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La mia classifica dei migliori artisti anni 90'.

Ultimo Aggiornamento: 30/10/2012 19:12
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18/02/2012 03:16
 
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continua [169 - 136]


169.Faith No More - "Ashes TO Ashes [1997]
I Faith No More sono un gruppo che è passato attraverso una sorta di crisi generazionale del metal e, percorsa la discesa in ade, è tornato eroicamente in superficie in possesso della risposta che tutti i fan del genere si attendevano. Qui, per le ragioni di una lista generalista ed appetibile a chiunque, non c’è alcuna deriva di rock “pesante”, ovvero provvisto di sonorità disturbanti un pubblico che per ragioni di vicinanza temporale (e quindi lontananza culturale) difficilmente può amare i FnM di primo acchito. Ho quindi scelto un pezzo da un album “maturo” ( “Album Of The Year” è del ’97), ricco di influenze di ogni genere e non più definibile di settore. Il suono di questa “Ashes To Ashes” mi sembra apprezzabile da tutti; anzi, a 15 anni di distanza dalla sua uscita mi sembra un linguaggio non solo già sentito ed archiviato, ma perfino messo in soffitta per fare posto al nuovo. E’ una sorta di suono sinfonico costruito sulle ceneri, appunto, dell’hm, dove ci sono piani sonori diversi e i power chords servono solo a sottolineare con enfasi la melodia, espressa in poche battute ma di impatto. Rimane il grandissimo talento di Mike Patton, un nome destinato a rimanere immortale per il progetto Fantomas, uno degli eventi musicali più importanti a cavallo alla fine degli anni ‘90.

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168. Six Organs Of Admittance – "Eight Cognition"
Psychedelic-folk, ovvero e genericamente, un alt-folk immerso in un clima da lo-fi pauroso. Indipendentemente da ogni valutazione oggettiva di tipo artistico, qui per me si tratta di una forma trascendentale di musica di genere; si tratta di un approdo ad una sponda abbastanza ignota dell’estasi rurale espressa con una chitarra acustica. Qui purtroppo non riesco a mostrare video dei SOoA dei 90’s perché del tutto assenti sul tubo e quindi devo mostrarne uno dei 00’s. Ma il linguaggio utilizzato è lo stesso. Si tratta di un arpeggio etereo, un salmo raccolto, una confessione metafisica recitata con un timbro incerto. Se all’inizio un pezzo del genere può sorprendere e forse non piacere, ricordo che si tratta di una forma espressiva che conia litanie ed atmosfere di per sé in grado di aprire nuovi orizzonti: qui è un bozzetto sempice, ma Ben Chasny è capace di muoversi lungo del tutto irregolari con ritmiche destrutturate, sperimentali, affossando il genere in meandri davvero originali. In altre parole ancora, ci si deve abituare (oserei dire sempre di più man mano che procede verso l'alto questa lista) ad abbandonare l'attenzione normalmente data alla melodia nell'ascolto di un pezzo e procedere ad una valutazione d'insieme, come magari siamo abituati a fare per un quadro espressionista, dove la visione d'insieme trascende completamente ciò che appare ictu oculi.

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167. Flaming Lips – “A Spoonful Weighs a Ton” [1999]
In quest’area espressiva di questa lista [170-150], diciamo di sperimentazione, forse per il fatto che si tratta di sonorità che non sono riuscite ad avere il successo che si meritavano, non riesco a trovare molti video. Per i Flaming Lips non ne trovo uno che sia uno. Comunque sia, i Flaming Lips fanno un collage di suoni diversi, spiazzanti e geniali, che necessitano di un ascolto attento per potersi apprezzare a pieno. Al limite del novelty, seduti nell’empireo dei pazzi improvvisatori e dissacratori del rock (e quindi accanto a Zappa in primis), i FS distruggono sistematicamente il pop, lo fanno a pezzi e lo ricompongono sarcasticamente. Ritenendo il pop un genere fumettistico buono per le masse in cerca di divertimenti paragonabili ai cartoni animati, si riportano a melodie semplici, talora ignobili, divertendosi a distruggerle con stacchi dissonanti oppure sferzate di rumore improvviso. Ancora, non paghi di tutto ciò, i FS amano irrompere nella quiete sonora in modo brutale, oppure si dilettano nel produrre veri e propri dispiaceri acustici divagando alla ricerca di armonie impossibili e possibilmente lancinanti. Qui cantano "live" un pezzo da un ottimo album del 1999, “Soft Bulletin”, davanti ad uno screen che proietta i Teletubbies, stonandolo il giusto; del resto, è impossibile canticchiare a mezza voce come fa Wayne Coyne ad ottave così alte. Purtroppo, per motivi di ripresa e di qualità sonora amatoriale del video non viene resa l’incredibile forza che ha l’originale su disco.

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166. Scott Walker - “Tilt” [1995]
Scott Walker è il paradigma della conversione di un artista di successo (negli anni ’60) il quale, una volta persa la patente per il circuito mainstream, legato (perfino giustamente) all’esigenza del profitto ad ogni costo, ha deciso di riprovare un tragitto che risale la china di percorsi un po’ più cupi ed inquietanti. Un californiano trapiantato in europa e con la vita turbolenta, depresso ed incline a farla finita, questo è Scott Walker, una sorta di Tenco con qualche grado di febbre in più (od un Lanegan finalmente compiaciuto di perdere del tempo in sala di registrazione per cantare). Nei 90’ ha fatto un più che pregevole album d’atmosfera, questo “Tilt” [1995], che è denso di tristezza, rimorso, passione per ciò che è insano e nessuna paura di inscenare un melodramma. “Tilt”, che è anche la titletrack, ha un certo impatto (anche se, forse e proprio per questo, è un episodio musicale minore dell’album di riferimento) perché ostenta le peggiori qualità di un certo crooning al quale SW si riconduce. Una ballata macabra, con chitarre disarmoniche che producono suoni destabilizzanti e su tutto un canto ipnotico, esagerato, angosciante, psicotico, il quale conduce per mano il pezzo al termine in un commiato di dissonanze e feedback.

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165. Thin White Rope - “Yoo Doo Right” [1990]
“Sack Full Of Silver” [1990] è un album eccezionale, c’è di tutto qua dentro, davvero, un elenco lungo come la lista dei generi stessi delle varie declinazioni del pop. Purtroppo (o per fortuna) quello che manca completamente in quest’album è un singolo di successo, capacità non in dote ai TWR. In breve: facevano country-rock venato da psichedelia, new wave e con un’inclinazione ambientale per cui il suono si colora del paesaggio fatto di ampi spazi desertici con vibrazioni ed influenze perfino esotiche. Densamente ritimico, è cantato con verve ed impeto nonché con intenzione di stupire, ed ogni bozzetto è un episodio a sé. “You Doo Right” ha l’impatto tipico di una batteria e un basso a frequenze minime che partono tracciando un profondo solco sul quale si insinua la voce ispirata, rauca e tremolante che ricorda da vicino un vodoo-act. Il pezzo prende forza dopo un 1:50, quando si libra la prima chitarra la quale sta in aria tanto da costituire un’anticipazione di quello che sarà l’esito finale del pezzo. A 2:40 scoppia infatti l’ira di Guy Kyser ma il solco blues è troppo forte ed il pezzo ritorna sul loop iniziale. Oltre 6 minuti di visioni e di un battito tribale che, nel paesaggio evocato, pare sonorità esotica (nella fattispecie mi ricorda un deserto con tanto di poliritmia indiana).

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164. Afghan Whigs - “My Curse” [1993]
GLi Afghan Whigs erano roba che scottava nei ’90 e sono tra I pochi gruppi che quando hanno dato corso ad un cambiamento di line up… hanno davvero dato vita ad un nuovo corso. Devo infatti precisare che il pezzo in epigrafe non è indicativo della produzione degli AW ma solo della loro poliedricità. Mutanti a seconda del tempo ma sempre rigorosamente anticommerciali, hanno spaziato fra generi diversi. Se all’inizio l’Album “Up In It” [1990] forniva una chiara idea del garage-rock dell’Ohio da dove provenivano (sentire questo breve stomp “Amphetamines and Coffee" per farsi una belllissima idea) sono passati presto ad un suono sofisticato, ricco di suggestioni diverse, cedendo lusinghe di suoni complessi forniti da strumenti prima inutilizzabili per precisa scelta di campo (archi, piano, mellotron). Quindi “My Curse” (da “Gentlemen”, 1993) è la "Gone Too Soon" degli AW, se mi permettete un parallelo Jacksoniano, magari mi sbaglio: un pezzo epico, lento quello che basta, costruito su melodie che vagano nell’etere alla ricerca di un percorso preciso tra le migliaia che il canto onirico ed impreciso della cantante in prestito dagli Scrawl (Marcy Mays) lasciava possibile intravedere.

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163. Julian Cope – “Upwards At 45C°” [1992]
Piccola digressione: Julian Cope non è un autore o un cantante. E’ un professore di teoria musicale, di filosofia, di qualcos’altro ancora ed il tutto applicato al rock. Ok, lo si vedrà vestito più rocker di Ron Wood, ma è davvero un intellettuale e studioso di musica rock. E’ -se mi è permesso- da sempre una delle mie più grandi influenze tanto in ciò che dice quanto in ciò che fa, tremendamente profondo in ogni sua produzione. Credo addirittura di essermi avvicinato a certe stravaganze nella mia vita condotto da visioni Copeane, quali quelle rese da “Jeovahkill” [1992], un album da consigliare francamente a tutti fuorché, per evidenti motivi, a quelle signore (di solito strafighe, segno dell’esistenza certa di dio) che mi fermano per strada chiedendo cosa ne penso dell’apocalisse e che mentre sparo una risposta a caso mi danno la torre di guardia (un giornale che ha il merito di avere all’interno fumetti in stile anni ’50, con scene di vita anni ’40, con risposte a domande incredibili, tipo “perché vi saranno 322 persone nel giardino dei giusti secondo Ezechiele e tutte con un pacchetto di olive in mano?”). Mi dimenticavo di parlare di Cope... Be’ un album meditativo, assolutamente destabilizzante, mistico, psichedelico, un enorme mantra salmodiale, cantato, rectius narrato, con il solito fervore mistico da JC. Va detto che la prova eccellente per antonomasia di JC è “Peggy Suicide” del 91, qui esemplificata con ballate lisergiche, tipo "Pristeen", oppure un vertice assoluto di psichedelia, vera e propria epitome di specie, quale la mini-suite "Safesurfer" Per concludere: ho scelto “Upwards at 45°C” …mah, per motivi personali innanzitutto, ma credo che mai come in questo pezzo JC sia allucinato e posseduto dal caos che trascina il pezzo in un vortice sonoro, alterandone il tempo e prendendo la piega che ci si aspetta da questo bardo di Liverpool. Visioni sonore, un paesaggio evocato (desertico), un canto allucinato, psicotico, una temperatura di servizio (45°C) spossante, strumenti utilizzati talora inconferentemente (il basso serve solo per creare battiti irregolari, lunghe pulsioni senza capo né coda, oppure -al termine- trascinare il tutto nel gorgo di tastiere impazzite). Anche gli arpeggi se ne stanno pericolosamente sullo sfondo finché non si decide di fare partire il pezzo a 3:45 verso la sua logica e tragica conclusione.

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162. Idaho - "Creep" [1993]
Gli Idaho sono californiani che suonano nel filone del sad-core, qui presi dall’album “The Palms” [1993]. Si tratta di un genere che fa dello spirito catatonico dei versi e dell’esplosione liberatoria del chorus la propria bandiera. Gli Idaho sono però più sad-core che slo-core e quindi percorrono ballate dark con un certo beat, piuttosto che abbandonarsi all’estasi dei suoni lunghi ed indolenti dei Codeine, Low e compagnia bella. “Creep” è certamente lugubre abbastanza per essere mandati via da un party, se avete la sfortuna di portarvi dietro il cd e qualcuno dice “dai perché non sentiamo un po’ della tua musica?”, quantomeno per bollarvi per sempre come antisociali: questo è l’effetto ed il merito di una musica leggermente isolazionista, dal mood statico e depresso. La voce, peraltro, ha il merito di essere inespressiva quel tanto per cui non stanca mai ed interpreta perfettamente il drone chitarristico. Le trame di chitarre non occupano mai completamente lo spazio sonoro, complice una robusta batteria, ma ne prendono piuttosto possesso, rendendo spettrale e macabra la quieta danza. Veri e propri scatti verso l’ignoto sono le esplosioni del chorus, pessimamente interpretate (ma è un bene) dal cupo Jeff Martin alla voce.

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161. Shannon Wright - "Pale White"
Trovare un video di Shannon Wright sul tubo è come vincere la lotteria, pazienza: anche qui non sono riuscito a trovare nulla dei ‘90s. Si tratta di un’artista sofisticatissima vicina al chamber-pop, anche se agli esordi era partita da un suono minimale, pur con un album imperdibile quale “Flight Safety” [1999]. Qui pertanto, fuori decade (se riuscite a trovare “All These Things” del ’99 rendete un’opera di giustizia), c’è un video che documenta la collaborazione con il folksinger francese Yann Tiersen; da questa collaborazione sono nate alcune eccellenti vignette sonore che ricordano (ma senza raggiungere) un certo Andrew Bird e, anche qui, scusate se è poco. “Pale White” è il classico esempio di pezzo pop erudito, purtroppo ancora troppo legato alla forma canzone, ispirato ad un classicismo che allontana l’esecuzione dalle origini. Ma ci sono influenze di ogni tipo per questa cantante, perfino qua e là qualche vento di dissonanze, sempre mantenuto nei binari e non lasciato prevalere; in altri pezzi si spinge tra lied e blues strazianti. “Pale White” è un pezzo aggraziato, raccolto, reso vibrante dagli archi ma mantenuta gelido dal tono sognante e distaccato di SW.

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160. Hood - S.E. Rain Patterns [1998]
Gli Hood sono ostici, soprattutto in quest’album “Rustic Houses Forlorn Valleys” [1998], caratterizzato dalla presenza di suite lunghe e complesse, a carattere atmosferico, completamente disinteressate all’aspetto melodico. Gli Hood sono di impossibile catalogazione, tra post-rock e psychedelic lo-fi, in un superamento costante dei generi. Qui indico tre pezzi anziché uno perché si tratta, come dire, di evocazioni diverse: tutti brani suggestivi e peccato che il brano scelto, a parte un video che farebbe felice Enrico Ghezzi, mi pare una riedizione dell’originale molto più lungo e strutturato. "Diesel Pioneers" invece presenta un nenia costituita da un lamento sgraziato ed inquietante; "The Light Reveals The Place" è invece un contenitore destrutturato ed anarchico di immagini sonore, con chitarre seviziate al tremolo ed un canto che produce un lounge stralunato, in prossimità di territori sad-core. Da ricordare che gli Hood nel decennio successivo hanno prodotto pietre miliari della musica e sono in costante evoluzione e, da ultimo, in odore di santificazione.

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159. Tory Amos - "Crucify" [1992]
Tori Amos impressionò l’italia, facendo al Maurizio costanzo show (!!!) questo pezzo, Crucify, al piano (sembra Kate Bush, vero?), elettrizzando i capelli di tutto il pubblico. Ma ascoltare pezzi come "Silent All These Years" [1992] è puro piacere, è la perfezione melodica, classica, leggermente instabile, mai completamente rassicurante, evocativa dello stato isolazionista della cantante. Credo possa non piacere nulla o quasi di questa lista, ma apprezzare Tori Amos è facile e completamente appagante. Crucify è un pezzo in perfetto stile T.A., costruito attorno ad una melodia ben poco scontata, eterea, alla Kate Bush appunto, dove compaiono armonie dell’estremo oriente, e si apre nel finale a una scia che contiene altri brani, altre melodie, altra musica. La Tori Amos dei 90’s è un caleidoscopio di ballate raffinate, saggi di armonia per piano e chitarra, un roots-rock con contaminazioni di chamber-pop; in poche parole, la più grande interprete melodica del decennio (ma solo però perché il disco di Fiona Apple è stato pubblicato un po’ dopo).

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158. Lamb - "Gorecki" [1996]
I Lamb sono, tecnicamente parlando, post trip-hop, ovvero quel retaggio del suono di Mezzanine (tanto per esemplificare un canone del genere) diffusosi a pochi anni di distanza dalla prima comparsa di quel suono, così tipicamente 90’s. In realtà i Lamb, un duo del nord Inghilterra, provenivano da esperienze diverse ed hanno messo assieme un amalgama di stili diversi; il linguaggio portante è forse quello del trip-hop ma nei loro dischi c’è dentro di tutto: jazz, elettronica, house, soul, dubstep, eccetera. Trovare un pezzo che esemplificasse il tutto è stato un’impresa. Di solito dopo tanto cercare, dopo cambi su cambi, quando non trovo un pezzo che proprio mi convince per un buon motivo “ideologico”, preferisco indicare qualcosa che sia di buon impatto, lasciando magari all’iniziativa di ciascuno proseguire per altri percorsi del medesimo autore. Allora, nella fattispecie, vada per “Gorecki” (e non "Gold", come avevo pensato in un primo tempo). Inizia come un pezzo di Bjork, tra piano ed archi a cui si aggiungono sorprendentemente dei tablas indiani, ma a differenza dell’egotica islandese qui non c’è il primato della voce e delle sue stravaganze (ma alla fine il pezzo di Bjork è sempre normale, solo con un’eccentrica interpretazione che, per quanto eccellente, non ne altera quasi mai il valore). La base ritmica quando parte si trascina con sé l’incanto dei versi tracciati all’inizio, raggiungendo un buon compromesso fra esigenze diverse, tra trip-hop e sinfonismo. Per qualche influenza jazz, si senta Gold, qua sopra.

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157. Pulp - "Common People" [1994]
I Pulp sono oggetto di studio recente per i più, perché all’epoca, stranamente, non erano così considerati dalla grande stampa che li aveva appiattiti nel genere brit-pop. Ora, anche all’epoca non mi pareva fossero riconducibili a quell’etichetta. Questa riscoperta ha condotto i Pulp ai vertici di tutte le classifiche del decennio, sia in America che in GB. In questo modo, è facile oggi ritrovarsi i Pulp nellla Top ten del decennio, e ciò non solo da parte di critici mainstream, ma anche dai redattori delle riviste di settori più scafati (be’ ma i primi copiano dai secondi, anzi non li contraddicono mai per non incappare in un giudizio di incompetenza). Quindi, avevo scelto "Lipgloss", perché mi pareva più tirata, più alternativa, più glam. Ma ok, per i noti criteri qui, forse è meglio indicare il loro pezzo più famoso, non fosse solo perché Jarvis Cocker nello specifico video dimostra di essere un genio in più campi, e qui porta una recitazione da primato: un perfetto middle class snob inglese, ovvero un perfetto cagacazzo italiano (Jarvis Cocker è davvero un genio, eh?). Li metto qui in mezzo alla lista solo per motivi concettuali di genere, ma capisco Pitchfork che li sbatte sul podio del decennio… Allora, ok, “Common People”. Probabilmente l’avete vista tutti, trattandosi di un pezzo nato come cosa da niente e poi ha sfondato qualunque mercato, ed il video è una prova di tutto quello che è understatment e kitsch. Tra… no qui le influenze sono troppe ed il pop inglese è oramai un oceano, salto questo passaggio di solito obbligato. Il pezzo parte sarcastico (e le liriche sono imperdibili, vedi sotto), cresce con forza fino a raggiungere l’insanità tipica di di chi forse non pensa ad un ritorno commerciale del pezzo (ma che poi è arrivato, forse perché sempre sinfonico); alla fine diviene il corrispettivo di “un italiano vero” di totocotugno. La storia, per una volta da seguire e credo che il video inviti a leggere la narrazione: she came from Greece, she had a “thirst” for knowledge, studia al Sant Martin College, e li si incontrano; naturalmente lui pensa solo a trombare. Lei, ricca, e invasata dal nuovo ambiente londinese, vuole vivere “come la gente comune”, vuole fare quello che fa la gente comune, vuole dormire come fa la gente comune, vuole...anche dormire con…lui (da min . 0:35 a minn. 0:49). Al min 0:50 quando gli ha detto questo, bisogna vedere la faccia di Jarvis Cocker, assolutamente imperdibile, che sembra uscito dai Mothy Python e le fa” Oh…what else could I do? I said…’I’ll see what I can do’”. Poi, senza presunzione di esaustività: balli sconnessi, loop da bloopers, scene di vita comune e triviale, una sorta di supercafone albionico e le urla finali che suonano sempre così incredibilmente sarcastiche con JC.

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156. Notwist - "Day 7" [1997]
I Notwist sono un laboratorio sperimentale tedesco di idee ed influssi musicali differenti, provare "Shrink" per credere. E’ un gruppo ‘sbagliato’, residente presso un indirizzo inesistente, dislocato ad un incrocio di strade di città diverse, fra dark ed elettronica. I Notwist ascoltano e suonano di tutto e da ciò portano in dote una strumentazione eterogenea, vasta al punto tale da risultare ingombrante e di impedimento al regolare sviluppo dei brani. Se le influenze sono di difficile catalogazione, è più facile capire la direzione del loro viaggio: ai Notwist però piace dirigersi in ambienti freddi e compassati che rasentino la follia onirica. Se si tratta di un trip immaginario, questo deve essere stato compiuto in uno stato di alterazione indotto, dove la forma canzone è andata a rotoli (fatto completamente positivo, beninteso). Alla fine ho scelto “Day 7”, ancorché sconsigliato da tutti. Day 7 raccoglie frammenti ed influssi diversi, ricompattandoli in un genere, la “indietronica”, dei quali si possono dire tra i padri putativi. A differenza del intellettualmente preferibile "Shrink", qui in “Day 7” v’è ritornello che può aiutare la memoria ed il ricordo di qualcosa di questo gruppo fondamentale nel pop europeo (ma se delle melodie comincia a non fregarvene più molto, passate a Shrink, ed il salto fa solo bene). L’atmosfera è cupa e malinconica, l’ambiente sonoro riporta ai Joy Division e l’elettronica serve a dilatare una sezione d’archi che acquista una sonorità impossibile.

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155. Carissa's Wierd - "Drunk With The Only Saints I Know" [1999]
I Carissa’s Wierd nascono nel posto sbagliato al momento giusto per fare la loro musica, un misto tra slo-core ed un roots-folk che dà origine a ballate vibranti come quella scelta sopra. Seatlle anni ’90 è il luogo/tempo della morte del grunge, checché ne dica qualche critico; fare slo-core a Seattle in quel tempo è come vestire Zara ad una riunione dei Benetton: ci vuole qualcuno che rappresenti “materialmente” la fine di un’era e l’inesorabile trapasso, il tutto con un messaggio concreto che conta più di mille parole. Faccio presente, oltretutto, per capire l’ampiezza del fenomeno di questa band, che i Carissa’s Wierd si sarebbero di lì a poco sciolti per rinascere come Band Of Horses: sotto questa sigla negli anni ‘00 hanno fatto una pietra miliare del rock (o quantomeno, tra poco “Everything All The Time” [2006] lo diverrà, su questo non ci piove). Qui invece ho scelto “ubriaco con i soli santi che conosco” con le liriche più tristi e sconclusionate di sempre, una sorta di malsana ‘in my life’ beatlesiana, canzone sul tempo perduto, una ballata elettroacustica dalle profonde armonie orizzontali in contrappunto. Una vignetta di tristezza, apparentemente dolciastra, ma col retrogusto amarissimo, che si interroga su cosa resterà di noi dopo la nostra morte, e che termina con “this is how we look when we die, I’m pretty sure we’re crazy, saying that we are just assholes” (giusto per sottolineare che le armonie sognanti non devono ingannare sull’orrore psichico che trapela dai CW. Ah, tanto per dire, si scrive “wierd” e non “weird” (strano) perché sono strani davvero in tutto).

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154. Talk Talk - "New Grass" [1991]
I talk Talk credo tutti li conoscano ma credo anche che pochi si immaginino quale inaspettabile seconda vita hanno passato. Trascorso infatti il momento di grande notorietà internazionale dovuto ad alcuni pezzi melodici, di consumo e giustamente memorabili negli anni ’80 (sempre comunque un discreto pop, superiore a molti altri dell’epoca), hanno dato vita ad un nuovo corso, completamente innovativo e forse sono stati loro, calendario alla mano, a dare vita allo slo-core. E' successo questo, in sintesi: realizzati un paio di album che sono quanto di meglio poteva produrre il pop inglese all’epoca, sono stati per questo stesso dimenticati dal music-business; poiché c'è giustizia talvolta, sono però rinati in un diverso circuito, cosicché album quali “Spirit of Eden” (1988) e “Laughing Stock” (1991) sono diventati pietre miliari della musica, destinati ad imperitura memoria. “New Grass” è una mini suite-pop di circa 10 minuti, che mostra tutti i dettami della ricerca stilistica del decennio appena iniziato, un terreno di incontro tra pop e jazz (e per assenza di aggressività, aggiungerei lounge), tra ritmi rallentati e suoni disarmonici. Il canto estatico di Mark Hollis viaggia poi per linee free-form, forse perché trattasi di autore sui generis, poco propenso alle convenzioni, il quale evidentemente ritiene la melodia convenzionale un inutile onere ereditato da un secolo oramai alle porte.

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153. Bats - "For The Ride" [1995]
I Bats (assieme ai Tall Dwarfs e i Dead C) sono la storia del lo-fi neozelandese, anzi del Dunedin sound, così dal nome di un citta’ universitaria, a fare data dagli anni ’80. Le influenze di questo suono sono i soliti nomi, Beatles, Byrds, ma passati attraverso il setaccio del Paisley Underground, ovvero l’underground californiano a tinte psichedeliche. La cosa incredibile è che il lo-fi dei Pavement, e soci, ovvero il grande solco americano, ha preso spunto da qui, dalla NZ per poi arrivare alle proprie soluzioni. Insomma, un gioco di prestiti e restituzioni fra sponde diverse dell’oceano. In sintesi estrema: un pop delicato e trascinante allo stesso tempo, il tutto sottocosto, minimale, dove non si risparmia solo il feedback delle chitarre, che tanto non costa niente. Qui c’è “For The Ride” un piccolo gioellino (in stile anti-badgirl;) di pop psichedelico, semplice e malinconico, come i Bats hanno fatto a quintali, su un giro di tre accordi, uno stretto corridoio musicale di feedback che porta diritto alla fine senza interruzioni. Per capire cosa fossero i Bats si può sentire un’altra traccia da Couchmaster [1995], come la precedente: qui "Lost Weekend" [1995] che pare in tutto e per tutto un Morissey atterrato in California, senza più soldi per andare in una sala decente di registrazione, ancora più malinconico del solito (forse perché qui mancano perfino i soldi per far suonare gli Smiths decentemente).

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152. Buffalo Tom - Taillights Fade [1992]
I Buffalo Tom oscillavano gradevolmente tra un roots-rock ed un solido power-pop concedendo frequenti divagazioni a cavallo fra dissonanze e noise-rock, viaggiando per territori ambigui. Il problema è che a questa prima fase ha fatto seguito un secondo corso di carriera meno illuminato “intellettualmente” (in realtà forse è viceversa: nella prima parte della carriera hanno aspirato artificiosamente ad uno status non proprio loro confacente e poi hanno dato libero sfogo alle loro legittime ambizioni), anche se sempre solido ed efficace: ovviamente Youtube riporta solo video di questa seconda vita dei Buffalo Tom. Così, facendo buon viso a cattivo gioco, ho scelto una delle loro melodie più riuscite “Taillights Fade”, per cui sembra di sentire i migliori Counting Crows, niente di male. Ma se qualcuno sperava che gli Husker Du fossero risorti, purtroppo, si è dovuto accontentare. Comunque sia, nessun rimpianto. La carriera dei Buffalo Tom ha regalato numerose piccole gemme, da un punto di vista formale, basti sentire il pezzo prescelto: farebbe la fortuna degli Aerosmith, per prossimità di genere. Stessa cosa dicasi per "Staples" [1992] ad esempio: tutti pezzi potenti e precisi, cantati allo spasimo, inni di classic-rock, così come ballate elettriche perfette che rendono Let Me Come Over [1992] un album imperdibile per gli amanti del rock tout court. Rimane solo un po’ di nostalgia per quello che i Buffalo Tom avevano saputo indicare con i loro primi lavori e che poi è andato perduto col tempo ed il successo.

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151. Charalambides - "Think About" [1995]
I Charalambides sono un duo texano di chitarre immerse fino al collo nell’avanguardia, tra influenze psichedeliche ed un folk-rock che è aperto ad ogni tipo di contaminazione: noise, raga indiani, droni cosmici. Per il fatto che compongono vere e proprie suite, dalla durata di 10-15 minuti l’una, i loro pezzi si atteggiano a contenitori di elementi eterogenei. Sceglierne uno significa necessariamente perderne altri, e questo è un vero peccato perché si tratta di eventi sonori al limite della magia, tutti ugualmente ipnotici. Ecco, la sensazione di estasi, di spazio musicale dilatato all’infinito alla ricerca di un loop sonoro che dipinga un’emozione, questa è la musica dei Charalambides. Alla fine, ho scelto “Think about” dall’album “Market Square” [1995], ok, l’ho detto mille volte ma anche questo è un album imperdibile: questo un pezzo sconvolgente, costruito per fasi, se fosse materia colta direi per movimenti, tutti parimenti inquietanti. Inizia con una telefonata, anzi, con un messaggio lasciato su un’ipotetica segreteria da qualcuno in preda all’angoscia, una supplica che grida per differenti fasi emotive “pick up the phone! Pick up the phone!”; realmente destabilizzante perché non ottiene risposta e noi ci immaginiamo perfettamente un tempo ed un luogo, perfino un motivo perché quel messaggio non può avere risposta (e passa dalla supplica alla minaccia; la Germano ha fatto lo stesso, inserendo una telefonata vera di denuncia di uno stupro con risultati ancora migliori/peggiori). Poi, al termine si lancia il jingle-jangle del duo (coniugi nella vita): una sferragliata di chitarre su cui si alza il canto sciamanico e funereo di Christina Carter. Questa è la struttura di base del pezzo e l’archetipo dei Chalambides: su questo impianto succede di tutto e, frequentemente, su questa base litanica scorrono distorsioni sonore, inserti, ma vorrei chiamarli eventi sonori, di ogni sorta, che consentono di scomporre il pezzo in movimenti a sé stanti. Parlare di melodia, oppure di forma musicale, cioè di uno schema costruttivo a senso compiuto, è qui impossibile anche se stimolante. Apparentemente sembrano pezzi del tutto al confine con l’improvvisazione. In ogni caso, è un linguaggio che rimane accessibile perché dotato di una sua intrinseca piacevolezza e mai presuntuoso (mai dunque troppo altisonante e magniloquente come capita nell’art-rock).

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150. Piano Magic - "Snowfall Soon" [1999]
I Piano Magic sono un ensemble (o meglio una congerie) di artisti che fanno capo al britannico Glen Johnson, il quale dalla metà degli anni '90 ha dato vita ad un progetto di pop autorale che viaggia a vele spiegate in un mare di sonorità complesse, tra imponenti tsunami di feedback ed improvvisi stati di calma piatta rumorale. Si tratta di un genere che vorrei definire di post-shoegaze per la presenza ingombrante di tanta elettronica, non proprio attuale nella sua declinazione iniziale di fine anni '80. "Snowfall Soon" è paradigmatica in questo senso del suono di Glen Johnson: leva le ancore su un drone eterno di feedback, come se i Jesus and Mary Chain ritornassero sulla terra per annunziare la fine del mondo e di qui si innalza la voce di Caroline Potter, la quale intona melodie eterne sopra folate di vento metallico che oscillano incerte fra suono e rumore. A 3:31 si disperde la furia degli elementi ed il mondo dei Piano Magic trova la quiete apparente; un singulto a 3:51 ci riporta a terra e di lì inizia una sorta di hip-hop atmosferico per cui veramente dico "cheapeau". Peccato questa vignetta non duri di più, aumentando la complessità dell'esecuzione ma si tratta di mera desiderata e va tutto bene così.

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149. Chemical Brothers - "Where Do I Beginl" [1997]
I Chemical Brothers sono conosciutissimi, qui è catturato il loro contributo a "Vanilla Sky", un film che è perfetto connubio tra immagini e musica. Credo tutti conoscano il loro sound, una sorta di big beat da dancefloor, intrisa di elettronica, house ed ogni influenza rock possibile. Sono stati resi celebri da pezzi come "Setting Sun" (famoso anche per la collaborazione con N.Gallagher; pezzo che deve tantissimo a cose oramai quasi cinquantenarie come "Tomorrow Never Knows" beatlesiana, solo appena abbellita in sala di registrazione e ammodernata quel tanto che basta con campionamenti elettronici), anche se il meglio è stato celebrato da cose come "The Private Psychedelic Reel" [1997], un matrimonio multietnico tra elettronica e droni indiani, dalle infinite filiazioni. Il pezzo da me scelto è una delicata poesia fatta suono elettronico, un semplice esercizio retorico senza risposta, cantato da una voce di timbro celtico (Beth Orion); un esercizio circolare, tra ostinati metallici ed armonie eteree. Un ennesimo gioello, isospettabilmente calato fra ritmi ad alto BPM. Il pezzo prende forza con lo scorrere del tempo e sul finire libera l'energia repressa in un ritmo jungle trascinante: si tratta però di un evento al termine della notte, solo poco prima del fade out e così la calma complessiva del pezzo non ne risente e termina così, tutto d'un tratto.

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148. Type O' Negative - "Day Tripper/If I Needed Someone/ I Want You [1991]
Allora, mi ero ripromesso di non inserire derive musicali, del genere Type O’negative. Ma poi, convinto dai commenti che trovano le cose migliori nelle cose un po’ complicate, ho trasformato questo gradino, che prelude a quello migliore 150-100, in una finestra sulla voragine. I Type O’ Negative infatti, per chi non fosse aggiornato, sono il suono più tetro, cupo e lugubre degli anni ’90. Ho quindi optato sulla loro cosa più lieve, una novelty, una medley di cover dei Beatles (Tommy Steel, il leader, nell’imbarazzo totale di un certo critico che odia i fabfour, è innamorato pazzo dei Beatles e li ha messi perfino in “Slow, Deep and Hard [1991]). Questo è un pezzo “gentile”, ma se si vogliono sentire i crepitii delle fiamme all’inferno allora sintonizzatevi su “Xero Tolerance”, dal medesimo Lp. Cosa ha di negativo e positivo il suono dei ToN? Negativo: a pochi piace il deathmetal, virato decisamente verso il gothic; ancora meno piacciono certe tematiche scelte da Tommy Steele per questi pezzi, ad esempio, lo stupro, il suicidio, l’omicidio, il nazismo, altre amenità del genere. Credo si tratti di una “aiscrologia apotropaica”, ma non ne sono sicuro, diciamo è la mia speranza. Di positivo c’è: un’incredibile architettura musicale che, per sua naturale inclinazione, è epica; un gusto infinito, totale per la sperimentazione; la fusione insalubre fra ciò che è (era) la frontiera dell’attuale e l’oscurità medievale, l’assoluta noncuranza di apparire idioti mentre si esplora l’abisso. Se ce la fate, provate ad ascoltare "Xero Tolerance", un esempio di fusione tra death metal e industrial con i canti gregoriani ed i recessi della psiche. Tra riff di chitarre che rallentano ed aumentano di ritmo, infischiandosene del tempo, esplosioni vocali, elettronica, e far data dal min. 2:40, una liturgia solenne per organo a canne (che è introdotta da un “and now you die” di dubbia valenza, ma di sicuro effetto), e termina con il celebre pow-wow, danza dove paiono tutti saltare con un’accetta in mano, beh… credo ci sia spazio per molti ascolti. Da comprendere almeno per valutare come alcuni critici considerino questo disco da 9,00, termine finale di una certa idea di rock.

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147. Super Furry Animals – “Play It Cool” [1997]
Pop gallese, uno stile inconfondibile, una miscela di psichedelia ed elettronica. I SFA hanno fatto un paio di album di album di gran valore: “Fuzzy Logic” [1996] e “Radiator” [1997, da cui è tratto questo pezzo, “Play It Cool”. Se per molti il pop è tanta forma e poco contenuto, allora Play It Cool è perfetto: melodia semplice e suono elaborato, perfino sofisticato. “Radiator” tutto così, del resto. Se si è in cerca di una perfetta estasi da pop immediato ma mai banale, una summa di tutto quello che è il pop britannico (qui sarebbe “welsh”, da specificare) degli anni 90’ e non si è in cerca di una melodia e basta, oppure una frase o due di effetto, magari ripetuta all’infinito e posta sopra una pila di materiale riempitivo, allora i SFA sono perfetti in questo senso. Giunti in epoca post rave, post madchester sound, perfino post brit-pop e post-trip hop, mi sembra che i SFA facciano lezione di tutto ciò che è appena trascorso e, tanto per mostrare che la lezione è stata mandata a memoria, prendono gli scarti di tutti questi generi e li mescolano assieme. Si senta il bridge che è una sequenza di scratch dal min 2:00 sopra un vortice di distorsioni, oppure le armonie ed il coro squinternato che si leva sopra un jingle jangle di chitarre dal suono acido, o l’enfasi ritmica di certi Happy Mondays, ed più in generale l’atmosfera disincantata del pop di fine 90’s, e non si potrà che apprezzare questo miscuglio eccentrico di suoni diversi.

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146. Death Cab For Cutie - “President Of What” [1997]
Per una applicazione di un criterio formale più rigoroso possibile, in questa parte di lista si concentrano pezzi che ancora fanno dell’entertaining il loro scopo ultimo, ancorché superando gli standard di genere. E’ il caso anche dei “Death Cab For A Cutie”, gruppo anche questo di Seattle ma “separato in casa” e lontano miglia del grunge, o comunque dalle sponde dell’hard rock (che era comunque arrivato alla sua conclusione nel 1997, anno d’esordio dei DCfC). Questi sono vero e proprio oggetto di venerazione per i fan di un certo pop di melodicamente coinvolgente e di immediata presa ma mai banale: vicini a certi Built To Spill oppure Olivia Tremor Control, hanno prodotto decine di pezzi memorabili in una sorta di ricostruzione del linguaggio pop di anni ’60 (il nome deriva -ancora una volta- da un episodio beatlesiano). Ascoltare i DCfC era pertanto un piacere squisitamente intellettuale nei 90’s, una lezione di stile, una sorta di viaggio archeologico a ritroso nel tempo ed in direzione Beach Boys; naturalmente questa caratteristica ha permesso ai quattro di seattle di uscire presto dall’underground ed approdare alle major, con pedissequa consequenziale crisi di identità dei loro fan. Il pezzo che ho scelto è quindi degli albori, quasi un demo: semplice, diretto, melanconico, ma provvisto di una linea melodica che pare tirata giù dai Kinks ed adattata ai tempi millenari. “President of What” è l’esordio dei DCfC, con inserti sonori che sembrano quelli di “I am the walrus”, con una buona eco sulla voce ed un suono di organetto scattante attorno al quale gira tutto il pezzo. Negli anni ’00 hanno fatto album esemplari e mega prodotti; credo i loro video girino su MTV e tutti si aspettano una loro hit nelle charts (che temo però non verrà mai: sono rimasti troppo colti).

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145. Sonic Youth – “Youth Against Fascism” [1992]
I Sonic Youth li conoscono tutti, inutile qualunque presentazione. Il gruppo fondamentale dell’underground americano, crocevia di tutti i generi 90’s: noise, grunge, post hardcore. I Sonic Youth hanno influenzato tutti, sono il gruppo indies per eccellenza, nessun gruppo può essere messo sullo stesso gradino dei Sonic Youth per innovazione, influenza e seminalità. Una delle dieci band più grandi di sempre, con un’insana propensione per uno spazio tra i primi 5. “Dovrebbero starsene al primo posto nella tua lista, allora”, uno può dire. Ok, il problema è che questa è la classifica dei 90’s. In tale decade non hanno più raggiunto i vertici degli ’80, avendo detto a quel punto tutto ciò che c’era da dire e che altri stavano finalmente imitando; comunque sia “Dirty” [1992] è un buon album. Qui c’è “Youth Against Fascism”, un esercizio scolastico in puro stile SY, che mi ricordo venne presentata dalla Dandini ad Avanzi, una settimana prima (o dopo, non ricordo) dei Nirvana. Roba incredibile: bastavano quelle due sere per giustificare il pagamento del canone rai per quell’anno. Credo tutti la conoscano, vabbe’. Si tratta del suono tipico dei SY: immaginatevi queste cose così nei primi 80’s ed avrete idea di come questi 4 ragazzi abbiano cambiato il volto della musica come la conosciamo oggi. E’ anche il motivo per cui ogni band dei ’90, dai pearl jam ai blur, dai soundgarden a… chiunque, ma proprio tutti, alla domande “influenze?” rispondeva “sonic youth”. Ogni commento ad un suono storico, rock – feedback - rumore, è superfluo. Ah, Kim Gordon, la bassista, ha turbato tutti, non solo me…

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144. Ani Di Franco “Building And Bridges” [1994]
Una folk singer aggressiva, graffiante, con uno stile acustico personale (alternanza di slapping e staccati), talora nevrotico, vero proprio marchio di fabbrica dell’autrice di New York. Testi impegnati, un folk-singing urbano, teso, diretto subito alla meta, una capacità di tenere il palco con furore e forza; una eroina generazionale del genere di riferimento. “Out Of Range” [1994] è probabilmente lo zenith della sua carriera. Da qui ho scelto “Building and Bridges” che costituisce la summa di tutte queste caratteristiche, mettendo in evidenza l’ansia espressiva e la violenza delle immagini, non solo sonore, che costituisce l’arte di Ani Di Franco (“we are made to bleed and scab and heal and bleed again and turn every scar into a joke. We are made to fight and fuck ad talk and fight again and sit around and laugh until we choke”). Il pezzo acustico (chitarra - basso – batteria) si trascina impetuosamente in un flusso di intensità altalenante, con pulsazioni ritmiche dinamiche e sincopate. Su questo impianto, la voce di AdF è l’elemento che completa un’immagine sonora di nevrosi misto a coraggio e determinazione.

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143. Luna – California (All The Way) [1994]
Purtroppo per un pezzo (e un gruppo) che venero, non sono riuscito a trovare l’originale da studio. Questa è una versione live con non evoca 1/10 dell’atmosfera dell’originale… La solita tragedia delle indies… Comunque sia, mi ripiglio. L’originale è un pezzo come pochissimi altri nella storia del rock: sospeso, lieve, etereo, un riff chitarristico di quelli che paiono rapiti, disceso in terra da non si sa dove, con una quarta dimensione preponderante su ogni altra caratteristica fisica e concreta. I neozelandesi Luna sono così, un suono che deve tutto all’amalgama davvero “lunare” di chitarre sognanti e malinconiche, e tutto ciò per pezzi che nella loro tristezza raggiungono la bellezza e la perfezione. Il canto è spesso sussurrato, le chitarre hanno un timbro cristallino, gli slide sono sempre manifesti di purezza. L’ambizione dei Luna (che sono la ricomposizione di un gruppo fondamentale del rock negli 80’s, i Galaxie 500) è quella di produrre un art-rock malinconico e ci sono riusciti alla perfezione. La melodia è affascinante, anche nella versione qui in studio televisivo dal vivo. Ma insomma, prendetevi l’originale: l’album, perfetto, è “Bewitched” [1994]

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142. Daniel Johnston “Life In Vain” [1994]
Parlare di Daniel Johnston è difficilissimo. Vorrei dire quello che tutti quelli che lo conoscono vogliono dire: forse è lui il simbolo del pop. Forse è questi il miglior songwriter nella storia del pop, mangiandosi beatles e dylan in un colpo. E’ però una persona malata. Gravemente. Affetto da malattie psichiche, vere e proprie turbe che non gli lasciano tenere in mano un foglio di carta, come Syd Barrett. Ah, un altro piccolo particolare: non sa cantare. Non può veramente cantare. E suona la chitarra a fatica. Ciò nonostante ha composto migliaia di pezzi, la stragrande maggioranza dei quali aspetta solo di essere pubblicata. Come li ha composti (e qui la vicenda si fa leggendaria, addirittura coperta da un alone mistico)? A casa, nella sua stanza, con la chitarra; si tratta di migliaia di nastri, cassette eh, roba da un euro, un lo-fi mostruoso. Ci sono migliaia di spunti, incompleti, jingle di ogni tipo, melodie perfette e sconquassati episodi di rumore deforme. In ogni caso, il più grande repertorio pop da classifica, o da jingle commerciale, è lì che aspetta di essere pubblicato. Da chi? Da qualcuno, da chiunque. Intanto lui è diventato un nome leggendario. Ah, non aspettatevi un artista borioso e i suoi fan esaltati nell’osannarlo. Si tratta della vicenda umana più commovente nella storia del pop, assieme a Syd Barrett. Nessuno lo conosce al di fuori del circuito alternativo, ma…guarda caso, gente come i Sonic Youth, i Rem, David Bowie, Kurt Cobain, Beck, Tom Waits,altri ancora insomma, nomi da live aid alternativo, anzi addirittura il gotha dell’arte rock, hanno fatto a gara per fare le sue cover (e di qui persino un album dal nome unico “Undiscovered Cover”, proprio perché per la prima volta nella storia si sono fatte cover…di pezzi sconosciuti). Per il fatto che la sua vicenda umana ed eroica allo stesso tempo è divenuta di cronaca a fare data dal 1995, dopo circa 15-20 anni di registrazioni, ed un materiale – monte ore costituito da migliaia di pezzi pop accatastati in cassette nel garage di casa è venuto alla luce, ora, gli artisti che dicevo ed altri ancora fanno a gara per sostenere questo…signore (di artista non ha più nulla, invecchiato in povertà), portandolo in sala di registrazione e fornendogli un po’ di arrangiamento (per lo più terribile). Ma è un’impresa, non è facile: si tratta di andare d’accordo con qualcuno che ha turbe psichiche nel tentativo di dare una forma completa a quelle ore di registrazione informe, nella ricerca di editare qualche disco. E la folla, per ora solo americana, nonché gli appassionati oltreoceano, incominciano a sostenerlo (insomma oramai è una standing ovation ovunque vada, perché -ricordo- si tratta di una vicenda al limite del mito). Ci sono poi infinite storie secondarie su questa leggenda del rock. Ha avuto perfino un unico amore nella sua vita: Laura. Una ragazza reale che ha amato e ama tutt’ora, alla quale avrà decicato una montagna di pezzi. Sempre eh? Per tutta la vita, mai contraccambiato. La leggenda dice che durante uno dei suoi primi show dal vivo, e quindi solo recentissimamente, lei si sia finalmente avvicinata, salita sul palco e fra le grida della gente lo abbia finalmente abbracciato. Chi sa come finirà. Lui, Daniel, ha iniziato perché voleva diventare i Beatles. Ora chi ama i Beatles ama Daniel. Qualcosa sta cambiando, speriamo in bene. Qui il video scelto è rappresentativo di tutto il mondo che circonda attualmente Daniel J. Va ricordato che lui non è in grado di decidere nulla attorno a sè, nemmeno sulla propria musica della quale non ha la direzione artistica. Quindi è spesso lasciato in balia di arrangiamenti talora tremendi, come in questo caso. Ma il pezzo è perfetto, teoricamente. Vi rimarrà in mente come a me, credo. Se riuscite ad avere in mente questa mia breve presentazione quando vedete il video, allora bene, forse capite tutto: il pubblico, i musicisti, l’introduzione prima che salga sul palco, quel signore che sale e canta, ed il perché tutto appaia affaticato e difficile. Sennò, dubito si comprenda questa leggenda del pop. Nota bene: prendete infine, questa posizione in classifica come un risarcimento, una deroga ad ogni canone di valutazione artistica in favore di un lato umano, etico, di giustizia, davvero al di là di ogni forma o estetica.

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141. Geraldine Fibbers – Toybox (live) [1997]
I Geraldine Fibbers sono un manifesto del pop insano; un’architettura sonora apparentemente da classifica viene seviziata al punto tale da risultare irriconoscibile. La cosa abbastanza strana è che, sottratte le dissonanze e ri-arrangiato secondo gli schemi dell’industria discografica (strofa, ritornello melodico e durata di 4 min), potrebbe anche funzionare. Non ci credete? Basti sentire un episodio isolato di pop “non-trattato” a là Geraldine Fibbers come "California Tuffy" un episodio sixties, con una melodia del tutto deja vu, che sarebbe potuta uscire da un sanremo (ok, leggermente avvelenata dalle sferragliate metalliche delle chitarre, ma teoricamente potrebbe. Edit: diopadre, che video monumentale). Carla Bozulich è l’anima di questa formazione, una vita passata fra prostituzione, droga ed episodi non proprio edificanti, prima di approdare alla musica: forse si comprende perché quando prende in mano un microfono io vengo sopraffatto dalla sua forza espressiva. Un’interprete geniale, un’istituzione dell’underground, oramai essa stessa una leggenda. 10 video in tutto su internet: difficile scegliere. Quindi “Toybox”, oltretutto live. Ma fa lo stesso perché qui fa una prova con cui “si fa allacciare le scarpe” © da una generazione intera di cantanti, ed anche Mick Jagger o Roger Daltrey prendono appunti. Difficile, impossibile scendere sul suo stesso piano e risultarne vincenti. Un pattern sonoro che deve molto ai Sonic Youth, tra stop&go ed urla tanto indovinate e perfettamente eseguite che pare siano tessuto integrante del suono, come nemmeno Aretha Franklin (no, ok, esagero, ecco lei può). Interpretazioni ossessive, sull’orlo di una crisi di nervi, un bridge chitarristico a 2:20, rectius, un muro sonoro con deviazioni atonali che vale da solo l’acquisto di “Butch” [1997]. Definirlo noise rock ovvero post-punk è riduttivo perché vi è eclettismo sonoro che non può ridursi ad una etichetta.

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140. Caustic Resin – “Once And Only” [1998]
Idaho, anni ’90. I Caustic Resin sono un power-pop a trazione anteriore (chitarre), un moto ondoso di riverberi sonori, cultori delle sinfonie dipinte a sei corde e dei ritmi altalenanti e sconclusionati da “lovable losers”, come li hanno definiti in rete. In realtà, se ricondotti “a viva forza” entro dei canoni comunicativi più tradizionali, loro, alfieri totali di ciò che è underground e alternativo, riescono a fare qualcosa di eccellente ed orecchiabile (ancorché non proprio ortodosso) come il pezzo indicato in epigrafe. Altrimenti, diventano un incubo sonico, un fiume in piena, una palude di cui non si conoscono i punti sicuri od i confini tanto è vasta. Quindi il pezzo qui indicato è eccellente e rassicurante, i Caustic Resin (che condividono con i Built To Spill parte della formazione) non lo sono. Si sentano episodi più in linea con il sound originale del gruppo, ad es. "Hold Yur Head Up" e sono veri e propri stati di allucinazione sonora per chitarre, oppure sketch irreali e sconclusionati ma incredibilmente originali ed onirici come "Hooberloob My Family". Tornando al pezzo prescelto: qui c’è un’indiscutibile vena psichedelica ed un giro di chitarre che manda in loop il pezzo tra droni di feedback, ma sempre con ottime armonie e sovraincisioni, con effetto ipnotico terminale ben riuscito, mentre la rabbia se ne sta fuori dagli orizzonti immediati. Un motivo addirittura da tormentone, sempre canticchiabile, cosa non da poco visto il laboratorio di provenienza.

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139. Portishead - “Pedestal” [1994]
I Portishead da “Dummy. Forse banale, ma per me una scelta obbligata, una milestone del genere, forse di ogni genere. Non mi ricordo nemmeno perché ho scelto questo pezzo quando ho buttato giù la lista, ma si tratta di scegliere tra atmosfere diverse, tutte perfette, ed in “Dummy [1994] in ogni caso non c’è una sbavatura a cercarla con il lanternino. Il trip-hop nel suo massimo splendore, un viaggio della mente in un ambiente spettrale, tra suoni dilatati, un beat assolutamente coinvolgente, una pulsazione che prende possesso di quella cardiaca, sostituendola e suggestionando ogni altra funzione vitale. Il trip-hop ha il limite di costituire un linguaggio compassato, abbastanza freddo e privo di variazioni che non siano piccole increspature di forma, ma i Portishead sono riusciti a spingersi (almeno con Dummy) in aree musicali di diverso genere, come ad esempio in “Pedestal”, che è un pezzo che tra scratch, drum&bass e vibrazioni suadenti, ma spinto con forza in territorio jazz. Penso che ogni commento sia superfluo in quello che è, o dovrebbe essere noto a tutti, perché iper-celebre. Oltretutto, rinuncio volentieri a capire alcuni particolare, davvero unici, come ad esempio se il solo sia davvero una tromba, oppure il campionamento di una qualunque cosa, utilizzato per scopi diversi ed emulativi al fine di ingannare dolosamente l’ascolto.

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138. Modest Mouse - "Trailer Trash" 1998
I Modest Mouse sono da sempre una mia personale inquietudine, un suono che trovo incredibilmente sarcastico e dissacrante, un attacco intellettuale alle convenzioni musicali generaliste, una chiave di volta del pop, uno strumento di decodificazione linguistica di un linguaggio, il pop, altrimenti destinato a chiunque, e sappiamo che le masse sono idiote. Cosa fanno i Modest Mouse? Mah, tutto. Davvero sono ubiqui, spaziando tra lo-fi (ma io ritengo che questo dipenda dalle finanze), post-punk, melodrammatiche ballate elettriche, post-folk, pop generalista, ed altro ancora (catalogazioni come blues, rock, eccetera sono oramai talmente banali da apparire scontate), il tutto però servito in una salsa di suoni discordanti, disarmonici, leggermente fuori tempo, e perfino orecchiabili e canticchiabili. Apprezzo che dopo tanti anni finalmente si sia svegliata anche la critica musicale oltre oceano e ultimamente i Modest mouse se ne stanno allegramente tra i primi 100 o 200 gruppi di ogni decennio. Naturalmente in Italia, li conosce 1 su 1000. Dovrei aprire un inciso però, perché in italia ci atteggiamo tutti a gran critici di rock e critichiamo gli americani, ma è come se in Bulgaria si atteggiassero tutti a gran critici dei fusilli alla sorrentina, scrivendo recensioni in bulgaro per fanculare gli italiani (almeno, sarò anch’io così, ma ne sono perfettamente consapevole). Oh ok, il pezzo: Trailer Trash è uno dei più famosi, lo ammetto, forse è scontato ma è per venire incontro a tutti. Qui c'è un adorabile quadretto malinconico di pop sghembo ed orecchiabile, un clangore chitarristico ed un’armonia sgraziata e rallentata, con un arpeggio tanto geniale quanto stanco, un lo-fi favoloso. Non ho avuto il coraggio di imparare le liriche, di “ascoltare” le parole (sono proprio “bulgaro”, dunque), sono sicuro -sulla fiducia- che mi manderebbero a godere come un riccio in calore, magari me le riservo per un giorni di pioggia pechinese.

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137. Jane Siberry – “Calling All Angels” [1993]
Oh, non si trovano video di quest’artista, ma non rinuncio. Jane Siberry è un’autrice ai massimi livelli possibili, ma sul tubo ho passato ore a cercare un video di costei ed è praticamente impossibile trovarne fatto salvo per registrazioni amatoriali, dal vivo e con materiale sonoro scadentissimo. Quindi, per conoscere JS ci si deve accontentare di quello che offre il mainstream (è fantastico che per conoscere ciò che è underground ci si debba affidare agli strumenti più commerciali ed industriali possibili), una parentesi ridotta ai minimi termini su un mondo artistico lontano miglia, dal punto di vista culturale, dalle puttanate della radio. Basterebbe ricordare che la Siberry produce suite di 20 min circa per capire che angolo si è ritagliato. Qui..mi dispiace ma ho trovato di accettabile solo questo inno, una sorta di spiritual al rallentatore, probabilmente perché l’hanno utilizzato come BGM di qualche strafatto film hollywoodiano. Evito di parlare del pezzo perché sarebbe tutto ciò che non mi interessa di JS (non che sia male in sé), la quale ha invece messo in scena anche delle creazioni tanto oniriche quanto destrutturate, eclettiche, disperate e all’avanguardia, dissimilmente da quanto riportato in fattispecie. Spesso scivola verso il jazz perché ritengo le sia forma espressiva congeniale, che le consente di esprimersi free-form, tra improvvisazione e libero sfogo di un talento sovrannaturale. Sul tubo troverete tanti video amatoriali della JS la quale, chitarra alla mano, improvvisa cose dovunque, del tipo la camera d’albergo di un hotel a parigi, in forma completamente privata e senza ogni altro scopo che fare qualcosa. Una parata di 8,0 e 9,0 accompagna questa autrice nella critica, pari solo al numero di singoli venduti sino ad ora (appunto, 8 o 9 in tutto, suppongo). un altro numero forse di qualità accettabile è "Begat Begat"

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136. Jon Spencer Blues Explosion – “Flavor”[1994]
Il miglior garage-blues universale. Qui addirittura con Beck, che strameriterebbe di starsene in questa classifica se non fosse un po’troppo compromesso con il consumo di massa e, probabilmente, nella versione finale che utilizzerò, andrà a sostituire la Hatfield, oppure Jeff Buckley o, purtroppo, Daniel Johnston. Gli JSBE fanno un jumpy blues irresistibile, qui nel pezzo prescelto un pelo funky, ma altrove talmente eclettico al limite della follia o, se preferite, della bizzarria. Ma sempre il precipitato storico della più grande tradizione musicale moderna. Un contenitore immenso di invenzioni e di idee al limite della perversione e con un innato sentimento per proporre tutto ciò che è anti commerciale ed invendibile. In “Flavor”…beh, innanzitutto ho dovuto scegliere questo, c’è mr L.A. kid, basterebbe questo, ed infatti riporta il tutto su un piano letterario, oltretutto qui Beck perfino recita, imperdibile. Altrove, i JSBE tirano di più il pezzo, portandosi vicino ai territori classici hendrixiani; qui invece si abbandonano ad un crossover tra hip-hop e blues, tra scratch, house ed elettronica. Beck mi pare in tutto e per tutto il Dylan dei 90’s, ogni altro commento è superfluo.

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-continua-
[Modificato da °Mark Lanegan° 22/02/2012 12:20]
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