The TIme?" [1993]
La mia passione per il lo-fi è testimoniata in questa lista da molti passaggi sonori del genere. Va detto che mi conforta che Pitchfork abbia piazzato un paio di dischi lo-fi tra i primi 20 del decennio (oltre che v'abbia assegnato la vetta, naturalmente). Gli Eggs spiazzano per il loro gusto che è quello dell'innovazione in questo campo minimale, territorio reso ancora più spartano da un'assenza cronica di fondi e ritorni commerciali, al limite riservati ai soli Pavement (i quali hanno ogni tanto la tv ai loro concerti per pochi intimi, non si immaginino grandi audience). "Perché sono sempre stanco?" è paradossalmente progressive-lo-fi, dove il genere pigro e catatonico si sposa con una ballata folk elettro-acustica incapace di rimanere nei binari di una forma-canzone tradizionale. Quasi vicini al suono del lo-fi neozelandese arrivano ad esiti (3:42) perfino da chamber-pop lunatico e d'atmosfera, con un beat suadente e quasi incisivo, dunque al di fuori delle premesse di settore.

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170. One Dove - "There Goes The Cure" [1993]
Da "Morning Dove White" album senza sbavature, tra melodie affascinanti e paesaggi surreali, costruzioni ed impalcature che arrivano fino al cielo, torri sonore e abissi senza fine, tra echi di suoni angelici e pareti di armonici. Il senso di estasi mi pare evidente. Alla voce c'è Dot Allison che o è la persona più intruppata del pianeta e dove c'è un album che fa la storia dell'underground compare lei, oppure, insomma, ha un talento della madonna. Fate voi, io propendo alle volte per la prima ipotesi. Qui c'è "There goes The Cure" che è tutto questo ma anche di più: sono oltre 8 minuti di perfezione formale, senza paura di annoiare un ascoltatore che se arriva a questo, vuol dire che ha scartabellato tutto sul banco dei cd oppure ha letto quel sito di scoppiati sul web. Per sentire melodie più sempliici e formali si senta "White Love", nella versione reprise, che mostra tutta l'abilità nel comporre anche pezzi tradizionali che farebbero la fortuna di chi fa il pop più grossolano del pianeta terra, magari sa suonare un po' il piano e la fa vedere al pubblico e per questo un miliardo di fan gridano "non è una creazione del merchandising, è una vera artista!" (si vedrà che non ho fatto il nome di nessuno...).

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-in progress-

[edit] alla fine riunisco questi brevi topic, in modo da lasciarne 6 o 7 al massimo. Non per questo la lista è immodificabile, anzi.
[Modificato da °Mark Lanegan° 14/02/2012 14:37]
10/02/2012 20:05
 
Quota
Aiutooooo.... pure io mi devo fare di caffè .....ahahah

qui mi tocca ricominciare ad ascoltare musica di notte...che bello

239. Black Crowes – Remedy, wow ...mi è piaciuta parecchio..bellissimo il cantato, ho ascoltato anche Sting Me, altro gran bel pezzo....bella la chitarra

238. Ocean Colour Scene – The Day We Caught The Train, oddio non sono fra quelli che conoscono la discografia dei Lunapop...sinceramente preferisco alla grande One degli U2 (anche se non è certo il mio pezzo preferito) ...e nella scaletta assieme ai Kyuss non li inserirei proprio.....vabbè, direi che si è capito che non l’ho trovata nulla di che

237. Alice In Chains – Down In A Hole, ecco anche di costoro ho ascoltato varie cose.....non male, anche se decolla da metà in poi, prima la trovo troppo poco incisiva....

236. Destroyer – The Space Race...a me è sembrata una “canzoncina”...e aggiungo bruttina...

235. Teeenage Fanclub – Everything Flows, all’inizio non mi piaceva poi l’ho apprezzata (quando è finita...ahahah – no dai), ho ascoltato anche Goody Gum Drops ....mi sa troppo da canzoncina pure questa

234. Rocket From The Crypt – Ditch Digger, l’hai detto..troppo poco arrabbiata..e poi la trovo troppo ripetitiva, se fosse ossessiva sarebbe ok.......però tutto sommato non è malissimo

233. DevendraBanheart – Sight To Behold, “noto perfino per avere sfasciato la propria chitarra in testa al batterista dei Metallica”...ahahaha..mi hai fatto morire....guarda, casualmente è uno dei pochi video che ho guardato, poi ho letto il tuo suggerimento, quindi avevo inquadrato immediatamente la eccentricità del tizio.....questa song la trovo pure io moooolto affascinante, sia la musica che il cantato.....proprio tanto....Se dico che per alcuni istanti mi ha ricordato Tim Buckley, che mi succede? [SM=g27828]

232. Aurora Sutra – Posen 1793, e siccome io amo le tetre colonne sonore, mi è piaciuta assai....impressionante....merita sicuramente un ascolto anche in cuffia...

231. Mouse On Mars – Bib, non mi ha convinta del tutto pur piacendomi il genere...

230. Robin Holcomb – Hand Me Down All Stories, “.. i risultati sono quasi sempre deludenti” quoto...



Va bene così, credo

Va bene, va bene...è sempre un gran piacere leggerti.....e ascoltare cose nuove (per me)

Le cose si fanno serie sotto i 100.

Ok, ti aspetto al varco [SM=g27828]
[Modificato da badgirl. 11/02/2012 10:52]
11/02/2012 10:41
 
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Registrato il: 01/10/2009
Sesso: Femminile
Utente Certificato
HIStory Fan
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Prof ma grazieeeeeeee
troppi spunti tutti insieme così velocemente
io sono lenta ti saprò dire.....se sopravvivo [SM=g27828]
un lavorone spettacolare però!
[SM=x47932]
[Modificato da migi.mj 11/02/2012 10:42]


Aveva pensato che se gli esseri umani non si esercitavano in continuazione ad aprire e chiudere la bocca,
correvano il rischio di cominciare a far lavorare il cervello.
D.Adams

Il sarcasmo con certe persone è utile quanto lanciare meringhe ad un castello.
Terry Pratchett

11/02/2012 10:44
 
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Appunto se vuoi che io ti segua...devi rallentare un bel po....anzi in verità dovresti proprio tirare il freno a mano.... [SM=g27828]
cmq i RATM fuori dai primi 100 nun se pò sentì eh [SM=x47982]

ah e voglio trovare i Pearl Jam tra i primi 100 altrimenti ti disconosco come professore [SM=x47979]
[Modificato da Keep the faith 11/02/2012 10:46]

Ah Avvocà io un termine per note ve lo concedo...però non scrivete troppo perchè io non ce la faccio a leggere
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