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In The Name Of Love (in corso). Rating: verde

Ultimo Aggiornamento: 08/09/2010 21:47
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31/05/2010 18:38
 
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Invincible Fan
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Un'altra mia fan fiction, per Michael, ambientata stavolta verso il periodo 1989-1995, pressochè. Joyce Lorelay Owen, giovane ragazza ventinovenne la quale, da un anno e poco più, da semplice maestra d’asilo si ritrova ad essere una delle più promettenti cantanti rock, pop, e r&b dell’epoca. Ragazza spigliata e determinata, nata e cresciuta in una piccola città marittima del Texas e con un passato da dimenticare, possiede un talento e una voce particolare che la distingue da tutti. Ora che il sogno di Joy di una vita sembra realizzato e che tutto sembra essere perfetto così come sembra, una persona entrerà nella sua vita. Un qualcuno che le cambierà per sempre la vita. Entrambi compieranno ognuno un viaggio nell’anima dell’altro, in un modo in cui nessuno abbia mai fatto profondo ed intenso. Due anime sole che cominceranno a conoscersi, ad interessarsi l’uno dell’altro, due semplici essere umani così diversi ma allo stesso tempo uguali... Un viaggio attraverso la mente di Joy, un racconto autobiografico dal suo punto di vista nel vedere il mondo. La lettura vi porterà a scoprire i sentimenti solo esclusivamente attraverso i suoi occhi e di come, una persona conosciuta dal nome Michael Jackson, abbia cambiato la sua vita.


CAPITOLO I

«...Per cui ti aspetta una serata lunga, esibirsi per prima da una parte ha i suoi difetti, ma darai il via alla serata... Un gran bel traguardo per un’artista con solo una carriera iniziata da più di un anno... Già...».

Pausa. Un attimo di blocco, prima di ripartire in un’esclamazione che il mio acuto sesto senso prevedeva.

«...Se solo non fossimo in un ritardo clamoroso!», continuò esclamando inquieto il mio manager, non risparmiando un’adrenalinica occhiata mista a rimprovero. Sapevo che prima o poi avrebbe tirato fuori quel discorso!

Si chiamava Lenard Edwards - per gli amici “Len”; era un uomo di mezza età, sulla quarantina passata, dai capelli brizzolati e occhi grandi e azzurri. In effetti era piuttosto affascinante come uomo... Ad ogni modo, era il mio manager, il primo fin dal giorno in cui avevo iniziato la mia scalata al successo da cantante da un anno e pochi mesi.
Era stato lui a scoprirmi e a far conoscere a tutti la mia voce, quella che lui mi aveva detto definisse “talento puro”; diceva che fossi sprecata per rimanere una semplice maestra d’asilo, e mi era sembrato sincero quando mi aveva detto di credere nelle mie potenzialità. Forse diceva così dato il fatto che, in vita mia, non avevo mai seguito corsi di canto, ecc.

«Eddai...», dissi con tono cauto e fermo, cercando in tutti i modi di non mettermi a ridere per la sua espressione e intenzionata a placare la sua irritazione. «Sei sempre così pessimista, vedrai che andrà tutto bene...»
«No, Joyce Lorelay Owen», pronunciò bloccando le parole prima che uscissero dalla mia bocca semiaperta. Stupita, sapevo che non era mai un buon segno quando mi chiamava con i due nomi e cognome di battesimo. «Non pensare di risparmiarti una ramanzina, perché questo è un caso serio!»

Ecco, ci mancava anche questa! Come se non fossi già abbastanza agitata e scombussolata di mio! L’ansia da panico pre-esibizione live - davanti a chissà quante persone! - mi bloccava lo stomaco in una morsa mortale, tenendo i miei muscoli irrigiditi come stoccafissi. Non era una bella sensazione, pur sapendo che fosse un ottimo “traguardo” per me.

«Questa sera è la serata dei tuoi primi “Soul Train Music Awards”, e credimi, per qualcuno ai tuoi livelli è una bellissima cosa, lo credo davvero, dopotutto se, precisiamo, è una categoria che a te non spetterebbe esibirti, visto il genere di musica “rockeggiante” - e a volte pop - che fai... Ma, per tua fortuna, la canzone “Beautiful Disaster” è un pezzo soul ed R&B, perciò è più che giusto! Non ti assicuro comunque che vincerai qualche premio...»

Continuava a parlare a raffica, gesticolando nervosamente, in ansia. Forse lo era più di me, me che da un momento all’altro mi sarei dovuta esibire dando inizio allo spettacolo e alle premiazioni che si sarebbero effettuate. Sembrava fosse lui a doversi esibire, non io. Detti un lieve sospiro rassegnata, voltando per un millesimo di secondo gli occhi verso le immagini fuori della limousine.

«...Ed eppure sembra che la cosa non ti interessi minimamente, visto che poco fa – invece che prepararti a dovere – ti stavi godendo la visione dei tuoi amati cartoni Disney... Come si chiama, Red & Toby...»
«Non era “Red & Toby”», precisai con disappunto, con una strana smorfia infastidita in volto. «Era “Oliver & Co.”, è dell’anno scorso e mi piace abbastanza... Be’, in realtà preferivo vedere “La Sirenetta”, il mio preferito! E comunque lo sai bene, te l’ho detto che quando sono nervosa non c’è cosa che più mi rilassi se non la visione di un bel cartone...»

Lui sbarrò i suoi occhi azzurri in un’espressione esterrefatta e scioccata. «A mezz’ora prima della partenza? È un miracolo che i truccatori e gli altri siano riusciti a sistemarti alla meglio, ma in compenso tardi! Farai una brutta figura, se arriverai proprio nel attimo in cui ti chiameranno sul palco!»
Sospirai di nuovo in tono paziente. «Tanto la figura di merda se la faccio, la faccio io. Non innervosirti così, lo so che mi rimproveri per il mio bene, e per questo ti ringrazio anche... », feci una pausa, per placare il mio stato d’animo. «Scusa se ti ho fatto arrabbiare...», dissi infine con voce mite e piena delle mie scuse.

Len mi stette ad osservare attentamente, poi strinse le labbra in un piccolo sorriso dispiaciuto. «No, scusa tu Joy, non devo metterti tutta questa agitazione. Però sono contento che tu abbia capito che lo faccio per il tuo bene, le mie intenzioni non sono cattive... Mi prometti che la prossima volta ti preparerai in anticipo e senza distrazioni?», chiese con lo stesso sguardo con cui ci si rivolge ad una bambina che ha appena trasgredito le regole del genitore.

«D’accordo, te lo prometto...», dissi con un sorriso furbesco. «La prossima volta non starò a guardare i cartoni poco prima della partenza per un evento importante come questo, lo giuro!». E così facendo segnai una croce sul cuore.

Lui sorrise con allegria spontanea, per poi accarezzarmi il capo con fare degno di un papà. Era molto bello il nostro rapporto: eravamo collaboratori di lavoro, eppure fra noi c’era una sintonia scherzosa degna di un padre con una figlia.
Più di una volta mi aveva detto che, secondo lui, dietro le mie spoglie da vissuta ventottenne e dietro quel mio aspetto da donna fiera e tenace, c’era invece solo una bambina bisognosa d’affetto. Era vero, infatti, e lui assomigliava un po’ alla figura paterna che mi era sempre mancata. Non nascondevo di essere felice per aver trovato un manager come lui, anche se erano più le prese in giro spesso e volentieri che i complimenti affettuosi.

Ma lui era fatto così; lui pretendeva molto da me, e ironizzava spesso anche le situazioni più complesse per me, per spronarmi a combattere e a lottare. Era un ottimo insegnante di vita oltre che manager, sebbene a volte abbastanza severo, e il suo lavoro ero sicura lo facesse perché lo amava. Chiedeva molto da me anche per dargli un motivo in più per starmi vicino ogni santo giorno, e ogni santo giorno gli davo la prova che ne valeva la pena.

D’altra parte, era quella una cosa bella di me: impegnarmi per raggiungere i miei obiettivi, dare il massimo in tutto, mai darsi per vinti. Non era da me lasciar perdere, data la mia determinazione e testardaggine, e ogni cosa che facevo la facevo dando il mio meglio. Non volevo deludere me stessa e le persone che ci tenevano a me. Ero una perfezionista, una irrimediabile ostinata di nome Joyce Brenda Owen che non voleva arrendersi alle difficoltà.

Purtroppo per me non ero sempre così determinata, anche io avevo i miei punti deboli, e quelli mi avevano aiutato in passato a rendermi più forte. Il mio passato mi aveva aiutato. Un passato vuoto e sofferente che, anche se con tanto dolore, dovevo abituarlo a convivere con il presente e il futuro. Len mi aveva detto così, ma non era facile... Non era per niente semplice lasciare quelle cose dietro, né facile accettarle.

Senza neanche accorgermene, mentre una luce vacua divagante il passato vagava nei miei occhi verde indefinito, la macchina cominciò a rallentare; subito mi drizzai dal sedile, con lo stomaco preso di nuovo in una nuova morsa di dolore, sentendo le urla provenire dalle persone all’esterno della limousine. I miei fan mi avevano aspettato...!

Non riuscivo a spiegare a me stessa la causa di tutto questo nervosismo – ero già stati agli Awards, ai Grammy, e avevo vinto già premi importanti e stupefacenti come “Best Rock Vocal Performance, Female”, “Best Female Video”, “Best New Artist Of The Year” – eppure ero... Nervosa. Tutta sotto sopra. Forse perché mi dovevo esibire davanti a tutti, cosa che ancora non avevo compiuto se non in tour del mio primo Cd “Breakaway”...
No, ero stata sempre così. L’emozione era quella, non si discuteva!

Sentivo i battiti possenti delle mani sulla limousine dei fan, di quelle persone che con un calore inestimabile urlavano a squarciagola il mio nome una volta e ancora un’altra volta. Sorrisi loro, nonostante l’agonia dentro di me, salutandoli con delicato cenno della mano, voltandomi da ogni parte per non lasciare neanche uno di loro a bocca asciutta.

Volevo bene ai miei fan, li amavo come loro amavano me, se non di più! Dovevo il mio essere là a loro, oltre che alle persone che avevano reso possibile quel sogno. Avevo così tanto bisogno di sentire il loro amore, di sentirmi chiamata con forti e striduli urli, poiché sapevo fossero una grande risorsa e forza per me e dentro me...!

«I tuoi fan ti amano a causa tua», disse improvvisamente Len. Mi voltai verso di lui, guardandolo come se mi avesse letta nel pensiero. Lo ritrovai che mi osservava con un sorriso soddisfatto. «Ringrazia anche te stessa e Dio per il grande dono che hai e che sei. Non è solo merito loro se sei qui, ma principalmente è tuo!»

Con imbarazzo tangibile – ero sempre senza parole quando qualcuno mi faceva un complimento, non sapevo mai cosa dire in quelle situazioni –, strinsi le mie labbra in un gesto secco, smorfia che assunse una strana specie di sorriso contratto e intimidito, e ritornai a salutare i miei fan portandomi una ciocca dei miei capelli lunghi dietro un orecchio. A quel gesto, le urla cominciarono a farsi più possenti, così tanto che ebbi paura che potessero spaccare i vetri dell’auto. Qualche volta avevo paura dei loro comportamenti troppo smaniosi e esagitati, ma erano comprensibili.

Man mano che ci avvicinavamo all’entrata dell’edificio dove, era chiaro, stavano per compiersi gli Awards, il fermento era palpabile anche nell’aria fuori da quell’abitacolo nel quale ero ancora rinchiusa. Lo sentivo muoversi nelle mie vene al posto del sangue, arrivare ad ogni capillare del corpo e navigarci e navigarci dentro insistentemente. Quelle emozioni erano le stesse provate anche agli Awards precedenti. Stessa agitazione, stessa adrenalina.
Delle guardie in nero cominciarono a difendere l’auto dagli assalti e, una volta fermata al tappeto che conduceva dentro l’edificio, il mio manager mi dette cenno di scendere. Con il cuore a mille, eseguii gli ordini, soffocando un respiro convulso, frattanto che il coraggio, invece che svanire, si faceva sempre più con vigore dentro la mia anima. Ero pronta per farmi valere. La fermezza non mi avrebbe abbandonato, non lo aveva mai fatto prima.

Ed eccomi scesa, il vestito sobrio ma elegante perfettamente indicato per la mia pelle ambrata, i miei occhi vacillanti sui fan e sull’entrata dell’edificio. Le grida erano in grado di riuscire a perforare la mia testa, ma mai quanto l’eccitazione; era come se mi fossi assunta di una sostanza stupefacente capace di inebriarmi i pensieri. Che magnifica sensazione, pregai perché non svanisse subito come il sonno...

Len, con una piccola corsetta, mi raggiunse dalla parte da cui ero scesa e mi prese il polso, dicendomi che era tardi. Al massimo qualche scatto di macchine fotografiche erano riuscite a colpirmi in viso, immortalandomi nelle foto delle varie fotocamere, poi niente. Non avevo neanche avuto il tempo di godermi la vista di quell’edificio, l’esterna edilizia... Pensai che, di sicuro, la prossima volta, non sarei di certo arrivata in ritardo!

Guidata e scortata da Len e alcune guardie del corpo e agenti verso corridoi e corridoi a me sconosciuti, giungemmo fino a dietro le quinte. Mentre venivo scortata verso il retro del palco, nascosta sotto gli occhi degli spettatori, notai con grande curiosità il daffare in cui erano coinvolte tutte le persone intorno a me. Da casa non puoi sapere quel che c’è dietro il lavoro di migliaia e migliaia di persone, e solo in situazioni come la mia potevi rendertene veramente conto. Ammiravo davvero tutte quelle persone che facevano il loro lavoro con assoluta discrezione e perfezione, scrutandole con attenzione e curiosità degna di una bambina piccola, nonostante fossi continuamente distratta dai truccatori di servizio intenti a sistemare il mio trucco.

«Cristo Santo, John...», disse Len col fiatone, non appena vide dietro le quinte un uomo che, per ovvietà di cose, conosceva bene. Magari era un tecnico... Non mi apprestai a chiedere niente, poiché ero troppo intenta a rimanere immobile per i truccatori. Non mi ero neanche accorta ci fossimo fermati da un pezzo in realtà. «Quanto manca prima dell’entrata in scena di Joy?»

Grazie al cielo avevo già fatto le prove di riscaldamento vocale in auto... Len si mise affianco del giovane uomo, il quale guardò me con sguardo attento – chissà perché, ma sembrava che tutti sapessero del mio ritardo eclatante, perfino il personale di servizio –, poi studiò una cartella che teneva in grembo, passando il dito fino in lungo e in largo fino a bloccarsi su un punto indefinito.

Nel frattempo che i due discutevano sottovoce fra loro, controllando la strana cartella, e mentre continuavo a guardarmi intorno nonostante il fastidio del pennello del fondotinta sulle mie guance, le mie orecchie furono attirate dagli applausi del pubblico al di fuori delle quinte. Ero così curiosa di vedere, a prima occhiata, chi ci fosse e che cosa si stesse discutendo. I miei occhi, incantati dall’enorme telo rosso che divideva il palco con i dietro scena, rimasero immobili anche quando un assistente di servizio mi porse l’acqua, porgendogli un “grazie” soffuso e lieve occhiata distratta non più lunga di due secondi.

Ogni volta sembrava la prima, quando ero in situazioni di salire sul palcoscenico. Forse perché ero abituata da solo un anno e poco più, o forse perché era un’emozione talmente unica che non poteva non ripetersi. D’altronde era così bello sentire il passare dei minuti scorrere lenti ed infiniti, in attesa di farmi vedere a tutti e fare quello che sapevo fare meglio: cantare. Cantavo perché amavo cantare. Come potevo fare una cosa che non amavo veramente?

Len mi si avvicinò a fianco e quasi non mi urlò nell’orecchio, dopotutto il casino che c’era intorno. «E’ ora, adesso tocca a te! Mi raccomando, dai filo da torcere a tutti i presenti e dagli da mangiare la tua polvere! Dimostra quello che veramente puoi fare e che possiedi!»
Io annuì, cercando d’ignorare quella eccitante emozione che mi faceva brillare gli occhi di combattività e coraggio. «Contaci, canterò con l’anima, come sempre! Non mi deluderò!»

«Questo volevo sentire!», esclamò con un sorriso gigantesco Len, porgendomi la mano in un’amichevole batti cinque e stretta d’incoraggiamento. Rivolsi i miei occhi verso il tendone e, non appena sentii gli applausi elevarsi nuovamente nell’aria, Len e altre persone sconosciute mi spinsero ad entrare. Ispirai ed espirai, poi mi feci avanti.

Gli applausi e le urla divennero possenti, miei fan che erano all’interno di quell’edificio gridavano insistentemente il mio nome in un canto scoordinato e imprevedibile. Con un sorriso entusiasta mi feci avanti vicino all’asta microfonica in mezzo al palco, accanto al pianoforte di soli pochi passi, posizionato accanto al ripiano dove i presentatori annunciavano i vincitori dei premi. Le grida continuavano ad andare avanti, ma io possedevo una voglia di essere lì che superava qualsiasi paura.

Forse qualcuno, se fosse stato là, mi avrebbe detto: “Ma come fai ad essere così temeraria? Non hai paura di tutte quelle persone?”. Io avrei risposto che non temevo niente e nessuno, fuorché me stessa nel deludere chi mi amava. Non avevo paura del palco, non ne avevo mai avuto paura, né temevo di mostrarmi davanti a tutti. Non avevo mai avuto timore di quest’idea – forse per questo ero sempre chiamata ai saggi di fine anno di scuola a cantare in teatro – e non mi sarei mai tirata indietro. Sul palco potevo essere chi ero, esibire un’energia che speravo potesse donare dei sentimenti a chi mi stava ad ascoltare. Quell’ansia che avevo provato fino a prima e che continuavo provare ancora a pochi istanti prima di cantare era solo pura e semplice adrenalina. Voglia di cantare.

Arrivata all’asta volsi il capo al piano, salutando con un cenno il pianista, Alan Johnsson, e di nuovo rivolsi il mio sguardo agli spettatori che ancora non avevano smesso di applaudire. Prima che potesse iniziare la musica, decisi che fosse meglio dire qualcosa come presentazione.

«Questa è “Beautiful Disaster”...», dissi con un sorriso emozionato, sapendo della luce di cui brillavano i miei occhi. Non scintillavano solo per le luci che illuminavano la mia figura e quella del pianoforte – dando un’aria di assoluta eleganza e raffinatezza all’ambiente – ma anche dalla felicità di essere là. Proprio lì, proprio in quel momento.

La lieve musica del pianoforte partì, proprio nell’attimo in cui la mia risata crebbe teneramente divertita per le reazioni del pubblico in sala. Abbassai gli occhi sul microfono e, preso un respiro, attesi il momento in cui partire.

«He drowns in his dreams , an exquisite extreme I know
He's as damned as he seems and more heaven than a heart could hold
And if I try to save him, my whole world would cave in?
It just ain't right ... It just ain't right»


Cantavo, pronunciavo quelle parole con devozione, con sentito sentimento proveniente dalla mia anima. Le mie palpebre abbassate, la voce che si modellava in modo perfetto al mio cuore e alla musica del piano, seguendo ogni sfaccettatura, ignorando quanto quelle parole potessero riuscire a commuovermi. Vocalizzai il ritornello, un’altra strofa di quella canzone scritta da me, in un giorno di tanti anni fa, nel tempo della mia passata adolescenza, quando ancora il mio mondo sembrava troppo oscuro per poter riuscire ad andare avanti.

Quando tutto sembrava essere in una dimensione di solitudine, di impotenza...

Per chi l’avevo scritta? Non lo sapevo nemmeno io. Erano parole che non avevano provenienza da alcuna esperienza se non dalle profonde segrete della mia anima. Frasi e sillabe che erano scivolate su un foglio a quadretti, scritte con grafia disordinata e dal colore blu, discorsi che potevano sembrare benissimo senza senso...

Forse con il tempo avrei capito, avrei inteso ogni parola. Forse mi sarei messa perfino a piangere, quel giorno. Avrei pianto per aver finalmente trovato la soluzione al dilemma, a quel pezzo di puzzle mancante al mio cuore. Un fragile e bellissimo frammento di cui necessitavo tanto, che se non controllato mi avrebbe portato al disastro.

«I'm longing for love and the logical, but he's only happy hysterical
I'm waiting for some kind of miracle waited so long
Waited so long...»


Applausi si levarono di nuovo dal pubblico, man mano che mi avvicinavo al margine del palcoscenico, e il mio cuore che cominciava a farsi più piccolo. Possibile che con una sola canzone le mie barriere avessero la capacità di rompersi?

«He's soft to the touch but frayed at the end he breaks
He's never enough... And still he's more than I can take...»

*


«Straordinario!», disse Len con sorriso a trentadue denti non appena arrivai nelle quinte, ad esibizione finita. Potei dire che anche il mio sorriso non era da meno del suo, e la contentezza anche, e con gesto impulsivo mi precipitai ad abbracciarlo. «Li hai fatti esultare tutti! Così si fa!...»

«Grazie, Len... Grazie!», dissi ancora abbracciata a lui, guardando con un enorme sorriso l’alto del soffitto. Lui mi prese il viso fra le mani e mi guardò con una ironica occhiata di rimprovero. «Ops, è vero... Devo ringraziare me...», risposi a quello sguardo con tono cupo e sardonico. Lui mi osservò e rise.

«Avanti, e ora a goderci lo spettacolo...», disse non appena una guardia mi pose la mia borsetta. Io ringraziai e, nel frattempo che Len mi scortava con una mano sulla spalla verso l’uscita da quel via vai di persone, il mio telefono prese a squillare. Lo capii perché sentii la musica che, per un altro attimo di sbadataggine, mi ero dimenticata di togliere.

Len si voltò ad osservare me e il mio traffico alla ricerca del telefono all’interno della borsetta, trafficando fra le varie cianfrusaglie disordinate e scombussolate. Quando lo ebbi fra le mani, purtroppo, smise di suonare. Sbuffai con impazienza e controllai i registri chiamate... Due chiamate perse, Ryan. Ryan...
Subito il mio cuore cominciò a palpitare d’agitazione, il timore m’attraversò le vene facendomi passare le peggiori pene dell’inferno che potessi mai provare, e lanciai un’occhiata preoccupata al mio manager. Non potevo ignorare quelle chiamate, dovevo richiamarlo. Poteva essere una cosa urgente, ma anche se non lo fosse stata non potevo deluderlo così... Ci tenevo troppo.

«Scusa, Len, ti raggiungo dopo... E’... E’ Ryan», dissi con il cuore a mille. Lui mi studiò con espressione d’improvviso compassionevole, ma ignorai lo sguardo e continuai a parlare a fremiti. «Magari ti raggiungo non appena danno la pubblicità, o più tardi... Davvero, scusa... Devo...»

Len mi sorrise dolcemente. «Stai tranquilla, farò attendere una guardia qua, frattanto che sarai al telefono, ad aspettare che finisca...», poi si guardò intorno e mi si avvicinò all’orecchio. «Alla mia destra c’è quella porta rossa che porta ai camerini e ai bagni delle star, ora di sicuro non ci sarà nessuno visto che sono tutti in sala. Ti conviene passare per di là».
«Grazie Len», dissi dirigendomi verso la porta da lui indicata con assoluta velocità. «Cercherò di non far troppo tardi, davvero»... E così mi diressi attraverso quella porta, lungo un infinito corridoio di marmo crema...

Il marmo era di perfette e lucide piastrelle, il corridoio illuminato da lampadari scintillanti di luce dal colore vagamente giallo, tappezzerie di lusso, e due cartelli al muro portavano a direzioni opposte. Non ci feci neanche caso, neanche mi sprecai di leggere le indicazioni, che il mio istinto mi portò a scegliere la strada alla mia sinistra. Intanto che detti un ultimo sguardo alla porta da cui ero entrata – nel tentativo di non scordarmela quando sarei tornata indietro – composi il numero di Ryan sul display del telefono. Oramai lo sapevo benissimo a memoria.

Mentre camminavo alla ricerca di un posto tranquillo – uno sgabuzzino, una toilette, qualunque cosa! – sentii dall’altro capo del cellulare qualcuno sollevare la propria cornetta. Un mancato battito insieme ad un sospiro trattenuto mi mancarono non appena lo sentii.

«Joy?», chiese la piccola voce con discrezione. Sospirai di sollievo. Per fortuna...
«Ryan, scusa se non ho potuto rispondere subito, davvero!... Ho appena finito di esibirmi ai Soul Train Awards, mi dispiace se mi sono dimenticata di dirtelo prima...». Ero preoccupata, ma il suo tono di voce sembrò placarmi.
«No, no, me lo avevi detto invece», rispose, per poi esclamare con tono entusiasta. «Ti ho visto, sei stata bravissima, mi hai commosso! Amo la tua voce...», mi disse con assoluta delicatezza.

Era un angelo, un angelo bambino. Un angelo che non aveva ricevuto giustizia dalla vita, che la malattia prima o poi avrebbe portato via... Il solo ricordo mi metteva una rabbia agonica, un’ira nei confronti del destino crudele, un dolore che speravo non arrivasse mai. Perché a lui? Perché a Ryan White?

«Oh, grazie», dissi con tono rotto dalla tenerezza e dalla commozione. «Ma così fai commuovere me... Davvero ti è piaciuta la canzone? Secondo te sono stata abbastanza capace?»

Con quelle parole d’improvviso timore, lasciai andare una soffocata nota d’imbarazzo fuoriuscire dalle mie labbra socchiuse, frattanto che i miei occhi viaggiavano alla ricerca di un angolo di pace. Quei corridoi sembravano non avere mai fine, o forse ero solo io che mi ero persa e non sapevo dove stavo andando.

«Sì, credimi! Almeno a me sei piaciuta tanto...». Attimo di silenzio. «Pensi che la prossima volta che ci incontreremo me la potrai cantare come hai fatto stasera?», chiese sottilmente. Parlare con lui rendeva tutto più puro, innocente... Come lui. Mi si fermò il cuore quando mi fece quella domanda.

«Certo, tutte le volte che vorrai...», dissi rallentando automaticamente il passo, fermandomi come uno stoccafisso in mezzo al corridoio. Per zittire l’angoscia dentro, dissi: «A proposito, che ne dici se un giorno di questi ci vediamo, ok?»
«Sì, mi piacerebbe molto! Aspetta...», soffocò rivolgendosi poi alla persona che, a rigor di logica, doveva essergli accanto. Attesi qualche istante, sentendo la voce fioca di Ryan risuonare piano nel telefono.

«Quando vuoi, Joy», concluse poi rivolgendosi di nuovo a me. «Questa settimana la scuola finisce domani, sarà l’ultimo giorno a causa di festività, perciò non ci andrò... Possiamo sentirci questo sabato, che ne dici?»
Sorrisi. «Senza dubbio! Adesso me lo segno nell’agenda... Non vedo l’ora!»
«Già, anche io...». Di nuovo un istante di pausa. «E proveremo a fare i biscotti al cioccolato come mi avevi detto?»
Mi sbilanciai in una risata divertita. «Certo, però sai che faremo il disastro, no? Al massimo manderemo a fuoco la cucina, se ci va bene... Poi però dobbiamo anche assaggiarli!»
«Ovvio, tutti e due!», esclamò con fare allegro ed entusiasta.

Andammo avanti a parlare del più e del meno per una mezz’oretta abbondante – il tempo sembrasse passare sempre troppo velocemente in quei momenti – ed entrambi raccontammo all’altro delle avventure del giorno; mi disse come andasse a scuola, che aveva fatto il pomeriggio, problemi che aveva riscontrato nei compiti per casa. Io feci lo stesso, dicendogli anche del rimprovero ricevuto per il ritardo prima dell’esibizione, e proposi di aiutarlo nelle materie in cui faceva più fatica. Ryan sembrò esserne tanto felice, e questo mise contentezza anche a me. Continuai a sorridere, ad ascoltare, a parlare con fluidità e dolcezza, con qualche sprizzo di felicità per renderlo più allegro.

Come un’idiota, mentre parlavo al telefono, mi ritrovavo a passeggiare piano e a volte veloce, avanti indietro senza una dannata meta, a volte fermandomi anche sulla parete del muro. Ignoravo gli sguardi strani che mi rivolgevano tutte le persone che passassero per la mia stessa strada, non guardandole neanche in viso e, per ovvio di cui, non sapendo nemmeno chi fossero.

Ad un certo punto, non appena sentii una voce femminile e bassa richiamare Ryan sottovoce, corrugai . Lui mi disse di attendere, poi dopo aver risposto – a quella che avrei dedotto fosse sua mamma – si rivolse a me amaramente.

«Senti, adesso devo andare a dormire Joyce...», mi disse tenue Ryan. «Domani devo andare a scuola...»
«Oh già, la scuola...», risposi con uno schiocco amaro sul palato. Mi dispiaceva concludere così presto... A volte ci stavo ore ed ore. «Allora ci sentiamo direttamente sabato, che ne dici? Verso che ora?»
«Oh, quando desideri tu, anzi aspetta...». Parlò con sua madre. «Verso le due, dopo mangiato. Così possiamo fare i biscotti con la calma, e guardare anche un cartone, o un film! Sarebbe bello!»
<br>«Sarà bellissimo», confermai con un sorriso mesto. «Ora però ti lascio, devi riposare per domani... Mi raccomando».
«Certo, a sabato Joyce»
«A sabato, ciao»
«Ciao...»
E la comunicazione finì.

Rimasi con il cellulare in mano, vicino al mio orecchio, senza contare il tempo che passava. Mille pensieri, aspettative, emozioni, mi attraversavano il cuore facendolo sobbalzare. Sapevo che quell’esperienza poteva provocarmi quasi lo stesso dolore di un tempo, ma lo stavo ignorando. Ho preso un rischio, me la sono voluta...

Dannazione a me. Stavo cominciando a pensare in nero. Soffocai un respiro convulso, dirigendomi di punto in bianco alla ricerca di una toilette. Avevo bisogno della mia immagine allo specchio, di vedere la persona indifesa che riuscivo ad essere solo in situazioni come quelle, in situazioni in cui ero di fronte all’innocenza di Ryan, alla sincerità di un bambino che non si sapeva nemmeno quanto sarebbe sopravvissuto.
Odiavo la malattia.

Aumentai passo per passo la mia andatura, finendo per far assumere alla mia “camminata” le sembianze di una corsa. Ignorai perfino le persone attorno, addirittura scontrandomi ad un certo punto addosso a due ragazzi. Non li guardai neanche negli occhi, seppi decifrare solo che uno era scuro di pelle e l’altro no. Soffocai un “Scusa” lieve, per poi dirigermi verso un corridoio a sinistra, dove - secondo quanto avevo visto dalle indicazioni al muro - c’erano le toilette.
<br>Stavo scappando da me stessa e dalle mie paure.

Arrivai alla prima porta che mi capitò alla vista e la aprii. Di sicuro la mia espressione si irrigidì, si trasformò in pietra, quando capii di essere capitata nella stanza sbagliata. Ero stata così <i>deficiente</i> da confondere le indicazioni?! Evidentemente quella era una risposta più che sufficiente, data la sbadataggine che si commentava da sola...
Bella figura di merda, soprattutto con la persona che mi stavo ritrovando di fronte. Già. Un idolo, la più grande diva del cinema dell’epoca d’oro, una persona brillante e grande donna... Dio, avevo di fronte a me Liz Taylor! Ero nel suo camerino! Con lei?!

La donna mi guardò subito con grandi occhi spalancati blu lavanda, esterrefatta, compreso l’uomo che le stava accanto, una persona dai capelli biondo castani e lunghi. Ella portava un abito nero, elegante, con magnifici disegni di rose rosse e viola su di esso, capelli a messa impiega perfetta; lui un semplice smoking nero, tirato a lucido.

«Mi dispiace, signorina, ma ha sbagliato camerino. Non può restare qua!», disse l’uomo con faccia seria. Lo guardai senza parole, a bocca sottilmente aperta, con una chiara ed evidente espressione da ebete che avrebbe fatto pietà a tutti! Cioè, non era facile ingranare la realtà dei fatti: avevo di fronte uno dei miei miti di sempre!

«Mi... Scusate... Pensavo di...». No, Joy, meglio non dire che avevi scambiato questa stanza per le toilette... «Scusate il disturbo, davvero...», ma non appena stetti per fare dietro front la voce di Liz Taylor mi bloccò come prima. Aiuto... Aiuto, aiuto... Stava davvero rivolgendosi a me o al signore?

«No, aspetta...», mi disse con un sorriso incuriosito, frattanto che fece un passo verso di me e io voltai il mio capo a scatti. «Tu sei la cantante di nome Joyce Owen? La stessa che sta facendo fuori tutte le classifiche di questo ultimo periodo?»
«Liz...», disse lui sottovoce, guardandola con occhi imploranti. Lei lo osservò senza emanare parola, bloccandolo con un gesto immediato del palmo aperto della mano destra. Dopodiché portò la chiuse a pugno e inclinò la testa, ancora con sorriso interessato, avvicinandosi verso me.

«Sì, sono io...», risposi alla domanda precedente a me fatta, a voce cauta e soffocata dall’emozione. Poi la mia fronte si aggrottò confusa. Strano che una diva del genere conoscesse una alle prime armi come me... Molto strano da comprendere più che da accettare.

Proprio mentre l’uomo stette per aprir nuovamente bocca, lei si propense a parlare. «Larry, lasciaci un momento da sole. Mi piacerebbe tanto scambiare qualche parola con questa ragazza, nel frattempo che attendo di salire sul palco», successivamente lo guardò con sguardo attento e osservatore. «Possiamo parlare una volta finito tutto».
Lui annuì e se ne andò a passo veloce, chiudendo la porta dietro di me lanciando un leggero “Arrivederci”.

Ora ero da sola nella stanza con lei, con quella donna tanto irraggiungibile quanto affascinante, che solo in pochi minuti mi ero trovata di fronte. Un sogno... Era tutto un sogno... Qualcosa non era come doveva andare, sarei dovuta tornare da Len, il mio manager, che di sicuro mi aveva mandato a cercare... Avrebbe pensato che mi fossi persa, o peggio, che sarei affogata nell’acqua del rubinetto della toilette...
Mi avrebbe sgridato se avesse saputo con chi ero veramente? Con la star con cui stavo per rivolgere parola?

«Joyce Owen... Sono molto grata di fare la tua conoscenza».




Eccomi qua, again :D Spero davvero che questa mia storia possa piacervi, e ammetto che è stata creata con immediata ispirazione! Chiedo scusa in anticipo se avete trovato qulche errore di tipo grammatico e lessicale, spero di aver usato un linguaggio abbastanza chiaro e conciso! Chiedo scusa anche per alcune pearole che vanno al di là del regolamento senza censura, se ci sono state... (Ma quando ci vuole ci vuole XD) Spero vi piaccia *W*

È difficile dir loro ciò che sento per te. Non ti hanno mai conosciuta, e non sanno come sei fatta. Come fanno a sapere il tuo mistero? Diamo loro un indizio.
Due uccelli sono su un albero. Uno mangia le ciliegie, mentre l’altro sta a guardare. Due uccelli volano nel cielo. Il canto di uno scende giù dal cielo come cristallo, mentre l’altro resta in silenzio. Due uccelli roteano al sole. Uno riflette la luce sulle sue piume argentate, mentre l’altro distende le sue ali invisibili.
Non è difficile capire quale dei due uccelli sia io, ma non riusciranno a capire chi sei tu. A meno che…
A meno che non sappiano cos’è un amore che non interferisce mai, che guarda da dietro, che respira libero nell’aria invisibile. Dolce uccellino, anima mia, il tuo silenzio è così prezioso. Quanto passerà prima che il mondo possa udire il tuo canto col mio?
Oh, come bramo quel giorno!


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