- continua -
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109.
Tall Dwarfs - "The Slide" [1990]
I neozelandesi “nani alti” sono forse il nome di riferimento per il lo-fi; impossibile dire chi abbia “inventato” il genere (ok, qualcuno dice loro), ma sicuramente la sua diffusione negli anni ’90 deriva dall’influenza di questo gruppo sugli americani Pavement, Cat Power, eccetera. Melodie improbabili, atmosfere lisergiche, influenze eclettiche, uso di pentole ed oggetti qualsiasi per la produzione del suono, insomma uno spirito libero, tutti questi sono i tratti caratteristici dei Tall Dwarfs. In pezzi come “The Slide” arrivavano ad omaggiare i 60’s in un’operazione di ricostruzione dei suoni: al termine della carriera (i primi 90’s) avevano acquisito sufficiente dimestichezza per proporre deliziose melodie calandole in ambienti dissonanti e bizzarri. Si senta ad esempio
"Two Humans" che è proprio quanto gli appassionati del pop classico non sopporteranno proprio. Anche perché la cosa interessante dei TD è che anche quando hanno trovato una discreta melodia, vedi
"Mr Broccoli" la devono immediatamente sminuire, in maniera evidentemente poco commerciale, fedeli al canone estetico rigorosamente minimale.
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108.
Grifters - "X-Ray Hip" [1995]
Art Blues-rock, con evidenti influssi psichedelici che non guastano mai. Gli americani Grifters (Tennessee) hanno qualcosa da dire per chiunque, l’unico ostacolo possible può essere rappresentato dal fatto che non percorrono mai un tragitto diretto per andare da A a B, ed in ogni pezzo vi sono divagazioni rumorali oppure “difetti” evidenti di costruzione che spesso spingono il pezzo fuori dai binari. Ma si tratta di blues come pochi, ad altissima vibrazione, oltretutto calati in atmosfere alterate, dove si prescinde bellamente dalla melodia v. ad es. la funebre
"Slow Day For The Cleaner! [1995], dalle armonie in stato febbrile, come se gli Tsunami facessero slo-core. “X-Ray Hip” è costruita sopra un debole riff lisergico, una brevissima frase distorta sopra una trama sonora che va confondendosi nel corso del (breve) pezzo. Episodi precedenti a quelli sin qui riportati, come ad es.
"Maps of the Sun" [1994] avevano portato una sorta di clangore metallico nel blues, con un risultato tanto caotico quanto affascinante.
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107.
Red Red Meat - "Chain Chain Chain" [1995]
Con un colpo di sfiga o fortuna, ma in realtà per un giudizio di approssimativa equivalenza, come alla posizione precedente, anche su questo gradino vi è una blues band: i Red Red meat di Chicago. Una cosa che ho imparato da questa classifica è come sia preferibile un buon motivetto ed un buon video, piuttosto che un grande pezzo con un video sghembo. O meglio, è preferibile un’accoppiata “pezzo alternativo orecchiabile e video abbastanza cool” piuttosto che “grande sperimentazione musicale e video statico su un'“immagine orribile”. E’ il limite di youtube, credo. Quindi niente pezzi migliori da "Bunny Gets Paid" [1995] dei Red Red Meat, bensì piuttosto il loro unico singolo visibile sul tubo. Un blues eccellentemente alterato, trascinato da suoni distorti ed armonie leggermente dissonanti, con un buon effetto onirico complessivo. Il ritornello paga la stanchezza dell’idea ma si tratta di un effetto intenzionale ed è efficace nel contesto di un album che ha la forza di diverse idee originali ed un sound disarmonico che sfiora l’estasi. Preferire i Red Red Meat ai Grifters che fanno lo stesso genere è questione di gusto, oltre che di peso per le melodie (forse più indovinate per i primi). Paradossalmente mi sento di preferire per una volta tanto quelli che fanno la melodia migliore, forse perché il genere richiede una certa orecchiabilità.
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106.
Neutral Milk Hotel - "Holland, 1945"
Gli Americani Neutral Milk Hotel (Lousiana) sono gli artefici del miglior pop americano anni ’90, rigorosamente off, accanto a pochi altri nomi. In "The Aeroplane Over The Sea” [1998] non vi è pezzo che non trasudi estro ed inventiva, ed il pezzo che vedete in epigrafe è stato votato -mi pare- uno dei tre migliori del decennio dalle riviste del settore (se non è nei primi tre, chiedo venia ma poco ci manca). Come è questo pop per essere così acclamato? Innanzitutto, non viene incontro alle nostre prime aspettative. Cosa notevole perché non va alla ricerca di un’identità culturale con un pubblico oramai assuefatto (ma vorrei dire strafatto) ad un suono omologato, identità oramai codificata entro lo “spazio sonoro universale”, ovvero quel suono universale che ci arriva ogni giorno, volenti o nolenti, da radio, televisione, supermercati, negozi di jeans eccetera. Si tratta di pop che recupera il significato stretto del suo termine: una semplice melodia realizzata con ogni tipo di fantasia sonora, ed attraverso una forma eclettica mutuata da forme musicali alte. Si senta il pezzo in epigrafe: una sorta di fanfara per trombe e tromboni ed un ritmo bizzarro che conferisce una certa frenesia al canto di Jeff Mangum; questi, consapevole dell'effimero, porta il pezzo alla sua rapida conclusione (e non capita solo nella fattispecie ma è anzi caratteristica dei NMH), quasi fosse tutta un’enorme coda di un altro brano ancora. In ogni pezzo dei NMH si sente la libertà espressiva ed arrangiamenti fuori dalla norma; qualche volta il pezzo gira attorno ad un basso vibrante a frequenza ridottissime, come
"Everything Is", un formato sonoro talmente semplice e perfetto da costituire un classico del suo genere, buono anche tra 50 anni.
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105.
Elliott Smith - "Needle in the Hay" [1995]
Su Elliott Smith ho detto qualcosa parlando di una sua band, gli Heatmiser, al n. 117 (vi ho già detto che è geniale…?) In effetti la sua carriera solista è ricca di spunti vincenti, davvero difficile fermarsi su un pezzo solo. Peraltro, come dire, una caratteristica di Elliott Smith è la sua esperienza con l’eroina, che si è riverberata ben presto nella sua attività musicale. Needle in the Hay non è altro che heavy folk, un pezzo acustico davvero acido, con una voce metallica amara ed un’armonia semplice ma tossica come il testo del pezzo. Poche plettrate sui power chords, un suono tremolante e sarebbe stato perfetto anche per l’unplugged dei nirvana (ma meglio così, è rimasto in attesa di una sua futura riscoperta magari in qualche film hollywoodiano: oddio! Che ho detto! Speriamo non capiti questo. Forse va bene tutto così, come è adesso). E’ sui pezzi come questo, un lento acustico, che si vede la sensibilità di un artista, e dire che mette malinconia è dire poco. Di episodi come questo (per fortuna è un pitchfork top 200: eccazzo, ci mancherebbe altro) la breve carriera di ES ne è piena, basta cercare. Edit: Ah, proprio cercando...ho trovato una cosa favolosa su Es che prima ignoravo. Dedicata
a Miss Piggy
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104.
Barkmarket - "Poverty" [1991]
I newyorkesi Barkmarket sono artefici di un indefinibile sound aperto a influenze diverse ma sempre in un territorio nevrotico, fatto di dissonanze sonore per lo più metalliche, suoni industriali, hard rock post grunge, hard-blues, un ambiente di acustica poco soddisfacente di primo acchito, creato per diffondere tensione più che per trovare consenso. In realtà, fanno il lavoro di gruppi come i Rage against the Machine, oppure i Red Hot Chili Pepper, in un’ottica creativa, slegata dalla necessità di produrre profitti, mi consentano di dire ciò i fan di questi gruppi più noti. Ho scelto alcuni pezzi da un medesimo album, “Vegas Throat” [1991], per mostrare la tensione complessiva di ogni opera dei Barkmarket:
"Salvation" è una ballata lenta vicina a dissonanze industrial- funk;
"Faststamp" è in sintonia con il crossover universal-imperante del 1991, ed oltrretutto pare cantata da una specie di Mick Jagger (è impressionante la somiglianza timbrica) compiaciuto per la virata del blues verso una dimensione più art-rock, dove il pezzo perde la propria identità. “Poverty”, il pezzo scelto nel titolo sopra, mostra la fine del blues, sepolto in un cimitero di chitarre. Per finire si potrebbe sentire il pezzo più leggero dell’album,
"Grinder", vicinissimo ai pezzi più tirati (!) dei RHCP, differenziandosi poco dai canoni della convenzionale forma canzone (vi è pure un ritornello abbastanza accattivante di armonie che potrbbero essere dei nirvana), se non forse per qualche stravaganza o bizzarria in più.
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103.
Bright Eyes - Padraic My Prince" [1998]
I Bright Eyes (Nebraska) hanno fatto lo-fi folk sul finire del millennio, prima di passare nella decade successiva ad un delizioso chamber-pop. I Bright Eyes sono essenzialmente Conor Oberst, un folksinger che crea quadretti sinceri di passione acustica, noncurante del grande successo ma rimanendo fedele ad un suono abbastanza inascoltato, a melodie che sarebbero improponibili ai “grammy award” (mai visto uno, mi immagino un clima da borsa d’affari, una wall street con i commerciali delle società musicali invece che i finanzieri di Ny), ma perfino estranee al gusto imperante. Conor Oberst ha poi subito virato verso una letteratura "alta", una rappresentazione lirica di buon livello, solo un poco più delicata delle violente immagini di Kafka-dylan, raccontando in musica un turbinio di passioni che smbrano uscite da John Fante; si veda ad es.
"Lover, I Don't Have to Love", pezzo che dovrebbe invitare ad una riflessione sul perché non piace (questo punto posso darlo per scontato; la scelgo comunque con le liriche in evidenza perché non possono sottrarsi, trattandosi di vera novella). "Padraic My Prince" è forse una delle primissime cose del giovane Oberst ed è ancora vicina alle caratteristiche del genere di riferimento: blue mood, understatement, andamento privo di grazia. Il talentuoso ragazzo avrebbe presto passato il fossato; anche così si tratta una grande opera prima (l’album è “Letting Off Our Happiness”, 1998).
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102.
Songs Ohia - "Hot Black Silk [1999]
Songs Ohia altri non è che Jason Molina, un cantautore dell’Ohio che è divenuto un’istituzione del folksinging americano della scorsa decade, lasciandosi alle spalle la più grande tradizione musicale del pianeta terra per iniziare una sorta di viaggio fra isolamento, blues mood, strumentazione ridotta, roots-rock, il tutto in unico format che è quello della malinconia. Talvolta arriva vicinissimo a Neil Young, con ballate atmosferiche di oltre sette minuti
"Farewell Transmission"; ma lui eccelle (come Will Oldham, suo amico) nel folk minimalista e coinciso. E’ il caso del pezzo in epigrafe, altro Pitchfork Top 200, una ballata acustica, cantata quasi in falsetto, tra staccati e contrappunti eleganti, con un mestiere da far paura, una melodia mai banale. La cosa divertente è che chi realizza consapevolmente i limiti della propria arte tende a fare mini-suite da dieci minuti cadauna, oppure veloci passaggi (non è nemmeno 3 minuti questo pezzo). Altre volte Jason Molina si mette d'impegno a fare pezzi tradizionali, in particolare country, mantenendosi sempre però un paio di gradini sopra tutti nel genere di riferimento.
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101.
Atari Teenage Riot - "Start The Riot" [1995]
I 'creatori' del Digital Hardcore, un genere nato a berlino nei primi 90’s. Basterebbe sentire cosa accade dal secondo 0:17 al secondo 0:38 del pezzo sopra scelto per immaginare il potenziale di questo suono, già passato ai videogiochi e da qui in procinto di invadere il mainstream (se non sono proprio famosissimi oggi come meriterebbero è proprio perché all’epoca sono stati censurati da tutto e da tutti. Ma aspettiamo ancora un poco per vedere che fama che acquisiscono con il tempo, già oggi…) Il berlinese Alec Empire campiona ogni cosa e distorce la techno piegandola ad usi hardcore, per frasi che ricordano in epoca pre-digitale il suono dei Dead Kennedys. Altre volte gli ATR prendono campionamenti di storici pezzi combat-rock (nell’accezione inglese del termine, non nel senso nostrano di canzone di protesta) come "god save the queen” in
"Delete Yourself". Talvolta invece la rinascita punk della techno serve per creare manifesti generazionali, leggermente adolescenziali, come in
"Destroy 2000 Years Of Culture": ok, oggi fanno un po' sorridere, come tutti i punk del resto. Ma hanno perfettamente incarnato lo scopo dell'avant-rock, anzi, con il loro messaggio hanno sottratto spazio e territori al rock ed alla missione di quest'ultimo (ed anche la cantante appare perfetta così, basta toglierle tutto il fare goffo dell’età e sarebbe la mia ennesima ossessione erotica. Ok, mi fermo qui, meglio…).
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100.
Stereolab - "Jenny Ondioline" [1994]
Gli Stereolab sono l’emblema di un certo post rock accanto ai Tortoise e pochi altri. Si possono ritenere i fondatori di uno genere originale, una sperimentazione che ha portato ad una mutazione genetica del dream pop, una deformazione progressive tra elettronica ed armonie semplici ed accattivanti. Come se la velvettiana Sister Ray venisse cantata da Gutevolk. Interessati principalmente all’impianto complessivo del pezzo ed, in primis, al suono, hanno pure curato le volte di quell’architettura, disegnando melodie funzionali alla bellezza finale del progetto. Non melodie usa e getta, bensì armonie di un certo spessore, quali tessiture aggiuntive ad un suono di per sè ricco. Tali melodie sono declinate con la leggerezza tipica della leggendaria Laetitia Sadier, artefice di un canto suadente e perfino sexy, che il suo accento francese intenzionalmente enfatizza. Da uno degli album più noti degli anni ’90, “Transient Random Noise Bursts With Annoncements”, [1994] ho scelto “Jenny Ondioline”, un lungo deliquio di droni rock che si aprono sopra un schitarrata in feedback e proseguono regolari con brevi inclusioni a scandire ciclicamente il volgere delle batture. Ogni tanto appaiono armonie da beach boys, ma è il tiepido canto di Laetitia Sadier a convincere ancora di più. Quando gli Stereolab non si abbandonano al loro rigore d’avanguardia pop (sarebbero anche marxisti, non che la cosa aiuti molto nel business musicale dominato da America e Inghilterra…) fanno cose ancora più artistiche, come ad esempio
"Tone Burst", un piacevole incontro fra un organo anni ‘60 (che ovviamente presto si disunisce) ed una melodia d'altri tempi, che dopo i 4 minuti non resiste all’attacco dei suoi stessi autori e finisce in dissonanze varie.
"Our Trinitone Blast" è invece un raga alla Velvet Underground con break e squarci, sopra una sferragliata di chitarre dal suono metallico.
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99.
Labradford - "Midrange" [1996]
Gli americani Labradford (virginia) sono ai vertici sonori del post rock dei 90’s, portando però le tipiche distorsioni in un genere di originale psichedelia ambientale; peraltro il pezzo in epigrafe inganna un poco sul genere di appartenenza della band (MTV ha fatto addirittura circolare il video mettendolo in un programma di “Chill out”: niente di male, beninteso). Qui infatti ho scelto uno dei pochi pezzi “cantati” ma il territorio di percorrenza dei Labradford è tipicamente quello strumentale: diciamo che per motivi catchy qui inserisco un pezzo con la voce e una melodia. Altre volte i Labradford hanno fatto un salto nel vuoto: musica sì ma con i suoni ambientali. “Se il rock è diventato niente altro che una distorsione sonora, dove entrano rumori, gorghi, vortici, ronzii, effetti elettronici al limite del concreto, perché non si può creare direttamente un nuovo ambiente sonoro, tralasciando il rock ed utilizzando direttamente tutta la nuova strumentazione?” paiono chiedersi i Labradford. Ed infatti l’album omonimo [1996] è un viaggio fantastico nell’immensità dei recessi sonori che la musica potrebbe regalarci, solo volendo osare. “Midrange” è una processione di suoni brillanti (gli arpeggi chitarristici) e malinconici (gli archi); suoni “liquidi” e di qui il video sulla pioggia. Ad un certo momento appare perfino un organo, il quale si leva maestosamente sopra un battito che riverbera quello cardiaco. Ci sono altri rumori, di diversa origine, pure oscillazioni dello spazio sonoro. Questo è un pezzo ambient, perché fatto di musica (con inserti al limite del concreto). Altre volte i Labradford fanno scivolare il tutto in un ambiente dove non si comprendono più i singoli elementi: si senta
"The Cipher", per me il miglior pezzo dell’album (che si avvicina ai Main, v. n. 98). Domanda retorica: "The Cipher" ci pare musica ma i singoli elementi che compongono il pezzo possono dirsi “musicali”? Altra domanda retorica: i suoni elettronici ambientali diventano musica alla fine del processo di assemblamento, magari uniti a qualche suono fatto da strumenti musicali tradizionali, oppure i suoni elettronici sono musica sin dall’inizio, magari con in più il solo effetto finale di tipo ambientale? Ok, domande leziose, ma quando si ascoltano i Labradford viene qualche dubbio. Si ascolti per finire
"Scenic Recovery", una ballata ambientale: qui ritorna la musica nelle sue componenti essenziali. E’ un percorso sonoro che ricorda un po’ i Dirty Three per il fatto di tenere gli archi in primo piano sopra tutto il resto. E’ oramai musica al confine fra settori diversi, con un bordone di viole che fa assomigliare il pezzo ad una pigra giga. Se proprio però piacessero, qualcuno dovrebbe ascoltare anche
"Battered", ancora meno “immediata” delle opere precedenti, un pezzo dove c’è tutto, il commiato di una delle opere fondamentali del rock del secolo scorso.
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98.
Main - "Maser" pt. 1 [1996]
Se i Labradford vi sono sembrati un po’strani, allora è meglio saltare questo gradino per passare immediatamente a quello successivo (ok, questa mia è una sorta di ‘disclaimer’: meglio ascoltare, ovvio). L’inglese Robert Hampson, ex “Loop”, è i Main. Parte da questi un discorso che richiederebbe pagine di introduzione, non poche righe. I 90’s sono una decade di riflessione sulla fine di tutte le illusioni del rock. Mentre nel mainstream girava l’ennesimo pezzo hip-hop su MTV, nei sotterranei del grande edificio pop partiva una grande offensiva diretta a superare il linguaggio musicale tradizionale. I Main si spingono in avanti rispetto ai contemporanei Labradford ad es. -vedi posizione precedente- perché partendo da quel ragionamento, ne rovesciano gli esiti o forse la logica, in modo davvero sorprendente: “se la musica oggi è noise, rumori ambientali, elettronica tout court, perché si deve fare ancora musica che assomiglia a quella tradizionale e perché si devono comunicare ancora le vecchie sensazioni?” Non senza una buona intuizione, Hampson ha capito che nella musica elettronica il silenzio è parte preponderante del suono. Un po’come i pixel sul monitor lcd non possono fare un vero nero perché si devono accendere (e quindi fanno luce bianca, sconfessando la propria natura di nero), l’elettronica non può fare vera musica ma solo vibrazioni non realmente musicali (di qui credo il titolo “hz”) che poi il cervello ricompone in suoni-musica. Passo ancora successivo: qual è l'unico vero suono che l’elettronica può ricreare perfettamente: il silenzio. In epoca digitale quando le macchine non si muovono, il silenzio è perfetto. Nessun microfono, nessun rumore di sottofondo, nessuna necessità di avere strumenti reali in studio. Quindi, per sua natura, la musica elettronica è isolazionista, mette sotto i riflettori… il silenzio. Di qui lo studio isolazionista di Main. Oh, tenete presente che sono considerazioni tutte mie, quindi accetto ogni critica. Però mi pare questa la lezione dei Main. Detto questo, su Youtube è impossibile trovare più di 3-4 video dei Main. Magari ci sono pure ma con le tag non ci arrivo proprio. Quindi, necessariamente, si ascolti cortesemente “Maser pt. 1” (vi sarebbero in realtà più movimenti di questo pezzo, io ho trovato solo il primo). Non è la suite isolazionista-rumorale che avrei voluto, ma è comunque tratta da un album epocale, “Hz” [1996]. “Maser pt 1” non è a mio parere ambient, non è ovviamente cosmic o space, o altre etichette. E’ una forma sonora alienata, una trance psichedelica attorno ad un unico elemento musicale: una breve linea di basso. C’è anche una voce, ma sta sullo sfondo e probabilmente può andare bene per qualsiasi pezzo (ma è ancora un pezzo tonale, peccato. Altre volte se ne vanno via dalla tonalità e ciò è solo un bene). Sul tubo c’è poi
"Haloform pt. III" che è un pattern ritmico sopra una foschia sonica. Prevengo la critica più evidente: dove è l’arte? Il problema non è quello, non ha importanza. C’è un tentativo di creazione, reso manifesto dalle innumerevoli vicende musicali di Main, il quale è un piccolo genio e che, come ci si immagina, non fa certo i soldi. Il limite invece di quest'operazione, a mio parere, è nell’evidente minimalismo da bassa fedeltà di tutti questi suoni. D’accordo il lo-fi, d'accordo la sperimentazione, ma declinata l’idea, devi (tentare di) raggiungere la perfezione. Qui si procede col freno a mano tirato.
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97.
Mo Boma - "Slolooblade" [1994]
I Mo Boma sono un ensemble jazz di varie nazionalità. I suoi membri, tutti molto intellettuali, in una prima fase della carriera hanno posto in essere una sorta di revanscismo nei confronti dell’elettronica, rifiutandola a priori; alla fine però hanno ceduto alle lusinghe ed hanno approntato album che spaziano tra elettronica, jazz, ambient e world music. Il pezzo sopra indicato è un esercizio di riverberi e clonazioni di rumori ambientali a tema. L’album di riferimento è il loro capolavoro, “Myths Of the Near Future”, un album uscito in tre parti, una all’anno (un po’ come questa lista…) dove l’elettronica è il futuro che però si piega a raccontare vecchie leggende. Non avevano evidentemente preventivato di battere il record di Kate Perry ed infatti le 14 visualizzazioni su internet sono tutte mie. Con poliritmia tribale, suoni liquidi, nuvole elettroniche, i Mo Boma raccolgono gli insegnamenti dei Birdsong of The Mesozoic negli 80’s, anche se la strumentazione nel frattempo è cambiata ed il suono così trattato è diventato maggiormente rarefatto e sofisticato.
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96.
Mark Lanegan - "Hotel" [1998]
Beh, mi sembra di giocare in casa… In realtà non c’è niente di innovativo qui, quindi il voto complessivo di Mark non è altissimo. Ma in realtà, indipendentemente da un giudizio oggettivo sulla sua forma musicale, voglio metterlo tra i primi 100 della decade perché in quel tempo ha fatto due- tre album sostanzialmente perfetti. Come è Mark Lanegan? Hmmm, è una vita che lo ascolto ma non lo so, giudicate voi. Ma quello che mi piace di lui è che prende degli accordi aperti, suoni lunghi, di solito una melodia in minore, tutto abbastanza semplice e… ci mette un’intensità drammatica da brividi, crea un’atmosfera di tensione, evoca pulsioni irrazionali dell’animo. E’ intimamente psichedelico o metafisico. Ecco, assomiglia al maestro della paura, Tim Buckley. Va a quel livello lì. E’ semplicemente “la” voce degli spettri. Fa risuonare cupamente gli ultimi rantoli di respiro che risalgono dalla trachea. La sua voce è costantemente alla ricerca dell’enfasi drammatica. Lui riesce a trovare questa drammatizzazione in quella parte dell’emissione sonora che giunge alla fine della voce, quando oramai non arriva più il fiato alle corde vocali; il più delle volte semplicemente evita di prendere tanto fiato. Mentre tutti i cantanti mediocri, ieri come oggi, giocano a chi canta più a squarciagola, Mark Lanegan fa l’opposto. Non è assolutamente facile. Con ML si sente distintamente quel momento in cui non arriva più la voce e spunta invece il “suono del respiro”. E’ un anti canto. Si sente l’atto umano, si percepisce lo sforzo, la fatica del cantare. E come uno sciamano: richiama l’evento naturale nella voce, cerca gli spiriti. Non è uno scherzo oppure un’enfasi descrittiva, e fate una prova: prendete “hotel”, mettetela in auto la sera tardi e provate a viaggiare, magari per autostrada, fatta più di buio che di luci: sarà come entrare in un film. Se l’arte è qualcosa, ecco quella cosa lì è arte. Oltretutto, lo so, non dovrei scegliere “Hotel” un brano che io venero (e che ho già messo sul forum) ma che altri critici non considerano perché breve. Ma invece… sbagliano loro ed è proprio qui l’intensità di un grande come ML. Non è nemmeno un pezzo “canonico”: è un esercizio di stile. A ben vedere in “Hotel” non c’è nemmeno un ritornello oppure una strofa: musicalmente parlando ci sono solo un paio di versi, ripetuti per tutta la brevissima durata del pezzo. Che credo sia strutturato in modo da mettere qualche brivido e non stancare; punta tutto sull’atmosfera e, per me, la sfida è vinta. Provate a trovare qualcuno che regga la sfida con ML su questo piano. Oh ok, ci sono tanti nomi che competono in questo campo: possono fare pezzi migliori, e un paio di nomi almeno si troveranno più avanti anche in questa lista, ma il brivido per lo zero assoluto kelvin lo regala solo ML. Ecco, è un pezzo notturno, struggente, con l’allegria tipica dell’anticamera di un obitorio. Parla… non so di cosa parli il pezzo: leggo le parole ma non capisco il senso ultimo, forse nemmeno mi interessa, suppongo non interessi nemmeno a ML, a dire tutta la verità. Alla domanda sul significato delle sue liriche, ML ha risposto così una volta: “Quando un intervistatore mi chiede il significato di una canzone, io mi rifiuto sempre di rispondere. Lascio che sia l'ascoltatore a trovare il significato, se c'e`. E spesso non lo so davvero” Non ritengo del resto che ML dia neppure senso alla sua esistenza; canta e suona controvoglia. Fa impazzire gli intervistatori: in primo luogo perché non rilascia interviste e, quando lo fa, non dice niente. Addirittura risponde con l’unica cosa che non si può mai dire in un’intervista: “e a te cosa interessa?” Dunque, temo che per lui valga il detto waitsiano ‘non riesco a capire quelli che si rifugiano nella realtà perché hanno paura di affrontare la droga”; Mark Lanegan ha infatti passato l’inferno sulla terra per tutti i suoi vizi e ciò nonostante non ha mai smesso di strafarsi. Tutte queste attitudini non proprio salutari e confortanti rimangono evocate nei suoi pezzi, risalgono dal terreno, ce li hai lì davanti mentre canta. Per i suoi fan, dunque, è meglio così. Non ama la sua vita ed il suo lavoro, dicevo, e forse era per questo che era uno dei buoni amici di Kurt Cobain, il quale ha cantato diverse cose sue. O forse sì, chissà, magari ama la vita, ma in un modo tutto suo. Comunque sia, basta ascoltare pezzi come
"Borracho" oppure
"Beggar's Blues" da “whiskey for Holy Ghost [1993]” il suo capolavoro (tali titoli non paiono proprio casuali) per capire che ha un altro grande amico, Tim Buckley, il quale probabilmente sorride da laggiù.
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95.
Pain Teens - "The WAy Love Used To Be" [1990]
Difficile inquadrare la musica dei texani Pain Teens, in costante evoluzione durante gli anni; il critico innominabile li definisce coloro che inventarono una versione sub-punk ed industriale del synth-pop. Mi fa morire con le sue definizioni illuminanti: non proprio qualcosa = sub. Le opere dei primi ’90 sono praticamente introvabili sul tubo, pazienza. Trattandosi di sperimentazione industrial-elettronica sono esecuzioni di avanguardia sì ma di non facile acchito, talune al limite dell’ascoltabile. Il punto è che non vi è sempre elettronica nei Pain Teens e molto spesso il lavoro del synth è fatto tutto dalle chitarre, distorte al limite della metamorfosi, sempre alte a coprire la voce e con un largo ricorso di droni in feedback. Questo all’inizio ma poi, col trascorrere della decade, tutto è cambiato. Ciò che non è cambiato è lo scarso riscontro di pubblico dei Pain Teens. Anche qui, pazienza. Hanno comunque realizzato un album epocale, “Destroy your lover” [1993] con alcuni pezzi anche incredibilmente orecchiabili (The Story Of Isaac, Cool Your Lover”); da questo volevo “Lisa knew” che osa combinare l’esile ed algida voce della cantante, tutta “college rock”, un po’ Juliana Hatfield e un po’B 52, con potenti riff da hardcore, tra ondate crescenti di noise rock e contrappunti armonici. Ma ok, non trovo niente di niente. Necessariamente, per comprendere uno dei grandi artisti off della decade, devo inserire quello che c’è. Questo pezzo necessita forse di una preparazione all’ascolto per apprezzarlo a pieno. Oppure si dovrebbe ascoltarlo in più occasioni a distanza di tempo, trattandosi di suoni non proprio facili. Mah, non saprei, oramai sono passati oltre vent’anni dalla genesi di questo pezzo, il suono dovrebbe essere stato digerito. Fatemi sapere. Qui c’è una delle tre o quattro cose che ho trovato sul tubo. Un commento: di solito il massimo della trasgressione è inserire una voce un po’ bizzarra che procede disarmonicamente sopra un impianto genericamente corretto in modo da riequilibrare le cose. In “The Way Love Used To Be” (da”Born In Blood”, 1990) accade ovviamente l’opposto: una leggiadra melodia pop viene orribilmente sfigurata da un canone di distorsioni massive. Se posso aggiungere una cosa, ebbene, assicuro che dopo un poco di stanzialità con queste disarmonie, si finisce per canticchiarle ugualmente. Proprio come le melodie più rassicuranti, a dimostrazione che è solo l’imprinting sonoro che fa propendere per una cosa o per l’altra. Sul tubo si trova poi il pezzo più orecchiabile di tutta la produzione Pain Teens, ma guarda caso:
"She Shook Me" [1990] è una ballata psichedelica dal ritmo jumpy, addirittura con una melodia stiracchiata, che se solo l’avesse cantata Jim Morrison l’avrebbe resa un classico senza tempo.
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94.
Yo La Tengo - "Flying Lesson" [1995]
Gli americani (New Jersey) Yo la Tengo hanno fatto tanto e bene per tutti gli anni ’90, spaziando attraverso diversi generi. Per questo sono stati definiti “il faro del rock alternativo, ovvero “gruppo intellettuale per eccellenza”. Sono entrati ed usciti da generi diversi senza svilirsi con le mode commerciali e senza mai cedere alle lusinghe delle sirene, cosa che avrebbero potuto benissimo fare. Oltretutto, alla voce si alternano il chitarrista e la batterista, Hubley, a conferire maggior diversità ai pezzi. Secondo Scaruffi, autore delle frasi sopra virgolettate, ciò deriva dal fatto che Ira Kaplan, il leader, è “…un computer programmato per replicare lo stile di quei pochi complessi che nessuno ha mai messo in discussione, a cominciare dai V.U. E’ un critico e sa cosa i critici non potranno mai permettersi di criticare”. Amen. Messo così sembrerebbe un trucco, però. Ciò nonostante gli YLT hanno effettivamente messo il loro sigillo sui 90’s, oscillando tra jazz, noise rock, country, folk, pop, psichedelia, new age, trip-hop e molto altro ancora in album sempre sperimentali. Difficilissimo scegliere un pezzo rappresentativo della loro carriera. Ho scelto "Flying Lesson", non perché sia il loro pezzo migliore ma perché ritengo sia sintomatico di un paio di caratteristiche di fondo: mini suite psichedelica, catatonia vocale, ritmo ipnotico, droni di feedback, temo però che il video del tubo abbia tagliato il pezzo, dovrei controllare, manca il tempo però.
"Autumn Sweater" è la scelta di pitchfork, top 50 dei 90’s. Perfetta ma assolutamente meno rappresentativa dei YLT; voglio però sottolineare di nuovo, perfetta pop song;
"Upside Down" [1992] è l’eccellente melodia folk-rock, il loro biglietto da visita più famoso, dovrebbe piacere a tanti, non comunque scontata. Qualche dubbio mi rimane per
"From a Motel 6", un’elegante ballata, tra arpeggi eterei ed inserti in feedback, fuzzy guitars e canto da shoegazer, in perfetto mio stile e probabilmente la mia preferita;
"Out Of The Window" invece è un boogie velvettiano; infine
"Mushroom Cloud of Hiss" è una suite di 10 minuti circa che raccoglie in un vortice di distorsioni le visioni oniriche di Kaplan. Tutto questo e molto ancora sono i Yo La Tengo (il nome deriva dalla chiamata in spagnolo della palla nel baseball da parte dei giocatori esterni, cosa pensavate??).
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93.
Mark Kramer - "I Have Seen the End" [1993]
Prima di cliccare sul video in epigrafe vanno spese due parole su Mark Kramer ed occorre vedere un altro video di introduzione: Mark Kramer, infatti, non è un personaggio ordinario. Più che per eclettismo, originalità e ubiquità di generi, qualità abbastanza diffuse in questa lista, Mark Kramer ha una capacità espressiva tale per cui quando passa in un genere, per qualunque genere, gli scappa un capolavoro. E prima ancora di passare a vedere la sua carriera solista, forse definibile come avanguardia psichedelica, si dovrebbe meglio parlare di Bongwater: ecco, si parta da qui. I Bongwater saranno nella mia lista degli ’80 (non preoccupatevi, non necessariamente in questo forum!): un duo davvero allucinante a cavallo fra due decadi, qualche anno luce di distanza dalla carriera solista di Mark Kramer. A titolo esemplificativo di quale collage di suoni, visioni e idee anticonvenzionali fossero i Bongwater, basta citare quel kitsch hendrixiano di
"The Power of Pussy" [1991]. Tanto per intenderci: l’opera per antonomasia sulla “pussy” (non traduco) nel pop. Il video è un po’censurato da Youtube, quindi vi chiede di visionarlo passando per la registrazione (basta l’account gmail, oltre che quello youtube) che provi la vostra maggiore età. E’ uno dei video più imperdibili del tubo, difficile fermare le potenzialità espressive di questo ragazzo sconnesso. Ritengo che Mark Kramer abbia capacità creative al limite della follia visionaria; ripeto, qualunque genere musicale passi attraverso. Ad ogni modo, mollata la cantante dei Bongwater e scioltosi malamente il duo, Kramer ha iniziato una carriera solista radicalmente in antitesi con l’esperienza Bongwater. Di qui un album “The Guilt Trip” [1993] che ha l’unico difetto che va sentito unitariamente, trattandosi di un unico collage sonoro. Ho scelto “I Have Seen The End” perché pare il rinascimento del kraut-rock anni ’70 immerso in un’atmosfera lisergica anni ’90, con un buon bordone sonoro di fondo che accompagna le uniche due frasi su cui si regge il pezzo. Kramer è tempestoso ma non esplosivo, incapace di controllarsi anche se ciò che si manifesta non è altro che un turbinio di emozioni minimali; in ogni caso è debordante per quantità di suoni e votato alla novelty ridanciana. Molti episodi da The Guilt Trip (36 pezzi in tutto) sono strumentali, ballate oniriche, dove non c’è nessuna necessità della presenza della voce. Oppure sì, la voce entra nel pezzo, magari a metà brano, recita due o tre brevi frasi e lascia subito la scena definitivamente; altre volte ancora, la voce è “una” voce qualunque, che non incide nell’economia del pezzo, come nel caso dell’”hello” telefonico di
"Hello Music" con una breve coda corale.
"Seven Seizures" è una liturgia per organo. Infine, ma non per questo ultima, anzi,
"Not Guilty" è un breve vignetta, addirittura cantata, ma si tratta della colpa, il tema dell’album, e forse il pezzo è la chiave di lettura del significato del concept. Qui la voce procede debolmente e un po’ tremante sopra un tamburino che dà un ritmo vagamente marziale, buon esempio di stile.
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92.
Dave Grubbs - "40 Words On Worship" [1998]
Dave Grubbs normalmente non si trova nei libri del rock, a meno che non si cerchi sotto “Gastr Del Sol” o “Squirrel Bait” o “Bitch Magnet”, ovvero tre delle cose più incredibili del rock anni 80’, i vertici dell’underground americano, il suono che avrebbe preparato tutto il terreno dei 90’s (e ho l'impulso ad inginocchiarmi quando qualcuno mi fa questi tre nomi, comunque mi cala un'ombra sul viso). Dave Grubbs era in tutte e quelle tre band lì. Basterebbe questo. Detto per inciso: qui, grazie allo studio di artisti con l’A maiuscola come Dave Grubbs (mai sentito vero? Non è colpa di nessuno, mai sentito neanche io prima di internet) sarebbe bello vedere i processi che portano alla creazione di un suono di una decade. Suoni che paiono caduti come per miracolo dal cielo ed inspiegabili se uno si interessa solo del mainstream; la musica di consumo è artisticamente immobile, ma è come dio: immanente, statica, perché già occupa tutto lo spazio, ma abilissima ad impadronirsi di tutte le influenze che scorrono nei sotterranei (il mainstream, non dio. Dio ascolta dave grubbs, probabilmente). Comunque sia: Dave Grubbs proviene dall’avanguardia hardcore degli 80’s e ha fondato uno dei gruppi più importanti dei 90’s, i Gastr Del Sol. Parallelamente, ha portato avanti una carriera solista…. completamente diversa. Tanto diversa da essere addirittura inimmaginabile. Come Dr Jackill e Mr Hyde. Professore universitario di musicologia e composizione, scrive “The Thicket” [1998] un album di avanguardia country – blues. Ricordo a me stesso che innovare in un campo tradizionale, con regole vetuste e iper codificate, non è impresa facile, pena scivolare nel ridicolo. Dave Grubbs cosa fa? Prende i bordoni alle viole di John Cale e li porta nel country: stessa strumentazione, uso diverso. Praticamente, prende gli strumenti che il rock ha rubato dal country e col suono del rock li restituisce al legittimo proprietario, riportandoli nel country: idea semplice e geniale. Si senta il pezzo prescelto, brevissimo, serve a Grubbs solo per declinare l’idea. Un lungo drone di viola e violino in dissonanza che sembra il Cale dei Velvet, mentre Dave Grubbs canta come ispirato ed al rallentatore una semplice liturgia. Oppure si senta il country-tibetano di
"On Worship": un suono che è adorazione, ‘worship’ appunto, un 'om' di oltre 5 minuti, con lievi variazioni e minime discontinuità di vibrazione. Oppure, cambia tutto, e fa un brano apparentemente melodico, con strumentazione classica, come
"Amleth's Gambit" lasciando peraltro un tempo irregolare, sennnonché dapprima ci infila un paio di break tenerissimi e tristi che sembrano mutuati più dal pop melodico che dalla tradizione country. E poi al secondo break… cambia genere e parte un arrangiamento jazz ed una coda da chamber pop che lascia ammaliati per bellezza. Era il mio pezzo scelto per rappresentare Dave Grubbs ma alla fine ho preferito mostrare l’idea di fondo di "The Thicket". Ed ancora, Dave Grubbs lascia intermezzi completamente jazz tra i pezzi country, come
"Orange Disaster", questo sì il mio brano preferito dell’album. Queste vignette sonore mantengono il suono della strumentazione utilizzata per i bozzetti country ma portano l’ascolto in territori diversi, tra sincopi jazz e suoni fuzzy. Sono concretamente un superamento del genere ed una porta aperta per il futuro.
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91.
Pram - Dead Piano [1990]
Gli inglesi Pram, quasi del tutto sconosciuti in italia, rientrano a malapena della musica popolare. Cataloghiamoli come un sofisticato esempio di post rock (new prog-rock), artisti dediti ad una contaminazione dei generi, ma questa dizione non dice tutto. Hanno come tanti mischiato dissonanze e campionamenti, influenzati dal jazz e dalle mode, Stereolab in primis, ma si differenziavano da questi ultimi per una maggiore attenzione per ritmi elaborati, anche se non troppo heavy. La vocalist Rosie Cuckston ha il timbro celestiale che ricorda immediatamente i Saint Etienne ma ha anche la spiccata attitudine ad esprimere contenuti musicali stranianti e non le melodie eteree di quegli altri giganti dei 90’s. Sono assolutamente perfetti nella loro estetica fredda e distaccata quando calano pezzi free form, distanti qualche anno luce dalla forma-canzone. Ora, il pezzo in epigrafe non dice molto dei Pram se non come tutto è iniziato. Si tratta di un pezzo che riflette una sottocultura di baccanali industriali, una forma di danza medievale portata nei capannoni delle fabbriche di Leeds. Elemento caratteristico: le chitarre sferragliano un blues che pare tom waits, mentre la Cuckston se ne sta appena sotto tale rumore per fornire brevi parti vocali. Da qui, da questo album (ep, rectius) di inizio carriera, perduta l’iniziale aggressività ed acquistato qualcosa in capacità espressiva, i Pram sarebbero arrivati in poco tempo ad “Helium” [1994] da cui si possono ascoltare pezzi come
"Nightwatch" che è un bozzetto sonoro talmente bizzarro da diventare indefinibile, una sorta di naive pop che mutua qualche cosa dal jazz e qualcos'altro dalla tradizione melodica; oppure
"Dancing On a Star" che arriva più vicina ai territori free jazz, dove tutto pare improvvisazione mentre compaiono strumenti che ricordano la psichedelia anni ’60. I Pram sono arrivati infine al loro capolavoro, “Sargasso Sea”, [1995] sposando una certa attitudine compositiva jazz, ovvero totale libertà di forma, un impianto disancorato dalle forme pop, ma rimanendo nel campo sonico del post rock, con una libertà di suoni invidiabile da parte di altri artisti del medesimo genere. Qui c’è l'eccellente
"Loose Threads" che è tutto ciò che ho detto in poco più di 5 minuti. Basterebbe questo per i Pram, ma voglio aggiungere e mostrare anche la fine ingloriosa di un glorioso gruppo (la Cuckston sarebbe finita a fare collaborazioni con Laetitia Sadier degli Stereolab): ecco il tentativo (legittimo, beninteso) di farsi conoscere al mainstream
"Sleepy Sweet"1998 Un dream pop perfettamente levigato e pronto per finire a sanremo se banalizzato ancora un pochino di più. Arrivati, anzi scesi, a questo punto, i Pram avevano perso il loro pubblico di affezionati senza acquistarne uno nuovo. Come è quella frase: “partono tutti incendiari, ma arrivano…”? Oh comunque sia, tra il ’94 e 95’ hanno fatto 2 album da comprare assolutamente, in particolare "Sargasso Sea".
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90.
Bugskull - "Almost Blue" [1994]
Gli americani Bugskull sono sostanzialmente Sean Byrne, un chitarrista d’avanguardia il quale crede sia preferibile calare il pop in una forma di struttura diversa da quella tradizionale. Ma non solo. Chiamare un genere di riferimento è impossibile, non ci provano in molti; ok sarebbe possibile coniare un neologismo, ma non mi va adesso. Nel giro di tre anni, la sperimentazione avrebbe condotto il ragazzo “fuori dalla musica rock”. Mentre scrivo queste righe devo ancora decidere cosa, quale pezzo mettere in epigrafe, tanto, forse troppo orizzontale è l’approccio musicale di S. Byrne, che credo guardi dall’alto in basso anche zappa o captain beefheart. Non è musica da ascoltare al mattino o durante un intervallo, o così, per farsi passare il tempo. Del resto, non è il caso di guardare l’urlo di Munch, mentre si è seduti sul gabinetto (come pure si ipotizza abbia fatto quello che ha commissionato il furto della famosa tela). Ok, faccio così: Almost Blue per l’incipit, il resto per il viaggio. Almost Blue è calata in un album che è la bibbia della sperimentazione 90’s, un laboratorio di idee per tutti: il titolo dice tutto “Phantasies and Senseitions” [1994] (perfino l’ortografia è intenzionalmente errata). Pezzo con impianto jazz, dove l’unica cosa normalizzante è un drumming con sonorità solo leggermente trattate. Il resto, beh, è un marasma cacofonico sopra il quale si leva un clarino indecente e bellissimo, che talora pare suonato da un allievo del terz’anno al saggio di fine anno, impaurito e a corto di fiato. La voce si comporta di conseguenza e bisbiglia una specie di melodia svicolata da qualunque esigenza di forma canzone, dentro e fuori la tonalità. Ma non ne sono nemmeno sicuro, bisognerebbe passarci molto tempo sopra. In
"Death Valley", ad es., c’è una cosa che è geniale, solo che passa inosservata ai più: una tenera melodia, disunita, tremolante, è costruita su un vortice rumorale sopra il quale si staglia una voce che recita, la quale a sua volta pare dividere quasi perfettamente il campo sonoro con la musica. Talvolta pare che canti la voce estranea, talvolta pare che canti …il cantante (tanto che al min. 1:09, non si sa chi canti per un paio di secondi). Carinamente intellettuale. Quando poi arriva il 1997 Bugskull è a fatica nella popular music, ci sono credo solo due video sul tubo che testimoniano la grandezza dell'album “Distracted Snowflake Volume One” (un giorno varrebbe aprire una parentesi sul nominalismo nell’underground music…). Da quest’album mi pare ci siano solo i pezzi più ascoltabili dell’opera, per ovvi motivi, ed è un peccato. Comunque sia, c’è
"Flower Smille" che ha una sua appetibilità per una melodia accattivante sopra un arrangiamento bizzarro. Ed infine, mentre
"Goodbye" pare portare il suono su un piano diverso dalla musica come la intendiamo normalmente, voglio ricordare che sull’album del ’94 Bugskull ha fatto qualche melodia perfino da inserire una generica playlist e questa fantastica
"Olympic", blues della madonna (ecco la migliore definizione musicologica possibile), potrebbe starsene in qualsiasi compilation di alternative rock.
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-continua-
[Modificato da °Mark Lanegan° 29/02/2012 18:30]