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"Lifes' Fragments - When Everything Change". Terminata: 8 capitoli (brevi racconti). Rating: arancione

Ultimo Aggiornamento: 12/07/2010 12:17
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16/11/2009 16:20
 
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The Essential Fan
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3 CAPITOLO
3. BEN

Ben, the two of us need look no more
We both found what we were looking for
With a friend to call my own
I'll never be alone
And you my friend will see
You've got a friend in me
(You've got a friend in me)

Ben, you're always running here and there
You feel you're not wanted anywhere
If you ever look behind
And don't like what you find
There's something you should know
You've got a place to go
(You've got a place to go)

I used to say, "I" and "me"
Now it's "us", now it's "we" (X2)

Ben, most people would turn you away
I don't listen to a word they say
They don't see you as I do
I wish they would try to
I'm sure they'd think again
If they had a friend like Ben
Like Ben
Like Ben


Dicono che il destino non esiste… e do loro ragione. Ma a volte succede qualcosa che ti fa cambiare idea. Tipo quando lo vidi per la prima volta; non potevo credere che fosse accaduto tutto per caso. Quando ascoltai per la prima volta il Re del Pop mi trovavo nel pancione della mamma. Quando tremai per una sua canzone avevo poco più di quattro anni. Quando Michael Jackson entrò nella mia vita… beh, semplicemente non sapevo che era lui.

Mia madre aveva in mano un pezzo di stoffa nera. Lo manteneva solo con due dita, il pollice e l’indice, come se ne avesse paura.
Mio padre era… spaventato. E anche stupito. Sì, o almeno credo. A dieci anni non riesci a decifrare tutte le emozioni della gente…
Io guardavo la scenetta da dietro la porta della stanza da letto dei miei; non capivo nulla di quello che stava accadendo, ma sentivo che quella situazione non era molto bella… era come se avessi un qualcosa dentro di me che mi sussurrava: “Scappa… andrà a finire male…”.
Ma per qualche insolito motivo decisi di restare. E non mi pentirò mai della scelta che feci quel giorno.
-Cosa ci fa questa nel mio letto?-, mormorò mia madre indicando lo strano oggetto che aveva in mano. Solo allora mi accorsi che era una mutandina di pizzo nero. Ma perché era così arrabbiata? E perché papà stava sudando così tanto?
-Hannah… lasciami spiegare…-, disse lui, avvicinandosi a lei e posando le sue mani sulle sue spalle. Lei si scostò.
-Voglio sapere cosa cazzo ci fa questa mutanda nel mio letto-, ripeté.
Ma prima che lui potesse rispondere, mia madre iniziò a gridare.
-Come hai potuto? Hai una famiglia a carico! Un figlio! E hai preferito portarti a letto un’altra!-.
Trattenei il respiro.
-I…io… mi dispia…-.
-Non dire quella parola! Se davvero eri “dispiaciuto” non ti scopavi una puttana!-, lo interruppe lei.
-Non gridare, ti prego…-.
-No, io grido quanto mi pare e piace, invece! Che tutti sentano! I vicini, l’altro quartiere, tutta la città… tutti devono sapere che sei uno STRONZO!-.
Iniziò a prendere a calci la poltrona e il letto.
-Ferma! Ferma, cosa fai?-, urlò mio padre. L’agguantò da dietro, ma lei si liberò dalla stretta e lo spinse verso la porta.
-Via! Via da qui! Non ti voglio più vedere qui! Tu. Non. Sei. Mio. Marito!-, disse, mano a mano che lo portava fuori dalla stanza da letto.
Mi scostai evitando per un pelo di essere travolto da mio padre, che cadde con la faccia a terra. La porta si rinchiuse. Io rimasi a fissarlo ancora per qualche secondo, guardandolo alzarsi a fatica e sospirare di resa. Poi i suoi occhi incontrarono i miei.
-Michele…-, sussurrò.
Mi voltai e mi avviai verso la porta d’ingresso.
Sentii mio padre gridare, e subito dopo la sua stretta. Mi aveva preso prima che potessi raggiungere l’uscita. Non ricordo quello che mi disse: pensavo solo a staccarmi dalla sua stretta, perché per lui provavo solo odio.
Riuscii a scrollarmelo di dosso e aprii la porta di casa. Uscii fuori e iniziai a correre. Corsi fino a star male, fino a non sentire più le gambe, pur di andare il più lontano possibile da quella casa.
Avrei continuato a correre per ore, ma mi fermai. Mi guardai indietro. Di mio padre nessuna traccia.
Tirai un sospiro di sollievo e alzai gli occhi. Di fronte a me si ergeva in tutta la sua imponenza il Colosseo.
Cavolo, ero arrivato fin lì? Da casa mia al monumento ci voleva come minimo un quarto d’ora… a piedi… ah, allora non avevo fatto molta strada.
Sospirai e mi sedetti su una panchina.
Mio padre aveva tradito mia madre. Non sapevo bene cosa significasse, ma di sicuro era una cosa cattiva se aveva fatto piangere mia madre. Rividi quelle guance bagnate quando disse a mio padre di andarsene… presi le ginocchia fra le mani e vi immersi il volto.
Poi, inaspettatamente, sentii un tocco caldo sulla spalla.
-Why are you crying, child?-.
Alzai la testa e vidi tre uomini davanti a me. Uno aveva i capelli biondo scuro e occhi azzurri, l’altro era moro e l’altro ancora aveva i capelli corti biondo platino e portava un berretto e gli occhiali da sole.
Scossi la testa.
-You don't understad me, right?-, mi chiese quello col berretto. Solo allora mi accorsi che la sua voce era tenera e cristallina come quella di un bambino.
-Vi capisco-, risposi in inglese. –Non preoccupatevi, sto bene-.
-Non mi pare. Stai piangendo-, mi fece notare il tizio che aveva parlato prima.
Mi asciugai in fretta le guance.
-No, queste non sono lacrime!-, risposi.
-Certo… è pioggia, giusto? A fine giugno è normale-, disse ironico.
Abbassai la testa.
-Che volete da me?-, gli chiesi.
-Eravamo preoccupati, tutto qui. Ti abbiamo visto… ehm… bagnato per colpa della pioggia e ho pensato che sarebbe stato bello se ti avessi dato un ombrello-.
Lo guardai stupito.
-Eh?!-.
-Okay, parlo normalmente, però non ti lamentare. Ti abbiamo visto piangere e abbiamo pensato che sarebbe stato bello se ti avessimo… consolato-.
Sorrisi.
-Grazie mille, ma adesso passa tutto-, risposi.
-Sicuro?-.
Annuii.
-Grazie-, dissi di nuovo, e mi alzai dalla panchina.
Li sentii borbottare fra loro.
Non capii quello che dicevano, ma per un attimo mi parve di sentire il mio nome.
Mi voltai.
-Mi avete chiamato?-, chiesi, e li vidi scambiarsi occhiate strane.
-No…-, rispose quello moro.
-Non avete detto Michele?-, domandai dubbioso.
Quello con il berretto aveva un’espressione strana.
-Ti chiami Michele?-, mi chiese.
Annuii.
Lui sorrise.
-Il mio cantante preferito si chiama come te! Michael, però…-, disse.
Gli occhi mi luccicarono.
-Non dirmi che stai parlando di Michael Jackson! Perché anche a me piace tantissimo! Sono fiero di chiamarmi come lui!-, esclamai tutto d’un fiato.
Le due persone dietro s’irrigidirono e il tizio sorrise; chissà perché, ma per un attimo ho creduto che fosse felice.
-È bello vedere come un cantante così conosciuto possa piacere anche ai bambini-.
-Ma a tutti piace! La sua musica entra nell’anima! O almeno, è quello che mi dice mia madre…-, dissi io, e per un attimo ricordai perché ero scappato. Stavo per piangere di nuovo, quando sentii di nuovo la voce del tizio col cappello.
-Anche tua madre è una fan di Michael Jackson?-.
Annuii, frenando le lacrime.
-E mio padre. Si sono conosciuti ad una festa e hanno scoperto di avere gli stessi gusti musicali. Mia madre si trovava in Italia da due mesi, e conosceva solo la ragazza che aveva fatto la festa. Mio padre, che sa parlare bene l’inglese, l’aveva vista sola e le aveva fatto un po’ di compagnia, e così…-.
-Ah, allora tua madre non è italiana… ecco perché sai parlare così bene la nostra lingua!-, esclamò lui.
-Sì, infatti, è americana. Viene da Phoenix-.
Lui fece un cenno con la testa. –Arizona… ci sono stato un paio di volte. È molto bello lì-.
-Mia madre me lo dice spesso. E voi di dove siete?-, chiesi, curioso.
-Di Los Angeles-, rispose il moro.
Rimanemmo un po’ in silenzio, fin quando il tizio col berretto mi chiese: -Ti va un gelato?-.
Lo guardai per un attimo. In fondo non c’era niente di male, no?
-D’accordo. Grazie-.
-Ah, comunque mi chiamo Thomas-, disse lui.
Gli sorrisi e lo presi per mano.
-Piacere di conoscerti, Thomas-, risposi, e ci avviammo al chiosco.

Il Colosseo era un monumento sensazionale. Era enorme, stabile… in tutti quegli anni era rimasto in piedi per infondere paura e timore ai nemici e a farsi ammirare da coloro che venivano in pace nella sua terra.
Desideravo da anni di venire a Roma e poter dire che anche io, il famoso Michael Jackson, ho visto il Colosseo e sono rimasto colpito dalla sua grandezza e dalla sua magnificenza. Era come se mi fossi prostrato davanti a lui e gli chiesi di rendermi grande, forte e coraggioso, e di farmi vivere per sempre proprio come lui. Eterno, saldo e capace di infondere ammirazione fra gli animi di tutte le persone. Ecco come mi immaginavo. Ma in quel periodo le cose non andavano proprio a meraviglia. E non si trattava dei dischi, “Bad” in pochi mesi aveva raggiunto le milioni di vendite… anche se non avrebbe mai superato “Thriller”. No, il problema era un altro. Il problema era che da quando avevo cambiato colore della pelle i tabloid non facevano altro che attaccarmi. Approfittavano di ogni mia minima azione per ingigantirla e trasformarla in articolo di prima pagina, per cui dovevo stare molto attento a quello che combinavo.
Ma quella volta era diverso. Io dovevo andare a Roma. Lo dissi categoricamente ai miei produttori, e loro non ebbero nulla da ridire. Restava solo da decidere come sarei sopravvissuto a Roma. Se i miei fans lo avrebbero scoperto addio giri turistici, benvenuti al bagno di folla e all’orda di giornalisti. Per cui, avevamo attuato un piano di riserva: mi sarei travestito.
Ci volle meno di un’ora per fare in modo che i miei tratti somatici cambiassero con il trucco. Poi indossai altri accessori, in modo da rendermi praticamente irriconoscibile.
Per tutta la mattinata non ci fu alcun problema, e finalmente riuscii a vedere il Colosseo. Mi guardai attorno per cogliere ogni minimo particolare di quella città stupenda, quando vidi un bambino dai capelli biondi rannicchiato su una panchina con la testa fra le ginocchia.
Senza fregarmene delle due guardie del corpo accanto a me, mi avvicinai a lui. Solo allora mi accorsi che singhiozzava.
No, perché sta piangendo?, pensai.
Non sapevo cosa fare, anche perché molto probabilmente era italiano e non capiva l’americano…
Oh, ma che t’importa, Michael? Sta piangendo! Ed è solo un bambino!
Così mi feci coraggio e gli chiesi con un filo di voce: -Why are you crying, child?-.

-Allora, quale gusto vuoi?-, mi chiese Thomas.
-Ehm… io non ho soldi…-, mormorai imbarazzato.
Lui mi guardò stupito. Poi mi sorrise. Ma perché mi sembravano così familiari quei gesti?
-Secondo te ti faccio pagare un gelato? Ad un bambino? Naturalmente te lo offro!-, esclamò. –Quindi? Il gusto?-, aggiunse.
Stetti un attimo a pensare se era il caso o no. Di certo non potevo tornare a casa, non volevo rivedere il volto triste di mia madre. Ma i miei genitori mi ripetevano sempre: -Non accettare mai nulla da uno sconosciuto!-. Però… era strano, non riuscivo a spiegarlo… eppure, mi sembrava che conoscessi Thomas da una vita, sebbene durante il tragitto fino al chiosco io abbia parlato solo di me. Sospirai.
-Tiramisù e nocciola-, risposi. Poi, dopo una breve pausa:-Con la panna-.
Thomas mi guardò divertito.
-Ah, allora non sei poi così timido!-, rise lui.
Sorrisi fingendo di essere imbarazzato e mi misi le braccia dietro la schiena.
Vidi Thomas che si avvicinava a me correndo e mi spaventai. Poi mi abbracciò.
Io ricambiai la stretta e ridemmo entrambi. Mi trovavo proprio bene con lui: saremmo diventati ottimi amici, lo sentivo.
-Perché piangevi prima?-.
Eravamo seduti su una panchina non lontana dal chiosco con i gelati in mano – a parte i due amici strani di Thomas che stavano in piedi e si guardavano attorno come se stessero cercando qualcuno.
Abbassai la testa.
-Nulla…-.
-Se è qualcosa che ti fa soffrire, scusami. Però io credo che ti servirebbe proprio sfogarti con qualcuno. Ovvio, se non vuoi parlare nessuno ti costringe-, disse Thomas.
Lo guardai e vidi il mio riflesso nei suoi occhiali.
-Sono scappato di casa-.
Non disse nulla.
-Mio padre ha tradito mia madre-, continuai.
-Ah-, disse solamente.
-Non so bene cosa significhi…-, mormorai pensieroso, -…ma mi sa tanto che non è una cosa bella…-.
-No, infatti-, rispose Thomas. –Ma sono convinto che tutto si sistemerà-, aggiunse, rassicurante.
Annuii.
-No, non piangere…-, mormorò asciugandomi una lacrima. Poi si batté la testa con una mano. –Ah, già! È pioggia, vero?-, domandò sorridendo.
Risi.
-Visto? Sono riuscito a farti ridere!-, esclamò trionfante.
Gli feci una boccaccia e lui iniziò a farmi il solletico.
-No! No, ti prego!-, lo implorai fra una risata e l’altra.
-Ah, lo soffri?-, e continuò più veloce.
-Sì! Ti prego, smettila!-.
-E tu promettimi che non piangerai più!-, esclamò.
Non riuscivo a parlare, mi stavo soffocando. Lui fraintese il mio silenzio in un segno di testardaggine e iniziò anche a pizzicarmi.
-NO! Lo prometto! Lo giuro!-.
-Cosa giuri?-, domandò lui senza fermarsi.
-Giuro che non piangerò più!-, gridai alla fine, esasperato.
Mi lasciò.
-Bravo. Così si fa. E mi raccomando: mantieni la tua promessa, altrimenti verrò a punirti fin dentro casa tua-.
Annuii.
-E adesso torna a casa, perdona tuo padre e sta’ vicino a tua madre, ha bisogno di te-, mi disse.
Abbassai la testa, ma non piansi. No, gli avevo promesso che non l’avrei fatto.
-D’accordo-, e lo abbracciai.
Lui mi accarezzò la schiena e i capelli.
-Adesso siamo amici?-, gli sussurrai all’orecchio.
-Fin quando mi vorrai accogliere-, rispose.
Non capii la sua risposta, ma non ci pensai più di tanto. Thomas mi capiva e mi voleva bene, e saremmo rimasti attaccati anche se lui viveva lontano. Avevamo trovato entrambi ciò che cercavamo: un amico vero. E io non l’avrei mai tradito.

-Michele? Michele, è per te!-.
Mia madre mi chiamava dalla cucina. La sua voce era più viva, più rilassata. Da quando lei e mio padre avevano divorziato si sentiva più serena. C’era stato un periodo in cui credevo che non avrebbe mai superato il dolore, ma mi sbagliavo: ormai stava bene. E io anche. Era passato qualche mese dall’incontro con Thomas, e l’unica notizia che avevo da lui era una lettera in cui diceva che era appena partito e che voleva sapere se stavo bene.
Io gi risposi di sì, che ormai i miei stavano per divorziare, che soffrivo – quello è ovvio – ma che non ho mai pianto, perché gliel’avevo promesso.
Aspettavo con ansia qualche sua notizia, ma non era arrivata nemmeno una cartolina. Col tempo ho cercato di non pensarci più, ma ogni mattina mi svegliavo con la speranza di trovare nella cassetta della posta una sua lettera, o foto, o anche uno straccio di carta con la sua firma. L’importante era sapere che stava bene.
Quando mia madre mi chiamò non pensai a nulla. Tuttavia, quando la vidi con un pacco in mano, mi incuriosii. Me lo porse e io guardai il foglietto attaccato sopra. C’era scritto “Los Angeles”.
Trattenei il fiato rumorosamente e presi velocemente un taglierino dal cassetto alla mia sinistra. Aprii il pacco e guardai dentro.
C’era carta.
La tolsi.
Cellophane.
Tolsi anche quello.
Poi lo vidi.
In fondo alla scatola c’era qualcosa.
Un altro pacco.
Lo presi e lo aprii tremante.
C’erano due pezzi di carta e un rettangolo incartato.
Guardai prima i pezzi di carta.
E mi si fermò il cuore.
Erano due biglietti per la prima fila al “Bad Tour” di Michael Jackson a Roma.
Aprii il rettangolo.
C’era la figura di un uomo con i ricci e addosso una giacca nera di pelle con borchie varie.
Il vinile di “Bad”.
Lo girai.
Sul retro era appeso un biglietto. Quando lo lessi, iniziai a piangere.

Al mio fan numero uno,
a cui ho offerto un gelato ai sensazionali gusti tiramisù e nocciola con panna.
Con l’augurio che ora non soffra più e che
Verrà a trovarmi al mio concerto.
Un bacio, il tuo grande amico
Thomas / Michael Jackson


Strinsi a me quei meravigliosi regali mentre piangevo di gioia e mia madre mi abbracciava.
Sì, grazie a lui quel frammento di vita stava per cambiare. Per sempre.



Beh... so che è breve... ma spero che vi sia piaciuto lo stesso...
X BEATIT81: Grazie mille per i complimenti!!! [SM=g27821]
Un bacio a tutti voi e... GOD BLESS YOU!!!! [SM=g27817]
[Modificato da MichaelInTheHeart 16/11/2009 16:24]


Michael Jackson, l'unico Re che meritava di essere studiato nei libri di storia...
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