La tv di Stato produrrà 40 puntate sull'attore che fu bandito da Mao
Nei telefilm la Cctv investirà 6,5 milioni di dollari, un budget da kolossal
La Cina riabilita Bruce Lee
Un serial per l'eroe del kung fu
Gli episodi si concluderanno per le Olimpiadi del 2008. Accordi con vedova e figlia
I film del Piccolo Drago, molto popolari, furono bollati come sottocultura di evasione
dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
La Cina riabilita Bruce Lee
Un serial per l'eroe del kung fu
Bruce Lee
PECHINO - Mao Zedong li aveva messi al bando come una sottocultura di evasione, borghese e decadente, ma quei film facevano furore tra i cinesi della diaspora. Diffusi quanto il buddismo e il confucianesimo, divennero una passione nazionalpopolare e un linguaggio comune capace di unire i cinesi in tutti gli angoli del mondo. Ora la Cina riabilita con tutti gli onori Bruce Lee, il re dei film di kung fu scomparso 34 anni fa, trasformandolo addirittura in una icona dell'identità culturale del paese.
La televisione di Stato Cctv ha investito 6,5 milioni di dollari - un budget da kolossal per i costi cinesi - per portare al termine la produzione di una serie di 40 puntate sulla sua vita, finita in tragedia e tuttora circondata di misteri. La biografia di Bruce Lee andrà in onda settimanalmente, in orari di massimo ascolto, fino a concludersi a ridosso delle Olimpiadi del 2008. L'attesa è tale che l'attore scelto per impersonare il maestro del kung fu, Chen Guokun, ha passato gli ultimi mesi a cercare di ingraziarsi amichevolmente la vedova e la figlia: guai se il serial dovesse essere macchiato da critiche o polemiche sulla veridicità della ricostruzione.
L'apoteosi postuma che il regime di Pechino ha deciso di tributargli è uno scherzo della sorte per Bruce Lee, che con la Cina reale del suo tempo ebbe un rapporto a dir poco distante. Era figlio di oriundi e nacque nella Chinatown di San Francisco: Lee è la tipica trascrizione che i funzionari dell'anagrafe americana imponevano d'ufficio agli immigranti cinesi di cognome Li. Nel 1941 i suoi genitori rientrarono a Hong Kong, all'epoca sotto l'impero britannico. Lee da adolescente si dedicò con ardore allo studio delle antiche arti marziali cinesi, forse allo scopo di difendersi dalle vessazioni di compagni di scuola più robusti: vera o no, la leggenda corrisponde alla vocazione dei monaci shaolin, custodi delle arti marziali. E' lo spirito riflesso nei suoi film, dove la maestrìa del kung fu è sempre al servizio dei più deboli.
Al cinema Lee approdò per puro caso dopo il ritorno negli Stati Uniti e gli studi universitari di filosofia, perché trovò lavoro a Hollywood come maestro di acrobazie e di lotta per due star del calibro di Steve McQueen e James Coburn. Ma nelle trame dei film americani le arti marziali potevano occupare solo un ruolo marginale, il tentativo di farne il centro della storia fu un fallimento (erano ancora lontani i tempi di Quentin Tarantino e "Kill Bill"). Solo ritornando a Hong Kong trovò la casa di produzione Golden Harvest che gli diede il ruolo dei suoi sogni.
Bastarono tre soli film, realizzati all'inizio degli anni Settanta, per fare di Bruce Lee "la leggenda", imponendolo per la sua perizia tecnica e la spettacolarità delle azioni. Il filone del kung fu è proliferato all'infinito grazie a di lui, ma Lee non ha avuto il tempo per raccogliere molti onori. Morì all'improvviso all'età di 32 anni, nel 1973. Ufficialmente fu vittima di un edema cerebrale, ma la causa della sua morte ha dato luogo a interminabili speculazioni tra le generazioni dei suoi fan nel mondo.
Per capire le ragioni del suo revival consacrato dalla tv di Stato di Pechino - e preceduto dall'emissione di un francobollo commemorativo - si può tracciare un parallelo con la sorte di un grande scrittore, Jin Yong, di cui in Italia la casa editrice Pisani ha tradotto di recente il romanzo "Volpe Volante della montagna innevata". Pseudonimo dell'82enne Cha Liang Yong, Jin Yong rappresenta la versione colta e letteraria dello stesso fenomeno di costume. I 36 romanzi di gesta cavalleresche che ha prodotto dal 1955 al 1974 hanno avuto una diffusione con pochi precedenti al mondo: almeno cento milioni di libri venduti nella Cina popolare, decine di milioni a Hong Kong, Taiwan, in tutta la diaspora dal sud-est asiatico alle Chinatown di New York e San Francisco. Ovunque ci siano dei cinesi nel mondo ci sono i libri di Jin Yong. E' stato vietato ai tempi della Rivoluzione culturale ma il successore di Mao, Deng Xiaoping, era un suo avido lettore. Per l'uso delle arti marziali come una metafora delle lotte di potere e della rivolta contro il male, per la dettagliata ricostruzione degli scenari storici, per la solidità del suo stile e la padronanza del ritmo avventuroso, Jin Yong è quanto di più si avvicina a un moderno Alexandre Dumas cinese. Ha rilanciato e rinnovato uno dei generi più antichi della letteratura cinese: il "wuxia", storie di cavalieri erranti e di società segrete, di monaci-eroi e arti marziali. Il genere "wuxia" era stato messo all'indice da Mao che lo definì un "inquinamento spirituale", oggi dilaga nelle librerie di Pechino e Shanghai.
Quello che Jin Yong ha colto, e poi Bruce Lee ha tradotto nel più popolare linguaggio cinemtografico, è il bisogno di definire un'identità cinese, l'urgenza per il popolo più antico del pianeta di riappropriarsi della storia e della cultura aggredite prima dalle Guardie rosse, poi dalla globalizzazione. Oggi quest'operazione di scavo nella memoria popolare non è più maledetta, anzi sembra un investimento che sta a cuore al regime di Pechino.
(12 aprile 2007)(repubblica.it)
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Grazie per aver risollevato il post