Any Dream Can Become True (in corso). Rating: verde

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tati-a4ever
00martedì 13 luglio 2010 14:14
Re:
marty.jackson, 10/07/2010 20.59:

che bello Ambra!! sento che succederà qualcosa tra i due...vero?? che romantica la parte in cui ballano [SM=g27836] e poi con quella canzone!!è stupenda! quando posti il prossimo? non vedo l'ora di sapere cosa succederà dopo!
bacii [SM=x47938]



Grazie Marty, ormai non so più che dire per ringraziarti dei complimenti [SM=x47938] Se succederà qualcosa non posso dirlo, non ora. ^-^ Il tempo risponderà al posto mio <3 Bacioni!

BEAT IT 81, 11/07/2010 23.20:

Oddio Tati, occhi a cuore a mille, la scena del "ballo della mattonella" poi è così romantica.....che sogno!!!! Lo sapevo che Cupido aveva colpito, me lo sentivo ;-))))) , speriamo bene, xè Sharon e Mike insieme sono troppo belli :-))))))) . Bravissima come sempre e ottima scelta musicale direi ;-)))))))). Bacione Sara



Sono riuscita ad emozionarti così tanto? Mio Dio, sono orgogliosa di me stessa! Pienamente orgogliosa di me stessa! [SM=x47964] Cupido in questa storia ha già colpito, manca solo affondare i due nella consapevolezza che si amano reciprocamente. ;D Grazie per il complimento sulla scelta musicale ^-^ Bacioni!!!

minamj, 12/07/2010 9.55:

Fantastica!!!!
Mi hai rapita con questa puntata [SM=g27823]
Si,ho visto un Michael sereno e libero di
poter essere se' stesso!!
Sharon ha tutte le qualita' per renderlo
felice.Vero Ambra? [SM=x47928]
Dimmi che sara' cosi'. [SM=g27811]

Aspetto la prossima puntata

[SM=x47932] [SM=x47932]



Mina, tu mi onori! [SM=x47963] Spero di "rapirti" anche coi prossimi capitoli, perchè spero saranno abbastanza emozionanti da continuare a conquistare! Sharon ha le qualità per renderlo felice, sì, vediamo però se riusciranno a superare tutti gli ostacoli... Ma questo è un segreto per ora! [SM=g27824] Alla prossima, tanti baci! [SM=x47938]


huhu91, 12/07/2010 11.59:

vogliamo il continuo vogliamo il continuo vogliamo il continuo vogliamo il continuo vogliamo il continuo vogliamo il continuo [SM=x47918] [SM=x47918]



[SM=x47979] lo sposterò domani se riesco a finire entro oggi il capitolo dell'altra storia, dato che è moooolto lungo. [SM=x47982]
bacioni! [SM=g27828]

dirtydiana66, 12/07/2010 12.41:

vogliamo il continuo, grazie



entro domani sarà pronto probabilmente! [SM=g27823]

mimma58, 12/07/2010 12.49:

che romanticismo,il seguito per favore



domani se faccio in tempo sposterò [SM=g27829] grazie mimma per il complimento!
BEAT IT 81
00martedì 13 luglio 2010 14:21
Certo che sei riuscita ad emozionarmi, la parte del "ballo della mattonella" è così intensa, romantica e piena d'amore che il mio animo da super romanticona nn poteva nn restare colpito ;-))))). Evvai, stavolta ho avuto ragione!!!!! Speriamo allora che i due ragazzi si diano una svegliata, forza Sharon e Mike, qui è nato l'Amore, quello vero, nn fatevelo sfuggire!!!!!! Nn vedo già l'ora di leggere il seguito ;-)))))). Bacione Sara
minamj
00lunedì 19 luglio 2010 13:24
Toc toc? C'e' nessuno?
Ambra? [SM=x47948]
[SM=g27828] [SM=g27828]
dirtydiana66
00domenica 25 luglio 2010 20:47
[SM=x47963] [SM=x47963] ti prego posta
BEAT IT 81
00domenica 25 luglio 2010 22:10
Taty, ma che fine hai fatto? Ti prego, posta!!!!!
maria96
00sabato 28 agosto 2010 15:22
Madonna mia, ti prego posta ke è bella la tua ff!!!
minamj
00mercoledì 15 settembre 2010 20:41
Ambra tutto bene?
Che succede?
Un abbraccio
tati-a4ever
00venerdì 20 maggio 2011 23:05
Come ho già detto in un topic di presentazione, sono tornata. Vi chiedo scusa dal profondo del mio cuore - sia per avervi lasciato senza una spiegazione sia per non essermi comportata nel modo migliore.
Voglio ricominciare a frequentare il sito con maggior frequenza, lasciando alle spalle la crisi che mi ha allontanato da questo sito mesi fa... e posso ricominciare facendovi leggere la fine di questa storia, come mi ero ripromessa tempo fa.
Grazie immensamente per il vostro sostegno anche durante la mia assenza... il vostro amore mi commuove. Grazie...
tati-a4ever
00sabato 21 maggio 2011 23:58
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CAPITOLO OTTO
PUNTO DI VISTA: SHARON VILLA


Finalmente Michael! Stavo cominciando a preoccuparmi per voi!», disse l’assistente coreografo di Michael, Jonathan, un uomo alto e scuro di pelle, sui trent’anni.
Quando arrivammo in sala di prove io e Michael eravamo sfiniti, ansimanti dalla corsa appena svolta, in ritardo di ben mezz’ora di lezione persa. Non sapevamo se ridere o cercare di respirare invece, vedendo le poche facce che stupite e scioccate ci guardavano. Alcuni evidentemente se ne erano già andati, visto il numero di persone ridotto rispetto al giorno prima.
Ma il ritardo ne valeva la pena. Ne era valso la pena. Quella sera era stata una delle più belle passate nella mia vita, non mi ero mai sentita così felice. Con Michael ero riuscita a tornare per alcuni momenti una bambina, e poco dopo un’adulta. Capiva il mio dolore d’infanzia, poiché credevo fosse veramente sincero. Chissà come, non riuscivo a non aprirmi.
Il ricordo della sua mano sulle mie guance, il suo respiro soffocato sulla mia fronte, il contatto soffice con la sua pelle… Questi piccoli dettagli aumentavano i brividi sul mio corpo, e se pensavo alla nostra attività di cuochi mi venne da ridere. Con lui non avevo limiti. Le mie barriere cedevano e si frantumavano in mille pezzi grazie ai suoi occhi e al suo sorriso.
Michael e io ci guardammo, con un’occhiata d’intesa e furbesca, nascondendo un sorriso. «Devi scusarci Jonathan, c’era traffico… Abbiamo cercato di fare più presto possibile».
Soffocò poi una risata, e lo sguardo del suo assistente si posò su di me. Chissà come mai mi dava l’impressione che pensava fossi io il motivo principale, ma rispose con un sorriso ed un’espressione esasperata. Sorrisi di rimando, poggiando i miei occhi di nuovo verso Michael, il quale m’osservo curioso.
«Certo che sei una cosa impossibile», disse una voce fuori dal coro, e dalla postazione accanto a La Toya – la quale mi scrutava attentamente con lieve sorriso – avanzò una ragazza, scura di carnagione, con una finta espressione arrabbiata e stressata. Michael la osservò, per poi sorridere felice.
«…Per una volta che vengo a vederti ballare, ora tu arrivi in ritardo?», disse la giovane, avvicinandosi pericolosamente a lui. Sentii una morsa allo stomaco.
«Janet…», disse Michael, correndole incontro. Santo cielo, sua sorella! Si abbracciarono, così strettamente che una morsa di gelosia mi attanagliò. Come potevo essere gelosa di lei?
L’abbraccio durò pochi secondi, poiché lo sguardo di Janet svoltò curioso verso di me. Io sorrisi, timida, e lei guardò suo fratello perplessa, quasi confusa.
«Oh, ti presento Sharon…», disse Michael, avvicinandosi con sua sorella verso me. «Sharon, questa è mia sorella Janet, la più piccola della nostra famiglia. E’ una peste…».
Subito Janet si illuminò, ignorando le parole del fratello. «Sharon? È un piacere davvero conoscerti! Mio fratello ha parlato molto di te…», rispose, ammiccando uno sguardo fulmineo al fratello, il quale spalancò gli occhi.
Lo guardai sorpresa, mentre lui arrossato si affrettò a rispondere. «Sì, ok, Janet…», intendendo con quella frase che doveva stare zitta. Subito la sorella si affrettò a guardarmi, facendomi l’occhiolino.
Risposi a quel gesto con un sorriso, nel frattempo che Michael mi guardava preoccupato. Mi sentii onorata del fatto che lui ne avesse parlato, poiché forse questo era un segno che probabilmente non ero invisibile almeno per Michael. Questo poteva avere il suo significato nascosto. A quel pensiero, un’improvvisa emozione di benessere mi contagiò ogni cellula del corpo.
«Michael, che ne dici, facciamo lezione?», chiese il coreografo, interrompendo il discorso. Tutti gli sguardi si posarono su di lui, il quale valutò silenzioso la situazione e le persone presenti.
«Be’, è tardi ormai… Se avete qualche altro impegno forse è meglio chiudere qui. Mi dispiace solo avervi fatto perdere tempo…», disse Michael, con tono di sincere scuse.
Tutti acconsentirono all’idea, dicendo di non scusarsi, e rimanemmo in sala solo io, Michael, Janet, l’assistente coreografo e due ragazze, fra cui La Toya e un’altra mora. Rimasi perplessa sull’ultima, poiché il giorno prima alle prove non l’avevo vista. Forse probabilmente era una ballerina che era mancata alle prove di ieri.
Michael andò a discutere con Jonathan riguardo alla coreografia e alla sistemazione delle prove necessarie da risistemare nei vari orari di lezione, e la sorella, Janet, mi si avvicinò lenta, con un sorriso aperto e curioso che ricambiai senza esitare. Aveva quasi lo stesso sorriso di Michael, perfino alcune sue stesse espressioni, ma mai paragonabile a quello del fratello.
«Quindi tu sei la sensazionale ballerina che emana un’energia e un’adrenalina strabiliante quando balla? Michael ci ha detto che sei stata magnifica al provino!»
Mi sentii avvampare d’imbarazzo, soffocando una risata. «Be’… Non sono così brava». Non mi sbilanciai a commenti, siccome non volevo pensasse che fossi qualcuno che non ero, prontamente cauta.
«Michael ha detto il contrario. Secondo lui sei meravigliosa!», esclamò Janet, guardandomi negli occhi curiosa della mia reazione. «Una volta voglio proprio vederti ballare!»
Io avvampai ancora di più, annuendo, nel frattempo che la ragazza mora si avvicinò a noi e La Toya ci salutò, dicendo che se ne andava per conto suo a causa di un appuntamento. La ragazza mora mi si fece avanti con un sorriso e si presentò, cauta.
«Ciao Sharon, io sono Vanessa Russell. La scorsa lezione non ero presente, perciò colgo l’occasione per presentarmi», disse, con aria gentile. «E’ davvero un piacere conoscere la ragazza protagonista del video di Mike. Non vedo l’ora che diventiamo amiche io e te».
Primo: la sua voce così vellutata era troppo soft, in confronto all’espressione dei suoi occhi inespressiva. Secondo: chiamava Michael con il nome Mike, e dato che neanche il suo coreografo l’avevo mai sentito chiamarlo così, forse dovevo dedurre fossero più di semplici amici. E terzo: quando una – a mia esperienza – dice che non vede l’ora di diventare mia amica, è una bugia.
In ogni modo, sperando che le mie supposizioni fossero infondate, sorrisi cordiale, ormai abituata col tempo a lasciar scorrere. Con gli anni avevo imparato a trascurare situazioni o persone che non meritavano la mia attenzione, in questo caso cercai di non lasciarmi influenzare dalle mie malignità.
Ci stringemmo la mano, poi la nostra attenzione venne attirata da Jonathan, il quale ci salutò e si diresse anch’egli fuori dalla sala. Rimanemmo solo in quattro, e lentamente Michael si avvicinò a noi tre. Povero, non avrei voluto essere nella sua situazione: circondato da ben tre donne, e lui, l’unico uomo. Mi venne da ridere, tanto che dovetti trattenere un’evidente smorfia divertita.
«Senti Michael», disse Vanessa, guardandolo con occhi blu intenso e attenti, dando appena appena le spalle a me e a Janet. «Hai impegni per questa sera?»
Sentii il mio respiro bloccarsi per un secondo, un tempo così perenne da sembrare di soffocare. Lo sapevo. Lo sapevo! C’era qualcosa che non mi quadrava, ed avevo ragione. Guardai con occhio cupo prima lei, poi Michael. Lui mi rivolse un’occhiata fulminea, preoccupato riguardo alla reazione. Feci finta di non aver sentito e mantenni un’espressione neutrale.
«In realtà dovrei accompagnare a casa Sharon…», rispose, fissandomi. Mi accorsi, nello stesso tempo in cui Vanessa mi schioccò un’occhiata finta perplessa, che Janet mi osservava con cura.
«Oh… Be’, una volta accompagnata a casa possiamo…», non disse oltre, poiché la interruppi subito. Non volevo sentire più una parola pronunciata con quella voce da ochetta giuliva.
«Puoi portarmi direttamente a lavoro, Michael. Mi faranno bene degli straordinari». Sentivo che la mia voce era cupa, ma in quel momento non mi preoccupava affatto la loro reazione.
Michael mi guardava fra lo sbalordito e il pensieroso, e un sorriso lieve comparve fra le labbra di Janet. Vanessa spalancò lieve la bocca, poi disse: «Lavori? Dove?»
Storsi la bocca in una smorfia di dubbio e riflessione, intuendo che se avessi detto che lavoravo ad un locale, lei avrebbe sicuramente proposto quel luogo come “posto da appuntamento”. Purtroppo, a malincuore, dovetti dire la realtà dei fatti. Non dovevo mostrarmi gelosa. No. Mai. Io non ero gelosa…
«Lavoro in un locale…», dissi, lanciando uno sguardo inquisitorio verso Michael, il quale irrigidito sul posto mi fissava con fare perplesso. Intanto, gli occhi di Janet erano un vagare fra me e Michael.
«Allora siamo fortunati! Che ne dici, Mike? Ci andiamo anche noi?». Quanto avrei voluto ucciderla. Lei e quella sua voce tanto innocente quanto perfida… Peggio di Gloria e Jenny e di Mrs. Phillips.
Michael sospirò sottile, per poi guardare Vanessa. «D’accordo. Come vuoi tu». Lo strozzavo. Giuro che l’avrei ucciso. Trattenni il fiato per evitare un urlo soffocato.
Perché aveva accettato? Perché non aveva rifiutato cortesemente quell’invito? Dentro di me una vocina diabolica mi chiedeva se fosse il caso di prendere entrambi e gettarli giù dal piano più alto dell’edificio. Un volo non sarebbe stato poi così male, rispetto al fuoco che sentivo a divampare nella mia anima.
«Vengo anche io, vi dispiace?», disse improvvisamente Janet, con un sorrisetto. Subito lo sguardo di Vanessa si fece serio, mentre trattenni a stento una risata sadica. Michael era esterrefatto.
«Ma certo. Preparo un momento le mie ultime cose nella tracolla e chiamo casa…», rispose tranquilla, ma con espressione concentrato, con sorriso che definii falso in tutti i sensi.
«Io vi aspetto fuori», ripresi io, non nascondendo la voglia di andare via. Michael mi fissò scioccato, mentre io con un sorriso mi diressi fuori, così veloce che sembrava avessi corso.
Raggiunsi la porta della stanza, per poi fiondarmi fuori. Mi appoggiai alla parete, ma non ci rimasi se non più per pochi secondi. Mi ritrovai a dirigermi verso il corridoio, lenta. Nel frattempo sfogavo sui miei capelli la rabbia verso me stessa, quella Vanessa e Michael, rendendoli ancora più ricci di quelli che erano di già. Guardavo in basso e riflettevo sulla mia stupidità.
Era ovvio che io non avevo nessuna possibilità di competere con quella ragazza. Lei di sicuro già lo conosceva da un pezzo, ed era addirittura affascinante. Ma perché mi affezionavo troppo in fretta alle persone a me vicine? Perché non imparavo mai dai miei sbagli?
Odiavo soffrire, e sapevo che se non cominciavo a darmi una regolata perfino con lui avrei patito più dolore che, con gli anni, era risultato meno sentito. Ma le mie barriere inflessibili all’esterno erano state sbriciolate in un secondo con Michael. Con lui ero me stessa, ogni muraglia era destinata a crollare. Non potevo lasciarmi sopraffare così, dovevo ritornare in me.
«Sharon», sentendomi chiamare mi volsi di scatto. Michael mi guardava serio, con una nota di rammarico. Io, di riflesso, lo squadrai da capo a piedi e mi posi in volto una faccia neutrale.
«C’è qualcosa che non va? Mi sembri seria…». Mi venne da ridere, ma mi trattenni. Sarebbe stata una risata di rabbia la mia. Guardai la parete a sinistra, lo fissai e poi scossi la testa, innocentemente.
«Perché mai?», risposi lasciando trasparire dalla voce una risatina che mi parve, invece che divertita, irritata. Ce l’avevo da morire con lui riguardo al fatto che aveva accettato il suo invito…
«Sharon», disse lui, avvicinandosi a me con passo lungo ma tranquillo. Sentii il cuore tornare in gola. «Capisco che c’è qualcosa che ti disturba… Me lo puoi dire. Posso capire».
All’ultima frase scoppiai a ridere, così convulsamente che sembravo una pazza isterica da ricovero, e Michael mi fissava sbigottito. Voltai lo sguardo verso il soffitto, sentendo l’avanzare di un istinto omicida.
«No, Michael. Non capiresti», esclamai convinta, sull’orlo di una crisi di nervi, tornandolo a guardare, con mani congiunte sui fianchi. Mi guardava confuso, poi una luce apparve nei suoi occhi.
Mi osservò scioccato, e qualcosa dentro di me mi disse che era probabile che avesse intuito… Intuito che cosa? Io non ero gelosa… Perché mai avrei dovuto esserlo? Di una gasata come lei? Di lui? Eppure, se non lo ero, come mai non riuscivo a lasciar scorrere la situazione?
«Non ti piace Vanessa?». Sentii un blocco allo stomaco e in parte mi decisi che aveva indovinato una parte di quella verità nascosta. Storsi la bocca, non sapendo se mentire o annuire, continuando a guardarlo.
Fece comparire in volto un espressione corrugata. «Se hai qualsiasi problema puoi dirmelo. Cercheremo di risolverlo insieme…». Ma come cavolo poteva non capire quello che provavo?
Eppure il suo sorriso… I suoi occhi imploranti… Perché mi faceva quell’effetto? Stava cominciando a piacermi, a piacermi sul serio, e non dovevo. L’esperienza avrebbe dovuto farmi crescere, ed invece tentavo a cadere al tranello di nuovo.
Però, sebbene la mia testa e la mia coscienza mi dicesse di stare all’erta e non fidarmi, il mio cuore voleva credere in lui. Avevo paura. Stavo pensando a come scappare, ad una soluzione che mi portasse il più lontano possibile da lì, da Michael. Lontano da una delusione che la mia mente mi diceva che, prima o poi, sarebbe arrivata. Da quando, dopotutto, la fortuna era dalla mia parte?
Sospirai, spalancando esasperata le braccia, alzando gli occhi al cielo. «Te l’ho detto. Non ho un bel niente. Sto bene, non sono arrabbiata né nervosa, sono solo…» …gelosa?
Qualcosa nello sguardo di Michael mi bloccò. Era pensieroso, pieno di dubbi, ma non potevo aiutarlo. Se voleva capire che cosa mi faceva fastidio doveva sforzarsi di capirlo da solo. Lo avevo sempre saputo che ero una ragazza orgogliosa e che non ammette la sua gelosia, ma non era questo il punto: se gli fossi piaciuta, avrebbe rifiutato l’invito di Vanessa. Ma lui non lo aveva fatto, e io ci ero rimasta male…
Mi bloccai prima di finire la frase, stringendo i denti non solo per l’errore che stavo compiere, ma anche per l’arrivo per niente atteso di Vanessa, accompagnata da Janet.
«Eccoci», disse Vanessa, con un sorriso da bambola diabolica sul volto. Quanto avrei voluto fulminarla con lo sguardo, impedirle di avvicinarsi morbosamente a Michael con quella sua camminata felina.
Silenziosi ci dirigemmo verso l’uscita, accompagnati dalle guardie del corpo di Michael dentro l’auto parcheggiata proprio di fronte all’edificio. Ogni mio neurone cercava di concentrarsi sull’arrivo al locale, ma era tutto inutile. Non potevo fare a meno di essere arrabbiata, di mostrare a Michael il mio volto riempito da un’espressione vuota e inespressiva.
In macchina, mi ritrovai all’angolo del finestrino sinistro, accanto a Janet, seguita poi a ruota da Vanessa e Michael. Nel frattempo che sia lui e sia sua sorella si travestirono con sciarpe e cappelli, per far modo che non si notassero più di quanto già si riconoscevano anche ad un cieco, l’innocente Vanessa cominciò a fare la divertente e dolce con Michael.
Io rimasi per tutto il viaggio in auto zitta, alcune volte guardando fuori dai vetri oscurati le luci della città, ignorando con tutte le mie capacità di concentrazione la voce malignamente soave di Vanessa. Perfino quella di Michael, in quel momento, riusciva a mettermi rabbia.
In quel attimo l’unica cosa di cui avevo bisogno era il suo sorriso, il suo contatto, nonostante non potessi fare a meno di odiarlo in un momento come quello. Forse non avevano sbagliato – le persone che mi stavano intorno – a dire che ero pazza. Una pazza orgogliosa e gelosa, possessiva, che in realtà mostrava di essere arrabbiata invece che di soffrire come una matta.
Quando capitava svolgessi i miei occhi su Michael, lo trovavo ad osservarmi attento, inquieto. La sorella, intanto, mi rivolgeva sorrisi cordiali e dolci, a volte alzando gli occhi al cielo per la risata acuta di Vanessa. In compenso, grazie a lei non tutto il tempo passato in quella macchina era una depressione totale. Pensavo che perfino avesse capito più lei del fratello riguardo i miei sentimenti!
Senza enunciare parola ed ignorando completamente gli sguardi che mi rivolgeva Michael, arrivammo finalmente al locale. Per fortuna quel giorno – di domenica sera – il locale era abbastanza vuoto, tanto bastasse per non far risaltare all’occhio lui e Janet. Scesi immediatamente dall’auto, di corsa, rischiando perfino di inciampare nelle mie stesse scarpe, di nuovo.
Sentii una risata cristallina e vomitevole alle mie spalle – era senza dubbio quella di Vanessa –, e senza curarmi che gli altri mi seguissero proseguii verso l’interno del locale, verso la mia seconda casa.




CAPITOLO NOVE
PUNTO DI VISTA: MICHAEL JACKSON


Mi diressi a sguardo basso verso l’interno del locale, seguito a ruota da Vanessa, poco più indietro rispetto a Janet. Sharon era corsa subito verso il bar, lasciandomi ad osservarla senza una parola, scombussolato.
Era stata molto strana con me da quando aveva conosciuto Vanessa. Era lei la causa principale del suo malumore, ma non sapevo definire perché. Era fredda, non mi rivolgeva il suo sguardo, e io mi sentivo come un cane bastonato. Non mi aveva rivolto parola da quando eravamo stati interrotti, in corridoio, e cercava sempre di evitare i miei occhi. Non riuscivo a capire perché fosse arrabbiata.
Vanessa era solo una delle ragazze del video, l’avevo conosciuta il giorno dei provini per le comparse, e avevo intuito da subito che le piacevo. Purtroppo per Vanessa, a me lei non interessava. Mi dispiaceva però deluderla, perciò non ero riuscito a dirle di no riguardo l’appuntamento. Era bella, affascinante, ma non era… Non era come Sharon. Sharon era solare, divertente, dolce, energica... Unica.
Non potevo assolutamente paragonare lei a Vanessa, eppure Sharon non sembrava capire questo fatto importante. I miei occhi e il mio cuore erano attratti principalmente da lei, e da nessun altro. Lei era la voce fuori dal coro, l’unica che, come me, andava contro la corrette, quella nella quale le persone vedono in un modo differente da noi il mondo.
Non potevo mentire. Per tutta la cena con Sharon ero stato bene e dal momento che non mi aveva più rivolto il suo sorriso, ma solo uno sguardo neutro, mi ero sentito vuoto. Lei mi piaceva e me ne ero accorto solo dopo quell’attimo di freddezza tra noi. Volevo esserle accanto, non riuscivo a resistere all’idea che fossi io, in qualche modo, a farla soffrire.
Quando entrammo nel locale ci posizionammo in un angolo, quello dove mi ero seduto il giorno prima, e notai che non c’erano molti clienti quella sera, circa una decina. Di solito ce ne erano al massimo una ventina o molti di più, da quando ero entrato per la prima volta.
Con lo sguardo cercai Sharon e la vidi andare dietro il bancone, di corsa, non degnando di uno sguardo nemmeno Ilary, la ragazza sua amica. Anch’ella rimase di stucco dal suo atteggiamento furioso e d’improvviso si propense a fissarmi, stupita. Mi sentii sprofondare dalla vergogna che fosse colpa mia ma non distolsi lo sguardo, finché Ilary perplessa cominciò a bisbigliare a Sharon.
Osservai con cura Sharon rispondere alla ragazza con espressione arrabbiata, delusa. Rivolgeva continuamente il suo sguardo da Ilary al banco o alle ordinazioni che svolgeva, senza lanciare il benché minimo sguardo su di me. Mi sentivo vuoto.
Vidi più volte Sharon aggrottare il volto, mostrando il broncio come una bambina piccola, fino a quando non prese l’amica per il polso e si diresse fuori dal bancone, lanciando ad un ragazzo lo straccio per pulire, segno evidente che dovesse prendere il loro posto per il momento.
«Ehy Mike», disse melodiosa Vanessa, attirando mal volentieri il mio sguardo verso di lei. Mi accolse con un sorriso a 32 denti. «Che pensi di prendere da bere?»
Mia sorella intervenne, sebbene non interpellata. «Io prendo una Soda, se ovviamente sei così educata da chiedere anche a me l’opinione».
Strike uno a favore di mia sorella.
Vanessa tornò seria, mentre un lieve sorriso mi comparve fra le labbra. «Io penso di prendere una Cola, per questa serata. Non bevo alcolici. Chiamiamo il cameriere?»
«Io in realtà vorrei andare in bagno un attimo, se arriva puoi – potete – ordinare una Cola anche per me?», chiese Vanessa. Io annuii e lei si diresse a passo svelto al bagno, chiedendo prima dove fosse al banco.
Una volta sparita dalla mia vista e quella di Janet, mia sorella prese a fissarmi. Io la osservai di rimando un attimo, poi guardai di nuovo il bancone. Ma lei continuava a guardarmi imperterrita.
«L’hai uccisa, lo sai?», disse, interrompendo bruscamente ogni mio pensiero. Mi voltai di scatto, serio, fissandola negli occhi. Janet, tranquilla, mi osservava con un lieve sorriso fra le labbra.
«Di che parli?», chiesi, cercando di capire se avesse intuito a chi stavo pensando. Lei ruotò gli occhi verso l’alto, sospirando impaziente. Poi tornò a guardarmi, come fossi un caso senza speranza.
«Sai di chi parlo. E ti dico che, accettando la proposta di Vanessa, si può dire che tu l’abbia “colpita ed affondata”. Mi sa che ti ci voglio io per capire fino a che punto l’hai delusa…»
Il mio sguardo passò al tavolo, non potendo più reggere il suo sguardo accusatorio, nel frattempo che i miei sensi di colpa aumentavano a dismisura. L’avevo davvero ferita così tanto come faceva intendere Janet?
«Secondo te è arrabbiata tanto da non parlarmi più?», risposi, lanciando una fugace occhiata al bancone, sospirando poiché Sharon non si faceva ancora vedere. Che stava facendo?
«Questo non lo so. Di sicuro ci è veramente rimasta male», disse Janet, bloccandosi quando il cameriere intervenne per le nostre ordinazioni. Ordinammo e se ne andò spedito al banco, poi continuammo.
«Parlale, magari risolvete», riprese mia sorella, guardando verso la toilette per vedere quando arrivasse Vanessa. Io scossi la testa, confuso da morire. Avevo il caos nella mente.
«Non penso mi parlerebbe. Ci ho provato anche prima, ma non voleva dirmi niente. L’ho ferita e non so come fare per rimediare...», risposi. Davvero non sapevo che dovevo fare.
Mi sentivo attanagliato dentro da un timore allucinante, così potente da farmi venire mal di testa. Nella mia mente, rivedevo lo sguardo di Sharon. Dovevo rimediare. Assolutamente.
«Provaci un’altra volta, falle capire che ti dispiace. È difficile, ma prova...», dopo una breve pausa, continuò. «Se ti interessa sul serio, tenta. A lei piaci, e molto anche...»
«Da cosa lo deduci?», ma non rispose, poggiando lo sguardo alle mie spalle, in direzione di Vanessa, appena seduta accanto a me. Non mi ero accorto che era arrivata, perciò mi ammutolii.
«Avete ordinato?» chiese con un sorriso, col tentativo di rompere il nostro improvviso silenzio. Io e Janet annuimmo, muti, e con un ultimo riso si propense con noi a guardare le varie esibizioni live.
Ma la mia mente era assente. Ero dall’altra parte della sala, con Sharon. Il mio pensiero era a lei. Cercavo in tutti i modi una soluzione, un coraggio che mi mancava, una paura nella sua reazione e in quello che sarebbe successo se avessi parlato con lei. Mi avrebbe perdonato? Oppure avrebbe continuato per sempre a tenere quella nuova barriera di freddezza fra noi?
L’unica cosa di cui ero certo era che non potevo starmene lì, fermo, mentre lei stava male. Stavo male anche io. Come potevo resistere a lungo senza il suo sorriso? Senza i suoi occhi pieni di quella luce speciale ed indefinibile? Come potevo tener duro di fronte al suo sguardo offeso e amareggiato a causa mia?
Nel frattempo che riflettevo sui miei sentimenti e dubbi, vidi Ilary – l’amica di Sharon – al bancone senza l’amica. Allo tempo stesso quando mi accorsi che Sharon era assente, mille domande cominciarono a vorticarmi in testa sul perché non ci fosse. Sentii l’istinto di alzarmi in piedi, ma quando Ilary mi guardò qualcosa mi disse di non muovermi.
Nel suo volto, un misto fra confusione e compassione mi attraversò dentro, facendomi intendere che nel significato di quell’occhiata c’entrasse anche Sharon. Mi rivolse un mezzo sorriso dispiaciuto, poi tornò alle ordinazioni.
I clienti arrivarono fino ad una quindicina abbondante, la musica continuava a risuonare e la voce di Vanessa riprese a parlare con me… Ma io non ero presente. Totalmente assente da quel luogo, aspettavo lei. Il perché di come riuscisse a rendermi così preoccupato per lei, in quel attimo, passò oltre tutto. Oltre la mia confusione, il mio rimorso.
Rispondevo cordialmente a Vanessa, ma sapeva anch’ella che non era il momento giusto per rivolgermi parola. Con un fulmineo sguardo vidi Ilary avvicinarsi con le nostre ordinazioni.
«Ecco a voi», disse una volta poggiando i drink a ciascuno. Prima di andarsene mi rivolse un’occhiata curiosa ed attenta, e poco dopo pochi passi mi alzai in piedi, volenteroso a raggiungerla.
«Michael!», disse Vanessa, sbalordita, sotto lo sguardo sorridente di mia sorella. Subito Janet mi lasciò lo spazio per passare, aumentando il fastidio dell’altra. Altro strike per lei.
Ringraziai mia sorella con un cenno del capo, dirigendomi veloce verso la ragazza. Una volta raggiunta, con un lieve tocco sulla spalla la chiamai a voltarsi verso di me, con occhi strabuzzati.
«Scusami…», dissi, riprendendo poi cercando un tono che non facesse riconoscere la mia voce. « Ehm, sai dove posso trovare Sharon, la tua amica? È importante, davvero…»
Alla mia frase rimase di sasso, a bocca aperta, incapace di formulare qualcosa di concreto. Volse il suo sguardo verso le quinte del palco, per poi guardarmi di nuovo negli occhi. Per un minuscolo attimo pensai che probabilmente mi aveva riconosciuto, perciò mi allontanai di mezzo passo.
Neanche emise parola, che d’improvviso il palco si oscurò, pronto ad accogliere una nuova esibizione.
Una donna di mezza età, dai capelli biondo cenere e occhi straordinariamente verdi, salii sul palco, illuminata da una delle luci bianche. Sorridendo, venne accolta con un applauso da tutti i presenti, mentre io rimanevo in piedi immobile. Un flash nella mia mente mi ricordò che era la donna che, due sere prima, aveva cantato con Sharon, il primo giorno in cui ero al locale.
«Buonasera! …Grazie, grazie», disse, sorridendo ai molti applausi dei presenti. Dette un colpo di tosse leggero e poi riparlò. Io e Ilary, nel frattempo, non ci muovevamo di un millimetro, guardando la donna.
«Mi sembra davvero il caso di movimentare la serata, che ne dite?», urli da parti dei clienti, poi continuò con il sorriso. «Vedo che siete d’accordo, be’… Penso che solo una persona sia quella più adatta…»
La donna fece una faccia finta confusa, poi sorrise nuovamente. «Vediamo… Posso farvelo capire cantando questa canzone… Mh… Just a still town girl on a Saturday night, lookin’ for the fight of her life, in the real-time world no one sees her at all… they all think she's crazy»
Un applauso e gridi di contentezza si levarono non solo per l’intonazione eseguita con la frase, ma perché evidentemente avevano capito chi era. A solo poche parole, io aveva già intuito chi fosse. Sentii il respiro bloccarsi per un secondo, subito dopo il cuore.
«Dato che avete capito chi è lei, lasciamole posto con una delle sue meravigliose coreografie… Signori e signore, buona permanenza al locale». E così dicendo, scese giù dalla scaletta del palco, mentre l’oscurità ricopriva di nuovo il palco e l’attesa – per me – si faceva sempre più estenuante.
Ilary rivolse un’occhiata fuggevole verso di me, in attesa che continuassi il discorso o che aspettassi impaziente la sua risposta, ma in quel momento l’unica cosa che desideravo era vedere Sharon ballare. Quanto bramavo quell’attimo di adrenalina. Forse quello sarebbe riuscito a darmi la forza e il coraggio per andarle a parlare. Almeno, lo speravo.
D’improvviso una musica leggera, una chitarra, accompagnato dal continuo schiocco delle dita, dette l’indizio che l’esibizione stava per incominciare. Una luce tenue illuminò un corpo femminile, la quale avanzava sicura attraverso l’oscurità del palco scenico. Quella canzone era anch’essa di Flashdance, il titolo era “He’s A Dream”, la stessa che balla Alex nel film quando la si vede danzare per la prima volta.
Pochi secondi la sua entrata accenna a qualche passo suo, poi prima che la musica cominciò a farsi più movimentata finalmente una luce bianca la illumina; e io rimasi paralizzato. Paradisiaca, vestita con pantaloni in velluto e giacchetta neri, senza camicie e solo con un top che le fasciava il petto di color nero, cappello anch'esso nero, seduta su una sedia in mezzo al palco. I suoi capelli ricci e senza legami, occhi e pelle vengono risaltati dalla luce.
Il suo sguardo fu inizialmente serio, poi man mano che la musica si fa più scatenata la vidi sorridere. Girava su sé stessa, produceva passi che non avevo mai visto prima in vita mia, alcune volte chiuse perfino gli occhi. Tutti furono stupefatti, i più audaci riuscirono ad applaudire, ma io rimasi immobile. Non mossi un passo, ma non distolsi i miei occhi di dosso da Sharon.
Era stupenda. Non riuscivo a esprimere nemmeno a me stesso la sensazione che mi fece palpitare dentro nel profondo. Era una farfalla senza catene, a volte sembrava perfino che volasse, alcune volte era così aggressiva ed energica che sembrava una bomba pronta ad esplodere. Era elettricità allo stato puro.
Mi sentii arrossire più volte durante quella sua esibizione. Era così bella che non poteva essere reale. Aveva un fisico curvilineo, più forse di una ragazza dalla corporatura "normale"; sembrava fatta di morbida ceramica di delicata pelle mulatta.
Ad un certo punto, sentii Ilary emettere un suono soffocato, quasi un respiro bloccato. Le lanciai un’occhiata, vedendola con occhi sbigottiti che guardava Sharon sedersi accattivante sulla sedia.
«Non posso crederci che lo vuole fare!», esclamò, non distogliendo lo sguardo dall’amica che intanto sorrise. La mano di Sharon raggiunse una maniglia, agganciata ad un filo, e dentro di me capii quello che volle – o ebbe intenzione – di fare.
Un attimo di silenzio, la musica fece una pausa. Lei chiuse i suoi occhi, mordendosi un labbro inferiore, tirando secca la catena. In un attimo, il suo corpo venne bagnato di acqua, proveniente dall’alto.
Non potevo credere nemmeno io a quello che aveva fatto. Ilary immediatamente si mise le mani in volto, sconvolta, mentre io guardavo Sharon accennando ad un sorriso. Che adorabile pazza!
Ma lei proseguii, nonostante l’acqua sul suo corpo, ancora più scatenata di prima. Era una furia, proprio una maniaca sul palcoscenico, come diceva la canzone di Flashdance. La mia maniaca era sempre così stupenda.
Non riuscivo a staccarle i miei occhi di dosso, sorridendo di rimando, incapace di pensare concretamente a qualcosa di giusto da poter dire o fare, una volta che avesse finito di ballare.
Poi, all’improvviso, Sharon mi rivolse un’occhiata. Era uno sguardo fulmineo, ma il contatto mi procurò brividi sulla schiena; possibile che potesse una ragazza rendermi così stravolto? Forse Janet aveva ragione… Se mi interessava così tanto, non dovevo perderla. Dovevo lottare per ottenere di nuovo il suo perdono. Avevo sbagliato, perciò dovevo rimediare.
Nel frattempo che io continuavo a fissare Sharon, Ilary volse il suo volto verso l’entrata del locale. Pensai fosse entrato un cliente, perciò la mia curiosità non si spinse ad osservare chi fosse. Poi, quando notai una luce di panico nello sguardo, mi voltai anche io amaramente.
Fissava un uomo, alto, dai capelli neri e brizzolati, dagli occhi castano scuro. Azzardai fosse una persona sulla cinquantina, o anche più giovane, e mi chiesi se avesse a che fare con Ilary oppure con Sharon. L’uomo guardò me con espressione vacua, poi lei, con un sorriso.
Volsi i miei occhi verso Ilary – stranamente preoccupato – e la sentii irrigidirsi al mio fianco. Proprio in quel momento la musica finì, e nel frattempo che gli applausi partivano da tutti i clienti Ilary fissò ansiosa Sharon, la quale stava seduta sula sedia e prendeva il respiro.
«Cazzo…», sussurrò Ilary a denti stretti, con occhi spalancati dalla paura. Continuava a guardare Sharon, mentre io guardavo lei. Che stava per succedere adesso, in quel locale? Sharon era in pericolo?
Senza badare a me, Ilary corse verso il palco fino a raggiungere Sharon, la quale la fissava sbigottita. Non mi accorsi che Janet si era alzata e mi aveva raggiunto a fianco, poggiando una mano sul mio braccio.
«Che succede?», disse sottovoce. Non ricevette risposta da me, troppo preoccupato a leggere tra le labbra delle parole di Ilary e Sharon. Nel frattempo, la donna che aveva presentato andò velocemente lungo il corridoio poco illuminato accanto al palco. Nessuno emanava il minimo suono.
Poi, lo sguardo di Sharon incrociò per un breve minuto i miei occhi, poi quelli dell’uomo a pochi metri di distanza da me. La sua confusione si trasformò in shock, poi in rabbia. Una rabbia convulsa da un respiro affannato, mentre si irrigidiva sul posto.
Ilary la guardava con paura – quasi avesse paura in una sua reazione esagerata – e io altrettanto preoccupato. Vederla così agitata, sentivo un immotivato timore pervadermi il corpo e il sangue che mi scorreva fra le vene. L’uomo la guardava con un sorriso, ma qualcosa dentro mi diceva che fosse tutt’altro che cordiale. Provocatorio.
Ma che aveva a che fare quell’uomo con lei?




CAPITOLO DIECI
PUNTO DI VISTA: SHARON VILLA


Il ricordo divampò veloce come un lampo nella mia mente, procurandomi brividi in ogni parte del mio corpo.
Era una sensazione di ribrezzo, disgusto, ansia di una paura e una rabbia repressa del passato che, nonostante il tempo, non riuscivo a placare. Non potevo non dimenticare che cosa mi aveva fatto. Non potevo scordare la profonda ferita che mi aveva provocato nel cuore.
L’unico uomo che avevo amato incondizionatamente in vita mia. L’unico che non sarei mai riuscita a perdonare. L’uomo che mi aveva cambiato la vita in un secondo e mi aveva provocato un dolore che non avrei augurato mai a nessuno: mio padre.
I suoi occhi scuri mi riportavano alla sofferenza terribile che mi aveva portato. Alla violenza che avevo subito. Alla paura che avevo provato, che improvvisamente un giorno si trasformò in rabbia e odio. Il rancore per quello che aveva fatto a mia madre, senza motivo, e a me. Il papà che prima dei miei sette anni d’età pensavo fosse il papà migliore del mondo.

Fino alla morte del fratello.
Mio padre Anthony e suo fratello erano stati fin dalla nascita gemelli, uno non poteva stare senza l’altro.
Quando lo zio morì, per mio padre fu il disastro. Cadde in depressione, non sorrideva più, e una notte tornò a casa ubriaco fradicio, senza più il controllo del suo corpo e della sua mente. Era irritabile, provocatorio… Sembrava posseduto.
Mia madre – che da sempre mi voleva un bene dell’anima – faceva il possibile per impedirmi di credere che mio padre fosse quello che era: un uomo ormai sotterrato dalla rabbia e dalla sua insoddisfazione per la vita. Aveva cercato di impedirgli di fare del male anche a me, ma non ci era riuscita.
Quella notte d’inverno del 1968, quando tornò a casa, picchiò mia madre senza motivo. La violentò. La punì per qualcosa che non aveva fatto. Io non potevo starmene a guardare; ero scesa in cucina, chiedendomi il perché di quel caos, e quando ero intervenuta per aiutare la mia mamma aveva picchiato anche me. Anche io ero stata punita.
Da quel giorno, il papà migliore del mondo si era trasformato in una bestia senz’anima. Soffrivo come una dannata, piangendo sentendo gli urli soffocati di mia madre Alicia e ogni volta subite le sue violenze sul mio corpo e, soprattutto, nel mio cuore.
Che cosa c’entravamo io e mia madre con il suo dolore per il fratello scomparso?! Che cosa avevamo fatto per meritarci tutta questa brutalità. Eravamo sempre stati una famiglia felice, prima di allora. Il suo affetto era stato molto importante per me, e in un secondo era riuscito a svanire per sempre.
Le botte e le violenze andarono avanti per anni, mentre la paura ogni notte tornava. Con l’oscurità, tornava mio padre. Ogni notte la passava in un locale, alcune volte non tornava per giorni e giorni. Era stato licenziato dal suo lavoro, e quando non lo vedevo in casa mi sentivo sollevata. Mi sentivo senza un peso e senza una paura incombente.
Fino a quando morì mia madre.
Avevo solo 18 anni quando se ne andò. La mia vita sembrò andare in frantumi. La mia mamma era morta giovane, per infarto, un giorno quando io non ero a casa. C’era solo mio padre… O meglio dire, colui che un tempo chiamavo padre. Non aveva fatto niente per aiutarla. Niente. L’aveva vista morire.
La collera prese il posto del sangue, asfissiandomi il cervello, tanto che d’istinto colpii con un pugno in volto mio padre. Gli urlai che lo odiavo, che era colpa sua se la mamma non era mai stata felice. Gli dissi che era un bastardo, che non avrebbe mai avuto il mio perdono per avermi rovinato la vita.
Dal giorno del funerale abbandonai la casa dove abitavo con mia madre e mio padre, e andai al college.
La cercai di scordarmi di lui. Cercai di dimenticare il dolore, la violenza, la rabbia, ma l’odio no. Non lo perdonavo non solo per aver picchiato me e la mamma, ma per non averla salvata soprattutto. Era morto per me. Mio padre Anthony era morto all’età di sette anni, questo dicevo a chi mi chiedeva che fine aveva fatto. E mentre dicevo quelle parole, il mio odio diventava maggiore.
Dopo tutto quello che la mamma aveva fatto per me, per noi, per la nostra dignità di famiglia unita… Tutto quello era scomparso per sempre, come cenere. La sua morte aveva definitivamente chiuso il mio rapporto con lui. Ancora ricordavo come avesse cercato di persuadermi a non andare, a restare con lui, solo per un suo interesse di sopravvivenza economica.
Aveva tentato di bloccarmi prima con le buone, con le parole, poi con le cattive; ma io non ero più la bambina di un tempo, debole e senza il coraggio di ribellarmi alla sua stessa violenza. Quando appoggiò la sua mano sul mio braccio di nuovo – nonostante il forte pugno che non gli avevo già risparmiato -, lo avevo colpito in pieno volto. Lui cadde per terra, sanguinante al naso, ed ero corsa via.
Fuori da quell’incubo di una intera infanzia e adolescenza.

E ora, rivederlo lì, a pochi metri da me… Tutto mi sembrava confuso. Il mio cuore batteva all’impazzata dall’odio che ancora, dopo quasi dieci anni dalla nostra “separazione”, avevo cercato di placare inutilmente. Un odio che nessuna qualsiasi anima avrebbe potuto smettere di andare avanti.
Mi sorrideva, falsamente dolce, ma sapeva che non doveva aspettarsi niente da me. Se solo pensava avrebbe avuto il mio perdono, il mio amore, la mia compassione e i miei soldi si sbagliava.
«Sharon...», sussurrò Ilary, guardandomi preoccupata. Io, senza ricambiare lo sguardo intimorito della mia amica, rimasi immobile. Aspettavo una mossa di quel bastardo.
«Ciao, figlia mia…», disse Anthony – non lo chiamavo più papà, poiché addossare quella parola a lui era un complimento che non meritava – con fare gentile. Mi stava provocando.
«Da quando sono figlia tua, eh Anthony?», dissi sottolineando il nome. Lui mosse percettibilmente le labbra, quasi per ribattere, poi da uno sguardo serio sorrise divertito.
«Non chiamarmi così, Sharon. Dimentichi che sei mia figlia?», continuò inclinando lieve il capo. Strinsi le nocche, arrabbiata, e mi diressi verso la scaletta che mi portava giù dal palco.
«No, Anthony», risposi, provocatoria, inarcando un sopracciglio. «Tu non sei mio padre. Mio padre è morto da tanto tempo ormai…»
Lui rise divertito, ma io continuai, avendolo raggiunto a quasi un metro di distanza. «… Da quando io avevo sette anni lui ha smesso di esistere per me».
«Avanti, amore, non essere così», disse con un sorriso tra il divertito e il supplichevole.
«Non chiamarmi amore!», sibilai furiosa. Nei miei occhi lo specchio di tutto l’odio cercato di nascondere si stava risvegliando. «Non ero il tuo amore quando tornavi a casa, ubriaco, alla sera, e picchiavi me e mia madre dandoci la colpa dei tuoi fallimenti!»
Stavo alzando i toni, ma poco mi importava. Non badai nemmeno agli sguardi preoccupati dei clienti, né ad Ilary che mi stava lontano a pochi passi con gli occhi sbarrati dalla paura. Solo uno sguardo, fra tutti, incrociai.
Michael mi fissava da dietro il travestimento con occhi anch’essi sbarrati, un misto fra preoccupazione, dolore e timore. Sua sorella, accanto a lui, lo teneva per una manica della camicia, mentre mi fissava.
«Ero depresso per la morte di tuo zio, lo sai», disse mio padre, avvicinando una mano verso la mia distesa lungo al fianco. Io, con gesto incondizionato, l’allontanai con scatto d’ira.
«Depresso? Ti sembra giusto picchiare e violentare tua moglie e tua figlia – tua figlia?! Chi ti dava il permesso di prendertela con noi e sfogare tutta la tua rabbia per la vita e per i tuoi fallimenti?»
Non mi accorsi nemmeno che la mia voce tremava, rabbiosa, di un dolore soffocato che si stava trasformando in parole di sfogo e lacrime d’odio. Il mio respiro soffocato rendeva perfino difficile parlare.
«Io ti credevo il papà migliore di tutti! E tu mi hai ferito! Ti sembra poco?!», chiesi urlando, non riuscendo più a controllare le lacrime che rendevano la mia vista offuscata e la voce a singhiozzi.
Sentii prendermi un braccio da qualcuno e senza badare chi fosse me lo scrollai di dosso violenta. «Sharon, calmati!», disse John, il mio capo, che nel frattempo era stato chiamato da Isabel.
«No! Io non mi calmo!», urlai disperata e furiosa. Lui indietreggiò di un passo alla vista delle mie lacrime e dei miei occhi ricolmi di odio. Poi, dopo aver osservato tutte le persone alle mie spalle – Ilary, suo fratello, Isabel e John – mi rivolsi di nuovo ad Anthony.
«Che cosa ci fai tu qui? Spiegami che cazzo pretendi ancora dalla mia vita, EH?!», chiesi ormai isterica, avendo perso definitivamente anche il minimo lampo di ragione dentro di me. Mi misi una mano fra i capelli, respirando affannosamente. Continuavo a piangere, facevo fatica a respirare. Mi sentivo morire.
«Pensi davvero di poter tornare qui, ADESSO, e chiedermi di perdonarti? Per chi mi hai preso?! Io non ti perdonerò mai per tutte le botte, per la violenza, per il DOLORE che mi hai causato! HAI CAPITO?!»
Improvvisamente Michael mi si avvicinò, tenendomi per le spalle e avvicinandomi a lui. Io, quella volta, mi lasciai andare. Affondai la testa fra l’incavo del suo collo, continuando a fissare mio padre piangendo. Le braccia di Michael mi tenevano stretta, accarezzandomi le braccia, appoggiando le sue labbra sulla mia fronte, sfiorando i miei umidi capelli bagnati.
Non potevo piangere, perché piangere significava dargliela vinta. Eppure non riuscivo a smettere.
Mio padre mi fissava, inespressivo, per poi gettare il suo sguardo a terra. «Sharon ho sbagliato, scusa. Il fatto che ho bisogno di te… Ho bisogno di mia figlia!», disse con voce bassa e lieve.
Staccai il mio volto dal petto di Michael, tenendomi comunque stretta a lui per le maniche. «Bisogno di tua figlia? È troppo tardi! TROPPO!», urlai infine disperata.
«Shh… Tranquilla…», disse Michael, sottovoce all’orecchio, accarezzandomi i capelli. Nonostante la rabbia, sentii i brividi attraversarmi il corpo. «Ci sono io».
Ilary si avvicinò a me e a Michael, docilmente. «Portala via, Michael», disse. Per fortuna non era svenuta, quando le avevo detto che lui era Michael Jackson… Ma in quel momento non ci feci caso.
Michael mi dette un lieve bacio sulla fronte, continuando ad accarezzarmi. Nel momento in cui mi voltai per incamminarmi con Michael, sua sorella e Ilary, sentii un braccio afferrarmi da dietro, quello di mio padre, e il ricordo di una scena simile attraversò la mia mente. Anche quando era morta la mamma mi aveva preso così. Con la stessa freddezza e pressione che non ammetteva regole. Incontrollata, mi voltai di scatto e lo colpii con uno schiaffo in pieno viso.
Alcuni dei clienti si alzarono in piedi, i loro bisbigli si facevano di shock e paura. Isabel si mise una mano in volto, scioccata; John, corse da mio padre, intento a rialzarlo da terra; nel frattempo che il caos si scatenava, Michael mi afferrò con le braccia legate al mio petto.
«NON OSARE MAI PIÙ TORCERMI CON UN DITO, BASTARDO!», urlai contro mio padre piangendo, scossa da spasmi di rabbia. Michael mi voltò verso il suo petto e nascose il mio viso fra l’incavo del suo collo, ancora scossa dai singhiozzi.
Non stavo piangendo perché ero triste. L’unica emozione che sentivo navigare dentro di me era l’odio. Questa rabbia portava ad odiare me stessa, ma era la sola sensazione appagabile al mio stato d’animo.
«Mi dispiace che dopo tutto questo tempo tu non abbia smesso di odiarmi… Ero venuto per…»
«Non mi sei venuto a trovare in quasi dieci anni, PERCHÈ PROPRIO ADESSO?», esclamai piena d’ira. Michael mi strinse ancora più forte a sé, cercando in un modo o nell’altro di calmarmi.
Mio padre Anthony mi guardò, poi finito di massaggiarsi la guancia dopo un attimo di silenzio continuò: «Sei come tua madre… Non hai mai capito che se vi facevo quel che facevo lo facevo per il vostro bene!»
Michael, che nel frattempo mi teneva stretta, s’irrigidì sul posto. Una piccola parte di me si chiese il perché, poi sfruttando quell’attimo di poca pressione da parte delle sue braccia mi lanciai contro mio padre.
Sentii alcuni clienti urlare, mentre io presi mio padre per il colletto della camicia. Lo spinsi contro un tavolo, facendo rovesciare alcuni bicchieri al di sopra, che s’infransero a terra. Quando arrivai accanto a lui, mi avvicinai a pochi centimetri dal suo volto. Occhi negli occhi, con i miei capelli bagnati che coprivano una parte del viso, dissi:
«Lo sai vero che succede a chi mente così spudoratamente come stai facendo tu? A chi violenta e picchia sangue del proprio sangue, sua moglie compresa?», dissi bisbigliando. «Li manda all’inferno…»
Con quest’ultima frase riempita da tutto il mio odio, mi staccai da lui di scatto. Subito venni trattenuta per un braccio da Michael – che riconobbi subito nonostante non lo stessi guardando – e mi spinse delicatamente contro il suo torace. Accettando quel contatto, mi strinsi con tutta la forza della mia mano alla sua camicia.
Anthony continuò a guardarmi fisso, con sguardo leggermente adirato, mentre John lo raggiunse. Anch’egli mi fissò, scioccato, e senza proferire parola Michael mi portò via. Ilary lo guardò e, di scatto, s’incamminò verso il corridoio accanto al palco, quello che portava ai camerini del locale.
Inseguiti da Janet e Vanessa - la quale non aveva ancora enunciato parola – ci incamminammo di fretta verso il camerino dove poco prima mi ero cambiata per la mia esibizione, prima che la mia serata fosse rovinata da quell’uomo che una volta chiamavo papà.
Non mi accorsi nemmeno di essere entrata nella stanza. Michael, continuando a tenermi per mano e massaggiando la nuca e i capelli, si sedette accanto a me in una poltroncina in velluto nero accanto all’armadio guardaroba, mentre Ilary mi rimase accanto in piedi e Janet e Vanessa stavano lontane a qualche metro. Dopo tutto quello che era successo, non avevo più la cognizione sul dove fossi.
«Devi bere un bicchiere di acqua...», disse mite Ilary, accarezzandomi una guancia. Io guardavo per terra, senza distogliere il mio sguardo scioccato, e il silenzio regnava in stanza.
«Be’», disse Vanessa intimorita. «Non mi aspettavo avessi un passato così tremendo… Mi dispiace per te».
La sua voce smielata mi dava i nervi, perciò per evitare di arrabbiarmi un’altra volta decisi che era meglio farla tacere una volta per tutte. Non mi serviva la sua falsa tristezza.
«Vanessa», dissi con tonalità neutra, chiamandola per la prima volta per nome. «Non mi serve la tua compassione adesso. Veramente non ne ho bisogno… Mi dispiace».
Alzai lo sguardo – ignorando gli occhi felici di Janet a quella mia risposta – e vidi una Vanessa che, in parte offesa, mi fissava con occhi sgranati. Dopodiché guardò Michael, mentre nel suo volto potei scorgere un mezzo sorriso. Se soltanto avrebbe provato a fare la vittima con lui era la buona volta che la uccidevo…
«Volevo solo cons…», rispose, ma venne subito interrotta da Michael, lasciandola nel bel mezzo del suo discorso a bocca aperta dalla sorpresa.
«Janet, è meglio che tu e Vanessa andiate a casa. Io… Rimango ancora un po’», disse guardandomi dolce, sfiorando con la sua dolce mano la mia guancia destra.
«Sei sicuro?», chiese la sorella preoccupata. «Se ti scoprono…?»
«Non succederà, tranquilla», rispose immediatamente. Janet accennò ad un assenso col volto, poi si avvicinò a me abbracciandomi dolcemente. Io mi lasciai a quella stretta, non riuscendo però a ricambiarla, dopodiché sia lei che Vanessa se n’andarono, quest’ultima non salutandomi nemmeno. Se fosse stata furba, lo avrebbe fatto, per non fare brutta figura.
Anche Ilary se ne andò, lasciando me e Michael da soli. Prima di andarsene disse a Michael di chiudere la porta, in caso di intromissioni, e quando lui si risedette accanto a me dopo averla chiusa a chiave mi toccò la mano.
Sentivo il suo sguardo su di me.
«Sharon…», disse con voce rotta. Io, incontrollatamente, lo guardai negli occhi. Come mi aspettavo, al contatto con i suoi occhi, due grosse lacrime offuscarono la mia vista e bagnarono il mio volto.
Poco dopo, mi lasciai andare in un pianto disperato, affogando con il volto di nuovo fra l’incavo del suo collo, lasciando che mi tenesse stretta, cercando una possibile via d’uscita da quella oscurità.

tati-a4ever
00lunedì 20 giugno 2011 01:20
Re:
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Capitolo Undici.
Maybe it was too late.
Punto di vista: Michael Jackson/Sharon Villa.


Sharon desiderò che Michael fosse lì con lei, per cercare di aiutarla. Pregava in un miracolo, nel suo miracolo, ma era troppo tardi. Un flash del suo contatto dolce e delicato sulle sue guancie prese per un momento il posto di quella paura, mentre il ricordo sei suoi occhi lucidi le sollevavano per quel poco il suo cuore.

***
Un’ora prima...



«Sharon…», dissi con voce sottile, tremante. «Per favore… Non piangere... Va tutto bene adesso… »
Stava con il suo volto nell’incavo del mio collo, continuamente attraversata dagli spasmi del pianto di sfogo, stringendomi fortemente per un pezzo della camicia. Continuava a piangere, incontrollatamente, solo da quando, in quella stanza, eravamo rimasti noi due e basta.
Mi si stava spezzando il cuore. Le sue lacrime erano piccole schegge di vetro che attraversavano la mia anima, rendendo anche me sofferente del suo stesso dolore. Non potevo vederla e sentirla piangere disperata, soprattutto ero ancora turbato da quello che era successo poco prima… Era suo padre quell’uomo. Un uomo che l’aveva e la stava facendo soffrire.
Come non potevo non compatirla? Anche io avevo avuto un passato così. Un passato orribile. A quel pensiero, un lungo brivido attraversò come un lampo la mia schiena, istintivamente stringendo di più Sharon. Non solo mi stavo sentendo male per la situazione, ma il ricordo del mio stesso passato molto simile al suo mi faceva stare ancora peggio.
Come potevo aiutarla? Come potevo farle sentire che le ero vicino, senza farla ulteriormente soffrire? Avrei dovuto dirle che mi dispiaceva per quello che le era successo o non dire niente? Forse la cosa migliore, in quel momento, era invece lasciarla sfogare di tutte le lacrime che non aveva pianto? Di tutta la rabbia rinchiusa nella sua anima per anni?
Eppure non potevo vederla così. Non potevo stare immobile e non farle capire quello che sentivo. Come avrei mai potuto non dire niente per consolarla e non farle sentire il mio appoggio? Io la capito, e capivo fin troppo bene che cosa significasse quell’infinito dolore che non muore mai.
«Scusa…», soffocò con un ultimo singhiozzo Sharon con voce strozzata, staccandosi un poco dal mio collo. «Non volevo… Mi dispiace… Sono solo… Una stupida impulsiva…»
Era sconvolta, e per farle sentire vicinanza le accarezzavo delicatamente le guance, sfiorando con le labbra la sua fronte. Era strano che, nonostante l’attimo, migliaia di brividi mi pervadevano?
«Non dirlo… Non ti devi scusare, io… Capisco fin troppo bene che cosa significa…», risposi con un filo di voce, indeciso se proseguire col discorso o meno. Lei si staccò lentamente dal mio petto, guardando con occhi arrossati ed insistenti la mia camicia rossa. Io, perplesso, fissai prima la mia maglia poi lei.
«Mh… Ti ho inzuppato la tua camicia con tutte le mie lacrime», disse a bassa voce, con tono di disappunto, lanciandomi un’occhiata preoccupata. D’istinto, soffocai una risata intenerita.
«Stai tranquilla, a dire il vero nemmeno mi importa adesso», risposi con un sorriso. Che tipo... Si preoccupava più della condizione della mia camicia che di chiedermi il perché della risposta precedente.
Lei accennò ad un sorriso, per la prima volta dopo il pianto, e di riflesso sorrisi anch’io. Aveva una tale forza su di me che non potevo starmene lì a non sorridere di rimando.
Quando il suo sorriso cominciò a farsi quasi inesistente, inclinai di poco la testa, sfiorandole con la mano destra i suoi capelli. Lei alzò lo sguardo dritto nei miei occhi, procurandomi un leggero brivido sulla nuca.
«Grazie, davvero», disse a voce più controllata, meno vibrata di prima e molto più mite. «Ti ringrazio per essere rimasto con me, piuttosto di andare via e lasciarmi qui, da sola…»
Una morsa al cuore mi avvolse, vedendo la sua espressione – per la prima volta – simile a quella di un cucciolo indifeso e tremante. Come poteva quell’uomo, se si poteva definire uomo, averle fatto quelle cose? Come aveva avuto il coraggio di toccarla? Sentii un accenno di rabbia stringermi lo stomaco, cercando invano di reprimerlo.
«Non ti avrei mai lasciato qui da sola… Non dopo quello che è successo», risposi sottovoce. D’istinto, spostai un ricciolo bagnato dei suoi capelli dietro il suo orecchio destro, per non impedirle la vista.
«Ti ringrazio…», sbiascicò lei, arrossendo lievemente sulle sue guancie caffelatte. Come risaltavano quei suoi occhi neri, rispetto al colore della sua pelle e a quello dei suoi capelli…
Arrossii anche io, staccando lentamente la mia mano dalla sua guancia. Rimanemmo un attimo in silenzio, guardandoci diretti negli occhi, per poi staccare il mio sguardo dal suo, troppo arrossato per resistere ulteriormente a quel contatto visivo.
«A proposito…», disse lei con voce bassa e impacciata. Per un motivo o per l’altro, fui costretto a riguardarla negli occhi, intimidito. «Mi dispiace per come mi sono comportata prima…»
Sharon accennò ad un sorriso dispiaciuto, per poi abbassare gli occhi. Era dispiaciuta per prima… Ma quello che in realtà doveva chiedere scusa ero probabilmente io, non lei. Non avevo badato ai suoi sentimenti.
Magari aveva avuto quella reazione apposta perché lei… No, non era possibile. Non poteva provare qualcosa per me. Era impossibile. Non poteva essere gelosa. Ma forse… No, nessun forse! Non che mi sarebbe proprio dispiaciuto, se… Sottolineo se – avesse provato più di una semplice amicizia per me… No, Michael, riprenditi! La conosci da troppo poco tempo… Non puoi innamorarti ancora…
«Sono io che devo dirti scusa… Mi dispiace non aver badato a quello che provavi», risposi inconsciamente, arrossendo subito dopo. Lei spalancò quei suoi occhi da cerbiatto, accennando di nuovo al rossore.
«No, Michael! Non dire così!», rispose portando rapida una mano sulla mia. «Davvero, è colpa mia… E’ solo che… Non lo so… Non mi piace molto… Forse è perché non ho feeling con le donne».
A quell’ultima frase aggrottò le sopracciglia, sorridendo con scherno e confusione. Io, di riflesso, inclinai di nuovo il capo e chiesi: «In che senso non hai feeling?»
Lei mi guardò, poi soffocò una risata non divertita, voltando il suo sguardo per un attimo impercettibile alla sua destra, guardando il pavimento. «Dimentichi Jenny e Gloria, quelle del mio corso? Non è la prima volta che delle mie coetanee mi odiano. Fin da quando ero piccola, in effetti, vado avanti così».
«Forse so il motivo perché ti odiano…», dissi non distogliendo il mio sguardo da lei. Ero serio, e lei mi guardava confusa e altrettanto attenta. Senza badare ai brividi, strinsi di rimando la sua mano.
«Forse è perché nonostante il dolore sei una bellissima persona con un’anima…», risposi, senza dare troppa attenzione alle parole che mi uscivano fuori senza controllo. Lei arrossì lieve, sorridendo, per poi farsi nuovamente seria, pensierosa.
«Michael… Mi fa piacere che dici queste cose di me. Ma non mi conosci ancora bene per dirmi chi sono… Forse quello che dici è vero, ma che motivo avrebbero per invidiare una come me? Io non ho niente che possa valere, per quelle persone…»
Ma valgono per me… Volevo risponderle. Strinsi la sua mano forte, con l’istinto di rassicurarla. In parte aveva ragione però: come potevo sapere che tipo di persona fosse in realtà? E se la sua era solo una maschera? Ma, nonostante tutto, qualcosa dentro di me mi diceva che non mentiva. Il suo dolore era reale. I suoi occhi trasparivano sincerità e luce.
«Ti ricordi cosa ti ho detto quel giorno? Quando ti ho detto che ti avrei presa per la mia compagnia?». Lei alzò lo sguardo, accennando ad un lieve assenso con il capo. Io allora accennai ad un sorriso rincuorante.
«Ti invidiano per quello che sei, per la persona che sei. Perché tu possiedi qualcosa che loro non hanno», risposi serio, avvicinandomi percettibilmente verso di lei. Lei mi guardò, senza distogliere i suoi occhi.
«… E che cosa sarebbe questo “qualcosa” che loro non possiedono? Il passato? Io, veramente, non…». Si fermò improvvisamente, quando entrambi ci accorgemmo della nostra strana vicinanza troppo incauta.
Cercando di controllare il respiro, parlai. «La luce nei tuoi occhi…»
Lei non rispose, io non continuai il discorso. Semplicemente ci guardavamo negli occhi, senza proferire più parola, con i nostri volti distanti di solo venti centimetri di distanza.
Mi sentivo stordito solo a starle lontano di solo quel poco spazio. Era una cosa allucinante. Era la stessa sensazione che avevo provato, ballando con lei, quella sera, a ritmo della canzone “The Greatest Love Of All” – la stessa che avevo provato anche quando la vedevo ballare - solo molto più intensificata. Molto più potente e lancinante. Mi lasciava senza parole.
«Anche tu… Hai la luce negli occhi», rispose lei, lenta. Io accennai ad un sorriso, spostando fulmineo il mio sguardo in basso per un breve momento, per poi tornarla a guardare.
Lei mi sorrise dolce, per poi piegare la testa di lato, accennando ad uno sguardo di divertente confusione. «E che cosa avrebbe di particolare questa particolare luce?»
Non risposi, poiché sentimmo bussare alla porta. Nello stesso momento, spostammo entrambi i nostri occhi verso la porta, per poi guardarci con paura. Sharon si alzò dal divanetto veloce come un fulmine, nel frattempo che io mi rimettevo sciarpa, cappello, e tutti gli indumenti necessari al mio travestimento.
Prima di girare la chiave controllò che fossi pronto, poi ad un mio cenno del capo aprì. Dalla porta entrò Ilary, con sguardo stordito, che ci disse che il padre di Sharon se ne era andato e che non c’era più ragione di nascondersi. Feci un sospiro di sollievo, per poi avvicinarmi a Sharon, fino ad esserle a pochi centimetri di distanza. Temevo in una sua crisi, perciò le ero andato vicino.
Sharon abbassò lo sguardo, annuendo, ma nei suoi occhi non c’era sofferenza. Solo una sensazione vaga di odio e rabbia. In quel momento le accarezzai la spalla, poi lei mi rivolse un lieve sorriso.
«Pensi di restare?», disse Ilary, cauta. Subito Sharon scosse la testa, accennando ad una espressione di dolcezza. Voleva rincuorare l’amica.
«Credo me ne andrò a casa. Ho già fatto la mia esibizione», rispose gentile. Ilary annuì, per poi rivolgermi uno sguardo scioccato negli occhi. Ancora non avevo capito se sapesse che ero io Michael Jackson.
«Ilary? Tranquilla, non morde», disse Sharon soffocando una risata divertita. Io e l’amica la guardammo di riflesso, lei sbigottita ed io accennando ad un sorriso, contento che ora fosse più serena.
«Ridi, ridi… Tanto tu ormai ci sei abituata a parlare con Michael Jac…». Prima che pronunciasse il mio nome per intero, Sharon le tappò la bocca, linciandola con lo sguardo, sotto il mio sguardo divertito.
Salutammo veloci l’amica, accompagnati sotto lo sguardo di tutti fino all’uscita del locale. Una volta fuori, dopo un sospiro di sollievo di Sharon, chiamammo un taxi. Per tutto il tragitto le tenni la mano, per aiutarla a sentirsi meglio, e per far sentire meglio anche me. Di fronte all’appartamento, chiamai il mio autista privato per venirmi a prendere.
«Grazie ancora, sei stato molto gentile e dolce con me», disse lei dopo qualche minuto, sorridendomi. Ora che la vedevo sorridere, sentivo quel nodo alla gola farsi inesistente. Ero veramente sollevato.
«Figuriamoci…», risposi sorridendo di riflesso. Poi, notai che era ancora un po’ bagnata, e che soprattutto non aveva né giacca né niente che non le potesse far sentire freddo. Perciò, tirai via il mio cappotto e glielo porsi.
«Tieni». Lei mi guardò stupefatta e nonostante le sue continue insistenze sul tornarmelo, si decise a tenerlo. Era più testarda di quanto pensassi. «Forse è meglio che vai… Se ti ammali poi è colpa mia»
«No, non voglio. Ti lascerei solo…», disse lei, supplicandomi. Io sentii una morsa al cuore – questa volta non di tristezza – ma le pregai di non restare. Non volevo che si prendesse una malora, nonostante volessi con tutto il cuore che rimanesse con me. Ma non volevo che… Be’, quella sarebbe stata una sorpresa.
Sharon mi rivolse uno sguardo triste, perciò per calmarla le presi il viso fra le mani e la baciai sulla fronte. Non so per quanto rimasi in quella posizione, so solo che quando mi staccai eravamo entrambi ancora troppo vicini. Qualche centimetro di distanza…
«Buonanotte, Sharon», dissi sottovoce, pronunciando quel nome con un brivido. «A domani… Ti vengo a prendere io domani mattina…». Lei annuì, lanciando un’occhiata in basso.
Lentamente ci allontanammo, uno più stordito dell’altra, e indecisa proseguii oltre il cancello, dopo la selezione delle chiavi giuste per aprirlo. Io la guardai allontanarsi dalla mia vista, fino oltre la porta dell’appartamento. Poco dopo arrivò la mia macchina e salii, dando un ultimo sguardo all’edificio.
Un brivido improvviso mi scosse.
Sharon…

***



Sharon si diresse a passo lento e trascinato verso il secondo piano, camera d’appartamento numero 17, con ancora il volto leggermente arrossato. Era troppo irreale, lui, per essere vero. Forse stava sognando.
Mai nessuno prima di allora l’aveva trattata come aveva fatto lui con lei. I suoi modi estremamente dolci e pacifici le facevano venire mille brividi in tutto il corpo, mentre uno stato di confusione le atterrava ogni pensiero concreto della sua mente. Era possibile che fosse veramente vero quello che le stava succedendo? Non stava solo immaginando, vero?
Lui è solo un sogno, si auto convinceva, ormai dovresti averlo capito che i tuoi sogni non diventano mai una realtà, Sharon. Pensava che tutto quello che le stava accadendo era solo un’illusione.
Eppure… Qualcosa dentro di lei le faceva sembrare tutto vero.
Come mai si sentiva così felice quando era al suo fianco? Perché si sentiva così straordinariamente tranquilla quando lui l’abbracciava? Perché era serena anche quando non era tutto apposto?
Sharon tirò fuori dalla sua tracolla le chiavi della stanza d’appartamento, in cerca di quella giusta. Quando la trovò e tentò di rigirarla nella serratura, capii che la porta era già aperta.
Una sensazione di paura fulminea le attraversò la mente, per poi convincersi che la sua era un timore infondato. Magari si era solo dimenticata. Nonostante qualcosa non le andasse, decise di entrare.
Con cautela avanzò nel buio, in cerca del tasto per accendere la luce.
D’impatto, si sentii trascinare da una forza sconosciuta alle sue spalle, mentre una mano le copriva la bocca per evitare di lasciarle cacciare un urlo. Come aveva fatto quel qualcuno ad entrare?
Poi, nel frattempo che lasciava cadere la tracolla e giacca a terra, paralizzata, sentii un soffio d’aria calda sul suo collo scoperto, ed un senso di disgusto le impedì di rimanere lucida del tutto.
«Ti sei comportata molto male con me prima…», disse una voce maschile, sibilando. «Mi sa proprio che con te le buone maniere non servono affatto, vero figlia mia?»
Sharon riconobbe quella voce. Il suo tono che non ammetteva repliche. L’alito con qualche traccia di alcool e fumo di sigaretta appena assunti. Le sembrava di tornare al passato, quando aveva solo sette anni d’età e pregava perché la notte non tornasse mai, per la paura che arrivava incombente. Era suo padre quello. Anthony. Era il mostro che popolava ogni suo incubo.
Con gesti irrequieti cercava inutilmente di staccarsi da quella presa fredda e potente, ma oramai lui l’aveva in pugno. Con le braccia tenute strettamente dietro la sua schiena da Anthony, non poteva più fare un granché. Era stata intrappolata di nuovo in uno dei suoi incubi peggiori.
Desiderò che Michael fosse lì con lei, per cercare di aiutarla. Pregava in un miracolo, nel suo miracolo, ma era troppo tardi. Un flash del suo contatto dolce e delicato sulle sue guancie prese per un momento il posto di quella paura, mentre il ricordo sei suoi occhi lucidi le sollevavano per quel poco il suo cuore.
Che strano, Michael… Pensavo che fosse tutto un sogno, ma non lo è affatto. E dire che per un momento mi sembrava che fosse troppo vero per un cuore infranto ed innamorato come il mio.
Quello che successe dopo fu solo un attimo troppo veloce per descrivere.
Lei che mordeva la mano del padre, per scappare, poi una sua fuga verso la porta. Un urlo soffocato di rabbia alle sue spalle, poi un colpo secco e un tonfo per terra. Sangue che scorreva lungo il pavimento in legno. Passi soffocati verso il corpo a terra, poi una corsa contro il tempo prima che qualcuno si accorgesse del fatto.
Michael…




Capitolo Dodici.
A voice pulls me back.
Punto di vista: Michael Jackson/Sharon Villa.


Proseguì di corsa fino a metà della seconda rampa di scale, bloccandosi vedendo la porta aperta della stanza di Sharon e alcuni agenti della polizia all’interno della stanza. Per terra, su un tappeto bianco, una grande macchia di sangue… E, fra le mani di uno degli agenti, in una busta di plastica, il suo stesso cappotto, quello che la sera precedente aveva dato a Sharon.
Un pensiero di terrore gli bloccò ogni pensiero lucido della sua mente.
Che cosa… No… Sharon!
Urlò quel nome nella sua testa, terrorizzato per quello che stava osservando. Dov’era? Perché c’era quella macchia di sangue per terra? Perché c’era la polizia? Perché Sharon non era lì, ad accoglierlo, con uno dei suoi stupendi sorrisi e con quei suoi occhi neri limpidi di quella luce a cui era già affezionato?
«Mi dispiace, ma non può entrare signore», disse un agente non appena Michael stava per raggiungere l’interno della stanza, senza far particolare attenzione a quello che stava facendo.
«Dov’è?...», chiese con un filo di voce. Aveva paura di domandare quella richiesta, non voleva sapere. Eppure l’aveva fatta, quella domanda. Con gli occhi ancora fissi sulla macchia rossa cercò di riordinare le idee che vorticavano rumorosamente nella sua mente.
«Parla della ragazza che abitava qui?», disse alle spalle una voce roca e femminile. Michael si girò di scatto, mentre il suo respiro cominciava a farsi affannoso. Che cosa diavolo era successo?
Una donna anziana gli rivolse uno sguardo di tristezza, per poi guardare il basso, sconvolta. «L’altra notte un uomo che ha detto di essere suo padre mi ha chiesto il favore di farlo entrare nell’appartamento di Sharon… Mi aveva detto che voleva fare una sorpresa alla figlia… E…»
Michael non poteva crederci. Era paralizzato dalla rabbia e dallo shock. Aveva paura. Che fine aveva fatto Sharon? La sua Sharon? Non poteva essere… NO! Non lo avrebbe mai accettato questo! Non lei!
«Cosa? Cosa è successo?!», disse con voce tremante, con tono stranamente alto da parte sua, avvicinandosi alla donna e prendendola per le spalle, comunque con tocco delicato.
La signora evitò il suo sguardo, non capendo che stava parlando proprio con Michael Jackson. «Un residente a questo piano, vicino alla sua stanza, ha sentito un rumore nella notte e… Oddio!», disse, coprendosi il viso con le mani.
Michael si allontanò dalla donna, a scatti lenti, sentendo le sue gambe cominciare a cedere. Non… Non poteva… Lei doveva stare con lui! Aveva bisogno di lei! Non poteva lasciarlo!
«E’ colpa mia! Tutta colpa mia! Sembrava così sincero… Oddio…», riprese la donna fra i singhiozzi.
«La ragazza è all’ospedale, all’UCLA Medical Center», disse l’agente di prima, ancora accanto allo stipite della porta della stanza d’appartamento. «Non si sa se però riuscirà a resistere… Ha perso molto sangue…»
Ma Michael non sentì più niente…

***



Vedevo buio. Nessuna luce ad aprirmi la via. Nessuna salvezza pronta ad aiutarmi.
Stavo morendo per caso? O ero già morta? Se sì, da quanto tempo? E Ilary? Isabel? John? Sapevano nelle condizioni in cui mi trovavo? Aspetta… Neanche io sapevo come stavo. Non sapevo nemmeno dire se ero ancora viva, o se quello fosse solo un incubo. Di una cosa ero certa: quello non era un sogno. Era troppo reale per essere semplice frutto della mia immaginazione.
Qualcosa era successo. Ma non ricordavo cosa… Era come se la mia mente si fosse bloccata. Ogni pensiero era bloccato, fermo, immobile. Aspettava un segnale. Aspettava quella luce. Ma qual’era la luce così spettacolare che stavo attendendo così arduamente?
Mille voci soffocate passavano come fulmini attraverso la mia testa, rendendomi ancora più confusa e stordita. Erano soffocate, perciò non riuscivo a capire che dicevano. Aspettate, volevo dire, parlate una alla volta! Aiutatemi!... Ma nessuno sembrava ascoltarmi. Nessuno sembrava volermi essere accanto.
Mi sentivo male. Quasi soffocare. Era una sensazione orribile, ma non avevo paura. Sentivo solo delle fitte, a volte perfino il respiro mancarmi. Avevo paura di smettere di respirare.
Era troppa buia per me quell’oscurità. Volevo salvare me stessa. Non volevo rimanere intrappolata.
Mamma… Ti prego, aiutami! Salvami! Voglio la luce!
Ma d’altra parte a chi volevo mentire? La vita da tanto tempo mi sembrava inutile. Non sapevo per chi vivevo realmente – se per me stessa o per i miei sogni – né se avrei un giorno avrei realizzato le mie aspettative. Mi sentivo sola, quella era la verità. Non potevo nasconderlo.
Era finita… Era finita per sempre… Ero morta

Poi, improvvisamente, un lampo – forse una stella, dalla luce splendente e luminosa – attraversò i miei occhi immersi dal buio. Quella energia sembrava piangere. Piangeva lacrime d’aria e fragili.
«Perché piangi?», dissi, ma dalla mia bocca non provenne nessun rumore. Nemmeno le mie labbra si stavano muovendo. Ero paralizzata, ed il bello era che non sapevo neanche il motivo.
«Michael?», chiamai, quasi aspettandomi che quella luminosità si chiamasse così.
Perché, in effetti, quella luce un nome lo aveva… Lo aveva eccome! Un nome splendente quanto la luce della luna, scintillante come ogni stella che brillava in cielo, potente come i raggi caldi del sole.
«Michael!», urlai. Michael! Dov’era? Che stava facendo? Perché non era accanto a me? Perché non sentivo la sua mano sulla mia? Perché non sentivo il calore sulle mie guancie?
La mia stella. Il mio sole. La mia luna. Dov’era in quel momento? Dov’era Michael? Dov’era la mia luce di salvezza? Avevo bisogno di lui. Volevo sentire la sua aura accanto alla mia, mentre mi sorrideva.
Era così bello quando sorrideva… La mia personale via d’uscita da quell’inferno di anime solitarie e indifferente al mio dolore di sempre. Quando sorrideva mi sentivo in Paradiso. Quando mi abbracciava stretta, mi sentivo al sicuro. Quando mi parlava con la sua voce delicata, mi sentivo in un altro mondo. Un mondo diverso da quello in cui vivevo. Un mondo in cui non ero sola.
Perché io sapevo che mi capiva. Qualcosa mi diceva che, quando gli parlavo, lui capiva. Quando piangevo, non avevo bisogno di altri se non di lui. Nemmeno di Ilary. Lui era la mia fonte di speranza, la mia risorsa di energia. L’unico che era riuscito a colmare quel dolore di un’intera infanzia ed adolescenza.

Oh... Ora ricordo. E' stato mio padre. Lui mi aveva fatto del male, per un’altra volta nella mia triste vita. Mi aveva uccisa una volta per tutte? Mi aveva lasciata morire come aveva fatto con la mamma?

Amore, sii forte, tesoro mio… Ti voglio bene…

…Mamma! La mia mamma... dove sei? Mamma!…

Stavo piangendo. Una sensazione dentro di me, dentro il mio cuore – se almeno non ero ancora morta -, mi diceva che stavo piangendo. Versavo lacrime invisibili, ma le sentivo comunque.

Mamma ho bisogno di te! Ti prego, non lasciarmi, non ancora! Ti voglio bene, mamma! Mamma!

Ma la mamma non mi rispose. Sentii un soffio sulla mia fronte, un brivido scorrermi lungo la schiena. Forse non ero proprio morta. Forse era venuta apposta per indicarmi che il Paradiso poteva ancora aspettare?
Poi, inaspettatamente, un’altra voce. Era sfumata, con voce rotta, ma comunque dolce.
«Ti prego, ti prego… Non portarla in cielo… E’ troppo presto…»
Michael! Oh, Michael! La mia luce era venuta a salvarmi! Pregai Dio perché quello non fosse un sogno. Era indispensabile per me la sua voce! Non potevo stare senza di lui! Non ora!
«Ti prego…», disse l’angelo di luce. Vedevo la sua immagine nella mia mente – i suoi occhi, i lineamenti del suo volto, le labbra, il sorriso… Volevo raggiungerlo. Volevo correre verso di lui!
«Sharon…», pronunciò. Nella sua voce, potevo captare gli spasmi di un pianto soffocato.
No! Michael no! Non piangere! Signore, non farlo soffrire! Non voglio che soffra! Voglio stargli vicino, sempre! Non impedirmi di essergli accanto! Io non voglio rimanga solo!

Quello che successe dopo, d’improvviso, fu un miracolo: mi sentivo tornare alla realtà da un sonno in dormiveglia. Riacquistai come per incanto il senso del mio corpo. Mi sentivo più pesante di prima.
Con timore, cercai di muovere quella che mi sembrava la mia mano sinistra. Si mosse. Ero viva! Mh… Troppo presto per cantare vittoria… Un’improvvisa fitta mi attraversò tutta la testa, bloccando il respiro.
Stava di fatto che dovevo raggiungere il mio angelo. Non potevo lasciarlo da solo, a piangere! Dovevo stargli vicino e tirarlo fuori dalla sua solitudine! Volevo abbracciarlo, fargli sentire che io…
Una luce abbagliante mi avvolse gli occhi, portandomi a richiuderli. Non potevo darmi per vinta. Ritentai. Quella volta riuscii ad aprirli. Riuscii a vedere, anche se in modo un po’ offuscato, dov’ero.
Una piccola stanza d’ospedale, dai perfetti muri bianchi, con qualche quadro che raffigurava mari e campagne sui muri. All’angolo alla mia sinistra una porta in legno scuro, chiusa, e alla mia destra due finestre al muro, completamente aperte, con svolazzanti tendine azzurre che ondeggiavano a ritmo della brezza mattutina. Era ancora settembre, ma il caldo c’era, nonostante fosse solo l’alba.
Stavo in un letto dalle coperte bianco panna; sul braccio sinistro, una flebo pericolosamente infilata dentro la mia pelle, con qualche altro strumento che non seppi riconoscere. Sentii ogni muscolo della mia schiena rabbrividire, più un’altra fitta potente alla testa pervadermi. Portavo, da quel che potevo scorgere, un camice azzurro cielo – il mio colore preferito. All’angolo della parete destra, ci stava una poltrona blu. Era tutto intonato.
Che fossi in Paradiso veramente?
D’improvviso sentii un sospiro tremante. Seguendo lenta con il capo da dove provenisse il rumore, vidi finalmente una figura – non molto esile, dai capelli corvini e ricci – seduto in una sedia alla mia destra, illuminato dalla luce candida dell’aurora. Era curvo sul letto, con il volto infossato fra le sue braccia.
Respirava profondo, ma con fiato instabile. Sembrava piangesse.
Michael!, volevo dire. Ma dalla mia bocca non uscì se non un sospiro. Una fitta leggera attraversò la mia mente, facendomi chiudere gli occhi per un istante. Riaprendoli, presi un ultimo respiro.
«M… Mi…», dissi sottovoce. Lui, ancora curvo in quella posizione, sembrò accennare al risveglio, muovendo lentamente le spalle. A meno che non lo fosse già e stesse immaginando di sognare la mia voce.
«Michael…», pronunciai alzando di più il mio tono di voce, espirando con tutta l’anima il suo nome. Ti prego, guardami. Sono viva. Non stai sognando!
Ed ecco che l’angelo alzò il suo volto al mio. Quegli occhi… Quel viso… Oddio quanto ne sentivo il bisogno! Ne avevo l’assoluta necessità! Volevo accarezzargli le guance, abbracciarlo e dirgli che stavo bene.
Aveva gli occhi lucidi, arrossati, e il volto umido di gocce salate che aveva pianto da chissà quanto tempo. Nei suoi occhi l’immagine dello smarrimento, misto alla felicità improvvisa. Il mio angelo aveva pianto.
«…Sharon!», esclamò Michael, sparendo di scatto dalla mia vista ancora accecata e non abituata alla luce.
Mi stava abbracciando; sentivo le sue braccia stringermi forte, mentre mi accarezzava la nuca insistentemente. Non mi ero neanche accorta che mi aveva tirato su dalla posizione distesa, con delicatezza, e che era scoppiato a piangere.
«Grazie a Dio… Sei viva! Sharon… Grazie. Grazie! Dio… Non sai quanto ho avuto paura! Pensavo che non ti saresti più risvegliata! Ti ringrazio Signore!».
Non potevo vederlo piangere. No… Era un dolore troppo grande da sopportare. «Michael… Oddio…», dissi, fra le lacrime. «Non piangere, per favore. Io… Io sono qui! Non ti lascio!»
Sentivo fitte impressionati alla testa, dovute alle lacrime che stavano sgorgando copiose dai miei occhi, ma era una sofferenza più che sopportabile. Io non dovevo piangere, perché Michael ne avrebbe sofferto ancora di più. Dovevo stargli vicino, convincerlo che ora era tutto finito!
Michael prese il mio volto fra le sue mani, appoggiando la sua fronte sulla mia. Rimanemmo in quella posizione per un attimo che mi sembrò voler essere infinito; sgorgavano profonde lacrime dai nostri occhi, silenziose, ed entrambi respiravamo affannosamente. Sentivo il monitor del mio battito cardiaco aumentare i suoni a dismisura, ma non ci feci per niente caso.
Chiusi gli occhi per un attimo, cercando di smettere di piangere, lasciando palpabile quella sensazione troppo avvicinata delle nostre labbra. Il mio cuore batteva all’impazzata, quasi stesse per andare contro ad un infarto immediato. Respirai a fondo, con l’intenzione di calmare me stessa e il mio sistema cardiaco, prima di andare veramente incontro alla morte quella volta.
«Mi dispiace. È colpa mia… Tutta colpa mia! Non avrei dovuto lasciare che…», disse sottile, lasciando trasparire una nota di rimpianto dalla sua voce angelica, scuotendo veloce il capo. Io aprii gli occhi, staccando la mia fronte dalla sua di pochi centimetri, guardandolo negli occhi.
«Michael, no! Non dire così… Nessuno di noi due pensava che… Che…». Feci una pausa, impossibilitata nel continuare quel discorso. Quel ricordo, troppo potente da sopportare subito, mi faceva paura.
Michael mi guardò, con occhi lucidi di tristezza ed angoscia. «Se tu… Non ti fossi più risvegliata, io non so come… Come sarei riuscito mai a perdonarmelo…», disse, poco dopo che una lacrima gli rigò il viso.
I miei occhi si fecero lucidi e, d’inconscio, mi propensi a raccogliere quella sua goccia salata con le mie labbra. Gli baciai la guancia, sperando di riuscire a calmarlo. Quell’angelo non doveva soffrire. Mai!
«E’ tutto passato, sto bene… Non piangere. Io sono viva. Sono qui con te. Perciò non avere il benché minimo rimpianto, tu… Tu mi hai salvato…», dissi, pronunciando quelle parole con tutto il fiato possibile.
Lui annuì, serio. Con leggerezza, nonostante i dolori generali in tutto il corpo, poggiai una mano – non quella con la flebo, fortunatamente – sulla sua guancia, accennando ad un sorriso. «Credimi, hai fatto molto di più di quanto nessuno abbia mai fatto per me…»
Lui lasciò il suo volto cullato dalla mia mano, inclinando la testa, accennando ad un’espressione più rilassata. Mi sembrava così tenero, docile… Persino fragile. Un uomo dagli occhi immensamente dolci.
Mai mi sarei aspettata di trovarmi in una situazione così, soprattutto con lui.
«…Da quando sei qui?», dissi dopo un lungo attimo di silenzio a guardarci negli occhi, senza accennare ad una parola. Quell’assenza di rumore parlava già da sola, non c’era bisogno di parole superflue.
«Da un po’…», rispose lui, prendendomi la mano posata sulla sua guancia e unendola con le sue. Io annuii, pensando che in effetti, con tutti i suoi impegni, era ovvio che… «In effetti, da due giorni…», ammise poi.
Io rimasi sbigottita, strabuzzando leggermente gli occhi. Non stava dicendo sul serio… Voleva dire che per due lunghi giorni era rimasto a vegliare su di me incostante? Non era possibile. Stavo immaginando.
«D-da quando?!», richiesi, troppo scioccata per dire altro. Lui accennò ad un sorriso imbarazzato, con quei suoi occhi improvvisamente brillanti e luminosi, per poi riguardarmi negli occhi con sguardo serio.
«Ti hanno portato qua la notte del 4, oggi è il 6. Ho saputo che eri qua la mattina, venendo a prenderti per le…». Poi si bloccò, toccandosi la tasca dei pantaloni. Dall’interno risuonava il suo cellulare.
Lo prese, lanciandomi un’occhiata di scuse, per poi rispondere. «Pronto?... Sì, sono io Frank... Sì... Non potevo andarmene, era una cosa troppo importante... Lo so... D’accordo, arrivo... A dopo...»
Chiuse il cellulare con un colpo secco, per poi guardarmi cauto e dispiaciuto. Io gli sorrisi docilmente, capendo quello che sarebbe successo. D’altra parte, non poteva restare con me per sempre dopotutto...
«Devo andare...», disse con rammarico. «Ma ti verrò a trovare questa sera, prima che tramonti il sole! Te lo prometto!», continuò, lasciandomi senza parole. Il suo sguardo era sicuro, deciso... Era risoluto.
Io annuii, silenziosa. Michael si alzò dalla sedia, baciandomi di nuovo sulla fronte, come la scorsa serata. Dopo una lunga interminabile ed ultima carezza sulla guancia, guardandomi con occhi lucenti, se ne andò.
Guardai la porta per lungo tempo, scossa dal silenzio. Un getto d’aria mosse le delicate tende azzurrine alle finestre, portando i miei occhi su di esse e sul panorama al di fuori. La luce cominciava ad estendersi.
Aspettai solo che se ne andasse Michael, prima di scoppiare in un pianto di paura repressa.




Capitolo Tredici.
Don't wanna hurt you
Punto di vista: Michael Jackson.


Michael?», disse una voce femminile e lieve alla mia destra, attirando la mia attenzione, subito dopo lo scatto secco della porta della stanza d’ospedale dove riposava Sharon. Era Ilary.
Le sorrisi cordiale, dandole un cenno di assenso con il capo. Dopotutto capivo che, nonostante sapesse chi fossi ormai, provasse un attimo di smarrimento quando dovesse chiamarmi. E, soprattutto, capivo che sembravo un po’ ridicolo a volte, tutto incappucciato nei miei travestimenti. D’altra parte non potevo girare senza sciarpa, cappelli, ecc.
Mi staccai dalla parete con un leggero slancio della schiena, stando attento a non far cadere qualche petalo del mazzo di fiori che stringevo in mano, dirigendomi verso la ragazza. «Come sta Sharon? Meglio?»
Ilary guardò con occhiata fulminea prima il mazzo, poi me, accennando ad un sorriso. Io, nel frattempo, mi sentii in pieno imbarazzo, alla vista del suo sguardo furbesco diretto ai fiori.
«Meglio, diciamo... Gli è appena passata una crisi per fortuna...», disse per poi emettere un sospiro.
«Una crisi?», chiesi, dubbioso, cominciando a preoccuparmi. Lei sembrò confusa quanto me alla mia domanda, e rispose guardandomi attentamente negli occhi.
«Sì... Vuoi dire che con te stamattina non ha pianto?», disse, con tono interessato. Io, sbigottito, non seppi inizialmente che dire. Con me non aveva pianto; poi me ne ero andato, e allora...
«Ha avuto parecchie crisi, soprattutto quando la lasciavo da sola. Per esempio, tornavo poco fa per prendere qualche bibita e qualcosa da mangiare e l’ho trovata fra le lacrime. Mi ha detto che aveva tanta paura di rimanere senza nessuno...»
Quindi l’avevo fatta soffrire andandomene. Non avevo badato ai suoi sentimenti, per la seconda volta da quei pochi giorni in cui ci eravamo conosciuti, come avevo fatto per quella questione riguardo Vanessa. Perché dovevo ferirla in quel modo?
«E… E ora come sta?», dissi, visibilmente scosso. Guardavo fisso il pavimento, non nascondendo i miei sensi di colpa. Mi sentivo uno stupido ad averla lasciata da sola, senza nessuno, dopo lo shock subito.
«Meglio, almeno credo. Purtroppo le ho detto che ora dovrei andare a lavorare, ma che se voleva potevo rimanere con lei per questa notte; lei mi ha detto che non serve, ma non ne sono molto sicura...»
Poi mi lanciò un’occhiata preoccupata, subito dopo un minuto di spaventoso silenzio, nel frattempo che i miei rammarichi scoppiettavano come fuochi d’artificio nella mia mente confusa.
«Michael, sarò sincera, molto sincera», disse attirando il mio sguardo. «Io a Sharon voglio tanto bene, è stata l’unica e sola persona a starmi vicino quando ho avuto i miei problemi. L’unica. È come una sorella per me. Non so dirti come, ma ho l’impressione che con te lei stia... Bene...»
Io la fissai, attento ad ogni minima parola, ripensando ai pochi momenti passati nei giorni precedenti con Sharon; ripensai al suo sguardo – ai suoi occhi neri, al suo sorriso – e riflettei se Ilary stesse dicendo veramente la realtà dei fatti.
«Non nego di essere un po’ gelosa eh, però... Ecco... Sono certa che ha bisogno di te. Perciò ti chiedo solo una cosa: non starle vicino se non ci tieni realmente a lei», esclamò poi scrutandomi con uno sguardo inquisitore, come se volesse mettermi all’erta.
Io annuii, incapace di dire niente che potesse essere utile in un momento del genere. Non pensavo che stesse mentendo. Anche io pensavo che Sharon avesse bisogno di amore. Tanto amore.
«Per favore...», disse poi sottovoce, lasciando trasparire dal suo tono una nota di tristezza, con occhi improvvisamente lucidi. «Non farle mai del male... Ha già sofferto troppo... Io le voglio bene...»
Vidi dai suoi occhi comparire una lacrima, muta, rigandole il volto. Io, d’istinto, le poggiai una mano sulla spalla, accennando ad uno sguardo angosciato. «Io non ho intenzione di ferirla, Ilary. Non voglio»
Ilary accennò ad un sorriso d’affanno. Volse il suo sguardo sul pavimento, scioccando lieve la lingua al palato, per poi riguardarmi negli occhi. «Spero che questa sia la verità...»
In seguito si girò di scatto, diretta verso l’ascensore. Poco prima che stessi anch’io per aprire la porta della stanza di Sharon, la mia attenzione venne di nuovo attirata da Ilary, che mi chiamò con un “Ah” confuso. Io mi voltai a fissarla, stranito, vedendo un sorriso sghembo sul suo volto.
«A proposito... Se oserai ferirla in qualche modo – sia moralmente che fisicamente, nonostante la tua buona parola – sarò benissimo capace di spezzarti braccia e gambe con un solo gesto del mio corpo».
Io la guardai scombussolato – cercando di metabolizzare bene il senso di quella frase ironica ma allo stesso tempo davvero preoccupante – per poi sorridere. Lei accennò ad una risata soffocata ed entrò nella cabina dell’ascensore numero due, salutandomi con un cenno veloce della mano.
Fissai di nuovo la porta di fronte a me, tirando un sospiro stranamente nervoso, stando attento a nascondere bene il mazzo di fiori alla mia schiena. Ovviamente quello doveva essere una piccola sorpresa.
Bussai alla porta, e dopo la sua voce delicata a darmi il permesso di entrare decisi di farmi avanti. Entrai cauto, quasi avessi paura che lei fosse scomparsa – che quello di questa mattina fosse stato solo un sogno -, e quando me la trovai seduta sul letto, con indosso quella leggera vestaglia azzurrina, con sguardo sorridente, mi sentii improvvisamente sollevato. Un sorriso comparve felice dalle mie labbra.
«Michael...», esclamò lei, mordendosi un angolo del suo labbro inferiore. Era così tenera, e quei suoi occhi da cerbiatto mi facevano sentire il cuore in gola... Quella sensazione non era normale.
Improvvisamente il suo sguardo sorridente si fece curioso, curvando il capo in cerca di capire cosa avevo dietro la schiena, nel frattempo che io – finto tonto – la salutavo come se niente fosse.
«Te l’avevo promesso che sarei venuto... A quanto pare il sole non è ancora tramontato», dissi continuando a sorridere, vedendo il suo sguardo che scrutatore cercava di vedere la cosa che nascondevo.
«Già, ma... Posso sapere che nascondi là dietro?», disse accennando ad un sorrisetto, aspettandosi che le avrei detto subito la mia sorpresa. Io mi morsi il labbro, avanzando di un passo senza emettere un suono.
«Mmh... Non penso che te lo dirò... E’ un segreto in realtà, e non so se tu...», dissi, sollevando lo sguardo dal pavimento per valutare bene la sua espressione sbalordita; teneva spalancati i suoi stupendi occhi neri, con in volto uno sguardo immediatamente serio e offeso. Solo a quella visione mi lasciai andare ad una risata. Lei, allora, aggrottò la fronte con una smorfia da bambina.
«Mi stai prendendo in giro, Michael? Avanti, per favore! Posso vedere cosa hai dietro la schiena? Dai!». Adoravo quando faceva la bambina di tre anni. Era così... Adorabile. Non potevo descriverla.
Io roteai gli occhi in alto, facendo ancora il perplesso, mentre mi toglievo sciarpa e cappello, tenendo nascosta la sorpresa. «Mmh... Solo se farai la brava e mi prometterai di dirmi la verità su una cosa, prima che ti dia... “L’oggetto nascosto”», dissi, nascondendo il mistero.
Lei abbassò gli occhi, mantenendo l’espressione imbronciata, per poi guardarmi furbetta. «Non me lo puoi dare prima, quel “L’oggetto nascosto”? Prometto di dirti la verità! Ti giuro!», disse scongiurandomi.
La guardai, e nonostante cercassi di non arrendermi sapevamo entrambi che aveva già vinto. Il modo in cui mi guardava, come spalancava i suoi occhi preganti... Maledizione! Mi aveva incantato!
Sbuffai, finto spazientito. «Ok... Tieni...», dissi mostrandole il mazzo, con scatto agile e teatrale. I suoi occhi si fecero luminosi, quasi più della luce del sole stessa, e spalancò le sue labbra in un sorriso enorme.
«Michael! Oddio...», disse piano mentre glieli porsi, sorridente per averla fatta contenta. «Ti giuro, non dovevi! ...Be’, forse sì. Comunque grazie, davvero!»
«Eh lo so... Non avrei dovuto in effetti...», dissi assumendo uno sguardo abbattuto, scuotendo la testa. Lei mi lanciò un’occhiata sarcastica, per poi farmi la linguaccia. Io, di riflesso, feci lo stesso, ridendo.
Rimasi ad osservarla, sereno, mentre lei incantata si prestava a toccare ogni petalo di ogni fiore, con tocco delicato. Era un piccolo mazzo di iris e gigli bianchi, lilla e azzurri. Speravo le sarebbero piaciuti.
«Ti piacciono?», dissi con un sorriso. Lei alzò lo sguardo, rivolgendomi quei suoi splendidi occhi. Era così tranquillo il suo sguardo... Così pacifico... Non sembrava per niente fosse triste.
«Certo che mi piacciono! Sono... Sono stupendi!», disse emozionata. Chinò la testa su di essi, ispirando con cura il loro profumo, poi continuò. «Li adoro... Poi i colori... I miei preferiti... Grazie di cuore!»
Io mi sentii emozionato come un bambino. Ero così preoccupato se quel piccolo mazzo le sarebbe piaciuto o meno, e sapere di aver fatto la scelta giusta mi faceva librare l’anima in cielo.
All'improvviso mi vennero in mente le parole di Ilary – le sue raccomandazioni, la sua lacrima. Sharon non doveva soffrire. Doveva essere felice, e io non avrei mai fatto niente per farla star male. No. Non volevo.
«Sharon... Io...», dissi dopo un lungo attimo di silenzio, sedendomi in un angolo del suo letto. Con sguardo curioso mi fece spazio, spostando la sua attenzione dal mazzo verso i miei occhi concentrati. Sospirai, in cerca delle parole adatte da dirle.
«Ilary mi ha detto delle tue crisi... Mi ha detto che hai pianto spesso oggi». Feci una pausa, alla vista del suo sguardo abbassato. Con una stretta al cuore, le presi la mano. «Sharon, scusa. Non... Non dovevo lasciarti da sola. Posso capire come ti sei sentita, io...»
I suoi occhi lucidi mi bloccarono. Mi resero immobile. «No, Michael, non è colpa tua... Non deve neanche passarti per la testa un pensiero così. E’ solo che il ricordo... Rimanere da sola... Io pensavo che lui sarebbe potuto tornare a farmi del male...», disse guardandomi, spaventata.
Portai la mia mano sulla sua guancia destra, accarezzandola con delicatezza. «Non tornerà. Vedrai, ti prometto che non ti farà più del male. Per questo volevo proporti una condizione...», dissi lentamente.
Lei mi guardò stupita, aggrottando impercettibilmente la fronte. «Che tipo di condizione?», chiese con voce tenue, lasciandomi un lungo brivido pervadermi tutta la schiena.
«Non mi fido a lasciarti qui, da sola, sapendo che quel pazzo», pronunciai, emettendo un lieve sibilo soffocato. «potrebbe essere ancora in giro... Proprio non posso». Mai avevo provato una rabbia così immensa per qualcuno. Quel sentimento non faceva parte di me. Non era nel mio carattere.
«Perciò volevo chiederti se vorresti venire in tour con me», esclamai tutto d’un fiato, rimanendo a fissarla con occhi spalancati ed intimoriti.
Lei strabuzzò gli occhi, lasciando quelle labbra leggermente carnose un poco aperte dalla sorpresa. «Dici sul... No! Sul serio Michael? Cioè... In tour con te? Ballare di fronte migliaia – milioni di persone?»
Io annuii divertito, mentre la sua espressione si faceva sempre più corrugata; batté qualche volta le palpebre, guardando i suoi fiori per un attimo, per poi osservarmi sbalordita. D’improvviso disse.
«Ma... Michael, io non ho ancora firmato il contratto di lavoro. E poi, il video non lo abbiamo ancora girato... Non so le tappe, e poi io non ho i soldi per permettermi viaggi...», disse cominciando a preoccuparsi man mano che le parole le uscivano dalla bocca.
«Ehy...», dissi, posandole pollice e medio della mia mano destra sulla sua bocca, piegando un angolo della bocca in un sorriso divertito. «Non ti devi preoccupare di niente: oggi siamo il 6, il video – se per te non ci sono problemi – lo potremmo girare più avanti, non importa subito. Il tour inizia in Giappone dal 12, quindi dovremo essere là il... Be’, sarebbe meglio essere là almeno dopodomani, se non sbaglio...».
«Ma i soldi? Non voglio debiti con te Michael... Non voglio dipendere da nessuno, soprattutto da una persona che ha già fatto molto per me. Mi hai già dato troppo del tuo tempo, sarei solo un misero impiccio che richiede lo spreco dei tuoi soldi», disse con sguardo di rammarico.
«Sharon, te lo dirò solo una volta: tu non mi rechi disturbo. I soldi per me non sono affatto un problema, lo sai, e dare vitto e alloggio ai ballerini è una cosa più che naturale, durante un tour. Perciò non voglio sentirti dire ancora che il mio sarebbe uno spreco, perché non lo faccio perché sono obbligato.», risposi serio, non ammettendo repliche riguardo quel discorso.
Lei mi guardò seria e non volente a cedere si propense a dire: «Però tu sai quello che potrebbe dire l’altra gente. Non ho intenzione di farti sembrare un ingenuo, e di sicuro non voglio fare la parte di quella che si approfitta di te, perché io non sono assolutamente così. Perciò, insisto: non sei obbligato».
«Nemmeno tu se per questo», dissi sottovoce, lasciando trasparire una nota di agonia. «E, in ogni modo, non m’interessa che cosa la gente potrebbe pensare. Io so quello che sto facendo, e se quelle persone mi chiederanno il perché delle mie azioni risponderò. Se ci crederanno o no poi saranno affar loro. Tu devi solo dirmi se hai intenzione di accettare o no...», continuai, temendo in una risposta negativa.
Lei abbassò lo sguardo sui fiori, toccando un petalo bianco di un giglio, mordendosi un labbro. «Michael, perché vorresti che venga con te? Per scopi solo lavorativi o altro?», disse, accennando ad una coloratura scarlatta del suo volto. Arrossii violentemente a quella domanda.
Io rimasi a guardarla, senza staccare neanche un secondo gli occhi da lei, aspettando il momento in cui lei avrebbe alzato lo sguardo, in cerca di una mia risposta. Quando lo fece, riflettei sul vero perché.
Quel mio invito valeva per motivi ovviamente di lavoro, ma non solo. Qualcosa in me mi diceva di non lasciarla là, in quel posto, da sola. Era vero però che, essendoci in giro ancora il padre, mi sento più in vena di protezione verso di lei, ma l’avrei fatto anche senza che fosse successo tutto quel delirio? Oppure no? Avrei fatto qualcosa lo stesso per non perderla e non lasciarla in solitudine?
«Secondo te perché ti ho proposto di venire con me?», chiesi, non rispondendo alla sua domanda. Lei corrugò la fronte, per poi lasciar spazio ad un’espressione vaga, pensierosa. Strinse le labbra, per poi osservarmi con occhi mogi. Un istinto dentro di me di diceva che non era qualcosa di buono.
«Non lo so, per questo te lo sto chiedendo. Non voglio rischiare di nuovo delusioni inutili, starei solo più male, nonostante credo veramente ti potermi fidare di te. Ma io non sono infrangibile, ho anche io le mie piccole schegge nel mio cuore. Perciò... Vorrei sapere la verità»
Nei suoi occhi, come due giorni fa, vidi di nuovo la fragilità. Sentii il mio cuore stringersi in una morsa d’acciaio. Mi chinai verso di lei, appoggiando i gomiti sul letto, tenendole una mano con una mia.
«Non ti farei del male, e anche io ho paura di poter rimanere ferito. Anche io ho sofferto. Anche io posso capire cosa significa sentirsi fraintesi, soli, in mancanza di affetto. Perciò credimi: non ho intenzione di farti del male, sono pronto a donarti perfino il mio cuore. Mi fido di te e voglio che resti con me. Non ho il minimo dubbio: non voglio perderti così facilmente».
Quelle parole mi scivolarono fuori dalle labbra come l’acqua da una sorgente di montagna, incurante dove fosse diretta, con lo scopo di dissetare un altro cuore solo e bisognoso di qualcuno accanto.
La mia era una profonda verità. Non volevo – non potevo lasciarla andare. Non se non fosse stata lei a dirmi di no. Io volevo mi seguisse. Mai nessuno aveva provato le mie stesse emozioni, né pensavo che mi sarei affezionato subito a lei. Perché lei qualche cosa dentro di me aveva provocato; un’improvvisa sensazione di calore, alimentata grazie al suo sorriso e ai suoi occhi. Proprio non potevo lasciarla.
Lei mi sorrise, nel frattempo che quei suoi occhi neri si facevano più lucidi e luminosi, facendo comparire un sorriso sulle mie labbra allo stesso tempo. Sharon mi strinse la mano e io ricambiai, arrossendo.
Un bussare alla porta ci riportò alla Terra, quasi fossimo caduti entrambi dalle nuvole. La osservai spaventato, mentre lei lasciandomi la mano disse a voce fioca di rivestirmi con la sciarpa, prima che entrasse quel qualcuno. Io, con agile scatto, mi portai mal volentieri ad una delle due finestre alla parete, facendo finta di chiuderla. Sharon, con voce tremante, dette il permesso di entrare.
Un agente della polizia si fece avanti, accennando ad un sorriso triste, dai capelli corvini e la pelle scura. «Lei è la Signorina Sharon Villa, non è così? Io sono Adam Dixon, agente del Dipartimento Investigativo...»
Sharon annuii, attendendo che il poliziotto continuasse. L’uomo fece un attimo di silenzio, abbassando lo sguardo, per poi fissarmi con un’occhiata osservatrice. Io, intanto, chiudevo in modo straordinariamente lento ogni finestre, lanciando qualche fugace sguardo alle mie spalle.
«C’è qualche cosa che deve dirmi?», chiese Sharon, con tono paco, mantenendo un’espressione molto calma nonostante un percettibile movimento aggrottato delle sopracciglia. L’uomo di nome Adam tossì, abbassando un attimo lo sguardo, indeciso.
«Abbiamo trovato l’uomo, suo padre... Anthony Villa, vero?», chiese l’agente, e dopo un accenno leggero di Sharon continuò. Nel frattempo, mi avvicinai al letto sistemandomi la sciarpa in volto.
«Ecco... Suo padre è morto. È stato trovato il cadavere questa notte in una stanza d’appartamento, deceduto per overdose e infarto. È stata trovata qualche traccia di cocaina nel salotto e nel bagno...» L’uomo non disse più niente. Trattenni il respiro, lanciando un’occhiata su Sharon.
Lei non emise un misero suono, e continuò a fissare l’uomo come se quello che avesse detto non fosse mai stato enunciato.


P.S. Mi sono accorta di non essere arrivata neanche a metà con la storia, perciò i miei capitoli vi faranno compagnia ancora per un bel po'! [SM=x47979] Sposterò tutto, abbiate pazienza [SM=x47918]
tati-a4ever
00lunedì 20 giugno 2011 01:29
tati-a4ever, 20/06/2011 01.20:

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Capitolo Quattordici.
Someone to look up to
Punto di vista: Sharon Villa.


Mio padre era morto. Se n’era andato per sempre, e con lui la sofferenza. Avrebbe finito di farmi vivere nel terrore di rincontrarlo, nella paura che la notte potesse di nuovo farmi del male. Nell’oscurità.

Michael mi si avvicinò veloce, sedendosi accanto a me con gesti secchi. Mi fissava senza staccare i suoi occhi di dosso dai miei, e sapevo che – anche non guardandolo – mi esaminava con paura. Come potevo dargli torto. Con tutti i miei pianti, ormai avrebbe pensato che fossi una fragile. Sì, aveva ragione, avevo paura, ma non ero debole. Era questo quello che avevo intenzione di mostrare, a lui e a me stessa.
Continuai a fissare imperterrita e vacua l’agente di polizia, nonostante fossi così stordita da quella notizia non comunque dandolo a vedere. O almeno, pensavo di non darlo a vedere... Non che fossi depressa, o triste, ma tutt’altro. Ero... Be’... Sollevata. Serena. In pace.
«Quindi se ne è andato?», dissi con voce leggermente tremante, alzando con cenno lieve un sopracciglio. L’agente mi guardò con attimo di smarrimento, poi sbatté gli occhi e rispose con un attimo di indecisione.
«Sì. Sì, è deceduto. Ehm... Desidera fare il funerale per suo padre? Dovrei saperlo, non solo perché è il suo unico parente, ma anche perché se no verrebbe lasciato in obitorio...»
Guardai il mio mazzo donato da Michael, aggrottando le sopracciglia. Senza staccare gli occhi dai fiori, risposi: «No, niente funerale. Voi potete... Potete tenerlo là, farne quello che volete... Cremarlo, seppellirlo... Non mi interessa, anche se sono sua figlia».
Parlai con estrema sincerità, col cuore, e sentii la soffice e grande mano di Michael sulla mia mano. Io alzai i miei occhi su di lui. Mi osservava con occhi lucidi, afflitti.
«Come desidera», rispose lieve l’uomo, andandosene con un cenno del capo come saluto. Ricambiai il saluto, emettendo un sospiro profondo. Mi sentivo libera.
«Sharon...», disse con voce sottile Michael, stringendomi la mano. Lasciai cedere le mani, stando attenta a non rovinare neanche il petalo di un singolo fiore. Rimasi ad osservarli, subito dopo un altro respiro.
«Sai come mi sento, Michael? Mi sento come se mi fossi tolta un peso che è sempre gravato sulla mia vita. Sono serena, Michael. Non ho più paura che la notte torni. Quell’incubo è svanito...»
Stavo piangendo. Lottavo per non far cadere queste lacrime dai miei occhi, ma non riuscivo a controllare quel maledetto stimolo. Volevo o no mostrare a Michael che ero forte e riuscivo ad andare avanti? Volevo o no fargli capire che ero capace di dipendere da me come veramente facevo? Dovevo o no dimostrargli che in realtà non piangevo perché soffrivo ma invece perché ero felice?
Michael mi si avvicinò senza neanche lo percepissi, tirandomi con fare delicato contro l’incavo del suo collo. «Shhh... Non piangere, è tutto ok adesso. Non ti farà più male».
Era come quella notte, quando avevo visto Anthony dopo quasi 10 anni. Era la stessa situazione, ma le emozioni erano completamente diverse. Piangevo perché mi sentivo bene. Non avevo più da temere. Ora la pace era venuta da me, mio padre se n’era andato per sempre. Non mi avrebbe più ferito.
«Michael... Sono in pace anche io adesso...», dissi con voce soffocata con il mio volto infossato fra il suo collo e la sua spalla. Lui appoggiò la sua testa sulla mia, continuando ad accarezzarmi.
«Lo so... Lo so», rispose dandomi un bacio sulla nuca, facendomi venire i brividi lungo tutto il mio corpo. Le emozioni che provavo con lui, dopotutto, riuscivano a sorvolare quella mia serenità del momento.
«Michael, pensi che abbia sbagliato a decidere di non fare il funerale?», chiesi alzando lo sguardo su di lui, tenendo la mano su un lembo della sua camicia blu. «Pensi che sia ridicola a piangere perché sono più serena ora?»
Lui mi guardò con espressione inizialmente seria, sembrasse stesse valutando ogni minimo particolare dei miei occhi. Poi, con un’occhiata quasi implorante e rammaricata, mi accarezzò la guancia. «No. Per favore, non deve nemmeno passarti per la testa questa cosa. Come potrei pensare una cosa del genere di te? È più che normale che tu abbia deciso così...»
Ma qualcosa non mi convinceva. Nei suoi occhi, soprattutto, c’era qualcosa che lasciava perplessa. Stava dicendo quello che stava dicendo solo per farmi contenta o perché lo pensava davvero? Ero in dubbio.
«...Però? C’è qualcosa che non va, qualcosa che non vuoi dirmi, che traspare dai tuoi occhi», dissi, mentre lui mi scioccò un’occhiata ad occhi spalancati. Sorrisi senza provare emozioni di felicità. «Sai, sono brava nel capire quando una persona nasconde delle cose o mente...»
Lui spalancò ancora di più gli occhi, aggrottando lieve le sopracciglia, continuando a guardarmi negli occhi. «Non sto mentendo, davvero! È solo che... Be’...»
«Che avresti agito diversamente? Sì, in effetti ero anche io in dubbio. Però, Michael, mi ha fatto del male, e io questo non sarò mai capace di perdonarlo. Ero una bambina – una bambina di sette anni. Non sto qua a dirti che cosa mi ha fatto, a meno che non te l’abbia già detto Ilary, perché non voglio che qualcuno provi pena per me, ma puoi benissimo immaginare», risposi tutt’ad un fiato.
Lui rimase a fissarmi, questa volta con fronte corrugata ed espressione angosciata. «Io ti capisco... So che è difficile chiedere perdono, lo è stato anche... Anche per me...», dissi con un lungo sospiro.
C’era qualcosa che aveva intenzione di rivelarmi – lo potevo capire da come parlava – ma era qualcosa che non era facile per lui. Era un nodo alla gola il quale era difficile da raccontare, e nonostante la curiosità che provavo pensavo sapesse che non lo stavo obbligando a dirmelo.
«Non serve che tu mi racconti i tuoi fatti personali, Michael. Io non ne ho bisogno devi credermi, perché la verità la vedo nei tuoi occhi. So che vuoi dirmi qualcosa, ma è doloroso. Perciò...», cercai di cambiare discorso, trovando una scusa al posto suo per non continuare, ma lui mi zittì.
«No, voglio spiegarti. Voglio dirti qualcosa che ho raccontato a sì e no poche persone. Voglio che tu sia una di quelle poche. Ti prego...», disse guardandomi negli occhi con sguardo implorante. Sbalordita da quel suo comportamento, mi propensi solo ad accennare con la testa un sì.
Lui si prestò a sistemarsi comodo nella sedia e guardando il basso passò delicatamente la lingua sul labbro inferiore. Cavolo però... Perché nonostante le situazioni tristi e serie riusciva sempre, con quei suoi gesti troppo sensuali da reggere per me, a farmi uscire fuori di testa? Arrossii per quel pensiero poco innocente.
Finiscila di pensare così, Sharon... Devi renderti conto che non puoi impedire che ti colpisca quel suo lato così sens... No! Basta! Datti una controllata donna, porca miseria!
«Anche io ho subito dei maltrattamenti, da mio padre...», disse sottovoce, attirando d’improvviso la mia attenzione. «Non solo io, a volte anche i miei fratelli. Ma io ero veloce, riuscivo il più delle volte a evitarlo e a scappare. Ma quando venivo preso...»
Michael si bloccò, chiudendo di scatto gli occhi, assumendo un’espressione di dolore. Con gesto istintivo mi ritrovai ad abbracciarlo stretta, questa volta io accarezzandogli la nuca. Dopo un attimo di rigidità da parte sua, lo sentii abbandonarsi all’amplesso, stringendomi a lui di conseguenza. Non so per quanto restammo così, ma per un po’ dalle nostre labbra non uscì una sola parola.
Lo sentivo sospirare a fatica – quasi fosse reduce da uno sforzo enorme – e lo capivo. Il fatto però, dopotutto, che lui riuscisse veramente a capirmi mi faceva sentire meno sola. Anche per lui quello era stato un dolore molto duro da sopportare, e non volevo assolutamente che a causa mia lo facessi di nuovo star male. Piuttosto sarei bruciata all’Inferno per sempre.
«Non dire più niente. Quello che hai voluto intendere, me lo hai fatto percepire con i tuoi occhi. Ti credo, e credo nel tuo dolore. Non voglio che continui se ti fa così male, è per causa mia se ne stai parlando».
«No, non lo dire. Sono io che voglio parlarne. Voglio dirti tutta la mia verità», disse, nel frattempo che il nostro abbraccio si stava sciogliendo. Vero però che le nostre labbra erano un po’ troppo vicine...
Io annuii, ma sentivo chiaramente il cervello e il cuore andare nel pallone. Per fortuna non c’era quel aggeggio a contare i miei battiti cardiaci, se no penso mi sarei imbarazzata da morire. Quella benedetta quanto maledetta vicinanza mi faceva sentire mille e più brividi lungo la schiena e sulle braccia. Cazzo. Così non andava proprio bene la situazione. Dovevamo smetterla di guardarci così intensamente.
Sentivo man mano che stavano in quella posizione il mio respiro diventare più affannoso, e il suo non era proprio da meno. Ma che ci stava succedendo? Ero una sua ballerina, non la sua amante, e lui il mio capo! Non potevo permettermi di... Di... Oh mio Dio! Era questa la sensazione che prova chi sta per innamorarsi? Oddio no!
Le nostre labbra erano vicine, qualche centimetro di distanza. Fronte contro fronte, tenevo una mano sul suo petto caldo, stringendo quella camicia blu leggera. Lui, nel frattempo, mi teneva per la schiena e per un braccio. Mi sentii girare la testa, ma cercai con tutte le mie forze di non badare alla scossa.
E dire che il dottore mi aveva detto di stare attenta alle forte emozioni, almeno per un po’ di giorni... Come no.
Due rumori alla porta – un bussare frenetico – e la magia svanì, per la seconda volta. Subito io e Michael ci allontanammo, con velocità straordinaria, senza badare veramente a quello che stavamo facendo.
«Sì?» chiesi con voce tremante, intanto che porgevo in fretta la sciarpa a Michael. Era strano che nonostante quello stato e gli sguardi fossero sicuramente stravolti, ci venisse da ridere come due bambini.
«Sono Janet», esclamò la voce al di fuori della porta. Vidi Michael fissare la porta con sguardo prima sorpreso, poi esasperato. Mi chiesi il perché di quelle strane espressioni, ma non feci tempo a guardarlo che la sorella entrò con un sorriso timido, il quale divenne un sorriso a 32 denti non appena vide anche Michael. Chissà perché, qualcosa mi diceva che il fratello le avesse detto qualche cosa...
«Ciao Janet», dissi spalancando le mie labbra in un sorriso dolce, vedendola che mi si avvicinava con occhi e sguardo sornioni. Non appena mi fu accanto, mi abbracciò stretta. Non riuscii a vedere Michael, ma percepii comunque i suoi su di noi. Un’altra cosa da domandare.
«Sharon, come stai? Sono stata in pensiero... Quando Michael mi ha telefonato e detto che eri qua non ci potevo credere, ho aspettato che ti svegliassi...», mi disse, con tono rammaricato.
«Meglio, davvero molto meglio», risposi lanciando una fugace occhiata a Michael, non appena Janet notò il mazzo di fiori. «Esco domani, dato che non ho forti dolori. Devo solo prendere qualche medicinale...»
«Ne sono felice, davvero. Quindi allora seguirai mio fratello in tournèe?», chiese, ammiccando i suoi occhi furbetti sul fratello. Michael la fissò, con occhiata truce, mentre io soffocai una risata. Michael guardò anche me, questa volta di stucco e dubbioso.
«Sì, se per lui non è un disturbo». In effetti, ripensandoci, nascondevano qualcosa. Si guardavano, uno con faccia cupa, l’altra con sorriso sghembo. Janet continuò, fissando i fiori.
«Figurati, sono sicura che non gli creerai nessun tipo di problema. Piuttosto stai tu attenta a lui... Ti dirò, fa il timido ma sotto, sotto...», ammiccò la sorella, lanciando una fugace occhiata al fratello.
Con sguardo torbido, Michael la interruppe. «Janet...»
«... Ma sotto, sotto... E’ ancora più timido!», annunciò lei, con tono teatrale e spettrale. Insieme scoppiammo a ridere, ma fui brava a contenermi. Lui intanto era sull’orlo per applicare una tremenda vendetta su Janet.
Nello stesso momento che lo guardai, lui mi fissò esasperato. Io gli sorrisi dolce, cercandolo di rassicurare. Non mi accorsi che, già da quando era entrata Janet, una mia mano era unita ad una delle sue. D’inconscio, gliela strinsi, mentre Michael sembrava diventare piccolo piccolo dall’imbarazzo.
«Comunque sia, partite domani Michael?», chiese la sorella, ormai riprese il controllo. Lui mi scrutò, come se aspettasse che io fossi quella a sputare la sentenza definitiva. Stordita, mi affrettai a rispondere.
«Io, ehm... Non saprei, Michael. Hanno detto mi faranno uscire dall’ospedale presto, Ilary verrà a prendermi ed accompagnare a casa a fare le valigie – mettendo il caso finisca la sera di sistemare tutto...»
«Ne sei sicura? Non vuoi rimanere un altro giorno qui per sicurezza? Possiamo chiederlo...», rispose Michael, ignorando gli occhi spalancati della sorella a quella risposta. Io la osservai, ma dovetti trattenermi da una risata quando la vidi con le braccia sui fianchi, a fulminarlo con gli occhi.
«Sto bene, e poi mi hanno detto che se non ho avuto dei forti dolori per tutto il giorno non è così grave. Davvero, sono ok. Poi mi hanno già dato le medicine e le prescrizioni, la data di uscita da questo posto è domani alle 9,00 a.m.», risposi con sorriso sincero, felice di sapere che me ne sarei andata presto. Odiavo gli ospedali con tutto il mio cuore, fin da piccola.
«Allora ti verrò a prendere io, verso sera. Pensi di finire verso le 21,30 p.m.?», chiese con fare apprensivo, stringendomi la mano. Io arrossii lievemente – un po’ anche a causa di Janet che ci fissava con un mezzo sorriso soddisfatto – e annuii. Non avevo poi così tante cose da mettere in valigia, solo vestiti, dischi, film e i miei adorati cartoni della Disney. Due immense valigie in tutto.
«Elettrizzata?», chiese Janet, sorridendo dolce. Io alzai le spalle, con espressione da bambina in volto, sorridendo. In realtà non ci stavo nemmeno pensando che sarei veramente salita su un palco.
«Mi sembra tutto così irreale, perciò per il momento la prendo con filosofia. Quando sarò lì allora sarò veramente in preda all’agitazione», poi abbassai lo sguardo, un po’ intimidita dagli occhi insistenti dei due fratelli, un po’ pensierosa. «Non pensavo sarei mai riuscita a raggiungere un obiettivo tanto grande. Al massimo speravo di continuare per tutta la vita da non professionista al locale...»
Ridacchiai imbarazzata. I due mi guardavano: uno con fare dolce, tremendamente e maledettamente sexy da non poter sopportare per più di qualche minuto di fila, l’altra con tenerezza. Sì, erano fratelli. Così simili, anche nelle loro espressioni e nei loro lineamenti era percepibile questo legame.
«Mio fratello qui presente ha fatto un’ottima scelta. Ancora non ti ho fatto i complimenti per come hai ballato quella sera al locale! Sei davvero emozionante, si vede che ti piace ballare», disse spalancando le sue labbra in un meraviglioso sorriso. Michael la guardò con un’occhiata sorridente e furbesca, prima di tornare ad osservarmi compiaciuto.
Poi d’improvviso una fitta mi colpì alla testa, perciò chiusi gli occhi di scatto, mentre la mia fronte si corrugava con forte pressione, emanando un sospiro soffocato dalle mie labbra.
«Che c’è?», chiese immediatamente Michael, stringendomi la mano e con l’aria sfiorarmi la gamba che, per mia fortuna in quel momento, stava sotto le coperte leggere. Di certo facendo così non mi aiutava a farmi passare la fitta che mi stava pulsando in fronte. «Ti fa male la testa?»
«Una fitta», enunciai con un sospiro, riaprendo gli occhi. Janet mi guardava irrigidita sul posto, mentre Michael mi stava accanto con quella sua amorevole preoccupazione per me. «E’ passeggera, me lo ha detto il dottore che quando sono stanca rischio di più... Forse devo solo riposare un po’»
Accennai un sorriso di rassicurazione, stringendo di rimando la mano di Michael. Lui mi fissò con fronte corrugata, preoccupato evidentemente per la mia condizione, senza enunciare parola. La paura che stesse per cambiare idea sul fatto di andare con lui in tour mi balenò come un lampo la mente, facendo assumere al mio viso un’espressione di evidente timore.
«E’ meglio che la lasciamo un po’ dormire Michael. Sono certa che domani di sicuro sarà nel pieno delle sue condizioni, vero?», chiese Janet, lanciandomi un’occhiata preoccupata mista a compiacimento.
Il fratello la guardò un attimo, prima di tornare ad osservare me. Mi guardava dritto negli occhi, intento a pensare a chissà cosa, mentre io gli strinsi la mano senza pensarci troppo. Sebbene era meglio per la mia salute fisica e mentale che se ne andasse, volevo che rimanesse a farmi un po’ di compagnia. Ma, purtroppo, sapevo che non potevo avere tutto dalla vita.
«D’accordo», disse Michael annuendo. «Forse è meglio così...» Così dicendo si alzò in piedi, lasciando la mia mano, continuando a scrutarmi. Dalle mie labbra apparve un sorriso lieve e da allora il suo volto si tinse di un sorriso meno preoccupato e più tranquillo. Janet arrivò ad abbracciarmi di nuovo, stringendomi più forte, e quando fu il turno di Michael andai letteralmente in Paradiso.
La sua stretta ma allo stesso tempo delicata avvolgeva il mio corpo, lasciando dentro di me un senso di calore incomparabile ad altri; le sue mani erano così calde – sempre – come le mie. Potevo sentire il suo profumo così particolare quanto intenso attraversarmi tutta l’anima e desiderai per un momento che quel attimo non svanisse facilmente. Il suo profumo, il suo calore... Tutto di lui sembrava magico a me.
«A domani, Sharon», sussurrò nel mio orecchio, accostando i miei ricci capelli dietro l’orecchio. Milioni e milioni di brividi m’invasero, rischiando di farmi perdere il senso della ragione. Dopodiché, mi baciò su una tempia e, con un’ultima carezza ai miei capelli, si scostò. Sorridemmo entrambi, intimiditi.
Fu così che i due fratelli se ne andarono, lasciandomi un bel ricordo in quella giornata che non penso riuscirei mai a dimenticare, neanche fra mille anni a venire.





Capitolo Quindici.
This thing can't go wrong
Punto di vista: Michael Jackson.


Da quando io e Janet eravamo in auto in silenzio regnava sovrano. Lei con mezzo sorrisetto in volto, io invece pensieroso, con la testa da un’altra parte. Precisamente i miei pensieri erano rivolti a qualcuno, ovvio, ad una persona. A lei. Sharon. Chi altri se no?
Pensavo a quel pomeriggio, da quando ero entrato nella stanza dove riposava; nella mia mente rivedevo il suo sguardo intenso, il suo lieve sorriso, gli occhi neri. Ogni minimo dettaglio era tenuto ben stretto. Avevo perfino paura di riuscire a dimenticarla, se non ci avessi pensato per più di un secondo e se mi fossi concentrato su altro che non fosse qualcosa che la riguardasse.
Ripensavo alle sensazioni che sentivo quando ero in sua compagnia; ero pacifico, nonostante fossi sempre preoccupato alla sua salute, e per la prima volta avevo avuto l’istinto di confidarmi con lei riguardo anche il mio passato. Non era cosa che facevo con chiunque. Pochissime persone sapevano cosa avevo veramente vissuto, e quel giorno avevo avuto l’istinto di dirlo anche a lei.
Sapevo che non ero obbligato a far niente – e soprattutto che non avrei dovuto dirlo per privacy -, a dire niente del mio dolore, però era più forte di me. Non riuscivo a pentirmi di quello che stavo per fare. Se solo non mi fossi bloccato... Se solo quel magone non mi fosse tornato in gola per l’ennesima volta... Eppure dovevo dirlo a lei. Me lo sentivo. Il mio cuore diceva che lo voleva veramente.
You know how I feel, this thing can’t go wrong... I can’t live my life without you...
Ok, ora la mia mente sta andando completamente in subbuglio! Perché mi era venuta in testa la canzone “I Just Can’t Stop Loving You”? Mi sentii arrossire, ma non mi voltai per vedere se Janet se ne fosse accorta o meno.
Comunque, sapevo che Sharon veramente capiva come potevo sentirmi – come pochi – e forse aveva passato addirittura peggio. Lei veniva violentata, e non era una cosa da poco. Mi sentivo una feroce morsa dentro quando capitava che ci pensassi.
Come poteva un uomo averle fatto tutto quel male? Come?
Non a lei.
Capivo la sua scelta di non volergli fare il funerale, di non volerlo ancora riconoscere come suo padre... Anche io facevo fatica a riconoscere il mio, ma purtroppo era una realtà che non si poteva negare. Anche vero che io dovessi ringraziarlo per il mio successo, però per alcune cose ancora non riuscivo a raggiungere uno soddisfacente stato di perdono verso di lui. Come Sharon, ancora provavo un senso di rabbia a volte.
Inoltre, quel giorno, le avevo proposto di venire in tour con me... E lei aveva accettato. Ero felice, davvero contento! Non sapevo nemmeno io capacitarmi di tutto quello stato di sollievo. Ero preoccupato solo per la sua salute? C’era qualcos’altro che mi spingeva ad averle chiesto quella domanda?
Era così graziosa... Stare a contatto con lei mi faceva sentire adrenalinico, elettrizzato. Più la guardavo negli occhi, più li comparavo alla profondità della notte nei quali regnavano mille raggi di luna splendenti. Tutti questi pensieri, sebbene fossero inconsci, mi facevano diventare rosso. Era una cosa più forte di me.
«Per una volta hai fatto una delle cose più giuste della tua vita Michael, sai?», disse Janet, interrompendo bruscamente i miei pensieri. Nel suo volto un sorriso beffardo mi fece insospettire, ma feci per ovvietà di cose finta di niente. Sapevo già che avesse intenzione di enunciare da quella sua bocca...
«Di che parli?», chiesi, con tono di voce neutro. Le lanciai un’occhiata fuggevole, fissandola inquisitore. Lei sbuffò, alzando gli occhi al cielo, per poi osservarmi lugubre e silenziosa. Sapevo che quel silenzio sarebbe durato solo pochi istanti.
«Lo sai di che parlo, e mi sa che solo io posso schiarirti veramente le idee...», disse con fare da esperta, ma io non volevo sentire. Adesso avrebbe ricominciato con i suoi incoraggiamenti e le sue valutazioni...
«Janet, non iniziare...», le dissi voltando il mio sguardo al cielo. Lei mi fissò a bocca leggermente spalancata, per poi incrociare le braccia al petto.
«Eh no, non dirmi che non vuoi sentire perché questa volta devi ascoltarmi!», e così dicendo non risposi più nulla, emanando un sospiro esasperato. Già di figure imbarazzanti me ne aveva fatte fare, per di più davanti a Sharon, e più di così non poteva far meglio.
«Te lo dico chiaro e tondo fratello: a lei piaci! Come devo fartelo intendere? Anche lei lo sa, in fondo, ma non lo ammette per orgoglio, stanne certo...»
«E un maschiaccio come te sa per certo cosa significa essere orgogliosi, vero?» la punzecchiai con mezzo sorriso fra le labbra, mentre lei mi lanciò stizzita la sua sciarpa addosso a me, intanto che io me la ridevo.
«Non cambiare discorso, e soprattutto non distrarmi! Lasciami finire...», rispose, per poi rimettersi comoda sul sedile. «In ogni caso, stai tranquillo che ho ragione. Scommetterei anche casa nostra e la nostra famiglia!»
«Come sei nobile...», accennai divertito, mettendomi una mano a coprirmi le labbra per evitare di scoppiare in una risata fragorosa, non appena vista la sua faccia irritata. Lei mi colpì con il suo cappello.
«Comunque... Se mi lasciassi finire il discorso... So che anche a te Sharon piace molto, non negarlo», disse facendo assumere al mio volto un espressione scarlatta e attenta. «Avanti, non vorrai dirmi di no?»
Io non risposi, abbassando lo sguardo imbarazzato e toccandomi istintivamente il mento, bagnandomi il labbro inferiore con la lingua. Quello che diceva era... Era... Era giusto oppure no?
«Ecco! Lo sapevo!», disse Janet, mezza irata, lanciando le sue braccia al cielo. Io la guardai stranito. «Ho a che fare con due... Ciechi, che per di più non vedono quello che gli succede nel cuore! Ma è possibile che siate così... Ohhh!»
Janet lanciò un urlo soffocato, incrociando nuovamente le braccia al petto, voltando i suoi occhi fuori dal finestrino. Io continuai a fissarla, completamente stupito da quel suo comportamento così ossesso quanto anormale nei miei confronti e in quelli di Sharon. Saranno stati affari nostri, le nostre sensazioni?!
Subito pochi secondi riprese, nel frattempo che stavo volgendo di nuovo il mio sguardo alla luna piena. «Adesso dimmi», continuò con fare deciso, fissandomi negli occhi. «Ti piace: sì o no?»
Io arrossii, non sapendo che rispondere. Non sapevo nemmeno io bene quei sentimenti così confusi che provavo per lei, sia quando le ero lontano sia quando le ero vicino; che risposta dovevo darle? A me Sharon piaceva? Era più di una amica? Più una ballerina per il mio tour?
My life ain’t worth living, if I can’t be with you...
«Dovevo immaginarlo. Ho sbagliato. Ho completamente sbagliato!», esclamò Janet, continuando a guardarmi dritto negli occhi; la guardai con terrore, mentre nel suo volto si formava un sorriso. «A te lei non piace... Tu la ami, altroché!»
Io spalancai gli occhi, cominciando a sentire i sudori sul mio corpo, senza emanare alcuna parola. L’unica cosa che riuscii a fare fu quella di spalancare leggermente la bocca, per poi richiuderla con senza respiro. Vidi mia sorella scoppiare a ridere come una pazza – neanche fosse da ricovero – mentre il calore sulle mie guancie divampava violento.
Imbarazzato e stizzito per chissà cosa, tornai a guardare fuori dalla finestra. Non dovevo badare a mia sorella. Mi avrebbe messo strane idee in testa, e di confusione ce ne avevo già abbastanza di mio. Se anche avesse avuto ragione, non potevo farmi condizionare; non in quel momento, proprio quando da quel giorno in poi avrei visto Sharon ogni giorno! Avrebbe potuto complicarmi i rapporti con lei...
«E dai, Michael. Non dirmi che adesso ti sei offeso? Per cosa? Per la verità?», disse lei cominciando a calmare la sua voce divertita. Se solo avesse continuato, pensavo l’avrei uccisa nello stesso istante.
«Non penso che ti lascerebbe solo... O almeno, secondo me non lo farebbe. Ho visto come ti guarda, come ci è rimasta quel giorno che l’altra tipa è venuta al bar e tu hai detto sì. Non è una brava attrice...», disse mia sorella, con tono di voce calma. Io la tornai ad osservare, con la stessa espressione seria che anche lei aveva in volto.
«So che non vuoi rovinare il rapporto che hai già cominciato ad instaurare con lei, però personalmente ti do una dritta... Queste tue bugie non dureranno per sempre, soprattutto cederanno quando tu stesso capirai i sentimenti che provi... Ti ricordi? Le stesse parole che dice la mamma».
La macchina era ferma già da qualche minuto quando finì la frase, ma nessuno di noi due era deciso a scegliere. Non sapevo né che pensare, né che rispondere. Probabilmente Janet non sbagliava.
Mia sorella mi dette un buffetto sulla spalla, sorridendo furbetta e nascondendo una risata divertita. La guardai di spiego, con un sorriso finto esasperato in volto. Il mio maschiaccio preferito!
Dopodiché scendemmo, e anche se l’aria fresca di quella notte di settembre mi colpì in pieno volto non riuscì a colmare i miei pensieri confusi.

Scesi dall’auto veloce non appena la vidi uscire dalla porta di quell’appartamento.
Con quel volto pensieroso come quello di una bambina piccola, nel frattempo che Ilary la aiutava a portare giù una delle due immense valigie che teneva a disposizione, era... Era l’espressione più tenera che le avessi mai visto nel suo volto da giovane donna.
«Aspetta, ti aiuto io», dissi aiutando a prendere una delle due grandi valigie di Sharon, mentre lei apriva il cancelletto dell’appartamento, accennando un “grazie” soffocato dal respiro affannato, nonostante le difficoltà nei movimenti, sorridendomi. Con un po’ di forza e velocità riuscimmo a mettere le valigie nella macchina in soli pochi secondi.
Era così bello sapere che non era più fasciata alla testa da delle bende bianche, e specialmente vedere il suo sorriso e i suoi occhi neri scintillare nella notte era una delle cose più meravigliose che avessi mai visto. Basta, Michael, tranquillo... Rifletti due volte prima di emettere dei pensieri così... Così…
«Pronta?», dissi, bloccando i pensieri vorticosi nella mia mente appannata. Lei annuii, ma vidi il suo sorriso cominciare a svanire. Mordendosi un labbro rivolse il suo sguardo a terra, poi si voltò verso Ilary.
Già... Ilary. La sua amica. In effetti non mi aveva rivolto i suoi occhi da quando avevo visto lei e Sharon uscire dall’appartamento. Teneva lo sguardo triste rivolto al basso, e di certo potevo capire il perché...
«Ilary...», pronunciò sottovoce Sharon, soffocando un respiro tremante. Ero sicuro che la maggior parte delle cose da dire se le avessero già dette, ma ora era venuto il momento dell’addio, dell’arrivederci. Si guardarono per un minuto silenzioso e io le osservai muto. Non volevo interrompere quel silenzio, le avrei lasciato tutto il tempo a loro necessario.
«Ricordati... Di non dimenticare mai questo posto, il locale... Isabel, John, mio fratello, e...», disse con voce rotta Ilary, non nascondendo dei lucciconi scintillanti provenire dai suoi occhi stanchi.
«Sarai sempre nel mio cuore», continuò Sharon, facendomi rimanere immobile quando vidi una lacrima rigarle il volto. Ilary scoppiò a piangere e si abbracciarono forte, mentre Ilary soffocava urli di tristezza. Era così angosciante... Così triste un addio. Ma che avrei potuto fare? Avrei dovuto dire a Sharon di rimanere? Mi sentivo un’egoista. Che razza di persona io per dividere la loro amicizia?
Improvvisamente sentii lo sguardo di Ilary su di me, la quale mi osservò con occhiata di agonia mista a un’altra emozione che non riuscii a decifrare. Voltai lento i miei occhi, evitando di assistere a quello che era un addio sentito e affliggente.
«Michael...», disse l’amica di Sharon, una volta che si separarono da quell’abbraccio pieno di bisbigli soffocati e lacrime salate. Io portai il mio sguardo ad entrambe, che ancora vicine mi fissavano con espressioni opposte; Ilary mi guardava accennando ad un sorriso ma rassegnata, Sharon con uno sguardo devoto e malinconico.
«Per favore, prenditi cura della mia Sharon. Ricordati il discorso dell’altro giorno...», continuò Ilary, attirando d’impeto un’occhiata confusa e sbalordita di Sharon. Io annuii semplicemente, lanciando un fugace scambio d’occhiate a Sharon che mi osservava con dubbio. «E’ una promessa, non dimenticarlo».
«Sì...», dissi con voce bassa. «Manterrò la parola, dovessi morire». Come potevo decidere di ferirla? Come solo potevo pensare che avrei screditato la promessa fatta a me stesso e a lei? Non l’avrei mai fatto.
Un ultimo sguardo, un’ultima stretta e io e Sharon salimmo in macchina, pronti per arrivare all’aeroporto, sotto lo sguardo lancinante di Ilary e l’angoscia percepibile della persona accanto a me. Mi sentivo male per quello che Sharon era stata obbligata a fare. Tutto per colpa mia.
«Non sei obbligata a restare per sempre nel tour...», dissi sentendo a quella frase i grandi occhi neri di Sharon su di me, mentre una fitta al cuore mi distruggeva. «Una volta tornati in America potrai tornare da lei... Se ti mancherà e se cambierai idea... Devi decidere tu, io...»
Mi bloccai al tatto della sua mano stretta alla mia. «Io ho già scelto, e la mia scelta è venire con te in tour, non mi importa. Ho parlato con Ilary, tutto il giorno, e lei è d’accordo con me e...»
Scossi la testa, nel frattempo che un sorriso di rammarico mi traspariva in pieno volto. «Lo so che tutto questo può negare la tua libertà e il vostro rapporto... Non ti obbligo Sharon... Tu non devi se non vuoi».
La guardai negli occhi decidendo di non badare molto alla stretta possente al cuore e la mancanza di respiro. Lei mi fissava di rimando, seria, senza una nota di tristezza o felicità. Mi osservava dentro, e io stavo facendo lo stesso con lei per capire quale fosse la sua scelta vera e propria.
«Tu pensi davvero che io faccia tutto questo perché non voglio? Perché mi sento in dovere? Michael, se c’è una cosa più sbagliata nella mia vita è proprio questa. Io proprio non capisco...», poi mi mise una sua mano sulla guancia, e la mia testa cominciò a girare vorticosamente.
«Come te lo devo dire che io voglio venire con te non per il successo, non per la fama, non perché voglio scappare, non perché mi sento in obbligo? Io voglio stare accanto a te, Michael, hai capito?...»
Vidi i suoi occhi farsi più luccicanti di luce, nel suo volto l’espressione di chi veramente sta credendo in quello che dice. Aveva uno sguardo implorante e io non potevo non rimanerne incantato.
D’inconscio le presi la mano che ancora manteneva sulla mia guancia, portandola ad unirsi con l’altra che tenevo appoggiata al ginocchio. Quanto avevo bisogno della sua vicinanza... Avevo bisogno d’affetto, di quella persona che come lei mi stava accanto in quel modo. Avevo sempre cercato qualcuno così, ancora molto tempo prima di allora.
Non dicemmo più niente e dopo aver dato uno sguardo veloce alle nostre mani unite ne staccai una da quella stretta e con l’altra, ancora unita alla sua, la tirai con delicatezza verso di me. Avevo bisogno di abbracciarla. Volevo sentire il suo profumo per una terza, quarta, quinta... Ennesima volta!
Mi ci volle un attimo prima di capire quello che veramente stavo facendo, ma una volta sentite le sue mani legarsi ferree alla schiena, stringendo la mia camicia, emanai un profondo sospiro. Non sapevo nemmeno io le emozioni che stavo provando, né sapevo che nome darle, ma per il momento mi andava bene così. Ero felice e tranquillo così come eravamo.
Toccai con fare delicato e leggero i suoi capelli ricci e castano scuro, seguendo ogni minimo dettaglio di ogni boccolo presente, studiando la luce della sua pelle alle innumerevoli luci della città che attraversavano i vetri oscurati della macchina. Avevo voglia di toccare la pelle delle sue guancie per sentirne il tocco vellutato, quella seta pregiata e mulatta.
«Michael, posso chiederti una cosa?», disse improvvisamente, con voce tremante, stando a pochi centimetri dal mio volto. Milioni di brividi attraversarono la mia nuca e le mie braccia che la tenevano stretta. Annuii, guardandola con occhi attenti e curiosi, emozionati.
«Ecco, io... Volevo chiederti solo un po’ di tempo, prima di raggiungere l’aeroporto... Lo so che non sono cose da chiedere, sei tu che decidi, e so che il mio comportamento è da maleducata...»
«Vuoi andare da qualche parte prima di partire?» chiesi, capendo subito quale fosse il suo bisogno. Anche io, molte volte prima di un viaggio, soprattutto da piccolo, desideravo prima di partire andare in quei posti speciali per me. Purtroppo per me era impossibile realizzare quei piccoli desideri.
Sharon mi guardò con occhi spalancati, illuminati di una luce improvvisa. Io le sorrisi. «Possiamo dovunque vuoi andare, abbiamo tutto il tempo che vuoi a disposizione...», dissi poggiandole il palmo della mano sulla sua guancia destra, spostandole un ricciolo ribelle dietro l’orecchio. Entrambi arrossimmo, ma io non ci feci caso più di tanto. Era stato un riflesso istintivo.
«Davvero?», chiese lei con un sospiro. Io allargai il mio sorriso alla vista del suo candido volto sbalordito e imbarazzato. Ti porterei anche in Europa se me lo chiederesti, Sharon...
Risposi con un accenno del capo, e dopo aver abbassato gli occhi seria si cinse a rispondermi. «Potresti portarmi alla scuola di danza? Quella dove mi hai fatto fare il provino? Devo ringraziare qualcuno...»




Capitolo Sedici.
Look through your eyes
Punto di vista: Sharon Villa.


Percorsi le scale di marmo bianco insieme a Michael, con passo veloce, il quale se ne stava a pochi centimetri distante da me con occhio serio e, in parte, preoccupato.
Al contrario io mi sentivo dinamica. Avevo un’energia che mi attraversava le vene al posto del sangue. Paura? No, adrenalina. Decisamente.
Prima di fare le ultime valigie ero andata con Ilary al locale, avevo salutato tutti; avevo passato una giornata ricolma di pianti e lacrime, piena di rammarico e, a volte, di dubbi. Ma io non avevo intenzione di lasciar stare tutto; chiunque mi avrebbe lasciato, se fosse stato qualcun altro al mio posto. Ormai la vita mi aveva fatto capire bene che nessuno poteva starmi accanto per sempre, compresa Ilary.
Molte volte avevo compreso la verità di quel fatto – come quando proposero ad Ilary un viaggio con un amico del fratello, la quale accettò, mentre io rimanevo a LA da sola, oppure come quando a volte nessuno arrivava a capire bene il perché della mia solitudine, ritenendomi solo una pazza lunatica. Per questo mi “associavo” dagli altri; se non mi riuscivano a capire, con loro avrei solo sofferto di più.
E di questo tutti ne erano a conoscenza. Sapevano che la mia decisione non era solo una grande occasione per realizzare i miei sogni “impossibile”, ma anche frutto di alcune loro profonde lacune che mi ebbero lasciato nel cuore. A quanto pare non ero così pazza da continuare a sperare in quell’opportunità che finalmente, dopo tanto tempo, era arrivata.
Perciò non riuscivo a pentirmi della scelta che stavo prendendo. O almeno, nonostante la tristezza nel lasciare delle persone che per anni mi avevano fatto sentire per quel tanto possibile a casa, non volevo rinunciare.
Chiunque avrebbe potuto dire che la mia scelta era guidata dalla voglia di diventare una ballerina famosa, ma non sapevano che dentro di me c’era un’altra ragione che mi guidava: Michael.
Volevo stargli accanto. Volevo continuare a vedere il suo sorriso luminoso più del sole, i suoi grandi occhi brillare e la sua voce vibrare nell’aria delicata come il suono di dolci tintinnii di campanelle. Volevo la sua presenza accanto a me. Con lui non avevo bisogno di altro. Io mi sentivo... Mi sentivo me. Erano indescrivibili le emozioni che provavo quando ero con lui e in fondo intuivo che, se non fosse stato per lui, sarei stata propensa a rinunciare a quell’occasione.
Perché tutte queste sensazioni con Michael? Perché con lui tutto era diverso e ogni mio “muro” si sgretolava sempre? Non sapevo spiegarmi perché - ogni volta che mi prendeva le mani, mi abbracciava, mi accarezzava i capelli – mi sentivo leggera come una piuma. A volte pensavo che dopo passati quei momenti la morte poteva anche venirmi a prendere per sempre.
Inconsciamente lanciai una fugace occhiata a Michael, il quale scoprii che mi osservava con timore. A quella faccia risi divertita. «Avanti, Michael! Non ho intenzione di ucciderle o torturale a morte!...»
Lui guardò avanti, non del tutto convinto. Poi, accennando un sorriso furbetto in volto, aggiunsi guardando anche io dritta davanti a me. «Anche se una botticella non farebbe male a nessuna di loro...»
Michael mi guardò per un attimo impaurito, ma quando si accorse della mia espressione ironica e sorridente si mise a ridere anche lui. «Di certo prenderanno un colpo vedendoci noi due assieme all’improvviso, come stiamo per fare», disse lui accennando ad una smorfia sarcastica.
Risi, proseguendo per gli ultimi metri con passo sempre più calmo. Controllai l’espressione del mio volto, cercando di farmi più seria e “innocente” possibile, e quando notai che la porta della sala era aperta sentii un leggero nodo allo stomaco. Quella musica mi ricordava tanto le poche settimane passate in quell’aula, denigrata e isolata, benedicendo il cielo per non essere ancora là con quelle.
«Vuoi che venga dentro con te?», chiese Michael schioccandomi uno sguardo d’attesa. Io mi fermai pochi istanti prima di oltrepassare la porta, di colpo. Dopo uno sguardo leggermente stordito risposi.
«Mh… », bofonchiai abbassando lo sguardo ed aggrottando la fronte. «D’accordo, però preferirei che tu ne rimanga fuori, immagino già i commenti... E’ una questione che devo risolvere da me».
Lui mi fissò con occhi intensi, poi accennando un sospiro annuì debolmente. Solo allora mi voltai verso la porta, tirando un sospiro stanco. «Be’... Tanto vale di liberarsi di questo peso adesso, per sempre». Perciò, con sicurezza degna di me, avanzai verso l’interno della sala, seguita da Michael. Una volta dentro non potevo più tornare indietro e far finta di aver sbagliato stanza.
Con uno sguardo fugace controllai le persone all’interno, le quali mi fissarono tutte in meno di pochi secondi con occhiate sgomente e indecifrabili tutte assieme; c’erano tutte, ricordavo ogni loro volto, nonostante non rammentassi i dettagli di ognuna. Subito il mio sguardo venne attratto inconsciamente da Jenny e Gloria, le quali osservavano me – e di sicuro Michael – con occhi infiammati di rabbia.
La musica si spense, così facendo portando la mia attenzione sulla Signorina Phillips, che si avvicinò a me e a Michael con passo lento e occhiate neutre, in postura degna di una ballerina del etoile. Ormai la conoscevo abbastanza da capire che ogni volta che presentava quell’espressione calma in realtà non lo era affatto. Nel frattempo, a placare quel silenzio improvviso, mille bisbigli e gridolini soffocavano l’aria.
«Mr. Jackson, Sharon... Siamo onorati della vostra visita. A che dobbiamo questa presenza?», e con una mano a palmo spalancato fece tacere le ballerine, le quali si zittirono come tombe. Rivolsi una veloce occhiata d’intesa a Michael, il quale con un cenno di capo si rivolse verso la donna.
«In realtà sono venuto per accompagnare Sharon qua, vi deve dire una cosa prima di partire per il Bad World Tour», disse sottolineando l’ultima parola. Nascosi un sorriso non appena glielo sentii dire e, dopo vari urletti e voci soffocate da parte delle ragazze del corso, mi schiarii la voce.
«Sì, in effetti volevo dirvi un paio di cose...», dissi avanzando verso l’interno della sala, placando le bocche di ognuna. «Iniziando col dirvi grazie; senza questa scuola non sarei mai stata presa come ballerina di una persona come Michael».
Dette quelle parole, rivolsi un mezzo sorriso a Michael, il quale fece lo stesso arrossendo lievemente, sistemandosi sullo stipite della porta con una spalla. Portai il mio sguardo sulle mie mani che tenevo chiuse al petto, una stretta con l’altra, per poi osservare una per una le ballerine.
«Anche se non è stata proprio una delle migliori esperienze - il venir essere isolata solo perché non sono della vostra stessa classe sociale – sono grata che ne sia valsa la pena». Dopo un attimo di silenzio continuai. «E soprattutto grazie a te, Roxy...»
Con espressione soddisfatta, osservai tutte le ragazze voltarsi verso uno delle ultime file del gruppo di ragazze della sala. Nel momento che notai i suoi occhi spalancati su di me sorrisi apertamente. «Se tu non mi avessi concesso di prendere il tuo posto per esibirmi, in parte forse non mi avrebbero permesso di ballare».
Sapevo che stavo sottolineando di gran lunga la discussione avvenuta con la Signorina Phillips quel giorno dei provini, e non mi importava affatto del suo sguardo che cominciava a farsi rancoroso e fiammeggiante di stizza: sarebbe stata la mia ultima volta in quella sala, e dovevo far sentire tutte le cose che mi ero sentita di dire, ma che per mia sfortuna ero stata tenuta a tenere represse.
Sotto gli occhi spalancati di quasi tutti i presenti, mi voltai con calma innata verso Mrs. Phillips. «Lo so di non essere una ballerina da etoile, né di avere il fisico giusto per esserlo - da quanto lei mi faceva intendere...». Un attimo di pausa, chiusi gli occhi, e il mio sguardo si fece serio e duro. «Però se ho ricevuto l’opportunità di ballare per qualcuno di così importante, forse non sono così scarsa».
Anche gli occhi della donna di fronte a me si fecero seri, quasi crudeli, e con sibili acuti prese a parlare. «Di sicuro per essere entrata a far parte della compagnia del Signor Jackson ti saranno servite più di semplici attività di ballo», emise con un sorriso in volto che nascondeva un ghigno.
Sapevo che quella frase aveva un doppio senso, e che di certo non era un complimento. Mi stava facendo passare da un ruolo che non mi apparteneva. Attraverso lo specchio vidi Michael irrigidirsi, guardare la donna con occhi cupi e fulminanti, mettere un piede in avanti indeciso se venire a avanti o no.
Io, nel frattempo, esposi in volto un sorriso strafottente. «Signorina Phillips, mi meraviglio che pensa a queste sciocchezze, quando è chiaro come l’acqua che qui in questa stanza c’è aria di discriminazione e raccomandazione», dissi schioccando un’occhiata intensa a Jenny e Gloria.
Entrambe mi guardavano con occhi strabuzzati, e per poco non pensavo che perfino il fumo dalle orecchie le sarebbe uscito dalle loro orecchie. Gloria si fece avanti, mentre Jenny la guardò con sguardo scioccato.
«Ma come ti permetti?», esclamò sputando quelle parole con rabbia. «Devi esserle solo grata che non ti abbia cacciato fuori da questa scuola molto prima!», poi mi guardò da capo a piedi con sguardo d’odio, soffermandosi sul mio corpo. «Non avrai mai un futuro».
Alzai un sopracciglio, cominciando a sentire un certo fastidio dentro. «Parli proprio tu? Ah giusto, tu sei una fra quelle raccomandate. Mi ero quasi dimenticata il tuo ruolo da oca giuliva della classe...».
«Senti cara, abbi un po’ di rispetto per me, mulatta che non sei altro», disse mentre nei suoi occhi si formava un odio e una malignità sorridente e terrificante. «Sei fortunata solo ad essere ancora viva».
«Abbi tu il rispetto, innanzitutto. Nessuno ti deve aver insegnato le buone maniere in casa tua, nonostante la tua classe, ma solo cosa significhi il tema “discriminazione”», s’intromise Michael, che intanto si era avvicinato al mio fianco. Immobile e meravigliata da quel suo gesto non dissi niente; guardavo solo i suoi occhi cupi e fissi su Gloria che la scrutavano dentro.
Anch’ella lo fissò con occhi spalancati, mezzi irati e mezzi impauriti da quel improvviso intervento. Nonostante fosse paralizzata, sapevo già che stava per sputare un’altra delle sue sentenze – o almeno l’ha pensava -, conoscendo il suo lato impulsivo e provocatorio. In men che non si dica parlai io, con l’intenzione di impedire di dire qualche cattiveria a Michael... Non a lui.
«Ricordati una cosa, Gloria. Anzi, ricordatela tutti!», esclamai rivolgendomi a tutte le persone presenti. Michael accanto a me fissava ancora Gloria con sguardo intenso e carico di... Rabbia?
«La vita non è stata mai facile per una come me, e so che pensavate tutti che fossi solo una pazza con la testa fra le nuvole e dagli inutili sogni. Ma se c’è un consiglio che vi posso dire... Ogni sogno può diventare realtà. Basta crederci».
Detto questo calò il silenzio. Con un ultimo sguardo analizzai i volti dalle espressioni neutre, indifferenti, attente e talvolta devote di tutte le ballerine. Fissai Gloria con sguardo attento, senza accenni di odio o soddisfazione, poi Mrs. Phillips. Entrambe mi fissavano con odio e rabbia, poi con un veloce scatto d’occhi guardai Michael. Lui capì al volo e, toccandomi leggermente la spalla, ci dirigemmo verso l’uscita.
«Non sei stata affatto grande...», disse pochi minuti dopo, una volta raggiunta la macchina parcheggiata di fronte al cancelletto dell’edificio. Io lo guardai con occhi scombussolati e spalancati, e una volta in posizione per aprire la portiera Michael si immobilizzò.
«... Sei stata semplicemente magnifica e con grande stile!», continuò con un sorriso divertito e da bambino in quel volto angelico. Io spalancai ancora di più gli occhi, poi risi sinceramente divertita. Nello stesso momento aprimmo la portiera ed entrammo in macchina. Una volta chiusa parlai di nuovo.
«Be’, anche tu in effetti... Solo che ti avevo chiaramente espresso di non intrometterti nel discorso...», lo guardai con occhi fra il divertito e il furbesco. Michael mi rivolse uno sguardo preoccupato. «Però per questa volta posso lasciar scorrere. Grazie mille».
Nessuna persona, al di fuori di Ilary, mi aveva mai difeso dopo così poco tempo da quando mi conosceva, e nessuno mai era stato con l'intenzione di attaccare qualcuno per difendermi. L'avevo percepito dallo sguardo che aveva rivolto a Gloria, e per questo mi sentivo davvero felice.
Non appena vide il mio sorriso in volto riconoscente, mi prese la mano con dolcezza, abbassando lo sguardo. «Non potevo non dire niente... Ti ha accusato di essere una... Non devono permettersi di dire certe cose!»
«Tu non mi conosci da molto...», dissi colta da un’improvvisa malinconia, abbassando questa volta io gli occhi sulle nostre mani unite. «E se avessero ragione? Che ne sai tu? Potrei benissimo star recitando, no?»
Michael mi guardò con occhi intensi e grandi che mi pare perfino di affondarci dentro, fece il suo solito gesto di bagnarsi il labbro inferiore e mi strinse la mano più strettamente. «Hai ragione, magari sto sbagliando io. Forse hanno ragione... Eppure qualcosa mi dice che sei sincera, non mi menti».
Soffocai una risata non divertita, mantenendo i miei occhi al basso. «E se cambierai idea? Come fai a dire che sono sincera? Da cosa capisci tutto questo...?». La mia voce si era fatta un sospiro, e d’improvviso sentii due dita alzarmi il mento con tocco delicato. Solo allora incrociai quei due splendidi oceani scuri.
«I tuoi occhi... Riesco a vedere attraverso i tuoi occhi», rispose con voce dolce. I brividi passarono immediati la schiena, rendendo il tocco delle sue dita sul mio mento il tocco di un angelo. «Ora tu dai un’occhiata attraverso i miei; pensi che io non ti stia mentendo?»
E io lo guardai. Rimasi per un tempo così vasto ed indecifrabile ad osservarlo, proprio come lui fissava me. Forse veramente stavo vivendo un sogno, ma qualcosa mi diceva che veramente lui mi credeva. Quel qualcosa era la stessa cosa di cui lui parlava: gli occhi.
«No... Tu non stai mentendo», dissi, nonostante fossi così testarda da voler andare avanti col discorso. «Però non voglio che la gente ti metta in testa che io sono una bugiarda, Michael. Io te lo giuro: mai ti mentirei. Mai ti userei. Io... Tu sei l’unica persona che può capire come mi sento...»
Abbassai gli occhi, cercando di trattenermi dalla commozione per quelle parole che non ero mai riuscita a dire a nessuno che riuscisse a capirmi come faceva lui. Con Michael la vera me si rendeva sempre visibile. «Ti credo, Sharon», disse lui con voce convinta, portando i miei occhi lucidi di nuovo verso il suo volto. Anche i suoi occhi riflettevano quella lucidità. «Mi fido di te...», aggiunse con voce sottile.
Sorrisi, incapace di dire qualcosa di coerente, e lo fece anche lui. Sembrava che il tempo fosse in grado di fermarsi ogni volta che lo guardassi negli occhi, poiché pochi minuti dopo la macchina si fermò.
Era evidente che fossimo arrivati all’aeroporto.

***


Nonostante il mio stato confusionale, fui capace di arrivare alla scala d’imbarco.
Michael per tutto il tragitto mi era stato accanto, tenendomi la mano con quasi la paura di perdermi. Sebbene gli sguardi di ognuno – agenti, guardie del corpo... - fossero concentrati sulla nostra stretta e nonostante mi sentissi emozionata all’idea di decollare, con Michael accanto tutto sembrava diventare tranquillo.
Qualche volta sentivo i suoi sguardi curiosi su di me e ogni volta che sentiva il mio respiro farsi più agitato o il mio sguardo più teso mi stringeva maggiormente la mano, accarezzando il polso con tocco delle sue soffici dita... E io mi sentivo andare in Paradiso. Una persona così non poteva essere umana, ma bensì una creatura celeste!
«Michael! Finalmente! Dove caspita eri finito?». Era una voce maschile. Un uomo che stava parlando con gli agenti di volo si voltò verso di noi non appena ci vide, badando più a Michael fortunatamente. «E’ da quasi un’ora che cerco di chiamarti! Siamo in ritardo!»
Michael accennò uno sguardo di scuse. «Mi dispiace Frank, c’è stato un contrattempo per strada. L’aeroporto giapponese è stato avvisato di questo ritardo?», disse continuando a reggermi la mano.
L’uomo che capii si chiamasse Frank – dedussi anche fosse il suo manager, a rigor di logica – e non rimase sorpreso ci fossi anch’io; evidentemente Michael gliene aveva già parlato di questa faccenda. Egli mi rivolse una fugace occhiata, esaminandomi in un batter d’occhio, per poi poggiare i suoi occhi sulle mani mie e di Michael unite. Subito ritrasse il suo sguardo.
Qualcosa in quell'uomo non mi convinceva... Sembrava che la cosa lo lasciasse indifferente, eppure sembrava quasi infastidito dalla cosa... Non sapevo decifrare bene che cosa pensasse veramente.
«Tranquillo, ho sistemato tutto», poi un’altra fugace occhiata su di me, dopo tutte quelle che già mi fissavano. «Ora è meglio partire, prima che si faccia l’alba». Dopodiché si diresse all’interno dell’aereo.
Sembrasse che a Michael non gli importasse niente degli sguardi perplessi di tutti, una volta che capirono che non era solo. Anzi, più ci fissavano più stringeva la stretta, cominciando a cingermi al suo fianco. Milioni di brividi invasero il mio corpo non appena sentii la pressione della sua mano trascinarmi verso di lui.
Muti aspettammo che anche le guardie del corpo salirono, non capendo il perché del suo gesto, in seguito con un sorriso e un cenno del capo mi invitò a salire la scala d’imbarco. Prima di entrare però mi bloccai, spostando il mio sguardo verso le luci dell’aeroporto e della città che si percepivano a distanza. Sarebbe stata l’ultima volta a Los Angeles?
Michael mi si avvicinò cauto, accarezzando la mia mano che teneva ancora legata alla sua. Sentivo la sua presenza vicina – pregai perché non svenissi in quel preciso istante – e non sapevo realmente se stavo godendo del panorama delle luci oppure se della sua vicinanza.
Sospirai calma, per poi voltarmi verso Michael. «Sei pronta?», mi chiese lui con espressione attenta.
«Sì, possiamo andarcene di qui».
tati-a4ever
00lunedì 20 giugno 2011 01:38
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Capitolo Diciasette.
The hurt never showed
Punto di vista: Michael Jackson.


Prego», dissi a Sharon, mentre con un cenno della mia mano la invitavo ad entrare nello scompartimento privato dell’aereo. Era il mio jet personale dopotutto, e quindi godevo di un “sipario” diviso dagli altri.
Eravamo appena saliti nell’aereo, pronti alla partenza, e se prima Sharon era calma come un angelo ora sembrava l’adrenalina in persona. Io, d’altro canto, ero teso, come ogni volta che salivo in un aereo.
Fin da piccolo provavo un certo timore per l’aereo, soprattutto le prime volte con cui ci avevo viaggiato. Magari qualcuno fosse stato con me, a tenermi la mano, in quei momenti... Perciò avevo voluto che venisse anche lei con me. Con lei riuscivo a pensare a qualcos’altro che non fosse la paura o il timore, mi distraevo da quelle mie perplessità, perciò volevo rimanesse accanto a me.
La vidi avanzare con passo lento dentro la cabina, spalancando i suoi occhi scintillanti e neri. Evidentemente le piaceva, e di questo ne ero entusiasta. Si guardò intorno con un sorriso meravigliato in volto, osservando con cura ogni dettaglio; nel frattempo io chiusa la porta che divideva il nostro scompartimento con quello dove si trovava il mio manager e alcuni assistenti di volo a chiacchierare.
«Ti piace il jet?», chiesi curioso, avvicinandomi a Sharon. Lei mi fissò con occhi spalancati, poi mi rivolse un sorriso splendente. A quanto pare la risposta doveva essere di certo un “sì”.
«Che domande! Io non... Oddio! Non sono mai stata in un aereo simile... E’ bellissimo!», rispose riguardandosi intorno. «E’ uno dei mezzi più particolari e belli in cui sia mai stata».
«Ne sono felice», dissi con un sorriso guardando anche io l’arredamento dello scompartimento. In effetti dovevo ammettere anche io che era un luogo classico e di buon gusto. Molto più di un semplice aereo.
Ai nostri piedi un pavimento in legno scuro dalle rifiniture oro, le pareti che circondavano le piccole finestrelle ovali erano di colore bianco panna; al posto delle poltrone dell’altro scompartimento, grazie al fatto di essere vicino alla coda dell’aereo, ci stava un lungo ed immenso divano bianco angolare e tondeggiante a tre piazze, abbastanza grande da appoggiarsi ad ogni parete.
Oltre il divano c’erano inoltre vari arredamenti, come un lungo tappeto color panna e soffice, alcuni ripiani di legno, uno schermo alla parete divisoria con l’altra cabina, vari pannelli agli angoli di ciascuna parete ai lati che, in realtà, erano dei cassetti ben montati, e tanti altri accessori moderni e tecnici.
«Michael...», mi chiamò improvvisamente Sharon con espressione dubbiosa. «Ma non ci sono anche gli altri dello staff con noi?». Dal mio viso nascosi un sorriso per quella domanda e risposi con naturalezza.
«In realtà la maggior parte ha preso l’aereo comune; in questo jet ci siamo solo io, te, il mio manager e alcuni assistenti di volo e tecnici, tutti però nell’altro scompartimento più grande». Feci una breve pausa. «Ti dispiace?»
Sharon mi fissò con occhi curiosi, poi scosse la testa accennando ad un sorriso dolce. «No, affatto. È solo che mi sembra un po’ ingiusto passare tanto tempo con te, mentre di sicuro anche altre persone vorrebbero avere questa opportunità così speciale. Penso non sarò guardata di buon occhio».
Abbassai lo sguardo, riflettendo su ogni parola da lei emanata. «In effetti non hai tutti i torti, ma so già le cose che mi chiederebbe la maggior parte delle persone. Sono le cose che tu finora non mi hai mai chiesto. Per tutto questo tempo abbiamo avuto poche situazione per parlare rispetto alle normali aspettative, ma in quelle poche occasioni abbiamo solo parlato di tutto ciò che altri non avrebbero mai pensato di chiedermi».
Con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni guardai Sharon con fare attento, mentre lei mi sorrise. «Forse perché sento solo il bisogno di conoscere il vero te, e non la tua immagine», continuò in modo pacato, ricambiandole il sorriso.
Improvvisamente l’assistente di volo al microfono ci dette indicazioni di sederci; stavamo per decollare. Mi sedetti con Sharon in un angolo del divano, mentre nel frattempo lei si sporgeva con una bambina a guardare con occhi lucenti il panorama al di fuori di quella piccola finestra tondeggiante.
Mi piaceva osservarla. Ne rimanevo completamente preso e riflettevo su ogni suo gesto, su ogni suo pensiero specchio delle sue espressioni limpide come l’acqua cristallina. Osservavo come i suoi occhi studiassero ogni cosa – facendomi capire che fosse un’esperta osservatrice – e come il suo sguardo si trasformasse per ogni minimo cosa che attirasse la sua attenzione. Era una cosa affascinante.
«Sei mai salita su un aereo?», chiesi con fare sinceramente interrogativo, curioso di sapere più cose che la riguardassero a proposito di esperienze di volo. Lei mi fissò, poi assunse uno sguardo di riflessione.
«In realtà sì, ma poche volte... E quelle poche non in uno di aerei come questi! Mi ha sempre affascinato viaggiare su questo tipo di mezzo; ogni volta mi emoziono». Sentire la sua voce mi faceva sentire più rilassato, poiché per me quel mezzo provocava più tensione che altro. «A te piace?»
Sharon mi osservava interessata, in attesa una mia risposta che ovviamente non tardò ad arrivare. «Non molto in realtà. Da piccolo soprattutto ne avevo un po’ il timore, avevo paura precipitasse», dissi ridacchiando imbarazzato. «Però la tua compagnia mi solleva molto l’umore. Mi fai sentire tranquillo».
Lei mi sorrise con suo fare delicato e luminoso, tornando a sedersi in postura corretta nel divano di stoffa bianca non appena l’aereo cominciò a muoversi, in direzione della pista. «Ti sembrerà strano, ma tutti mi dicono – e mi dicevano – che metto tutt’altro che tranquillità alle persone che mi stanno accanto... E, se devo essere sincera, in parte hanno anche ragione», aggiunse sogghignando.
«Vuol dire che non sei così tranquilla e pacifica come fai sembrare di essere?», chiesi stuzzicandola con le parole, nascondendo un sorriso furbo. Lei mi guardò ad occhi aperti, alzando a malapena un sopracciglio.
«Stai scherzando? Sono tutt’altro che calma e pacata di quanto sembri! O be’, non sono così vivace, a volte un po’ pazza, questo è vero, e anche abbastanza lunatica... Però molti – soprattutto le persone con cui andavo “a genio” – si rendevano conto dopo un po' di tempo con che tipo di persona avevano a che fare».
Feci spiccare un mezzo sorriso dalle labbra, ma il mio stato d’animo venne successivamente coinvolto da un’espressione irrigidita non appena l’aereo cominciò a velocizzare il suo andamento. Fissavo conservando il respiro uno dei finestrini alla parete opposta a noi, fin quando una calda e soffice stretta mi avvolse la mano, portando il mio sguardo prima sulle mani congiunte, poi dritto negli occhi di Sharon.
La vidi sorridere in modo rassicurante, mentre i brividi si facevano sentire a quel contatto. «Anche io al mio primo volo in aereo ero piuttosto giovane, senza nessuno che mi aiutasse a cacciar via la paura. Immaginavo che accanto a me la mia mamma mi tenesse la mano, e così cacciai il timore...», dissi con voce sottile e imbarazzata.
Le sue parole echeggiarono nella mia mente spaesata e confusa, rendendo appannato e allo stesso tempo rassicurato ogni pensiero che riuscivo a formulare correttamente, nonostante i lunghi petulanti brividi che invadevano la mia nuca e schiena. La sua voce calda e il suo sguardo intenso rendevano tutto più difficile; mi sentivo stordito, neanche avessi ingerito una sostanza assai più forte di semplice droga.
Quando l’aereo cominciò ad alzarsi da terra ed in contemporanea gli occhi di Sharon si spostarono fuori dalla finestrella ovale, nel buio della notte, le strinsi la mano in una morsa più energica. Di nuovo il suo sguardo si spostò verso i miei occhi, ricambiando di rimando la presa.
Era bello sapere di avere qualcuno vicino che capiva i tuoi bisogni, una persona che mi stava accanto con gesti che pochi e nessuno mi avevano mai rivolto. La sua presenza mi sollevava il cuore, percepivo una sensazione che non avevo mai provato così fortemente prima di allora.
Anche quando l’aereo si stabilì in aria in modo perfettamente orizzontale, non volli comunque mollare la mano di Sharon, pure se non ne avessi oramai più bisogno. Volevo sentire il suo calore legato a me.
«Grazie Sharon», le sussurrai con dolcezza. «Mi sei stata vicino in questo momento come nessun altro lo è stato prima di te. Nessuno ha capito veramente la mia paura e il mio bisogno di aiuto...»
Lei sorrise, il suo colore di pelle mulatto divenne più scarlatto sulle guance. «Non devi ringraziarmi. Tu meritavi questo appoggio, forse più di ogni altra persona che io abbia mai incontrato nella mia vita».
E dopo queste parole, lasciai finalmente vagare il cuore libero e leggero nel cielo blu scuro di quella notte stellata, in quel giorno caldo di settembre.

«Che vorresti vedere?», le chiesi non appena si avvicinò allo sportello dei film e cassette da scegliere da vedere. Nessuno dei due aveva intenzione di dormire, e di sicuro non penso ci sarei comunque riuscito.
Avevamo organizzato in pochi minuti tutto; il divano lo avevamo trasformato in un perfetto divano letto, da alcuni sportelli nascosti avevamo trovato varie cose – dolciumi, patatine, bibite... – con cui soddisfarci durante la visione del film che avremmo scelto. Inutile dire che ci stavamo divertendo come due bambini piccoli solo in quei piccoli gesti, cose che per gli altri sarebbero significate cose assurde.
«Mmh...», rifletté inclinando lieve il capo a sinistra, incurvando le labbra in una smorfia da bambina indecisa. «Non saprei... Il dubbio è se film o cartone, la scelta è vastissima», ammise ridacchiando.
«Tu preferisci guardare un cartone o un film?», chiesi guardandola in volto, esaminando per un secondo quel solito ricciolo ribelle sulla sua fronte delicata. Sharon socchiuse gli occhi in un’espressione accigliata, mordendosi lieve il labbro inferiore.
«Ammetto che io amo molto più i cartoni del mio amato Walt Disney, rispetto a tutti gli altri film esistenti al mondo... Perciò la mia scelta ricadrebbe, detta con sincerità, sulla Disney. Te che preferisci?»
«Concordo», ammisi spalancando le mie labbra in un sorriso divertito. Era strano come potesse anche in un momento come quello pensare a quello che stessi pensando anche io. «Ora però decidiamo quale dei tanti...», sbiascicai improvvisamente perplesso. Era una scelta difficile anche per me.
Un sorriso spuntò nel volto di Sharon, illuminandola. «Il tuo cartone preferito se non sbaglio è “Peter Pan”, vero? Se non ricordo male...», chiese ricordandosi le parole dette durante la serata passata a cenare da lei, la stessa quando suo padre era tornato come un’ombra improvvisa nella sua vita...
«Sì, esatto. Anche a te piace molto vero?». Fortunatamente neanche la mia memoria m’ingannava, siccome ricordavo perfettamente quando mi aveva detto che i suoi cartoni preferiti erano “Peter Pan” e “La Bella Addormentata Nel Bosco”.
Lei annuì e subito intuii la sua idea; presi la cassetta dal ripiano, entrambi con un enorme sorriso in volto sulle nostre facce, e mentre lei si sedeva comodamente nel divano letto, io mi propensi ad inserire la cassetta nel video registratore. Dopodiché la raggiunsi a passo spedito e la musica iniziale del cartone echeggiò nella stanza.
Per tutta la durata del film entrambi seguimmo ogni pellicola con occhi fissi sullo schermo, distesi a pancia in giù, mangiando e bevendo, ridendo alle battute che recitavamo insieme in alcune scene del cartone. A volte ci tiravamo perfino pop-corn l’uno all’altro, come vere battaglie da guerra di cibo.
Mi sentivo a mio agio. Con Sharon potevo far uscire la mia parte bambinesca e innocente, poiché anche lei ne possedeva una. Non era come gli altri adulti. Non come quelli che almeno io avevo conosciuto finora.
Ridemmo alle scene divertenti – soprattutto in quelle dove c’era Capitan Uncino -, ci commuovemmo entrambi – in particolar modo nella scena dove Wendy cantava la canzone della mamma... Ci eravamo calati perfettamente all’interno del film, condividendo i nostri propri commenti su qualche scena particolare.
«La fine mi ha sempre reso triste...», sbiascicò sottovoce Sharon non appena raggiungemmo la scena dei titoli finali. Si tirò su dalla posizione distesa, rannicchiando le sue ginocchia al petto.
Con espressione confusa, chiesi; «Perché?». Lei mi guardò schioccandomi un’occhiata dolce e rattristata, con un mezzo sorriso a incorniciarle quel suo volto assonnato e scompigliato.
«Perché alla fine Wendy torna a casa, non sta con Peter. Ho sempre desiderato che stessero insieme, ma era destino che un giorno si dovessero separare...», si bloccò un attimo, poi riprese con un sospiro. «Alla fine Tinkerbell è stata l’unica a star sempre vicino a Peter dopotutto».
Rimasi positivamente sorpreso da quella sua teoria, la stessa che più di qualche volte aveva invaso la mia stessa mente. Mi tirai su anche io dalla posizione distesa, incrociando le gambe a farfalla, spostando lo sguardo dal suo volto al video schermo.
«Hai ragione, ma conta che Tinkerbell è una fatina, non una bambina. Peter pensava a lei come la sua più grande amica, la sua spalla, mentre Wendy... E’ diverso», dissi sentendo il suo sguardo interessato e serio su di me. Lei annuì, voltando i suoi occhi alla ginocchia che teneva vicino al petto, ma capivo che non ne era molto convinta.
«Non tutte le storie che s’ispirano a “Peter Pan” sono identiche all’originale. In un altro caso forse Wendy sarebbe rimasto con lui, o il contrario», continuai, sapendo che con quelle parole facevo puro riferimento a me stesso, alla mia storia. «M’immedesimo molto in lui. Dentro me sento di essere come Peter Pan per certi versi, ma non vuol dire che quando troverò la mia Wendy la lascerò andare via facilmente».
Sharon mi sorrise, spalancando le sue labbra in un’espressione di magnifica purezza. Non sapevo come avevo avuto il coraggio di dire quelle parole proprio a lei, e nemmeno sapevo perché stavo cominciando a sentire calore dentro di me, ma di una cosa ero certo: se ci fosse stata una Wendy che avrei desiderato avere accanto, lei lo sarebbe potuta essere.
Premetti “Stop” sul telecomando, bloccando la visione dei titoli di coda, per poi una volta rimandarla indietro del tutto e metterla nell’apposita custodia. «Ti va di vedere un altro cartone? Che ne so, magari “La Bella Addormentata Nel Bosco”...?», chiesi accennando un sorriso furbesco.
Gli occhi di Sharon s’illuminarono non appena pronunciai il nome del film, accennando un forte assenso col capo come una bambina emozionata. Con un enorme sorriso sul mio volto estrassi la cassetta dal ripiano e la posi dentro il video registratore. Pochi minuti dopo ci ritrovammo a guardare irremovibili il video, continuando a scherzare e a recitare a memoria battuta per battuta.
Alla fine del film i miei occhi passarono curiosi su Sharon, la quale scoprii che si era appena assopita. Se ne stava a pancia in giù, con la guancia sinistra appoggiata ad un cuscino, capo rivolto verso di me. Il suo sguardo era angelico, rilassato come mai avevo visto sullo sguardo di altri. La mia bella addormentata...
La coprii con una coperta e chiusi le luci. Fu una delle serate migliori che passai nella mia vita.

***


«Michael, un dieci minuti e ci siamo. Sveglia», sentii dire una voce lieve e maschile – riconobbi poco dopo che fosse Frank – che mi dava il benvenuto ad un nuovo giorno.
Aprii lentamente gli occhi, sbattendoli, cercando di risvegliare me stesso dal torpore del sonno. Mi ci volle qualche lungo minuto prima di definirmi veramente sveglio. Mi alzai dal divano letto, badando con cura a non scuotere d’improvviso Sharon. Poco dopo incrociai gli occhi vigili di Frank fissarmi.
«Siamo quasi arrivati bell’addormentato. Sarà meglio che vi prepariate, tu e la ragazza... Anzi, sarebbe meglio la svegliassi, prima», disse avviandosi veloce verso la porta che portava all’altro scompartimento.
Poggiai il mio sguardo su Sharon, il cui volto era coperto in parte da piccoli boccoli scuri, la quale non sembrava benché non avesse il minimo accenno a svegliarsi. Mi dispiaceva sapere di doverla destare dal sonno... Era così serena. Una visione delicata, tanto graziosa da farmi avvampare un po’ le guancie.
Con gesto istintivo le sistemai i riccioli scoprendole il viso con una lieve carezza e toccando quella pelle morbida. La coperta le arrivava a coprire solo le gambe, tanto che mi preoccupai se avesse patito del freddo durante la notte. Possedeva lineamenti marcati, curve visibili che sembravano disegnate col pennello, tanto bastava da renderla bellissima e ancora più unica.
Mi sentii arrossire, cercai di controllare alcuni pensieri nel frattempo che mi avvicinai per svegliarla. Con un sorriso, la svegliai intonando una strofa de “La Bella Addormentata Nel Bosco”. «So chi sei, vicino al mio cuor ogni or sei tu. So chi sei, di tutti i miei sogni dolce oggetto sei tu... Buongiorno, sleeping beauty»
Vidi un sorriso dolce cominciare a farsi avanti in quel suo viso addormentato, emanando un sospiro e distendendo i muscoli delle gambe, sbattendo un paio di volte gli occhi prima di aprirli definitivamente.
«Mmh... E’ il più bel buongiorno che abbia mai ricevuto in tutta la mia vita, sai Michael?», disse trattenendo entrambi una risata imbarazzata e allo stesso tempo divertita.
Sorrisi. «Ne sono felice. Frank mi ha appena avvisato che fra un paio di minuti arriveremo...», ma non feci tempo a finire la frase che una scossa fece vibrare lievemente l’aereo. «Anzi, siamo arrivati», mi corressi.
Pochi minuti dopo fummo pronti per scendere. L’ansia dei giornalisti al mio arrivo già mi rendeva più agitato di prima, sciogliendo quel clima di pace che avevo provato tutta la notte.
Prima tappa... Giappone.




Capitolo Diciotto.
Feel strange meetings
Punto di vista: Sharon Villa.


Non appena fuori dall’aereo una scarica di aria fresca m’invase i polmoni, rendendo lucido in modo definitivo ogni mia molecola del mio corpo e pensiero vacuo che alleggiava nella mente.
Il Giappone. La prima tappa. Il primo posto dove mi sarei mostrata al mondo come ballerina, e non una semplice danzatrice ma bensì una del cast di Michael. Sentii una lieve scossa percuotermi dentro, adrenalina pura, e speravo con tutto il cuore che tutto sarebbe andato per il verso giusto, almeno per una volta nella mia vita.
«Andiamo», mi disse con gentilezza innata Michael, sfiorandomi la mano che tenevo distesa lungo al fianco. Quando sentii il suo tocco leggero fu come risvegliarmi da un sogno ad occhi aperti, ma il risveglio fu piacevolmente accettato, di nuovo. Il mio angelo...
Non avevo mai conosciuto persona più dolce. Non avevo mai ricevuto un risveglio così delicato come quello che avevo ricevuto quella mattina. E la serata che avevo passato con lui... Stare con lui era come stare con un’altra parte di me stessa; una parte che riusciva ad essere adulta e anche bambinesca allo stesso tempo.
Lo seguii scendendo la scala d’imbarco, pochi passi dietro di lui, zitta e muta nel frattempo che il suo manager lo informava su quello che intanto stava avvenendo all’aeroporto. «Ci sono circa 600 giornalisti ad aspettare il tuo arrivo, Mike, per non contare la miriade di massa che ti aspetta implorante...»
Vidi Michael, nonostante gli occhiali da sole, accigliarsi meravigliato, mentre mi stava accanto a pochi centimetri di distanza. «Addirittura seicento?»
Seicento?!, fece eco la mia mente sconvolta. Oddio... Non ero psicologicamente pronta per sentire gli scatti di seicento fotografi addosso, anche se dentro di me qualcosa diceva che avrei fatto tutt’altra strada per passare più inosservata possibile, io...
«Sì, Michael», continuò imperterrito il manager, lanciandomi un’occhiata veloce. «Per non contare i fan. Tutti stanno aspettando il tuo arrivo da due ore abbondanti ormai...».
Quello che disse poi il signor Di Leo divenne nebbia; troppo impegnata a domandarmi che fine avrei fatto io - dove sarei andata, con chi sarei stata portata nell’hotel e la paura perché qualcosa andasse storto non solo per me, ma anche per Michael -, lasciai scorrere le innumerevoli parole degli estranei a me vicini come una piccola brezza di passaggio.
Guardavo i miei passi, non distogliendo lo sguardo da terra, e neanche mi accorsi di essere arrivata all’interno dell’aeroporto. Un paio di persone si raggruppò attorno a Michael e, involontariamente, anche a me che gli ero a fianco. Cominciavo a sentirmi come un pesce fuor d’acqua, troppo inesperta per sapere che stava succedendo, troppo confusa per pensare a qualcosa che non mi asfissiasse ulteriormente.
Strinsi le labbra con gesto ferreo, svoltando il mio sguardo via da tutti gli uomini in giacca e cravatta, soprattutto da quelli che mi osservavano incuriositi.
Michael stava ascoltando attentamente le parole di un uomo scuro di pelle, abbastanza robusto, e decisi per privacy di farmi indietro. Quelli non erano affari miei e di certo non sarei stata così maleducata da star lì ad ascoltare come una pettegola.
Perciò, con un deciso passo indietro, mi allontanai da Michael e dal gruppo di uomini tutti intorno a lui. Mi lasciai accantonare in un angolo, incrociai le braccia al petto e guardai alla mia sinistra, verso uno dei tanti corridoi deserti dell’aeroporto. Osservai con attenzione la scrittura giapponese che non riuscivo comunque a capire, nei cartelloni appesi tutt’intorno, con l’obiettivo di distrarre la mia ansia.
Non decisi d’allontanarmi di più, per paura che non si sarebbero accorti della mia assenza. D’altra parte gli unici sguardi ricevuti erano stati solo di una sporadica curiosità, che immediatamente era svanita negl’occhi di tutti. Mi sentivo sollevata per questo, non essere negli sguardi mirati di giudicatori profani.
Improvvisamente sentii prendermi la mano con fare tenue. «Tutto bene?», mi disse Michael scrutandomi attraverso le lenti degli occhiali da sole. Aveva una voce talmente soave da riuscire a farmi girare la testa.
«Sì. Sì...», dissi dopo un momento di smarrimento. Guardai per un attimo di secondo il pavimento, poi di nuovo lui, cercando di controllare il batticuore non solo per la situazione, ma anche per lui. Michael non sembrò comunque convinto della mia risposta.
Mi sembrava troppo vicino, con quel suo viso perfetto a soli pochi – e dico davvero pochi! – centimetri dal mio volto. Mi mancava l’aria, non sapevo come sarei riuscita a sopravvivere a lungo. Mi faceva sentire un’anima in subbuglio, con la mente completamente nel pallone. Dio quanto era bello... Affascinante... Con quello sguardo intenso e... Oddio... Sarei morta... Era da infarto puro!
«Ne sei sicura?», disse fregandosene di tutti gli sguardi curiosi e indiscreti che ci osservavano. Mi sentii lievemente imbarazzata, ma comunque non troppo timida dal rifiutarmi di rispondere.
«Forse sono solo un po’ stanca...», enunciai guardando alcuni che ancora mi osservavano. Michael notò il mio sguardo e si voltò lieve verso loro, i quali subito svoltarono gli occhi da tutt’altra parte.
Rimasi sbigottita, non aspettandomi veramente che con solo un’occhiata Michael riuscisse a farli voltare tutti. Non sembrava sul serio potesse diventare così autoritario anche solo con un gesto così piccolo, visto il suo carattere così dolce e apprensivo che aveva dimostrato con me.
Tornò ad osservarmi, accennando ad uno sguardo eloquente di scuse. «Ora ci dirigeremo all’hotel», disse lui. «Mi dispiace solo di doverti far passare un momentaccio, con tutta quella stampa...»
Rimasi al momento sbigottita – non pensavo mi sarei fatta vedere davanti a ben seicento reporter, visto le cose che potevano scrivere i giornalisti– ma successivamente cominciai a sentire un tenue calore invadermi l’anima. Non mi aveva lasciato nelle mani di ignoti, e questo mi sembrava un gesto amabile.
«Grazie», dissi subito prima che di nuovo il suo manager c’interrompesse. Michael mi guardò confuso, ma poco dopo – quando capii avesse intuito a cosa fosse riferito il mio grazie – accennò ad un mezzo sorriso.
Con passo veloce ci dirigemmo verso un lungo corridoio, seguiti da gli stessi uomini di prima, e attraversato un angolo mi trovai di fronte una immensa vetrata che dava all’aperto. Giornalisti in attesa con le loro scure macchine fotografiche e fan urlanti pronti a farmi passare un momento di blocco respiratorio immenso.
Quando capii che saremmo dovuti passare per quell’uscita - fortunatamente resa più sicura ed accessibile da alcuni agenti di polizia e sbarre varie – mi sentii avvampare; non per il fatto di sentirmi imbarazzata, il fatto era perché circa un migliaio di persone avrebbero visto me con Michael. E se ne avrebbe risentito sulla sua immagine da star?
Un bodyguard mi porse i suoi occhiali da sole, notando il mio stato di nervosismo, con un lieve sorriso. Non sapevo se c’erano secondi fini a quel gesto, però restituii il sorriso con molta gentilezza, ringraziando. Perciò, un po’ impacciata, me li misi su sentendomi come più protetta.
Mantenni in ogni caso il mio sguardo verso il pavimento, non volente ad osservare tutta quella gente con un’aria da stordita. Per sembrare nonostante tutto una persona che non aveva paura, mantenni uno sguardo adeguato alla situazione, senza lasciar trasparire particolari emozioni... O almeno speravo.
Sentii d’improvviso una mano stringere la mia, incrociando le nostre dita in una stretta ferrea. Con uno scatto mi voltai, e con mio stupore mi resi conto che era lui che me la stava stringendo. Rimasi come una scema ad osservarlo, aspettando che contraccambiasse in poco meno di due secondi, ma rimase a guardare un punto dell’uscita. Notai che nelle sue guance cominciava a farsi vedere un colore scarlatto.
Mi sentii arrossire, per non dire che i sudori cominciavano a farsi avanti incalzanti sulla mia schiena... Cercai di controllare il tenue rossore sulle mie guance caffèlatte.
E alla fine, come se quel momento fosse durato invece che pochi secondi ma bensì un’ora, riuscii a raggiungere una delle quattro macchine nere sana e salva; non appena lasciato l’edificio si erano levati in aria urli e schiamazzi, sottolineati da continui flash di tutte le fotocamere presenti, e guardai appena quelle facce che, pochi minuti dopo, s’assentarono dalla mia memoria.
Era stato un attimo veloce e confusionario, e mi stupii dei sorrisi che Michael dava loro senza il minimo senso di paura per quella folla, a volte salutandoli con un cenno della mano.
Mi sedetti nell’auto con lui e due guardie del corpo che si sedettero nei sedili di fronte a noi.
Nessuno dei due emanò una parola fin quando non arrivammo alla meta, e solo all’arrivo mi accorsi delle nostre mani ancora legate.

***


«Benvenuto a Lei, Signor Jackson, all’hotel», disse un uomo di mezza età, giapponese, vestito in smoking, non appena Michael, io e il resto dello staff ci presentammo all’interno dell’edificio, nel frattempo che i fattorini si predisponevano a portare i bagagli alla reception.
Con sguardo curioso osservavo con aria trasognata ogni particolare del palazzo, dalle splendide mobilie ai rustici tappeti, dai candelabri in oro ai lampadari lucenti e sfavillanti; sembrava di trovarsi in una casa reale, con tutta quell’eleganza tutt’intorno. Di sicuro non era per niente un hotel a 5 stelle.
Michael accennò ad un grazie con un lieve movimento del capo, con sempre la sua strabiliante gentilezza, e nonostante fossimo al chiuso indossava ancora i suoi occhiali da sole, con mio gran stupore. Guardò interessato la mia espressione e, quando m’accorsi mi stesse esaminando, ricambiai l’occhiata con un sorriso sbalordito da tutto quel lusso a noi circostante. A quel punto, sorrise anch’egli.
«Il servizio è a disposizione vostra e del vostro staff 24 ore su 24, per qualsiasi problema abbiate bisogno. Può star certo che non verrete disturbato da nessuno durante la vostra permanenza qui, sia durante il giorno e sia la notte. Potrete disporre privatamente di una piscina al coperto, palestra e luogo di ristoro riservato, per voi e per le persone a voi vicine», continuò l’uomo.
«E’ molto gentile, grazie di cuore», rispose Michael con un sorriso. «L’assegnazione delle camere è già stata compiuta?», chiese mostrando la stessa tonalità di voce.
«Certamente, la reception aspetta solo una vostra firma e poi tutte le valigie verranno portate nell’apposita suite dove alloggerete. La signorina Hanari, al banco, v’indicherà poi tutte le funzioni delle vostre stanze e delle locazioni dei vari settori dell’hotel».
Parola per parola che veniva enunciata il mio senso di sbigottimento si faceva più grande; avrei alloggiato in una suite. Io?! Non potevo credere a tutta la fortuna che mi stava venendo incontro, e per un attimo temetti che gli effetti del colpo in testa che mi aveva portato all’ospedale fosse la causa di visioni.
Proseguii meccanicamente, tenendo ancora la mano di Michael legata alla mia, fino alla reception, del tutto assente da quella realtà imminente. Michael firmò una serie di carte e la donna di cui aveva parlato prima l’uomo ci spiegò ogni dettaglio delle nostre stanze, ma non ci avviamo verso di esse.
«Sarà meglio che andiate a fare colazione, soprattutto tu Michael. Ricordati gli impegni per dopo...», annunciò con tono neutro il suo manager Frank Di Leo. Un punto interrogativo si deformò nel mio volto perplesso, e dopo un cenno d’assenso di Michael con la testa io e lui ci avviammo verso la sala ristoro.
«Hai già un appuntamento di lavoro?», dissi osservandolo con sguardo serio e rammaricato. Proprio non poteva neanche lui avere i suoi attimi di pausa? Doveva già mettersi all’opera con impegni vari?
«Purtroppo sì...», rispose sottovoce, tirandosi via gli occhiali dal volto e incastrandoli attraverso la sua camicia azzurrina, facendo sì che rimanessero impigliati senza cadere. «Non ti dispiace se nel frattempo io ti lascio con i ballerini del tour, vero? Per provare le coreografie?», mi chiese con timore.
«Incontreremo i ballerini?», chiesi con un certo tono vivace nella mia voce. Ero curiosa di sapere con chi avrei ballato, e soprattutto di conoscerli. Magari avrei instaurato dei bei rapporti anche con loro.
«Certo, proprio adesso. Ho detto a Frank di chieder loro se potevano prendersi cura di te, insegnandoti i passi di alcune coreografie, quando io non ci sono e non posso insegnarvi. Così potrai portarti in avanti».
«E’ una gran idea! Almeno così eviterò di fare alcune delle mie solite figure alla prima del tour...», dissi ridendo imbarazzata e nervosa. Già pensare alla mia prima vera volta sul palco cominciava a farmi sudare.
«Non farai figuracce, sei meravigliosa», mi disse lui. Sentii stringere di più la mia mano, e in automatico il mio cuore smettere di battere. Quasi subito arrossii, cercando di controllare il respiro frenetico, ma sorrisi divertita. Lui ricambiò il sorriso con uno dei migliori che avessi mai visto.
Arrivammo nella sala più veloci del previsto, nel frattempo che lui mi elencava le canzoni che avremo ballato in questa prima sessione del Bad World Tour. Una volta entrati il mio sguardo si avviò immediato verso un gruppo di persone presi a conversare tutti assieme. D’improvviso s’accorsero del nostro arrivo.
«Ragazzi, vi presento Sharon Villa. Anche lei farà parte di questo tour come voi», mi presentò Michael rivolto a tutti, per poi lanciarmi uno sguardo sorridente. Io sorrisi di rimando, cordiale.
«Sarà un piacere per me collaborare con voi», dissi aprendo maggiormente le mie labbra in un sorriso più esplicito. Loro mi sorrisero, alcuni con più enfasi di altri, e detti la mano ad ognuno di loro, fino a quando non incrociai lei.
Vanessa Russell. Vanessa.
Una fiamma divampò nel mio cuore, intenzionata a ferirmi nel profondo.
Quindi c’era anche lei. Perché c’era anche lei? Perché Michael non me lo aveva detto?
Dentro di me qualcosa ruggì – un mostro rinchiuso da parecchi anni nelle segrete della mia anima -, una voce perfida e sibilante, mentre sentivo il mio cuore farsi tormentato ogni più secondo rimanevo ad osservarla. Era una sensazione orribile, però non potevo fare a meno di provarla.
Lei mi lanciò un’espressione serena e falsamente felice, poiché capivo dall’espressione vacua dei suoi occhi che era rimasta scioccata quanto me; restituii lo sguardo, come il riflesso di uno specchio, e lasciai la mia mente vagare in quelle emozioni di rabbia e confusione.
Nonostante il silenzio sottile carico di nervosismo che fluttuava nella mia mente, riuscii ad ascoltare le presentazioni, sebbene con difficoltà.
Michael mi presentò ogni persona una per una, spiegandomi anche i loro propri ruoli all’interno del tour. Ascoltai ogni spiegazione, intenzionata a distrarmi da quella ragazza dagli occhi blu che mi fissava.
Da come parlavano e si atteggiavano sembravano essere tutti abbastanza spigliati, ma quello che più aveva attirato la mia attenzione era stato ad un primo impatto il ballerino di nome Eddie Garcia; aveva un bel sorriso, ed in più con me si era atteggiato da persona molto gentile, con uno sguardo più buono.
«Posso?», mi chiese indicando un posto al tavolo circolare dove stavamo per sederci proprio accanto a me. Io risposi con un sorriso sincero e cordiale, con un accenno del capo. Mi sorrise di rimando. Mi sedetti nel posto fra lui e Michael, non potendo di certo non notare che Vanessa casualmente si era sistemata proprio nell’altro posto accanto a lui.
Togli quel tuo sguardo da diavolo assetato di piacere da Michael, vipera!
Voltai il capo, non volevo restare con lo sguardo su di lei, prima che una crisi di nervi mi avrebbe portato a chiederle perché cavolo lei fosse là. L’avrei uccisa!
Tutti parlavano fra loro, spesso a gruppetti, e mi ritrovai ad ascoltare più che altro le conversazioni che si stavano effettuando; Michael parlava tranquillo con il direttore vocale, Greg Phillinganes, e più di una volta incrociai gli sguardi inquisitori di Vanessa. Mi fissava con lieve ostilità nei suoi occhi, ma dava la tranquilla impressione di essere semplicemente curiosa. Ricambiai con uno sguardo glaciale e neutro.
«Quindi tu sarai la ragazza protagonista nel video “The Way You Make Me Feel”?», mi chiese il ragazzo di nome Eddie, attirando subito la mia attenzione. Lo guardai ad occhi spalancati, ma risposi subito con un sorriso naturale.
«Sì, sono io. Gentilmente Michael mi ha proposto anche di far parte di questo tour, e ho pensato sarebbe stata una buona occasione per me», risposi con pacatezza. Lui mi lanciò un sorriso sincero.
«Non vedo l’ora di vederti all’opera allora. Saremo una squadra tutti quanti insieme», rispose. «E per qualsiasi problema sappi che potrai chiedermi quel che vorrai, sperando di aiutarti al meglio».
Sorrisi. «Sei davvero molto gentile, grazie di cuore».
«E di che! Mi sembra una cosa importante aiutare una persona che ha bisogno, anche se non sempre tutti sarebbero pronti a ricambiare questo favore dopo un tuo bel gesto. In ogni modo, su di me puoi contare».
D’improvviso sentii la voce di Vanessa rivolgersi a Michael, con quella immancabile tonalità smielata e crudele allo stesso tempo, portando in automatico i miei occhi su di loro. Proprio in quell’attimo, mi lanciò uno sguardo pungente. Che razza di strega! E Michael non sembrava accorgersi della mia esistenza! Parlava come se niente fosse senza curarsi dei miei sentimenti. Lui era il mio Michael!
Ero così... Così gelosa! E non sapevo spiegare neanche a me stessa il perché. Era più forte di ogni istinto che risiedeva nella mia anima, sapeva bene come distruggere ogni forma di lucidità. Gli occhi di Vanessa osservavano Michael con adorazione, lui le rispondeva in maniera pacata... Tutto riportava alle emozioni provate la sera quando l’avevo incontrata per la prima volta, forse addirittura più possenti.
Un sentimento di vendetta e rancore mi portò a reagire; mi voltai verso Eddie e ricominciai a parlare con lui. Mi venne da ridere quando, una volta deviata verso di lui, prima di enunciare parola, lo vidi farmi l’occhiolino indicandomi successivamente con gli occhi Vanessa e Michael.
Incominciammo così a parlare del più e del meno, quasi fossimo amici da tanto tempo che non vedono l’ora di raccontarsi le cose passate; sentivo sguardi sbalorditi su me ed Eddie – eravamo complici dello stesso fatto - e mi chiesi allora se anche Michael si fosse fermato ad osservarmi. Stava il fatto che non sentii più l’atroce voce di Vanessa risuonare nell’aria... Forse non sapevano con chi avevano a che fare...
«Volete ordinate?», chiese d’improvviso un cameriere, interrompendo la nostra conversazione. Con la coda degli occhi percepii lo sguardo di Michael su di me, ma non seppi definire bene il suo stato emotivo.
Sapevo solo che quel ragazzo, Eddie, sarebbe stato una delle persone con cui sarei andata più d’accordo.




Capitolo Diciannove.
Sweet guilty pleasure
Punto di vista: Michael Jackson/Sharon Villa.


Un caffè macchiato e una brioche alla marmellata per me», sentii dire allegramente da Randy Allaire, uno dei ballerini del mio tour, al cameriere che era venuto al nostro tavolo per le ordinazioni.
Mi sentivo confuso, agitato da morire, ed il perché erano le due persone alla mia destra sedute al tavolo circolare. Le voci briose di Sharon ed Eddie che aleggiavano nell’aria circostante mi facevano sentire un senso d’angoscia. Sharon si era completamente calata in sintonia con Eddie, e un senso di paura dentro mi faceva temere parlasse più volentieri con lui che con me.
Perché stava facendo questo? Perché non rivolgeva il suo sorriso a me? Quanto avrei voluto bloccare quella conversazione, poter parlare solo io con Sharon e soltanto io! Che stava facendo? Lo faceva apposta?
«Due, una brioche alla marmellata anche per me», disse Sharon bloccando d’improvviso ogni mio pensiero con un sorriso felice che risplendeva in quei occhi neri da cerbiatta.
«Tre», dicemmo in contemporanea io ed Eddie. Gli lanciai un’occhiata penetrante. Rimanemmo per pochi secondi a fissarci negli occhi, io e lui, sotto lo sguardo curioso di tutti. Sharon mi fissava allibita.
Era una sfida quella che lui mi stava lanciando con la sua occhiata ridente?
«Quattro», corresse prima che io potessi dire altro, mantenendo quella maledetta espressione soddisfatta. Solo perché Sharon parlasse con lui non doveva emozionarsi così presto...
«Cinque», disse poi Vanessa, ammiccandomi un’occhiata svelta. Ma io non la stavo guardando. Il mio sguardo passò veloce da Eddie a Sharon, la quale rimase a guardarmi con occhio serio, per poi svoltare.
Quanto mi sentii morire in quel momento... Una lama che tentava di perforarmi.
Feci quella colazione nella più totale agonia sentimentale che mai avessi provato da parecchi anni. Sharon continuava a parlare con Eddie, nonostante stesse facendo conoscenza anche con Jennifer Batten e Don Boyette. Io parlavo, cercavo di distrarmi, ma ero assente; speravo che Sharon mi rivolgesse il suo sguardo, mi parlasse.
Una volta finita la colazione, con rammarico, mi prestai a salutare tutti quanti, compresa lei. Sentivo il mio cuore nel panico più totale, nella paura, e un istante prima di andarmene incontrai i suoi occhi; mi fissavano con tristezza ma allo stesso tempo con amarezza. Erano due emozioni ben contrastanti.
«E mi raccomando», dissi rivolto ai ballerini, continuando a fissare irremovibile Sharon – la quale faceva lo stesso – mentre gli altri della troupe parlavano fra loro, dirigendosi verso l’uscita dalla sala ristoro. «Affido a voi il compito di aiutare Sharon con le varie coreografie».
I quattro ballerini maschi annuirono e Vanessa – che assieme a Sharon avrebbe fatto parte, con mio dispiacere e improvvisa scoperta, del corpo di ballo – svolse gli occhi alla sua destra. A quanto pare non sembrava entusiasta che l’altra avrebbe partecipato.
Con un’ultima occhiata intravidi Sharon, stavolta con sguardo abbassato alla sua sinistra, con mezzo sopracciglio alzato e mordendosi il labbro inferiore. Potevo percepire a miglia di distanza la sua tensione e non sapeva minimamente quanto avrei voluto starle accanto. Dio quanto volevo starle vicino!
Fu così che me ne andai, a passo lento, verso uno dei miei primi appuntamenti di lavoro lì in Giappone.

***


«Sei sensazionale! Non solo impari in fretta, ma hai dei movimenti tutti tuoi!», disse Eddie a Sharon, i quali si erano ritrovati dopo tutta la mattinata di prove e un pomeriggio pieno e continuo da soli nella palestra. Tutti gli altri se n’erano andati non appena finito di provare le coreografie per il concerto, ma Eddie era stato l’unico a voler rimanere con Sharon non appena lei ebbe detto che sarebbe rimasta ad allenarsi un altro po’.
Da una parte per Sharon era stato un sollievo; per tutto il tempo da quando Michael se n’era andato quella smielata di nome Vanessa la fissava con aria strafottente, sganciandole più frecciatine possibili non appena nessuno – o quasi – non stava ascoltando. Quanto avrebbe voluto Sharon rovinarle quel viso da dolce angelo della morte... Quanto la odiava! Un odio che le nasceva da dentro le viscere della sua anima.
Per sfortuna di Vanessa, nessuno dei quattro ballerini uomini la guardavano come osservavano Sharon; era il centro dell’attenzione di tutti. La sua capacità naturale e innata di ballo portavano su di lei gli sguardi di tutti, e forse non solo: Sharon aveva un fisico da invidiare, curvilineo e sodo, dei fianchi e delle gambe che sembravano scolpite da un artista. E Vanessa la invidiava per questo. La odiava.
Sharon le aveva rubato la possibilità di diventare lei la ballerina del video di Michael; le avevo proibito un sogno di cui secondo lei era più meritevole. Inoltre stava conquistando tutti, e prima di allora era stata sempre lei il centro di ogni attenzione. Stava conquistando Michael, e Vanessa lo sapeva bene; perfino un cieco se ne sarebbe reso conto, e di questo ne era certa.
Da quando tutti gli altri ballerini se ne erano andati, Sharon ed Eddie avevano provato tutte le coreografie dove lei avrebbe ballato, e ora era curioso di vedere le sue abilità d’improvvisazione nei balletti. Era rimasto incantato da ogni passo da lei ballato, da lei creato con passione.
«Grazie», disse lei annaspando, con un sorriso, mentre lui le porse un suo asciugamano per asciugarsi il sudore dalla fronte. «Però un giorno voglio vedere anche te improvvisare come ho fatto io».
Lui sorrise. «Senza dubbio. Se ti piacerà ancora passare del tempo ad allenarti a passo di danza, come ho già detto, sarò al tuo servizio», rispose con gentilezza.

«Interrompo una discussione importante?», disse una voce all’improvviso in tono autorevole e profondo.
Sharon ed Eddie si voltarono verso la porta della palestra, ormai spalancata. Lei non aveva dubbi. Era riuscita a riconoscere subito la sua voce, ed infatti aveva ragione.

***


«Michael», disse Sharon con pacatezza. D’istinto dalle labbra di lei spuntò un sorriso amichevole, dolce, ma che non sarebbe mai riuscito a calmare alcuni profondi bollori che stavano bruciando dentro me.
Rodevo. Rodevo di brutto, molto più profondamente di quanto avessi mai immaginato.
Quell’immagine di Sharon – la mia Sharon? – che rideva e scherzava con un qualcuno che non fossi io, per di più Eddie, mi faceva venire la voglia di esplodere. Il sorriso di lei era dolce, lui con quelle sue parole smielate prima o poi l’avrebbe portata via da me... No! Non potevo lasciarmela scappare!
Al diavolo, Michael! Ma a che stai pensando?, mi ripresi mentalmente.
«Ehy Michael», disse sorridente Eddie, nel frattempo che mi avvicinai a loro. «Hai fatto presto!», ironizzò.
«Sì», esclamai deciso, rivolgendo un’occhiata mite che, al contrario, dentro di me era solo una maschera di tutto l’odio che stavo provando. «A quanto pare avete fatto presto anche voi per insegnarle i passi».
Sharon mi guardò con occhio improvvisamente serio, mentre Eddie le lanciò uno sguardo di sfuggita. «Sì, Sharon ha una memoria davvero impressionante, e anche un talento da rimanerne senza fiato! Perciò abbiamo finito più presto del previsto, e le ho chiesto di farmi vedere qualche passo improvvisato...»
Io annuii, lanciando un mezzo sorriso di facciata, indeciso se fare qualcosa per impedire quella situazione tanto inattesa e imbarazzante quanto carica di tensione. Per fortuna Eddie ne uscì prima che potessi emettere parola io con una puntualità degna di un orologio svizzero.
«Comunque, io avrei un certo appetito, perciò se non vi dispiace vi lascio», dichiarò battendo un colpo con le mani. Si diresse verso il borsone da ginnastica ad un angolo della sala, e, prima di uscire dalla porta, disse. «A presto», ammiccando uno sguardo furbo prima a me poi a lei.
Non aspettai altro che se ne andasse per enunciare parola. Un peso gravava sul mio stomaco... Pesantemente. «Siete già molto amici per conoscervi solo da poche ore, da quel che posso vedere...»
Sharon mi rivolse i suoi occhi neri, sbattendoli ripetutamente. «Prego?»
Detti un lieve colpo di tosse. «Ho detto che sembrate già molto amici, da così poco tempo...», pronunciai con leggero imbarazzo e rancore assieme.
«La parola “amici” è una parola molto importante per me. Comunque sì, siamo molto in sintonia», disse Sharon cominciando ad irrigidirsi. «Lo stesso vale per te e Vanessa, questo è certo».
Rimasi allibito da quella sua improvvisa frase. Quasi mi chiesi se non fossi io ad aver capito tutt’altro di quello che avevo sentito da lei pronunciare.
«Cosa?», chiesi con sospetto. Che voleva intendere con quella frase? Che le dispiaceva di come mi atteggiavo con Vanessa quanto lei con Eddie per me?
Spostò lo sguardo alla sua sinistra, non appena captò i miei occhi sbalorditi su di lei. «Anche tu e Vanessa avete un bel rapporto... Non per niente è qui anche lei. Lei sì che è un’amica importante».
Lei era... Gelosa. No, un momento... Davvero gelosa?
Mi venne da ridere, ma mi trattenni. Sul serio, non riuscivo a credere che si fosse offesa per quel fatto. Tutto mi sembrò più chiaro non appena mi resi conto che lei fosse arrabbiata con me per quello, e che quel suo improvviso stato di freddezza con me era reduce dalla gelosia.
«In realtà non lo invitata io, ma Frank. E non siamo così amici, anzi. Quando le abbiamo fatto il provino l’abbiamo scelta per comparsa, però a lui è piaciuta così tanto da volerla inserire all’ultimo minuto nel mio tour». Feci un attimo di pausa, mentre lei mi osservò attentamente. «Sei gelosa?»
La domanda mi spuntò fuori così d’impulso che non riuscii a controllare il mio istinto. Vidi gli occhi di Sharon spalancarsi, il suo colore delle guance diventare di un colore ben più del semplice scarlatto, per poi scoppiare in una risata scioccata e scandalizzata.
«Ma che... I-io? Di chi? Perché mai?», disse impacciata spostando lo sguardo, spalancando poi le braccia con i palmi delle mani rivolti all’insù, intanto che io cercavo in tutti i modi di non scoppiare a ridere.
«Insomma, non ne avrei né il diritto né la motivazione...». Un attimo di pausa da parte sua un mezzo sorriso spuntare immediato dalle sue labbra ora soddisfatte. «Perché? Anche tu sei geloso per caso?»
Fu il mio turno di imbarazzo; diventai paralizzato come una statua, anche io rosso in volto, i sudori alle tempie e in tutto il corpo, una stretta incombente al cuore. Al diavolo, mi ero messo in trappola da solo!
«Io...? Ma che stai dicendo?», dissi balbettando. Lei mi sorrise scaltra, avvicinandosi con passo micidiale a pochi centimetri da me. Quella vicinanza era troppa... Troppa da riuscire a tenere a freno...!
«Non sembra ti stia poi così simpatico Eddie, è quasi lo stesso sentimento che provo io per Vanessa...», rispose ammiccando un sorriso, mordendosi un angolo del labbro inferiore. Non sapevo veramente se quello che stesse dicendo lo stesso dicendo apposta per trarmi in inganno oppure perché lo pensava...
Stava il fatto che mi stava facendo letteralmente impazzire! Quei suoi occhi così neri come la profonda notte, il sorriso splendente come un sole, gli atteggiamenti provocanti e allo stesso tempo teneri... Dio quanto mi faceva andare fuori di testa!
Oh Santo Iddio, Michael, vedi di dare una calmata ai tuoi bollori in fermento!
«Può darsi...», conclusi con un sospiro, facendosi anch’ella seria quanto me. Con fugace occhiata vidi come il suo fisico così perfetto, in semplici jeans a mezza gamba e maglietta a maniche corte, si notasse e potesse portarmi fuori da una meta di pensiero decente. Era ovvio il perché le donne la odiassero mentre gli uomini impazzissero per lei...
Ci guardammo fisso negli occhi per un tempo che per me sembrò durare un’eternità, mentre la lontananza dei nostri volti veniva sempre più colmata. Non me ne resi conto, ma ero vicino alle sue labbra più di quanto mi sarei mai immaginato di essere.
Dentro di me sentivo crescere attrazione, l’istinto di toccarle quella sua pelle caffèlatte aumentava ogni secondo di più che passavo a guardarla negli occhi. Era irresistibile, un dolce e colpevole piacere che non riuscivo a tenere sepolto! Le mie dita volevano proseguire a toccare ogni contorno del suo viso, dalle morbide labbra al collo. Le sue labbra... Per un momento, un lunghissimo istante, le bramai con tutto me stesso.
Ma a che diavolo stavo pensando! Possibile che dei pensieri così poco casti affollassero a milioni la mia mente?! Dovevo smetterla, non potevo... Io non...
Eppure non potevo farne a meno. Non potevo smettere di pensarci.
«Michael finalmente!», interruppe bruscamente una voce. Fu come ricevere una secchiata di acqua gelata nel pieno del sonno. Sia io che Sharon trasalimmo con leggero sussulto. Subito ci voltammo. Era Vanessa...
«Oh, ehm, scusate... Ho interrotto qualcosa di importante?», chiese con voce sottile e, come al solito, dalle sfaccettature tutt’altro che dispiaciute. Sentii a pochi centimetri di distanza Sharon irrigidirsi.
«Dimmi pure, Vanessa...», dissi ignorando la sua domanda. Da una parte ero contento che avesse interrotto quella situazione e le mie emozioni a dir poco eccitate, però da un’altra non lo ero affatto... Anzi, ero piuttosto agitato per questo, soprattutto del fatto che fosse stata proprio lei ad interrompere. Perché proprio in un momento come quello?
«Ecco, in realtà volevo solamente parlarti di alcune cose, ma se disturbo possiamo discuterne di sicuro un altro giorno...», disse con un sorriso gentile.
Qualcosa mi diceva che lo avesse fatto apposta. Interrompere quella circostanza... Infastidire Sharon... Non mi stupivo di cosa potevano fare le donne, soprattutto se si trattava di una donna come Vanessa. Di sicuro non provava tutta questa simpatia e rispetto per Sharon. Ero abbastanza bravo da capire quanto amasse apparire come la prima donna, il suo curriculum mi aveva già dato conferma molto tempo prima del suo carattere senza pietà. Per il successo avrebbe ucciso, e Sharon era una minaccia.
Per conquistare me soprattutto, superstar mondiale che ero. Io, Michael Jackson. Sharon le aveva rubato l’opportunità di farsi conoscere al mio fianco nel video, ma questa cosa non sarebbe cambiata. Frank l’aveva raccomandata come ballerina del mio tour, perciò in parte il suo successo sarebbe comunque aumentato. Che bisogno c’era allora di cercare di distruggere Sharon? Era una minaccia tanto grave?
«Che tipo di cose devi chiedermi?», chiesi mantenendo il mio volto impassibile.
«Di coreografie. Ho qualche dubbio su dei passi di...»
«Sì, forse è meglio riparlarne un altro giorno. Scusa», dissi immediato. Sentii su di me lo sguardo di Sharon, meravigliato, nel frattempo che vidi l’espressione di Vanessa farsi da stupita a offesa. «Anche perché adesso io e Sharon avremmo un impegno importante da rispettare...»
Un attimo di pausa, rimasi ad osservare gli occhi gelidi di Vanessa farsi luccicanti di una luce che, al contrario di quella che rivedevo negli occhi di Sharon, era il riflesso delle cattive intenzioni.
«Puoi sempre chiedere agli altri ballerini. In realtà, mi chiedo perché tu non abbia tirato fuori questo problema quando vi stavate allenando questa mattina...», dissi mettendo il dito nella piaga. Vidi gli occhi di Vanessa ridursi per un istante di secondo in due fessure, poi assumere un’aria finta dispiaciuta.
«Scusa, Michael, hai ragione. Il fatto è ho pensato che sarebbe stato meglio farmi spiegare il passo da colui che lo ha creato, e non dai suoi sottoposti», disse con voce tanto nobile quanto sottile di doppi sensi. «In ogni modo, farò come hai detto tu».
E così dicendo si avviò fuori dalla stanza con camminata altezzosa e frivola. Rimasi ad osservare la porta, dopodiché spostai i miei occhi curiosi su Sharon. Non batteva ciglio. Mi osservava mezza sconvolta.
«Dici che sono stato troppo severo?», pronunciai con un tono di voce tra il divertito e il curioso, frattanto che lei spostava il suo sguardo fisso sulla porta.
«Diciamo che nemmeno lei – e nemmeno io, fra l’altro – ci aspettavamo una tua reazione così secca e diretta... Ma la cosa mi fa particolarmente piacere», rispose lei con un lieve sorriso soddisfatto sul volto.
Io annuii. Nessuno si aspettava mai che riuscissi a tirare fuori la grinta e che fossi capace reagire anche io, quando volevo. Ero gentile, umile, ma non ero un santo. Non mi piaceva l’immagine che qualcuno dava di me, quella di un uomo troppo mite e, a volte, santarellino. Io non ero così. Ero solo un umano. E, come tutti gli umani, come tutti mi arrabbiavo, odiavo, amavo, piangevo. Eppure era difficile da credere.
«...E non capisco quale sia il nostro impegno importante ed urgente da rispettare», disse ripetendo più o meno le mie parole, lanciandomi uno sguardo furbesco e interessato. La guardai con un sorriso sornione.
«Tu non lo sai, io sì». Non aspettai nemmeno che rispondesse, né esitai per osservare ogni lineamento del suo volto cambiare espressione; la presi per la mano, nello stesso tempo che il mio cuore sobbalzò di felicità improvvisa al calore della sua, e le sussurrai su un orecchio: «Vieni con me, adesso».
Lei mi guardò con occhi da cerbiatta spalancati, ma non aspettai una sua risposta udibile. Il suo sguardo s’illuminò d’improvviso, e allora con un sorriso la portai fuori dalla porta della sala prove.
«Michael... Ma dove...?», chiese con voce lieve ed emozionata, non finendo la frase, indecisa se ridere o rimanere senza fiato. Mi voltai a guardarla, non risparmiai una risata soffocata.
«Oggi non ti devi preoccupare di niente, devi solo goderti il relax», dissi con voce entusiasmata. La realtà nascosta di quella sorpresa era che volevo stare con lei, solamente con lei. Non avevo bisogno di altro.
Perciò, spinto da quel desiderio che si faceva sempre più possente dentro di me, proseguii fino ad un corridoio di marmo rosato; attraverso l’aria che respiravo potevo già sentire l’odore leggero del cloro. Cominciai a rallentare, non appena a distanza vidi una porta di legno bianco. Due donne asiatiche ci indicarono di entrare con un gesto della mano, dopo averci dato la buona permanenza in quella sala in inglese, per poi chiudere la porta alle loro spalle. Ambiente davvero magnifico.
«Ma questa è...», sbiascicò lei con fare sottile, ad occhi aperti ed increduli.
«Benvenuta alla piscina privata al coperto», dissi con un sorriso. Sarebbe stato davvero un pomeriggio indimenticabile quello.
Non ne dubitavo.
maria0881
00lunedì 20 giugno 2011 13:57
Solo una parola : FENOMENALE!!!!!
Ti prego continua!!!
tati-a4ever
00lunedì 20 giugno 2011 15:10
Re:
maria0881, 20/06/2011 13.57:

Solo una parola : FENOMENALE!!!!!
Ti prego continua!!!



Grazie [SM=g27836] [SM=g27821]
Sposto subito ;)
tati-a4ever
00lunedì 20 giugno 2011 15:37
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Capitolo Venti
Now I can remember
Punto di vista: Sharon Villa.


Mi vennero i fremiti non appena vidi la stupenda piscina al coperto. Tutto questo che stava accadendo era incredibile, troppo meraviglioso perché potesse succedere ad una persona normale come me.
C’erano splendidi soffitti color del cielo blu della notte tappezzati di varie e minuscole luci che davano l’impressione di essere stelle della notte; svariate colonne in stile moderno, pavimenti di marmo bianco e soprattutto un’immensa piscina dalla forma tondeggiante e disegnata senza schema preciso. Una lunga scalinata in marmo ad un lato della piscina entrava fino l’interno dell’acqua, mentre in un angolo vicino a vari sdrai di legno una piccola discesa permetteva di poter stare comodamente seduti anche a riva piscina. In un altro lato, c’era perfino l’idromassaggio.
Alla sinistra della porta da cui io e Michael eravamo entrati si proseguiva per un piccolo corridoio a piastrelle celesti che portavano dritte ognuna ai rispettivi spoiatoi, illuminato da brillanti luci arancioni e gialle. Nella parte opposta della stanza da cui ci trovavamo, verso la destra, una serie di vetrate trasparenti dava la magnifica visione del giardino al di fuori di quel magnifico salone. In stile tipico giapponese, osservandolo potevi percepire un innato senso di pace.
Non avevo mai visto un posto così bello. Era... Era un paradiso! Il sogno di qualunque persona che sognasse da tanto tempo un luogo così straordinario, creato dalle mani dell’uomo. La stanza era immensa, l’odore del cloro filtrava ogni mio poro corporeo, l’enorme piscina rifletteva il colore blu e azzurro dato dalle piastrelle che la costituivano... Ma rimaneva un problema. Anzi, due.
Il primo problema: non avevo né costume, né qualcosa con cui asciugarmi dopo e cambiarmi. Di certo una volta fatto il bagno – se l’avrei fatto, da cui deriva poi il secondo punto – non mi sarei rimessa mica i vestiti sudaticci che stavo indossando. Inoltre non mi sarei certo fatta vedere in biancheria intima... O peggio... Solo il pensiero mi faceva divampare di rossore!
Secondo punto, il più importante: avevo paura di nuotare nell’acqua fonda. No, non paura: vero e puro panico! In passato non avevo avuto una bella esperienza, tutt’altro che emozionante, all’età di 15 anni, e da allora ebbi paura di nuotare da sola nelle immensità dell’acqua, nonostante io l’amassi sempre e comunque. Vivevo per l’acqua, ma non per quella fonda e alta da non riuscire a toccare con i piedi. Mi faceva un certo timore, il pensiero di rifare quella stessa esperienza.
Ma come glielo avrei detto a Michael? L’avrei deluso se, una volta entrata in acqua, mi sarei rifiutata di immergermi nell’acqua fonda. Chissà quanti sforzi aveva dovuto fare per avere la piscina tutta privata, solo per lui e una come me che, di certo, a deduzioni sicuramente logiche, non se la meritava per niente.
«Che ti sembra?», disse lui con un sorriso – uno di quelli suoi magnifici e splendenti, grande come il sole d’estate capace di riscaldare anche la pietra più fredda di tutte. Io continuai a guardare la piscina, troppo impotente per reggere il suo sguardo e volgere la mia attenzione via da quello spettacolo artistico.
«E’ una cosa incantevole! Io davvero non ho parole!». Feci una pausa, d’improvviso seria. «Io tutto questo non lo merito. Non merito di essere qui con te, a godere di questo benessere, soprattutto perché io...»
Non appena mi bloccai, ritraendomi leggermente su me stessa, lui mi guardò con preoccupazione. Non ebbi il coraggio di guardarlo negli occhi, avendo così paura della sua espressione di delusione. Oltre ogni mia aspettativa, però, lui mi strinse la mano.
«Non ti piace?», disse con una voce da cucciolo, da bambino. Io allora lo guardai con dispiacere immenso, e vidi lui osservarmi con trepidazione. Mi sentii sbriciolare il cuore in mille residui di polvere.
«No! No, Michael, non dirlo nemmeno!», risposi io immediata, voltandomi verso di lui stringendo anche l’altra sua mano. Lui mi fissava inquieto. «Io ho... Ti giuro non è facile per me da dire, me ne vergogno molto... Il fatto è che io... Ho paura dell’acqua fonda...»
Così dicendo lanciai un’occhiata di profondo terrore alle oscurità di quella piscina, rabbrividendo leggermente. Lui gettò il suo sguardo su di essa, per poi tornarmi a guardare. Incapace per ancora una volta di osservarlo, dopo tutti i miei sensi di colpa, abbassai gli occhi.
«E’ la verità, Sharon?», chiese lui con tono pacato. Non risposi, così angosciata da sentire il mio cuore distruggersi, ma lui con un dito subito alzò il mio mento verso il suo viso, così da essere occhi negli occhi. «Hai paura veramente o il problema è un altro?»
Non si possono neanche immaginare le sensazioni che provai in quel momento. Avevo paura, ma allo stesso tempo stavo bene. Tremavo, ma non perché fossi così sconvolta, ma perché la causa era lui. Il modo in cui si rivolgeva a me faceva rabbrividire ogni capillare del mio corpo, dalla punta dei piedi a quella dei miei ricci capelli.
Quell’uomo mi avrebbe fatto scoppiare il cuore, prima o poi!
Senza neanche far passare il tempo per pensare a quel che stavo per dire, parlai. «Ti giuro, Michael, non ti mentirei mai! Non sai come io voglia, in questo momento come in altri, sperare che questo non sia solo un sogno come immagino che sia! Io verrò comunque in piscina con te, se almeno non hai cambiato idea, ma il fatto è che mi dispiace di non poterti seguire anche in quella fonda... Non potermi divertire con te».
Non ero mai stata così convinta come in quell’attimo. Lo guardavo con occhi imploranti, pregavo perché credesse che la mia era la verità e che non volesse cambiare immediatamente programma e fare retro front. Se non gli avessi fatto quel discorso prima, probabilmente avrei fatto la figura della stupida dopo.
Lui restò a studiarmi, mentre io impassibile continuai, cominciando come al mio solito, da perfetta idiota che ero, a gesticolare con le mani. «Scusa, forse ho sbagliato a dirtelo in modo così schietto senza pensare al probabile sforzo che hai dovuto fare per prenotare privatamente questa...»
Non finii la frase, il pollice della mano con cui Michael aveva alzato il mio mento verso i suoi occhi mi bloccò la parola, lasciando le altre dita accarezzare la mia guancia. Non mi ricordo se arrossii, sta di fatto che mi mancò il fiato necessario per respirare e la capacità di riuscirci. Dio quanto era affascinante...
«Non dire così, sono sicuro che stai dicendo il vero. Non ho intenzione di dubitare di te. Sono riconoscente che tu me lo abbia detto subito, invece, perché così mi dimostri che non hai intenzione di mentirmi...»
Dio... Sto per morire. Come faccio a parlare se mi... Se mi rende così rincoglionita?!
«Ti insegnerò io, Sharon», continuò con voce pacata e dolce. Spalancai gli occhi, incredula, voltando il mio viso veloce per un fugace secondo verso le oscure voragini di quell’acqua bluastra, indietreggiando di un piccolo passo. Lui mi strinse la mano non appena commisi quel movimento impaurito.
«Tranquilla, non succederà niente. Ti aiuterò io, ti insegnerò a volare anche dentro l’acqua, non solo in aereo, con le poche cose che so», proseguì. Gli lanciai uno sguardo di paura, ma di rimando lui mi osservò con un sorriso rassicurante. «Ti fidi di me, Sharon? Pensi che io ti lascerei senza darti una mano?»
«No...», sbiascicai sottovoce, frattanto che con un altro passo tornai ad avvicinarmi verso di lui. «Io mi fido di te, lo giuro», continuai sentendo il mio cuore cominciare a sollevarsi.
Lui sorrise, per poi con la mano portarmi verso le sue braccia. Mi abbracciò con un calore che non avevo mai sentito prima sulla mia pelle, una sensazione incomparabile a tutte le altre che avevo mai provato con qualcuno. Con il mio volto affondato nel incavo del suo collo, dopo una linciata all’acqua blu, mi sentivo sicura di quella prova che, con lui, avrei cercato di superare.
Strinsi d’istinto con la mia mano libera un lembo della sua camicia rossa, ispirando il profumo di cui odorava... Ora riuscivo a distinguere quell’odore... Sembrava profumo di sandalo...
Miseriaccia a me se continuo così... Però è così indescrivibile... Mi porta fuori di testa...
Con un gesto lento, ci staccammo entrambi nello stesso momento. Chissà perché, ma anche lui sembrò essere scosso quanto me. Mi lanciò un lieve sorriso. «Ora è meglio che ci andiamo a cambiare», rispose accompagnandomi al corridoio fino al momento in cui dovevamo separarci, per raggiungere ognuno lo scompartimento giusto.
Staccammo le nostre mani, provando un senso di sbigottimento dentro a quella piccola separazione, guardandoci con un’occhiata esitante. Con coraggio, mi spinsi ad arrivare allo spoiatoio, dove trovai costume e accessori all’interno per il dopo-piscina. Sorrisi divertita.
Aveva preparato tutto al meglio, organizzando ogni minimo particolare.
Grazie Michael.

***


Una volta preparata mi prestai ad uscire dallo spoiatoio, coperta da un accappatoio lilla pastello, fino ad avviarmi fino a fuori del corridoio. Qualcuno – dedussi fosse stata qualche inserviente – mi aveva lasciato non solo uno stupendo vestito leggero di seta nero, dalle sottili spalline e dalle fasce svolazzanti, completo di scarpe perfettamente in tinta, ma anche un costume stupendo; era intero, non troppo provocatorio, di una tinta pervinca. Perfetto, nonostante la misura mi fosse forse solo leggermente stretta.
Un istinto mi diceva che Michael c’entrava qualcosa con la scelta dei colori...
Con mia sorpresa, scoprii Michael già fuori dal corridoio, vicino al bordo piscina, toccare con un piede l’acqua. Lo sguardo che rifletteva nell’acqua era così profondo che poteva superare ogni immensa voragine blu notte dell’oceano più profondo al mondo. Ero quasi indecisa se risvegliarlo dai suoi pensieri oppure no. Chissà a che stava pensando.
Sottofondo a quell’ambiente così rilassante, si era aggiunta una musica soffocata dalle melodie vagamente familiari, così soffice e delicata come una meravigliosa notte d’oriente. Ero quasi sicura che fosse stato lui, poco prima, a mettere quella musica, poiché non avevo sentito poco prima quella melodia.
Mentre mi avvicinai con passi inudibili a lui, scrutai tutto il suo fascino. Era bellissimo. Non avevo parole per descriverlo. Se fossi stata una sua fan sfegatata, di certo sarei potuta svenire – non che non ne fossi a rischio, questo è certo.
I suoi capelli ricci e neri arrivavano fino a toccare le spalle, incorniciando quello splendido viso angelico che si ritrovava; i lineamenti maschili ma con quel qualcosa da bambino, pur sempre stupendo; l’accappatoio, di colore pastello come il mio, risaltava alla perfezione il suo fisico, ogni suo muscolo. Sebbene non fosse un modello, o possedesse un fisico da uomo da riviste di moda, possedeva quel fascino e sex appeal da poter stendere una donna. Era, in poche parole, sexy. Dannatamente sexy. Dio se lo era!
Potevo solo immaginare quante reazioni perverse potesse avere una femmina, continuando a guardarlo come stavo facendo io. Pensa quando lo vedrai solo in costume, Sharon, disse una vocina nella mia mente, lì cosa farai? Morirai direttamente fra le sue braccia?
Frattanto che quel pensiero mi vagò in testa, lui si voltò a guardarmi, rivolgendomi un sorriso. Arrossì d’impeto, maledicendo me stessa per dei pensieri poco casti che cominciavano ad attraversarmi le vene al posto del sangue come scosse d’elettricità.
Avevo così voglia di accarezzare quel suo viso, toccare i riccioli neri che scendevano candidi sulle spalle, godere del tatto con la sua pelle che, non ne avevo dubbi, fosse morbida come quella di un bambino.
Ma come diavolo poteva avere un effetto così anfetaminico? Non avevo mai fatto caso prima al suo charme maschile, quando ancora non lo conoscevo di persona, e ora avercelo davanti... Era una cosa più forte di me. Mi faceva venire i sudori in tutto il corpo. Era da svenimento, da morte imminente!
«Sei stata veloce», mi disse lui allargando enormemente il suo sorriso. Bofonchiai imbarazzata, voltando i miei occhi verso l’acqua, per poi alzare le spalle come se niente fosse.
Sentii la sua risata cristallina arrivare con imminenza alle mie orecchie, portando il mio sguardo curioso verso di lui. Perché stava ridendo? Lo osservai con fare interrogativo, lasciando trasparire nel mio volto corrugato un mezzo sorriso divertito da quel suo gesto.
«Niente, sta tranquilla...», rispose lui alla mia domanda silenziosa che aveva intuito subito trapelare dai miei occhi neri, portandosi la mano sinistra a toccarsi il mento, con fare timido, svoltando i suoi occhi verso l’acqua della piscina, ancora con il sorriso e tossendo per cercare di controllare a stento la risata.
Anche in queste situazioni... Puramente sexy! Perché diavolo ridesse io non lo sapevo. Probabilmente ero così impacciata e ridicola da farlo ridere di me. In effetti ero molto brava a far ridere la gente grazie ai cambiamenti che assumeva il mio volto nelle espressioni che assumevo, Ilary me lo diceva sempre.
«Iniziamo, ehm, il corso?», dissi soffocando una risata nasale. Il sorriso di lui cominciò a farsi sempre più inesistente, fin quando in volto non gli apparve uno sguardo serio. Subito mi preoccupai di aver detto qualcosa di sbagliato, che non andasse bene.
«Prima però ti devo dire... Far vedere una cosa, in realtà», disse corrugando la fronte in quella che era uno sguardo terribilmente serio e preoccupato; non mi considerava con gli occhi, fissava solo ed in esclusiva le piastrelle del fondo piscina. Cominciai ad essere in ansia anche io.
«Che cosa devi farmi vedere?», chiesi con voce tremula, inclinando la testa e avvicinandomi a lui. Lui non mosse gli occhi. «Se non vuoi non sei obbligato, davvero, puoi mostrarmi cosa si tratta un altro giorno...»
Lui scosse la testa docile, e chiuse per un minuscolo istante i suoi occhi, poi appoggiando i suoi occhi e incatenarli ai miei. «Non... Non riguarda te, riguarda me. È una cosa del mio fisico, una brutta cosa... Terribile...»
Un fremito mi passò per tutta la spina dorsale, il mio sguardo attento e in attesa non faceva una piega. La tonalità di voce che stava usando era preoccupante, non capivo quale fosse questo grande mistero. Cosa poteva c’entrare con lui questa cosa che lui definiva “terribile”?
«Promettimi che non ti spaventerai, che non mi penserai un mostro...», continuò con occhi fissi e impauriti su di me. «Tutti quei pregiudizi insensati da parte dei media, di tutti... Sono sbagliati, Sharon. Non sanno cos’ho. Ma tu, se io ti mostro quel orribile segreto, mi crederai... Non mi lascerai, vero?», mi prese la mano, quasi con foga come se avesse paura che, da un momento all’altro, potessi scappare.
«Michael, che succede...?», chiesi io con voce oscillante. Non stavo capendo più niente, la mia mente era sul punto di attraversare un punto di delirio senza ritorno. Il suo tono era così atterrito, così angosciato...
Fu in quel momento che si tolse l’asciugamano... E io per poco non ci rimasi secca.
Vedevo il suo fisico, nessun mostro, tutt’altro: sembrava l’arte fatta viva. Quella visione sì che confermava le mie teorie! Mi mancava il respiro, le parole, l’aria per continuare a respirare. Era una vista troppo grande da sopportare... Da restare saltargli addosso letteralmente...
Santa Maria, Sharon... Controlla i tuoi ormoni, non pensare a delle riflessioni così... Così idiote! Non prive di senso, ma idiote...! Sei un’idiota Sharon! E’ troppo bello per essere vero. Cielo...
La mia mente e il mio cuore erano praticamente in palla. Come facevo a resistere – come?! – davanti ad un figo come quello? Se non bastasse per l’animo puro che possedeva, i suoi occhi grandi e intensi, ora ci si metteva anche il corpo a far aumentare le mie calure? Ad aumentare la mia pressione? Dio, mi ero appena rimessa dall’ospedale da solo 48 ore! Continuando così sarei decisamente svenuta in acqua!
Michael mi gettò uno sguardo remissivo, di dolore e rabbia assieme, aprendo le braccia a mo’ di rassegnazione. «Che cosa vedi, Sharon? Dimmi, che cosa
Vedo un figo della Madonna, troppo irreale per essere qui accanto a me, contento? Vedo la causa di un mio futuro infarto o crepacuore, se continuiamo ad andare avanti così!
Risposi comunque, scartando il mio precedente pensiero con una leggera scossa del mio volto. «Io non... Non vedo niente, fuorché te, normale così come sei...». Lui sospirò e allora proseguii con tono più alto. «Michael, smettila di fare il vago! Dimmi cosa c’è, ti prego».
Il mio tono era praticamente implorante e allora lui, schioccandomi un’occhiata insicura, mi porse la sua mano. Con lentezza, fissandolo accuratamente negli occhi, gli porsi la mia e mi lasciai trascinare verso di lui da una lieve pressione della sua mano. Sentii in quel momento le mie guance bollire di rossore. Vicino a lui, a quei pochi centimetri di distanza, in costume?! Stavo sognando...
«Guarda qua, osserva con particolare attenzione. Con cura», disse lui, rabbrividendo al mio tocco, indicandomi un punto del suo avambraccio destro. Io allora osservai, - cercando di concentrarmi con tutte le mie forze - e scrutai con cura ogni centimetro di quella sua pelle soffice.
All’inizio non notai niente, poi dopo pochi secondi di studio vidi delle leggere macchie più chiare sparse. Era strano, ma io delle macchie così le avevo già viste prima in vita mia. Era tutto molto confuso...
«Ti sei mai chiesta come io fossi diventato così chiaro da scuro che ero? Ti sei mai domandata se quello che dicevano i giornalisti sul mio cambiamento di colore era vero? Se ero io che volevo cambiare?»
Non risposi, lasciai la mia mente tornare ad alcuni tempi in cui, sui giornali, su quello che scrivevano i tabloid su lui. Dicevano che si era voluto cambiare il colore di pelle, voleva diventare un bianco. Non ci avevo mai fatto caso, in qualche modo non ci credevo molto a quelle cose. Per mia fortuna, ero abbastanza intelligente da diffidare della stampa.
«Io non ho mai voluto cambiare. Io... Io sono costretto», pronunciò con labbra serrate dalla rabbia, con voce veramente irritata. «Queste dannate macchie che ho sul corpo mi obbligano a mettere della crema per renderla omogenea con la mia pelle... Questa è...»
«Vitiligine...», dissi io rimanendo a fissare costantemente le macchioline leggere, coperte da – ora me ne rendevo conto – dei strati possenti e duraturi di crema. Ora ricordavo. Tutto stava tornando indietro a me.
Eccome, le avevo viste quelle macchie. Le avevo viste su qualcuno a me vicino. Come potevo non riconoscerle. Sapevo tutto su quella malattia, ogni effetto, ogni sviluppo, il fatto che colpisse solo il 2% della popolazione mondiale... Sì, mi ero molto informata, ancora tanti anni fa...
Sentii il suo sguardo sbigottito su di me, scioccato, e solo allora lo fissai di rimando. Ora capivo. Tutto. Lui aveva la vitiligine. Era quello il mostro. Quella malattia alla pelle...
La vitiligine...




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Capitolo Ventuno.
Get out the nightmare
Punto di vista: Michael Jackson.


Esatto... Vitiligine», dissi. Rimasi immobile, a guardarla con occhi spalancati di stupore e stordimento.
Come se quella situazione fosse già abbastanza incredibile per me – averla così vicino, così affascinante che era, solamente stesse indossando solo l’accappatoio, mi faceva mancare l’aria nei polmoni -, ma sapere che lei conosceva quella malattia mi confondeva ancora di più. Era strano, in un certo senso, ma in parte... Non sembrava sconvolta da quella visione, né impaurita o schifata, semplicemente dispiaciuta e dubbiosa. Questo mi rincuorava.
Ma il punto principale fisso in testa era un altro: come conosceva il nome della patologia?
Aggrottai impercettibilmente la fronte. «Come fai a...?»
«A sapere il nome di questa?», disse lei riportando gli occhi ancora su quelle piccole macchie visibili, soffocando una risata tutt’altro che divertita. Nei suoi occhi si stava facendo spazio un’ombra di tristezza trafitta. «Perché ne soffriva mia zia, una delle due sorelle di mia madre»
In quel momento mi venne da pensare quando fosse assurdo e strano il destino; per la prima volta nella mia vita avevo conosciuto una persona che avesse a che fare con la patologia – anche se indirettamente. Il fatto era che questa persona era stata proprio lei, Sharon, e questo scombinava ancor più la mia mente.
Dalle labbra di Sharon udii un sospiro. «Parecchie volte mi è capitato di sentire parlare mia madre Alicia e la sorella Ashley di questa malattia. Spesso udivo mia zia piangere, lamentarsi con la sorella più grande della famiglia sul come impedire di essere presa in giro dalle sue compagne di scuola per queste sue macchie in contrasto col suo colorito scuro...»
«Che persone orribili», dissi sprezzante, pronunciando quelle parole rivelando tutta l’amarezza per quella gente che, per ovvietà di cose, non sapeva cosa significasse sentirsi diversi. «Prendere in giro solo per la malattia che soffre...»
«Già... Mia madre fu una delle poche persone, compresa l’altra sorella, a cercare di risollevare il morale a mia zia, a cercare di trovare una via d’uscita. Un giorno, spinta da una curiosità imminente, nella biblioteca comunale feci una ricerca dettagliata. Studiai a fondo l’argomento per molto tempo, cercai di trovare anch’io un rimedio per aiutarla, ma fu inutile... Non c’era una cura, e se anche ci fosse stata a quel tempo sarebbe costato troppo per una famiglia poco privilegiata come la nostra.. Ma parliamo di tanti anni fa»
Nel suo tono di voce c’era il senso dell’impotenza. Teneva gli occhi fissi sul mio avambraccio, toccava con le sue dita affusolate e delicate la mia pelle, con la testa inclinata un poco verso destra. Percepivo nelle sue parole la sua sensibilità, la voglia reale e piena di aver voluto aiutare, e sentivo il mio cuore farsi piccolo, piccolo, di fronte a questa constatazione.
«Tu non potevi far niente, hai cercato di trovare comunque una soluzione... Sei una delle persone più meravigliose che io abbia mai conosciuto, credimi», dissi con voce affievolita. Lei mi osservò con un sorriso, per poi portare la sua mano ad accarezzarmi una guancia.
«Non doveva succedere a te...», continuai con le poche parole che mi rimasero in gola.
«Forse più che a me questo non doveva succedere né a mia zia né a te...», disse amabilmente. «Ma vedrai che forse troveranno una cura, riuscirai a guarire, non tutto è perduto, e...»
«Non c’è cura, Sharon», pronunciai chiudendo istintivamente gli occhi per un millesimo di secondo, bloccandole la parola. «Le creme sono la mia unica speranza. Non ci sono altre vie d’uscita...», dissi con afflizione.
«C’è una via d’uscita, invece», disse lei con lieve sorriso. Io la studiai, con curiosità e attenzione, stando attento a controllare i miei brividi. «Le creme possono aiutarti, ma quello di cui tu hai più bisogno è una cosa sola: amore. Chi ti ama ti accetta per come sei, chi ti giudica non cerca neanche di capirti».
«Ma sono io a non accettarmi! Fino a quando non lo farò da me nessuno potrà amarmi...», esclamai.
«Michael, aspetta...», cercò lei di bloccare le mie parole, cercando di fermare il dolore che fluiva come lo scorrere veloce di un fiume in piena.
«Provo orrore, capisci? Per me stesso! E nel caso in cui tu decida di non starmi accanto, ora che ti ho detto cosa provo, ti capisco. Non posso fare peso anche te di questo mio stesso panico... Ho paura a mostrare queste cose perché la gente poi mi rifiuti
Ero in completo subbuglio emotivo. Sentivo che non potevo sopportare l’idea che lei, da quel giorno, mi evitasse, ma da una parte la potevo comprendere. Non avevo il coraggio di dirle che, se se ne fosse andata, io avrei sofferto tantissimo, ma nemmeno volevo lasciarla andare. Sharon doveva rimanere con me. Come avrei fatto senza la sua compagnia? La sua sensibilità? Il suo sorriso? I suoi occhi? Senza il tutto?
«Michael, adesso smettila!», echeggiò lei. Io rimasi immobile, dandole le spalle che avevo voltato nel frattempo che stavo parlando. Non avevo il coraggio di girarmi, fissavo il pavimento.
«Guardami negli occhi, per favore...», disse con voce smorzata, ma io non ubbidii. Ero troppo codardo, avevo troppa paura per vedere la reazione del suo viso, specchio dei suoi sentimenti. Poco dopo neanche mi accorsi che era venuta di fronte di me, con le mani sul mio volto, portando i miei occhi dritti nei suoi.
«Ascolta», continuò con calma. Nei suoi occhi vedevo severità e rabbia, ma allo stesso tempo una strana luce... «Quello che dici non è vero. Non ho mai sentito dire dalla tua bocca cose più cattive di queste! Davvero pensi che per me questo sia un peso? Credi che, se tu mi facessi così tanto orrore e ribrezzo, non me ne sarei già andata? Non avrei trovato una scusa? Pensi davvero che io sia così?»
Il suo fiato era soffocato. I suoi occhi ricolmi di un luccichio sempre più vivo, formandosi alle estremità inferiori dei suoi confini... Lei stava piangendo. L’avevo fatta piangere!
«Io so cosa significhi essere diversi, sentirsi osservata e sapere che nei pensieri altrui ci sono solo brutte considerazioni. Pensi che io non abbia mai provato sensazioni così? Non solo sono stata denigrata, come tu ben sai, e isolata... Be’, sta a guardare».
Con gesto rapido e irritato si tolse l’asciugamano di dosso, gettandolo sul primo lettino che vidi a distanza di quasi due metri. Quasi mi venne un blocco respiratorio, misto agli ormoni scombussolati che cominciarono a vaneggiare, simili agli scoppiettii dei popcorn. Era bellissima... Dio quanto lo era... Fisico perfetto, curvilineo... Mi ci vollero minuti prima di riprendermi, ero troppo attontito dalla sua presenza.
Calma, Michael, respira a fondo e non distrarti... Controlla i tuoi istinti...
Mi si avvicinò con passo rapido, ma ad ogni modo con la camminata degna di una donna sensuale... Non seppi come feci a resistere, una volta che mi fu accanto a quasi venti centimetri dal mio corpo.
«Guarda le mie gambe, qua», disse indicandomi un punto preciso verso l’interno. Era una tentazione troppo grande da tenere a freno, per un momento temetti fosse un puro attacco alla mia sanità mentale. Eppure c’era qualcosa di strano...
«Vedi queste sottili linee bianche? Sono smagliature, niente di grave sembrerebbe. Inizialmente si manifestano col colore rosso, ma poi diventano visibili e lucide... Sono cicatrici perenni, non sono curabili», disse, lasciandomi evidentemente stupito. Ne aveva per quasi tutta la fascia interna.
«E qua, guarda», disse indicandomi la coscia esterna, dopo altri vari punti sulla pancia e sulle fianchi. «Sono dovute alla poca flessibilità della cute e sono indelebili. Non ci sono cure per eliminarle...»
Non spiccicai parola. Ero troppo sbigottito per dire qualcosa di decente. All’inizio non le avevo viste, ma da quando me le aveva fatte notare le riconoscevo con chiarezza... Non sapevo esistesse questa cosa...
La sentii soffocare una risata senza divertimento. «Pensa che si vedono molto più chiaramente su chi ha la pelle scura, o mulatta, come me... Sebbene non è un male così grande – poiché ne esistono di peggio – ho sofferto molto a causa loro... Mettiti nei miei panni: secondo te è bello far vedere il proprio fisico alla gente, magari in spiaggia, col costume, coperto da queste linee? Che penserebbero mai le persone di me se dicessi “ehy guarda il mio corpo, ho perfino le striature, oltre che ad essere una mulatta”? Pensi che non mi senta orribile per gli altri?»
«Sharon...», sbiascicai inerme. Non sapevo che pensare. Quei lemmi che stava proferendo dalle sue labbra mi ferivano come piccole lame d’acciaio...
«Ovviamente io non ho i tuoi stessi problemi, me ne rendo conto; io non sono famosa, e so che la gravità del mio problema non è come il mio...», continuò incrollabile.
Cercai di bloccarla in qualche modo, ma non ci riuscii. Mi faceva star male quella situazione, e mi sentivo colpevole. Stava mostrandomi quelle cose perché io le credessi, perché io smettessi di farmi male... Mi stava mostrando i suoi punti deboli, le sue paure fisiologiche, cose che non avrebbe di sicuro mai rivelato a uno sconosciuto. Sapevo che queste problematiche che aveva la facevano soffrire dentro. Stava facendo la stessa cosa che avevo fatto io.
«Per favore, basta... Io ho...», dissi, ma non finii il discorso che mi si bloccò il respiro, ma non perché era una emozione troppo bella per il mio cuore... Con una mano appoggiata al suo fianco, mi fissava. Una goccia le era scesa rapida rigandole una guancia.
«Probabilmente sto facendo la figura della vittima nei tuoi confronti... Non ti sto mostrando i miei difetti perché tu mi possa compatire; è davvero l’unico modo questo per farti capire che io ci tengo a te, non importa le malattie o problemi che hai? Anche io ho paura che la gente, una volta saputo i miei difetti, mi abbandoni... Mi guardano come se fossi un’aliena... Tutte le persone a cui rivelavo le mie angosce, usavano queste contro di me, o peggio, mi abbandonavano... Ero sola, sempre...».
Il mio cuore si stava sbriciolando. Se c’era una cosa che non avrei mai desiderato era che qualcuno piangesse per causa mia. E io avevo ferito proprio lei... Sharon...
«Vieni qui...», sussurrai prendendole la mano, spingendola con più forza di quanto immaginassi verso le mie braccia. Lei si lasciò andare a quella presa, mentre un’altra lacrima cominciò a scenderle dall’altra guancia. Mi faceva così tanta tenerezza, la mia Sharon...
«Scusa... Non volevo arrivare fino a questo punto», le sussurrai con delicatezza in un orecchio, frattanto che mi rendevo conto della nostra attuale situazione. La stavo abbracciando... Ed eravamo in costume?!
Oh mio Dio, stavo arrossendo! Tutta questa mia dannata timidezza...! Eppure sembrava stesse svanendo come polvere, al contatto con la sua pelle. Per un’ennesima volta, con grande piacere, potei sentire appieno il suo profumo, l’essenza così provocante e dolce che emanava. Sarei potuto rimanere lì in eterno, con le mie braccia che la tenevano stretta al mio petto, ma non so quanto avrei resistito alla tentazione.
Il suo calore a contatto con il mio faceva sembrare tutto così irreale, non credevo neanche stessi vivendo davvero. Nonostante fosse in costume, potevo percepire il suo aumentare e diminuire del respiro nel suo petto, incostante, come il mio. Quello che stavamo vivendo – le emozioni che stavamo provando – erano le stesse? Provava nel cuore quel senso di innalzamento verso il cielo che provavo me medesimo?
«Sono io che ti devo chiedere scusa... Non ho capito che la tua è solo paura, un terribile timore che io possa scappare...», la sentii dire dall’incavo del mio collo nel quale nascondeva il suo viso. Era il suo posto preferito dove nascondere il suo volto, ogni volta che l’abbracciavo. «Ma io non ho intenzione di andar via, a meno che tu non lo voglia... E non dirò mai niente a nessuno»
Discostai dal suo volto i riccioli castano scuro dei suoi capelli, guardando attentamente ogni dettaglio del suo viso ancora adagiato sull’incavo. «Io non ti caccerò mai lontano, e mi fido della tua parola data... Ho la certezza inspiegabile che posso fidarmi di te. Sei una delle poche che riesce a capirmi veramente per quello che sono, per il Michael che esiste nella realtà, non per la star chiamata “Michael Jackson”. Solo Michael...»
Lei mi guardò con un sorriso, cominciando a staccarsi dalla posizione in cui ci trovavamo. Solo quando si separò da quella stretta ne percepii l’immediata mancanza, l’imminente imbarazzo dei nostri due corpi troppo vicini.
Il mio cuore stava battendo come un pazzo nel petto, tanto che temetti di non riuscire più a farlo calmare. Ad un certo punto lei aprì le braccia, alzando le spalle, in un gesto secco e bambinesco.
«Quindi, sbaglio o dovevi aiutarmi a nuotare nell’acqua fonda? Hai per caso cambiato idea?», disse arrossendo. Io le sorrisi – ebbi paura di sembrare un cretino, un ebete a quel sorriso a 32 denti che mostravo, evidentemente infatuato – ma cercai di riprendermi.
«No, anzi», dissi sfregandomi le mani. «Iniziamo proprio adesso. Vieni...», le dissi avvicinandomi al bordo piscina, in un angolo dove era evidente che non si toccasse. La guardai e la vidi scrutarmi con timore.
«Che c’è?», chiesi con espressione divertita a quel suo sguardo scrutatore e intimidito. I suoi occhi erano un continuo vagare fra l’acqua e me; in parte non riuscivo a capacitarmi di come potesse avere così tanta paura dell’acqua fonda.
«Non vorrai mica farmi fare un tuffo, vero?». Non appena le annuii tutto sereno e calmo che ero, i suoi occhi si spalancarono. «Ma è fonda... E se non riesco a tornare su? Non ho nemmeno provato ad entrare dentro e cercare di stare a galla, figuriamoci se ho il coraggio di tuffarmi...»
«Tu sai nuotare, hai paura solo di ricommettere lo stesso errore di rischiare di affogare. Hai detto che sapevi galleggiare bene, prima di quel incidente», dissi con convinzione. «Facciamo così, io mi tuffo per primo e poi tu ti butti. Una volta che sei dentro, ti tengo io a galla... Ti fidi di me?»
Sharon rimase con lo sguardo fisso sull’acqua, poi mi osservò mite con assenso del capo. Sorrisi e, dopo una breve rincorsa, non esitai a buttarmi. Il contatto con l’acqua fresca fu stupendo, istantaneo e puro, e servì molto a rinfrescare i miei ormoni bollenti. Ancora riuscivo a vedere il corpo e il volto bellissimo di lei nella mia testa ad occhi chiusi, e quel momento sperai che l’acqua vincesse su quegli implacabili istinti.
Come potevo resistere a lei? Tutto di Sharon mi attraeva. Per chiunque lei poteva sembrare una ragazza qualunque, dal bel fisico, ma oltre all’aspetto c’era il suo carattere meraviglioso a rendere Sharon ancora più speciale. Era unica. E questo era uno degli altri motivi a rendermi pazzo, a farmi uscire terribilmente fuori di testa.
Lei era riuscita a capire... Sharon andava al di sopra di ogni schema, al di fuori delle regole delle persone che si vedevano in giro e con la quale mi ritrovavo ad avere contatti. Era diversa da tutti, poiché tutti erano diversi da lei. Sharon come me non amava i pregiudizi, leggevo attraverso i suoi occhi quando era triste, amareggiata, arrabbiata, allegra, felice, serena...
Era solo una questione di feeling la nostra? Io non credevo. Ci doveva essere qualcosa di più, qualsiasi altra cosa che andava fuori da ogni schema ordinario delle leggi della terra e della normalità. Dentro di me una voce diceva che il nostro incontro, tanto normale quanto scontato, era invece stato un segno. Un qualcosa donato dal divino, da Dio forse. Se era per caso così, ancora di più dovevo tenerla stretta a me e ringraziarlo.
Riemergendo dall’acqua, ancora ad occhi chiusi, mi apprestai subito a tirarmi i capelli bagnati dietro il capo, per poi dopo rivolgere il mio sguardo curioso verso Sharon. Mi guardava immobile, con le guance un poco scarlatte, senza spiccicare parola. Mi apprestai allora a rivolgerle un sorriso.
«Avanti, ora tocca a te», dissi con espressione schietta, come se fosse una delle cose più naturali al mondo che si potesse compiere. Lei aggrottò la fronte, appoggiando entrambe le mani sui suoi fianchi.
«Parli tu. Per te è una cosa da poco...», disse avvicinandosi in modo molto cauto – addirittura schivo - sul bordo piscina, toccando con la mano destra l’acqua tiepida. La vidi rabbrividire, per poi lanciarmi uno sguardo rassegnato. «Davvero mi prenderai?»
«Te lo giuro, a costo di morire seduta stante», promisi con fare solenne e sincero. Sharon si piegò dalla posizione accucciata in cui si trovava, voltando un suo imminente sorriso divertito verso il basso, ad occhi chiusi. Era sempre magnifico il suo sorriso, in ogni maniera in cui lo manifestasse.
«Vedi di non giurare il falso, ne va della tua incolumità...», continuò drizzando la schiena e inarcando un sopracciglio da finta scettica.
«Dai, buttati», la incitai sfiorando il velo dell’acqua con le mani. «Altrimenti sarò costretto a bagnarti con le maniere manuali o venirti a prendere io stesso...»
«Non ce la faresti...», mi provocò lei, mostrandomi la lingua. Mostrai un’espressione di sfida, falsamente scioccato da quello che lei mi aveva appena detto. Davvero pensava non ne avrei avuto il coraggio?
«Dici sul serio? Guarda che ti vengo a prendere, non osare provocarmi...», dissi mite.
Lei sorrise furbescamente, socchiudendo gli occhi. «Ne sono convinta al 100%. Non lo faresti mai. M.A.I.»
«Oh, come vuoi, ma questa te la sei voluta tu...», e così dicendo m’immersi fino a raggiungere il bordo piscina, l’angolo vicino alle scale di marmo che portavano all’esterno. Una volta fuori, Sharon sorrise decisamente sconvolta, cominciando ad allontanarsi ad ogni passo che percorrevo verso lei.
«No... Non ci provare nemmeno, Michael... Non ti avvicinare...», bisbigliò lei con tonalità di voce sempre più squillante man mano che mi approssimavo a lei. I nostri occhi non erano incollati l’uno a l’altro, e fra le mie labbra comparve un sorriso sornione.
«Volevi provocarmi? Adesso ne subirai le conseguenze...». Così dicendo aumentai la velocità dei miei passi fino a correre verso di lei. Sharon urlò mezza divertita mezza spaventata, con l’adrenalina nelle vene, scappando a gambe levate da me. Era abile, dovevo ammetterlo, ma io ero più capace di lei... E, senza ombra di dubbio, più scattante.
Nonostante i via vai attraverso i vari lettini a sdraio – entrambi avevamo le lacrime agli occhi da tanto stavamo ridendo –, riuscii a prenderla. Con agile scatto la presi per una parte nella schiena, dall’altra per le gambe, e la portai sopra la mia spalla destra come un sacco di farina. Non era leggera ma nemmeno pesante, non mi costava poi così tanta fatica l’impegno di tenerla sulle mie spalle.
«Michael! Lasciami!», disse ancora con occhi lacrimanti, lanciando calci e manate senza la minima potenza verso di me. Ero sicuro che non voleva farmi male, perciò con convinzione la ignorai, sfoderando un sorriso enorme, e mi portai sempre più vicino al bordo da dove mi ero tuffato. Là l’acqua era abbastanza fonda da riuscire a non farle male in caso di imprevisti, ma neanche troppa da farla affogare.
«Oddio no! Michael! Oddio!», cominciò a esclamare, alzando la voce, non appena si accorse delle mie intenzioni, nonostante il suo capo fosse rivolto alla mia schiena. «Scusa! Ti chiedo umilmente scusa!»
Una volta che fummo vicino alla piscina, le feci cambiare posizioni e la riportai comodamente sulle mie braccia ad una posizione abbastanza confortevole. «E’ troppo tardi per pentirsi», dissi ridendo non appena mi accorsi del suo sguardo intento se ridere o disperarsi.
«Pronta per un buon tuffo in piscina come inizio corso?», Sharon mi lanciò uno sguardo fulminante.
«Lo prendo come un sì», esclamai divertito, e subito dopo spiccai il salto.
La sua presa attorno al mio collo si fece più possente una volta che ci ritrovammo a mezz’aria, ma quando fummo dentro fui io a stringerla. Come le avevo promesso, non la lasciai affogare, e quando tornammo incolumi con il volto fuori dall’acqua scoppiai dalle risate a causa di quella sua espressione scombussolata.
Risi così tanto che non seppi nemmeno dire io quando smisi. Silenziosamente, con un sorriso sardonico, Sharon si sistemò i capelli bagnati via dal volto, dato che ero praticamente io che la tenevo a galla, in braccio a me. Ora che eravamo in acqua la fatica veniva ancora meno. Senza che lei se ne accorgesse, arrivai in un punto dove potei toccare anche io, almeno per il momento.
«Com’era il tuffo? Emozionante?», le chiesi, mentre lei mi lanciò uno sguardo sorridente e diabolico. «Vedi, alla fine non era poi così terribile! Ho anche mantenuto la promessa, tu che eri scettica»
Lei sorrise, più tranquilla di prima. «Grazie, sei stato gentile. Non ho sentito mancare la tua stretta nemmeno un secondo...», rispose con lentezza mordendosi un angolo del labbro inferiore.
Il suo respiro caldo poco lontano dal mio volto e le sue mani strette in una morsa delicata attorno al mio collo... Dentro di me, il cuore aveva ripreso a battere a ritmi troppo accelerati per essere solo una lieve palpitazione anormale.
Più cose stavano prendendo chiarezza dentro la mia anima e il mio cuore... E dentro la mia mente.




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Capitolo Ventidue.
Lose direction of my mind
Punto di vista: Sharon Villa/Michael Jackson.


Mille tremori m’invadevano – braccia, testa, schiena avevano mai perso il contatto con gli impulsi nervosi del cervello – e il fiato si faceva ogni secondo sempre più esitante. Non sapevo nemmeno come il mio cuore potesse ancora battere, a dispetto di quel dato di fatto.
Potevo sentire l’adrenalina della nostra vicinanza, ogni centimetro che divideva i volti l’uno dall’altro emanava una palpabile sensazione di stordimento inaudito. La situazione era inaudita. I sentimenti che stavo provando erano insensati, troppo coraggiosi per dovere ad un batticuore di circostanza.
Non seppi quanto tempo rimanemmo così, ma per me sembrò che si fosse fermato per sempre. Le sue mani grandi a tenermi ferramente la schiena, le mie d’istinto legate al suo collo con delicatezza, accarezzate dolcemente dai suoi riccioli neri bagnati... Occhi negli occhi, potevo scrutare nei suoi quelle profondità scure e intense la ricchezza di una luce molto più brillante di quella che mostrava ogni momento in cui mi capitava di osservarlo. Guardai ogni contorno, ogni minimo lineamento di quel viso troppo inumano per appartenere ad un uomo qualsiasi.
Ero sul punto del non ritorno. Il mio cuore stava procedendo senza tener conto dei rischi di cui mi stava avvertendo la mente. Avevo perso la direzione della mia testa, non m’importava più a cosa sarei andata contro, volevo solo avvicinarmi a lui... Volevo essere più vicino alle sue labbra, accostarle alle mie desiderose di un qualcosa che non credevo sarei riuscita mai a provare nella mia vita con nessuno. Neanche la unica parte lucida della mia coscienza ormai poteva farmi riprendere da quei pensieri!
Con respiro fermo in petto, mi strinsi al suo petto in contemporanea al momento in cui lui restrinse le sue mani più possentemente dietro la mia schiena. In automatico, portai il mio viso nel solco del suo collo, lasciando un inudibile sospiro fuoriuscire dalle mie labbra socchiuse.
«Adori stare con il volto sull’incavo destro del collo...», constatò lui con voce sottile, affievolita da un respiro soffocato che gli uscì da quelle labbra perfette. Con le poche forze che avevo in corpo, le quali a quell’abbraccio sembravano essere scomparse, riuscii a sorridere.
«Penso sia una cosa ereditata fin dalla mia infanzia», dissi riprendendo voce alle mie corde vocali. «La mia mamma mi diceva sempre che amavo rimanere così, soprattutto quando mi prendeva in braccio, in ogni occasione si ponesse di fronte, ma che lo facevo solo con poche persone...»
«Chi erano queste persone?», chiese con sincera curiosità, cominciando ad accarezzarmi i capelli. Se non fosse stato lui a reggermi per la schiena, pensai che sarei sprofondata a picco immediatamente. Quel momento era troppo eccitante – lui era troppo eccitante! – da riuscire a tenere a bada.
«Be’... Mia madre... Mio cugino... Solo due, tre cioè con te...», risposi prendendo lunghe pause con l’intenzione di tenere sotto controllo il respiro. Sentii la presa alle mie spalle farsi più stretta, aumentando in automatico la pressione delle mie mani legate al suo collo e il contatto sentito fra i nostri corpi. Stavo trattenendo il respiro...
«Allora posso considerarmi di gran lunga fortunato...», rispose con sorriso sulle labbra. Feci lo stesso e, con un coraggio che non seppi da dove provenisse, spostai la mia fronte sulla sua scapola. Lo sentii addirittura irrigidirsi, trattenere il fiato come avevo fatto io poco prima, ma non ero decisa a muovermi.
«Perché ti definisci così fortunato? A molti non interesserebbe neanche se questo mio gesto è ereditato o no, o se è solo un vizio...», ribadii seria, lasciando per il momento da parte le mie calure, osservando ogni contorno di quella sua spalla destra che sembrava scolpita.
Michael mi osservò serio, con delicatezza riportò con sole due dita il mio mento verso il suo viso, cosicché i nostri occhi fossero ancora incatenati gli uni agl’altri. Eravamo nella stessa posizione iniziale, quella prima che io spostassi il mio capo sul suo collo, e tenevo le mie mani sul suo petto.
«A me interessa la ragione del tuo gesto, è vero, ma sei tu in realtà che mi coinvolgi; voglio scoprire ogni cosa che ti riguarda... Ogni sofferenza, ogni segreto, ogni passione, ogni cosa che non sopporti o ami... Voglio conoscere in tutto e per tutto la persona di cui io mi sto...»
«Michael, ti devo parlare», intervenne una voce maschile. Con gesto secco mi allontanai pochi centimetri dal suo volto, guardando l’uomo che mi ritrovavo di fronte. Chi altri era, se non il suo manager?

Michael voltò quasi totalmente il capo verso le sue spalle, all’inizio stranito, poi osservando con sguardo serio - e dedussi anche un po’ irritato – il signor Di Leo, il quale rimase neutro a guardarci... Anzi, guardava lui. Io ero invisibile.
Preoccupata che Michael poi potesse risentire di quella situazione con il suo manager o chiunque altro, cercai di allontanare la presa che mi teneva legata al suo petto. Contro ogni mia aspettativa, lui non si decise a slegare le sue mani attorno alla mia schiena ma a stringermi ancora di più al suo corpo. Potei dire di essere stata rossa in viso come non mai, totalmente imbarazzata da quel suo modo istintivo che non prevedeva di lasciarmi andare in ogni maniera.
«Frank», iniziò lui con espressione distaccata. Vedere Michael non sorridere era una strana sensazione, soprattutto se in un’occasione del genere. «Se si tratta di lavoro, ne possiamo parlare domani in privato...»
«Non si tratta di lavoro, solo due parole... Ti rubo cinque minuti del tuo tempo libero», rispose immediato lasciando quegli occhi vacui senza il minimo cambiamento. Michael sospirò affranto, abbandonando la presa con cui mi teneva, e mi rivolse un’occhiata amareggiata.
«Torno subito, te lo prometto», mi sussurrò in un orecchio, accompagnando i miei piedi ad appoggiare il fondo della piscina. «Qui si riesce a toccare, non muoverti e non... »
«Forse è meglio smettere qua», dissi, ignorando lo sguardo perplesso che mi lanciò non appena enunciai quelle parole. «Vai a parlare, prenditi tutto il tempo che vuoi... Possiamo benissimo fare un altro giorno».
«Forse faresti bene ad ascoltarla, Michael», disse l’uomo a bordo piscina. Ah, mi dissi mentalmente indecisa se mostrare uno sguardo irritato, adesso esisto?
Vidi Michael gettargli un’occhiata fulminea, senza voltare le spalle, affinché l’altro non riuscisse a percepirla, dopodiché mi studiò con attenzione. «D’accordo, però tu intanto vai a cambiarti e a farti con tutta calma una doccia. Le mie sorprese non sono ancora finite...».
Senza esitazioni annuii, obbedendo agli ordini da lui richiesti. Non so se lo fece apposta o perché gli venisse naturale, ma mi prese la mano e con passi lenti ci ritrovammo entrambi fuori dalla piscina. Ora che ne avevo una visione più ravvicinata potevo scorgerlo più sensuale di sempre, forse anche più di prima di quando l’avevo visto bagnato la prima volta, corso fuori dall’acqua per buttarmi dentro con lui.
Non riuscivo proprio a capacitarmi di quanto potesse deviare la mia mente. Vedevo il suo fisico, e il mio cuore accelerava ogni suo battito, rischiando di andare in iperventilazione. Ancora non mi ero abituata a quel ben di Dio... Soprattutto se bagnato d’acqua, con quel costume nero a sottolinearne le curve...
Oh Cristo di Dio! Sharon!, mi rimproverai mentalmente, in meno di un secondo in cui un pensiero poco casto mi balenò in mente, scuotendo la testa percettibilmente con una smorfia.
Prendemmo i nostri accappatoi - frattanto che Frank svolse perfino il capo da tutt’altra parte piuttosto di non vederci - e mi lasciai guidare da Michael lungo il corridoio di luce arancione, ignorando egli stesso se il manager gli fosse dietro. Non sapevo come si sentisse Michael, ma potevo percepire dalla sua stretta che fosse per ovvietà di cose abbastanza sull’attenti. In parte, mi sentivo perfino osservata da quell’uomo robusto chiamato Frank Di Leo. Fu così che poco dopo, dopo un’ultima carezza sulla mia mano, poco prima di separarla dalla sua, lo vidi avviarsi con l’altro allo spogliatoio maschile.
A passi trascinanti, mi diressi in quello femminile, facendo come mi aveva detto Michael. Mi spogliai, mi feci una rapida doccia per togliermi via quel tanto mancato quanto nostalgico odore di cloro dalla mia pelle, indossando il vestito che avevo trovato assieme al costume, quasi una buona mezz’oretta prima.
Presi tutto il tempo per riprendere i battiti e respiri mancati, e, nel frattempo, l’apatia cominciò a fluttuante nei miei pensieri.

***

«Tu sei completamente impazzito, ti rendi conto?», disse Frank, abbastanza agitato, squadrandomi dritto negli occhi, irrigidito. Io battevo i piedi a terra, con lo sguardo verso il basso, guardando ogni piccola gocciolina d’acqua che cadeva giù dal mio corpo bagnato d’acqua clorata, cercando con tutte le mie forze di lasciar perdere ogni sua parola o discorsetto che stava per rivolgermi.
«Non capisco di cosa parli, Frank. Io sono assolutamente normale, come ogni giorno», risposi cercando di sviare il discorso, con tutte le intenzioni di chiuderlo e recuperare il materiale per farmi una doccia, cosicché da non far aspettare molto Sharon. Immaginavo già le cose che si era preparato in testa da dirmi e, detta tutta, proprio non mi interessava quello che pensava, nonostante fosse il mio manager.
«Sì che lo sai, e riguarda appieno quella ragazza che prima era abbracciata a te e che tu tenevi stretta al tuo petto!», continuò con gli occhi sbarrati ad ogni parola che gli usciva dalla bocca. Sbuffai stanco.
«Non c’è niente di cui discutere. Vuoi sapere perché eravamo in quella situazione? Vuoi sapere perché l’ho portata qua con me in piscina privata, nonostante ti avessi già avvisato di starne fuori? Be’, non sono affari tuoi», dissi convinto, dandogli le spalle alla ricerca del balsamo fra tutti quei prodotti proposti.
«Invece sono affari anche miei, anche sulle ragazze che decidi di portarti a letto in un futuro prossimo o che, invece che essere delle ballerine e basta, come da contratto, si comportano da tutt’altra cosa!», esclamò portandosi le mani sui fianchi.
Mi voltai di scatto, irritato, alzando un sopracciglio sconvolto. «Frank, starai scherzando spero?! Non posso credere che tu possa dire certe cose, non posso credere che tu le pensi veramente!»
«Invece sì, Michael, e sono convinto che sotto quella maschera da bambola caffèlatte ci sia una persona pronta a ferirti. Avanti, tutti vogliono stare con te solo per la tua fama, per quello che potrebbero diventare a stare un solo secondo sotto i riflettori con te! Credi che lei sia diversa da tutti?»
«Frank, non mi servono i tuoi pregiudizi insensati e ridicoli, visto che, per prima cosa, tu non la conosci nemmeno un poco per quel che la conosco io; secondo, in questi giorni che ho passato con lei non sono stato bene, ma stupendamente! Sono riuscito a essere solo Michael, un uomo senza quella solita maschera che deve usare con tutti per proteggere sé stesso!»
«Lei ti procurerà dolore come tutti gli altri, stanne certo! E poi non sai quanto sia capace di mentire bene una persona come lei, non ne dubito visto che è bravamente riuscita a stregarti in questo modo...»
«Sharon non mente, lei è sincera! È sincera, ha provato mie stesse paure che altri non riescono nemmeno ad immaginare, compreso tu! Suo padre la picchiava, come anche mio padre con me; ha paura di rimanere sola e di venire ferita un’altra volta nella sua vita, proprio come me!... Ma che sto a parlare a fare con te di queste cose! Non puoi capire...» dissi cominciando a camminare nervoso avanti e indietro per la stanza.
«Ascoltami, Michael, tu non sai assolutamente dei problemi con cui stai andando incontro con lei...», fece per continuare Frank, ma la mia pazienza era già ridotta in granelli di polvere pronti a scomparire. Mi stava rovinando tutta l’enfasi di quel delicato momento passato con Sharon...
«No, tu ascoltami!», dissi con rabbia e fermezza, puntando l’indice della mia mano sinistra in alto, a pochi centimetri dal mio viso. «Io so a cosa sto andando incontro, non sono un bambino inesperto su queste cose, e so che di lei posso fidarmi. Ho vissuto da quando avevo cinque anni nel business. Potrò riporre in lei la mia fiducia e lealtà per sempre! Lei non è come gli altri. Perciò, se a te questo sta bene, ne sono felice... Altrimenti non mi interessa! Non ascolterò nessuno se non il mio cuore e la mia di testa...»
«Michael, stammi ad ascoltare!..», disse lui avvicinandosi a me con una calma snervante con lo scopo di tranquillizzare i miei nervi. Come poteva, ora che aveva scatenato l’inferno dentro me?
«...E terzo», dissi alzando la mia voce a risuonare di qualche nota sopra la sua. «Non voglio che parli di Sharon in quel modo, per nessuna ragione! Non m’importa cosa pensi, lasciala in pace. Lasciami in pace!»
Nello sguardo di Frank vidi una luce di paura misto ad un sentimento di rabbia repressa farsi avanti, nonostante il vuoto di quei suoi occhi scuri. Ignorando quell’occhiata di rancore, proseguii prendendo con gesto irritato e secco il mio cambio di vestiti per dopo.
«La mia vita sociale la controllo da me, se sbaglierò ne pagherò le conseguenze! Tu e tutti gli altri dello staff non siete pagati per controllare le mie relazioni affettive, quello è esclusivamente compito mio».
Frank fece per dire qualcosa, ma con gesto ferreo chiuse le sue labbra in una stretta irata, per poi passarsi una mano a massaggiarsi il collo. «Ne riparleremo domani, Michael. Magari sarai abbastanza rilassato da poterne discutere con calma, una volta passata la sbornia causata dalla presenza di Sharon...»
«Non ci sarà bisogno. Non c’è nient’altro da dire, non voglio più sentire una parola su questa faccenda a meno che non sia per questioni veramente importanti!», dissi freddamente. «E ora, se permetti...»
«Ci vediamo, Mike...», disse Frank non aggiungendo altre parole, voltando i tacchi verso l’uscita dello spogliatoio prima che gli potessi chiedere di andarsene. Non appena ne fu fuori, sentii il bisogno di sfogare quella estenuante pressione che mi aveva provocato. Rimasi immobile e in silenzio per pochi istanti. Poco più tardi, con fare rude presi il mio accappatoio che mi ero tolto poco prima di immergermi nelle docce e lo buttai a terra con rabbia. Loro – nessuno di loro! – avrebbe potuto capire quello che provavo...
Sharon non era come Frank pensava che fosse... Io ne ero convinto... Io sapevo dentro di me che non mi avrebbe mai fatto del male... Dio me lo aveva confermato, molte volte; in ospedale per esempio, o quel giorno. Lei me lo avevo confermato, con la sua dolcezza, e con situazioni in cui avevo potuto scoprire, pezzo per pezzo, alcuni dettagli importanti della sua anima.
Per lunghi istanti lasciai lo scorrere fresco della doccia prendere il sopravvento sulla mia anima, placando i bollori della rabbia appena avuta... Forse era vero che ero stato un po’ troppo aggressivo, ma non tolleravo che si potesse pensare e/o offendere in quel modo Sharon... Proprio non lo tolleravo!
No, lei no... Non Sharon. Lei era quella ragazza. Quella che io stavo cercando... Solo lei...

***


Con il battere del mio piede destro sulle piastrelle bianche, aspettavo in ansia Michael. Il signor Di Leo doveva essersene già andato, prima che io avessi finito di cambiarmi e tutto il resto. Con mia fortuna, non lo avevo neanche incrociato.
Frattanto che aspettavo che Michael arrivasse, potei trastullarmi con il vestito nero che indossavo. Era un capo magnifico; due fasce di seta – con lieve apertura fra esse - mi tenevano strettamente il seno, legate entrambe dietro il mio collo, mentre uno stretto bustino scendendo prendeva la forma di una gonna dai mille veli che, girando, si aprivano lasciando un po’ scoperte le gambe. Ai piedi, indossavo delle ballerine intonate all’abito, basse, con un fiocco in ognuna di esse ad incorniciare ciascuna scarpa.
Per una volta nella mia vita possedevo qualcosa di principesco; era il mio sogno di quando ero molto piccola indossare un qualche capo d’abbigliamento simile, allo stile Marilyn Monroe, e finalmente ne avevo avuta la possibilità, almeno per un’ora soltanto mi sarebbe bastato.
Mentre mi svagavo allegramente come una bambina di pochi anni per quella mia piccolo soddisfazione personale, rispecchiando il mio riflesso nell’acqua limpida della piscina quieta, sentii d’improvviso una forza sollevatrice alzarmi da terra alle spalle. Due mani mi presero per il busto, legate assieme in una presa solidissima, facendomi girare senza che i miei piedi toccassero terra. Risi per quella sorpresa inaspettata, proprio mentre mi faceva roteare. Chi era se non Michael?
Stupendo come sempre, indossava pantaloni stretti - da crepacuore - e neri e una magnifica camicia rossa. Era incredibile, ma ogni cosa che si metteva lo faceva risaltare ancora più paradisiaco di quanto non lo fosse già! Anche vestito di stracci, per me lui sarebbe rimasto sempre un incanto...

«Ti ho fatto aspettare molto?», disse lui facendomi fare mezzo giro guidato da una sua mano su me stessa, in modo che potemmo essere di nuovo uno di fronte all’altra, occhi incatenati agli altri. Non appena vidi il suo sorriso grande su me, non potei che allargare a dismisura il mio.
«No, non tanto...», risposi con fare da furbetta, gettando un’occhiata al vestito. «E’’ stato un tempo necessario per riuscire a godermi un abito che ho sempre sognato d’indossare... Grazie di cuore!»
Lui prese la mia mano sinistra adagiata sul mio fianco con così tanta dolcezza che temetti di potermi sbriciolare come un biscottino, nel frattempo che i suoi occhi si riempirono di un qualcosa d’indescrivibile.
«Tu non devi ringraziarmi di nulla, davvero. Ti meriti queste cose come nessun altro. E’ il mio primo regalo per te...», poi, ignorando la mia espressione sbigottita, divenne più serio e preoccupato. «Hai per caso incontrato Frank...?»
Io scossi la testa, rassicurandolo con un sorriso mite, e allora lo sentii sospirare sollevato. Chissà cosa si erano detti... Di sicuro, però, ero convinta che avessero parlato di me. Il mio sesto senso non mi ingannava mai – o quasi – e negli occhi di Michael riuscivo a scorgere scintille opache di pensieri cupi.
«Qualcosa non va, Michael?», chiesi istintivamente inclinando il capo coprendo il punto a terra cui li stava fissando. Lui m’osservò dapprima confuso e stranito, in seguito si aprì in un altro di quei sorrisi angelici.
«No, stai tranquilla», rispose scuotendo poco il capo. Successivamente, dopo avermi guardato con un’altra delle sue occhiate sbarazzine prese la mia mano e mi fece girare di nuovo su me stessa, divertito. «Sei bellissima, leggermente di più di quanto lo sei già sempre e comunque...»
Sentii le mie guance il torpore di un’imminente coloratura scarlatta sulle mie guance e ogni pensiero dal minimo senso logico frammentarsi. Non credevo possibile che potesse esistere una persona così dolce, capace di rompere in solo poco tempo le mie barriere di diffidenza verso gli altri, create dopo tanti anni di duro impegno emotivo, e rendere così frastornata la mente.
Sorrisi, con ogni istinto a reprimere quel calore che provavo dentro. «La questione vale anche per te, solo che tu sei sempre bellissimo», sbottai recitando una smorfia da bambina piccola.
Nonostante si mise a ridacchiare, continuai a parlare. «E comunque, grazie. Non ricevo molto spesso complimenti, il più delle volte solo critiche...», ammisi abbassando lo sguardo con un sorriso rassegnato.
Nel frattempo che gli mostrai un’espressione birichina – per non pensare a tutte le belle parole mai ricevute nella mia vita – lui mi guardò amorevolmente. «Allora ci penserò io a dirti tutte le cose che le altre persone non ti hanno mai detto. A cominciare da questo...»
Così dicendo, senza che potesse passarmi per l’anticamera del cervello che potesse fare una cosa del genere, mi si avvicinò baciandomi delicatamente la guancia sinistra. Un fiume di tremendi brividi senza pietà m’invase tutto il mio corpo, il quale non aveva né la forza né l’intenzione di muoversi dalla posa fossilizzata in cui si trovava. Il mio cuore non batté fino a quando Michael si staccò con lentezza dal mio viso arrossato e bollente di un sentimento che non sapevo al momento descrivere.
“Oh. Mio. Dio. Abbi. Pietà. Di. Me.”, fu questo l’unico pensiero istantaneo che mi balenò nel cervello, echeggiando in tutto il mio spirito sottosopra. Ero intontita fuor di maniera, neanche avessi usato di sostanze stupefacenti con effetti irrimediabilmente gravi.
Intanto che io pensavo alla straordinarietà di quel gesto così tenero e senza confronti, vidi Michael studiarmi con sguardo attento e curioso, serio ma negl’occhi una piccola luce di soddisfazione brillava.
Senza pensarci su, parlai. «Lo sai che questo te lo meriteresti anche tu, dopo tutta la sopportazione che hai avuto nei miei confronti?», sbiascicai inerme di fronte alla sua presenza, a sopracciglio inarcato e sorrisetto.
Michael rise divertito, lanciandomi un’occhiata di evidente felicità. «In effetti sì, ma non adesso. Abbiamo altre cose da fare; come ti ho detto già prima, altre sorprese... Prima fra tutte, ti devo far conoscere qualcuno che, da quando siamo arrivati, non ho potuto farti conoscere...»
Lo guardai con aria interrogativa. «Davvero? Ma non è parte dello staff del tour?»
Sorrise. «In realtà non lo è affatto. È una mia amica davvero speciale, una delle poche importanti che ho...»
E adesso sta qui chi è?, mi chiesi sentendo quelle solite spine di gelosia infilzarmi il cuore, accorgendomi che il mio volto doveva aver cambiato espressione. Fortunatamente, Michael non se n’accorse nemmeno!
Neanche mi lasciò il tempo per reagire o rispondere a quella sua frase, che con la sua solita risata cristallina e lieve mi portò fuori dalla stanza della piscina privata, ancora mano nella mano, in una direzione a me conosciuta.
tati-a4ever
00lunedì 20 giugno 2011 15:45
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Capitolo Ventitre
Love everything you do
Punto di vista: Michael Jackson.


Percorsi con Sharon, mano nella mano, ancora per un’ennesima volta in quella lunga giornata piena di emozioni, corridoi e ascensori di corsa, non vedendo l’ora di arrivare nella mia suite. Ignoravo tutti gli occhi sconcertati di chi capitava incontrare, in quel momento l’unica cosa importante era sorprendere...
Arrivammo al 25esimo piano dell’edificio ansimando - nonostante avessimo preso l’ascensore per salire tutti quei piani – davanti alla porta della stanza 502, la mia. Tirai fuori da una tasca dei pantaloni la chiave e, proprio mentre stetti per infilarla nella serratura, Sharon parlò.
«Non ci posso credere», disse con voce stupita. Io la guardai curioso, con una mano pronta per aprire la porta. Sharon prese dalla sua borsetta nera una chiave, simile alla mia, sventolandomela di fronte agli occhi con un sorriso. «La mia stanza è la 503»
Sorrisi, rimanendo al momento immobile per quel caso a me tanto apprezzato, ridendo per quella sua espressione ingenuamente meravigliata che aveva in volto. Quindi pochi erano i passi a dividerci, dato che le nostre due camere erano vicine... Chissà come mai, ma ero più felice di quanto potessi immaginare!
Con uno scatto, aprii la porta della suite. «Aspettami qui, solo un momento. Devo vedere se è già dentro...», dissi frattanto che lei annuì, lasciandola poi fuori ad aspettare per qualche secondo.
Quando fui dentro, vidi la mia cara amica arrivarmi accanto, con quei bei occhi sgranati che possedeva. Sorrisi, prendendola in braccio e sussurrandole nell’orecchio. «Mi raccomando, fai l’educata con Sharon. È una persona molto importante per me, siamo intesi?»
Lei annuì soltanto e quando fece per emettere un suono con la bocca, portai l’indice alle labbra, in segno di non emanare un fiato. Lei subito chiuse le labbra, zitta e muta, e la misi giù.
«Ti ricordi il piano? Tu nasconditi, poi ad un certo punto vieni fuori facendole una bella sorpresa. Sarà contenta di conoscerti!», dissi bloccandomi ai continui segni di assenso del suo capo. Mi chinai sulle ginocchia, l’accarezzai e poi uscii con il sorriso fra le labbra. Una volta fuori, Sharon mi rivolse un’occhiata improvvisamente curiosa.
Io le sorrisi da dietro la porta socchiusa, che lentamente spalancai senza lasciar intravedere l’amica. «Penso che ora posso fartela finalmente conoscere...», dissi con fare vago. Anche nelle sue labbra comparì un sorriso furbo.
«Speriamo di andarle “a genio”...», accennò lei, nel frattempo che mi spostai dalla posizione in cui ero per farla entrare nella suite. Con abile scatto, chiusi la porta a chiave, salutando educatamente con un cenno del capo un’inserviente che era appena uscita da una camera più lontana da quella mia, la quale mi osservava ad occhi strabuzzati.
A passo quasi saltellato, mi posi di fianco a Sharon. La vidi osservare la mia stanza con occhi scintillanti di una luce di contentezza, stupita positivamente da quella bellezza immobiliare. Per un momento, rimasi ad osservare la stanza anch’io.
Tutta la stanza era avvolta da un che di delicato, forse era la posizione dei mobili perfetti e ridisegnati a rendere tutto più magnifico; c’era un grande divano in mezzo alla stanza, mobili in legno, candelabri curati e ridefiniti, un enorme tappeto panna stile moderno, un pavimento in legno che saliva in una piccola scalinata di sì e no due gradini. Una volta salita quella piccola scala di roccia calcarea, avevi di fronte a te le grandi finestre che portavano al terrazzo, alla tua sinistra una porta che portava al bagno – con completo di idromassaggio – e alla tua destra le due uniche stanze da letto, ovviamente una per me e una per... per la mia amica. Proprio quando entravi in quella stanza, nella stessa posizione in cui eravamo io e Sharon, potevi vedere tutto l’arredamento da un punto di vista più bello e stupefacente.
Pochi secondi dopo, però, la vidi guardarsi intorno confusa. Quella suite aveva incantato anche me. «Michael, ma io questa amica non la vedo mica...», dissi cominciando ad arrossire scarlatta sulle guance, mentre anch’io mi prestai ad osservarla con un’espressione divertita all’estremo. «OhmioDio!», urlò poi.
Quasi fece un salto dallo spavento, una volta che la mia Bubbles le posò una sua manina sul polpaccio della gamba destra. Già, era lei la mia amica speciale. La mia adorata scimpanzé da compagnia... Chi altri?
Io mi tappai la bocca con una mano per non scoppiare a ridere, vedendo lo sguardo spaventato e allo stesso tempo sorridente di Sharon e la sua mano appoggiata al petto dall’improvviso spavento preso.
Sharon mi guardò con un sorriso sempre più sconvolto e stranito. «Quindi era lei la...», io annuii soltanto, incapace di emettere parola, e lei riposò i suoi occhi su Bubbles. «Ahhh... Ora ho capito!», disse con voce sottile.
In quel attimo scoppiai letteralmente! Le espressioni nel volto di Sharon parlavano da sole, indescrivibili come al solito, e lei si voltò a gettarmi un’occhiata beffarda. Mi aveva fatto nel modo più assurdo e completo, morir dal ridere. Contagiai anche Bubbles, la quasi mi venne incontro affinchè la potessi prendere in braccio ridacchiando.
Anche una volta che fu sulle mie spalle gli spasmi della risata continuavano a coinvolgermi. Sharon guardò entrambi con le mani appoggiate sui fianchi, in volto una smorfia sardonica. «Ridete, ridete... Che intanto è la qui presente ad aver fatto un salto dalla paura!»
Io allora mi avvicinai dandole un buffetto sulla guancia, mentre lei incrociò le sue mani al petto cercando di trattenere una risata, spostando il capo da tutt’altra parte.
«Ad ogni modo...», dissi dopo un altro colpo di tosse per riprendermi. «Ti presento una mia carissima amica. Sharon, questa è Bubbles. Bubbles... Lei è Sharon.», e così dicendo misi la misi a terra.
Bubbles la guardò indecisa, lanciandomi occhiate indagatrici, e io con un cenno del capo la indussi ad avvicinarsi a Sharon. L’altra, dolcemente, si accucciò a terra, con sorriso innocente e puro, a ginocchia a terra.
«E’ un piacere conoscerti, Bubbles», disse allargandosi in un sorriso ancora più aperto. Bubbles allora le si avvicinò, dapprima con lentezza poi sempre più incuriosita, scrutandola.
Le girò intorno una volta, mentre Sharon mi lanciò un’occhiata divertita e, ovviamente, ricambiata con altrettanto sorriso. Ero curioso su quello che sarebbe successo, perciò mi chinai anch’io a terra.
Dopo quel piccolo giro, Bubbles mise una sua piccola manina sulla guancia di Sharon. Quest’ultima le sorrise, accarezzandola nel capo con fare molto dolce. Bubbles mi lanciò un’occhiata, e poi riallacciando i suoi occhi in quelli di Sharon le saltò praticamente addosso.
Quasi mi venne un colpo quando lo fece; Sharon scoppiò a ridere non appena Bubbles le si lanciò in braccio, dovendosi però tenere con una mano a terra per non scivolare. Io guardai scioccato prima Sharon – che ancora sorrideva divertita - poi Bubbles, la quale m’ignorò.
«Bubbles, così non si fa!», dissi con tono di rimprovero. Bubbles mi lanciò un’occhiata docile, poi tornò a stringere al collo Sharon. Ella non poté far altro che ricambiare la stretta, con un sorriso a 32 denti Con un sospiro richiamai di nuovo Bubbles, questa volta con più autorità. Alla fine cedette a guardarmi di nuovo, con occhi quasi imploranti, per poi osservare perpetuamente Sharon, la quale si sciolse a quei suoi occhioni grandi.
Ecco, lo sapevo... Bubbles ha affascinato anche lei...
O forse era il contrario?
«Bubbles, vieni qui», le dissi con un gesto della mano. Bubbles sembrò stringere la presa attorno al collo di Sharon, ma quando alzai un sopracciglio si apprese a staccarsi da lei e venire verso di me con passi appesantiti.
«Michael, dai, non ha fatto niente di male...», mi disse pregante. Ma io non avevo alcuna intenzione di sgridare Bubbles, anzi. Per farglielo capire a Sharon, le lanciai di sottecchi un’occhiata ridente e allegra.
Quando Bubbles mi fu di fronte, le parlai. «Ti avevo detto di fare la signorina educata... Erano questi i patti...», dissi lieve mentre la mia amica scimpanzé abbassò gli occhi colpevole. Tirai un sospiro. «Vai, abbracciala pure...»
Con un gesto delle mie mani le feci capire le mie parole – a qualcosa servivano i libri che avevo comprato per educarla – e allora lei si rigettò di nuovo sulle braccia di Sharon, la quale le venne perfino da lacrimare dal ridere.
«Ma che scimmietta carina che sei...», disse sottovoce Sharon. Mai avevo visto Bubbles gettarsi così dopo pochi minuti di conoscenza nelle braccia di qualcuno che non fossi io. Ero contentissimo per questo, davvero felice!
Le lasciai lì per qualche istante, nel frattempo che io mi alzai per controllare il materiale fuori nel terrazzo. Per fortuna nessuno poteva vederci, visto le tende di seta di lino messe in ogni colonna a coprire la visione, in tutte quelle gran file di balconi enormi. Controllai che tutto fosse come avevo chiesto e programmato, e ne fui soddisfatto.
Tutto era stato esaudito correttamente nei minimi dettagli... Ora dovevo aver bisogno solo dell’ospite d’onore.
Sfregandomi le mani agitato, portandole al viso, mi decisi a fare quello che dovevo compiere. Perciò, mi avvicinai a Sharon e Bubbles – quest’ultima si divertiva a toccarle il viso e i capelli ricci – e con un sorriso mi prestai a parlare.
«Vieni, Sharon, ti devo mostrare una cosa...», dissi porgendole la mano. Lei mi guardò curiosa, ancora di più sbigottita quando Bubbles all’improvviso si staccò dalle sue braccia e se ne andò silenziosamente verso la sua camera privata.
Bravissima Bubbles, mi complimentai con lei a mente, va tutto secondo i miei piani...
«Non so che diavolo stia per succedere, ma mi lascerò guidare dal mio istinto e da te, poiché mi fido», disse Sharon prendendo la mia mano. Sorrisi e, con una decisa pressione, la feci alzare fino ad arrivare a pochi centimetri dal mio.
Eravamo così poco distanti, le nostre labbra vicine di soli pochi soffi d’aria... Pensavo che sarei potuto morire in una situazione così, o peggio, arrendermi agli istinti, ma una lucidità assai impressionante in me mi disse che non dovevo. O almeno, non in quel momento.
«Ora, chiudi gli occhi...», dissi in un soffio. La vidi emanare un respiro soffocato, poi spostando il suo sguardo le venne da ridere imbarazzata. Mi voltai verso la direzione che indicavano i suoi occhi, confuso. Poco dopo soffocai anche io una risata. Era Bubbles, la quale ci osservava dallo stipite della porta con occhi curiosi e silenziosi.
«Bubbles...», dissi io con tono di rimprovero. Lei se ne andò in uno scatto velocissimo, chiudendo la porta. Riportai il mio sguardo su Sharon, che fece lo stesso, bagnando il mio labbro inferiore in modo rapido e conciso. Ero in ansia.
«Aspetta un momento... Ehm, chiudi gli occhi intanto», continuai andando a prendere in camera l’unica cosa che potesse sembrare ad un fazzoletto, lanciando un fugace sguardo sardonico su Bubbles che stava appoggiata alla porta, con occhi in continuo vagare fra me e Sharon. Uscito, aspettai che Bubbles chiudesse la porta.
Vidi Sharon ancora con occhi chiusi, con lieve sorriso sulle labbra, e le legai il fazzoletto in viso per coprirle la visione. Stette per dire qualcosa, ma io con un sussurro leggero sull’orecchio la bloccai in un batter d’occhio.
«Shh... Non dire niente per ora... Adesso fatti guidare da me...», dissi tenendola per le spalle, facendole fare qualche piccolo passo in avanti. «Ti fidi di me, vero?»
Lei soffocò una risata ironica. «Come non potrei, dopo che mi hai dato prova della tua parola questo pomeriggio in piscina?»
Risi piano, e alla fine un passo alla volta la portai fin fuori dalle vetrate coperte che davano alla loggia. «Ferma qui, un secondo», dissi avvicinandomi ad uno stereo appoggiato a terra vicino a una delle colonne bianche.
«Michael?», mi chiamò lei intanto che io sistemai delicatamente un Cd nel lettore. Mi voltai a risponderle.
«Sono qui, tranquilla...», le dissi, e solo allora la vidi rilassarsi da una posizione irrigidita. Si toccava la seta del vestito, cercando di capire dove fosse e cosa stesse per accedere.
Finalmente la musica, quando schiacciai il tasto “Play”, cominciò a risuonare nell’aria, candida e leggera. Subito alle prime note Sharon capì chi fosse, e subito si aprì in un sorriso felice.
«Frank Sinatra... E’ un mito... Come hai fatto a...?», chiese immediatamente. Io sorrisi soddisfatto, con espressione furba e divertita.
«A capire che fosse il cantante giusto per questa serata? Be’, ho visto quel giorno a casa tua molti Cd suoi, ho pensato che ti piacesse davvero molto per avere una collezione così ben intatta...»
«Lui è uno dei miei cantanti preferiti... Da piccola me ne ero perfino innamorata...», disse con un sospiro imbarazzato.
«Allora è adatto ad una occasione del genere...», dissi mettendomi di fronte a lei, dopo aver soffocato una lieve risata, la quale aveva ancora il fazzoletto a coprirle la vista. Sharon mostrò uno sguardo esitante spiccare da quel suo volto caffè latte.
«Michael, mi fai paura... Qual è l’altra sorpresa per questa lunga giornata?», disse con mezzo sorriso. Con altrettanta espressione, con un gesto rapido e teatrale le tolsi la benda.
«Questa», dissi spostandomi dalla sua visione. Subito i suoi occhi assunsero un’aria al di là di ogni semplice stupefazione del momento. «E’ questa la sorpresa...»
Il loggione era completamente illuminato di candele, poche ma belle luminose. La notte scura ormai raggiunta riusciva ad oscurare per quel poco di più la visita di qualche occhio curioso ed indiscreto, oltre alle tende di lino nero svolazzanti a coprire ogni angolo del balcone, attaccate elegantemente sulle colonne. Un tavolo in mezzo, con un candelabro a tre candele in mezzo, era già bandito con la cena di quella giornata.
Sharon si portò lentamente le mani a coprirsi il viso, emozionata a tal punto da commuoversi. «Non ci posso credere... Tu hai fatto tutto questo...? Per me?», chiese con voce rotta da quella smisurata felicità che provava.
Io annuii, ma non appena feci per dire qualcosa sentii una stretta calda avvolgermi. Sharon mi stava abbracciando. Stava abbracciando me...
Non mi fidavo delle donne; molte situazioni in passato mi avevano fatto avere un senso di diffidenza verso loro, ma con lei era totalmente diverso. Non riuscivo nemmeno io a capire come mai avesse quell’effetto su me. Io ero timido, ma con lei sembrava riuscissi ad acquistare il coraggio per farmi avanti. Mai avevo fatto qualcosa di mia iniziativa – prendere per mano una ragazza, abbracciarla, ecc. – e con Sharon tutto sembrava possibile. Assieme a lei niente era impossibile, niente era prevedibile, soprattutto le mie reazioni.
Sentivo il cuore in petto martellarmi a ritmi irregolari e veloci, mentre con delicatezza ebbi l’istinto irrefrenabile di stringerla, sfiorando la pelle liscia e sensibile della sua schiena mezza libera. Dio... Mi sentivo avvinghiare dal desiderio...
Sentivo l’odore di pulito della sua pelle attraversarmi dentro, cosicché riducesse ogni poro del mio corpo in fibrillazione. I suoi capelli ricci e ribelli erano così belli da accarezzare, da toccare... Lei era magnifica. Come nessun altro prima lo era stato per me quanto lei.
Neanche tanto quanto Tatum, né Brooke, né nessun’altra donna che nella mia vita avessi mai abbracciato, fuorché mia madre. Mia madre però era una cosa totalmente diversa – era la mia mamma! – ma Sharon era così caratteristica già anche nel modo in cui ti sfiorava... Se avessi potuto, l’avrei riconosciuta anche fra milioni di persone diverse.
Forse ero solo io che ero così infatuato del suo fascino, ma non la pensavo così. Bastava vedere con quali occhi ricolmi di desiderio un uomo la osservasse; avevo notato questa cosa da subito, da quando aveva ballato al bar quella notte, la stessa in cui era comparso suo padre.
«Grazie Michael», mi disse sottovoce, con voce quasi inudibile a orecchio umano. Docili, ci allontanammo da quel abbraccio, guardando lo specchio di ognuno negl’occhi dell’altro. Era così graziosa, così soave... Non era umana.
Rimasi ad osservarla, inerme, senza parole sufficienti da dire, troppo impotente alla sua presenza. L’unica cosa che riuscimmo a fare entrambi fu sorridere, e fu allora che, sempre in silenzio, le presi la mano e la accompagnai a sedersi in una sedia del tavolo, accompagnati solo dalla bassa musica. Le note di “Angel Eyes” era già abbastanza per colmare i nostri sguardi silenziosi e carichi di sentimenti profondi non detti.
Neanche facemmo tempo per prendere un boccone, che d’improvviso ci accorgemmo degli schiamazzi di alcune persone. Alcuni erano urli dalle stanze vicine – forse meglio dire fischi d’incoraggiamento – e altri erano gli urli dei miei fan dal piano terra.
Io e Sharon ci guardammo ad occhi spalancati, per poi scoppiare a ridere imbarazzati. Non era possibile... Proprio nel più bello di tutte le situazioni dovevano interrompere?
«Mi sa che mangeremo a mezzanotte se continuiamo così...», disse Sharon sdrammatizzando l’inconveniente. Dopo una breve risata di entrambi – carica per lo più d’imbarazzo – lei mi guardò. «Vuoi dare un saluto ai tuoi fan? Aspettano che tu li saluti credo...»
«Non capisco come abbiano fatto a capire che, fra tutte le logge coperte che ci sono in questo hotel, abbiano riconosciuto quella mia...», dissi con tono sardonico.
«Istinto, Michael. I fan se la sentono dentro questo genere di cose», disse gettandomi un’occhiata piena di sottointesi.
Risposi a quello sguardo furbo con altrettanta furbizia. «Sembri quasi un’esperta, da come parli...» Lei rise. «Be’, certo, tutti almeno una volta nella vita abbiamo ammirato qualcuno...»
«E chi sarebbe?», chiesi curioso, appoggiando i gomiti al tavolo. Lei ammiccò un’occhiata ridente.
«Vuoi nomi e cognomi? La maggior parte dovresti saperli... Ehm... Whitney Houston, U2, Barbra Streisand… Tu...»
«Eri anche una mia fan?», chiesi interessato, nonostante sapessi già in fondo la risposta – non avevo dimenticato quel giorno a casa sua, alla vista dei miei album risalenti perfino ai Jackson 5 - mentre lei mi rivolse una smorfia divertita.
«Anche, e lo sono ancora... Diciamo di sì...», dopo una pausa, guardò verso le tende di lino del terrazzo. «Forse è meglio che li cerchi di placare un po’, altrimenti andranno avanti tutta la notte...»
«Ben detto», dissi io alzandomi scattante dalla sedia. Mi dispiaceva per i fan, ma non volevo sprecare nemmeno un secondo di quella mia serata con Sharon. Anche perché, di sicuro, non sarebbe stata la prima notte a cui sarebbero venuti ai piedi dell’hotel.
Mi diressi verso la sala, alla ricerca di carta e penna, poi sentii bussare alla porta della stanza. Sbuffai spazientito e andai ad aprire. Ovviamente, era Frank e due altri membri dello staff. Il mio umore si ritrasformò, e il ricordo di quasi una mezz’ora prima divenne chiaro come l’acqua.
Dio... Non in quel momento! Non ora!, urlai spazientito nella mia testa. Fortunatamente, Sharon non si accorse della loro presenza – o forse aveva fatto finta di niente e basta -, frattanto che si apprestava a guardare con discrezione fuori dal terrazzo, attenta a non farsi vedere dai fan.
«Michael, meglio che tu faccia qualcosa per calmare i bollori dei tuoi fan, altrimenti andranno avanti tutta la notte», disse Frank con voce bassa, non appena entrò all’interno della suite.
«Non ti preoccupare, ci penso io... », risposi cercando di chiudere il discorso e di affrettarmi a mandarli fuori di lì. «Avete per caso carta e penna? Scrivo un messaggio per loro, così almeno forse li posso calmare...»
Uno dei tre del mio staff si apprese a chiamare un inserviente fuori dalla porta, per chiedere quello che avevo domandato, ma subito lo bloccai. «Fa niente, non ti preoccupare... La prossima volta che verranno...»
«Sei di fretta, Michael?», disse Frank lanciandomi uno sguardo indagatore. Io ricambiai con lieve freddezza, per poi svoltare i miei occhi verso gli altri due collaboratori che mi guardavano ad occhi ben attenti e curiosi.
Non avevo voglia di dirgli che Sharon era con me, e non perché avevo paura dei loro giudizi; non volevo possedessero inutili pregiudizi su lei, che non se li meritava affatto! La cosa doveva essere privata, se avrei parlato avrei soltanto finito per mandare a monte tutta la mia serata organizzata bella e perfetta!
«Mi arrangio io per questa situazione; mi farò vedere alla loggia, li saluterò, e dopo vedrete che si calmeranno... In passato si tranquillizzavano sempre in quel modo, e di sicuro dopo quel gesto decideranno di tornare a casa...», dissi con agitazione irrequieta. I due annuirono, Frank continuò a fissarmi accuratamente. Io lo fissai impassibile.
«Be’, forse meglio andare. Michael ha ragione...», disse uno dei due, alla destra di Frank, dopo pochi minuti di silenzio. Gli altri annuirono e alla fine se ne andarono. Sbuffai irritato, con le mani suoi fianchi, e solo una volta che mi voltai vidi Sharon osservarmi dalle vetrate.
«Stanno diventando sempre più irrequieti, lo sai?», disse, chiaro e pieno riferimento ai fan. Accennai ad un sorriso stanco, essendole grato che non avesse tirato fuori argomento “Frank & Co.”, benché ero sicuro li avesse visti e sentiti. Con passo veloce mi ritrovai di nuovo accanto a lei e, sempre più sbrigativo, mi portai fuori da una delle tende di lino nero per salutare i fan.
Odiavo andare in tour, ma mi piaceva salutare i miei fan e stare a contatto con loro. In quel caso, però, avevano interrotto un’occasione importante, ma dopotutto non era colpa loro... Nessuno di loro si sarebbe immaginato che con me ci fosse Sharon, e tanto per essere precisi non potevano sapere neanche chi fosse.
Non appena mi portai alla loro visione un coro di urli si fece più alto, e sorridendo li salutai ancora di più con un cenno della mia mano. Vari residenti delle suite si erano prestati a vedere la situazione, anche quelli che come me avevano avuto l’idea di mettere le tende di lino a coprire la visuale da sguardi indiscreti.
Dopo quasi mezzo minuto di saluti, scomparvi nuovamente dietro la tenda.
Sharon mi guardò sorridente, che io ricambiai con occhi pieni di scuse. «Scusa, ora possiamo proseguire con la cena...»
Lei scosse la testa, lanciandomi un’occhiata rassicurante. «Non ti preoccupare, hai fatto bene a salutare le persone che ti amano, anche se solo per un secondo...»
Detti un buffetto tenero sulle guance di Sharon, dandole un bacio in una tempia. Lasciai scorrere lentamente il brivido a quel contatto delle mie labbra sulle sue pelle in modo da potermelo gustare con ogni mio senso del corpo... Com’era dolce la mia Sharon...
Grazie a lei, forse, i miei tour sarebbe stati meno vissuti in solitudine, o meglio... Forse la mia intera vita...
Quando ci sedemmo nel piccolo tavolo tondeggiante, in posizione uno di fronte all’altro, a qualche metro dalla balconata che dava al piano terra, ebbi un forte istinto che non seppi contenere. D’improvviso sentivo il gran bisogno di voler sapere ogni dettaglio della sua vita; per tutto quel tempo, sapevo solo di quanto aveva fatto suo padre su di lei e sua madre e che era sempre stata sola. Io volevo sapere tutto.
Per nostra fortuna – o più per la sua – delle vellutate tende svolazzanti di sera rendevano l’ambiente più privato cosicché non potesse sentirsi imbarazzata...
«Dai, dimmi tutto», dissi, neanche dopo due bocconi di pasto ingeriti, nel frattempo che Sharon mi fissò curiosa e stranita.
La guardai con uno sguardo attento e in attesa di una sua risposta, o domanda.
maria0881
00lunedì 20 giugno 2011 18:36
FANTASTICO!
Frank mi sta antipatico,impiccione >.<
Bravo Mike che lo lascia perdere.
Sono morta dalle risate nella parte della piscina,quando Sharon faceva pensieri "hot" su Mike.
Bellissimo continua!!
maria0881
00martedì 21 giugno 2011 12:52
Tu..La tua FF è UNICA
BELLISSIMA,DOLCE,SENSIBILE E-M-O-Z-I-O-N-A-N-T-E
L'ho trovata nell'altro forum presente nella tua firma. L'ho letta.
Giuro,l'ultimo capitolo mi sta facendo piangere,è pieno di emozioni.
Come si chiama la melodia che hai usato nell'epilogo?
Ti prego devo saperlo! è bellissima,come bellissima l'FF.
Ci sarà una continua?
Fammi sapere presto
Ti voglio bene
Dayna87
00mercoledì 22 giugno 2011 07:57
Ciao tati! [SM=g27822]
La storia è bellissima e loro due sono un amore insieme ,continuala per favore.[SM=g27828]L'avevo letta tempo fa in un altro sito credo il EFP,anche lì sono rimasta incantata dalla tua bravura.Sono felice che tu ti sia decisa a finirla [SM=g27835] Bye Bye!! [SM=x47938]
tati-a4ever
00mercoledì 22 giugno 2011 15:53
Re:
maria0881, 20/06/2011 18.36:

FANTASTICO!
Frank mi sta antipatico,impiccione >.<
Bravo Mike che lo lascia perdere.
Sono morta dalle risate nella parte della piscina,quando Sharon faceva pensieri "hot" su Mike.
Bellissimo continua!!



maria0881, 21/06/2011 12.52:

Tu..La tua FF è UNICA
BELLISSIMA,DOLCE,SENSIBILE E-M-O-Z-I-O-N-A-N-T-E
L'ho trovata nell'altro forum presente nella tua firma. L'ho letta.
Giuro,l'ultimo capitolo mi sta facendo piangere,è pieno di emozioni.
Come si chiama la melodia che hai usato nell'epilogo?
Ti prego devo saperlo! è bellissima,come bellissima l'FF.
Ci sarà una continua?
Fammi sapere presto
Ti voglio bene




Mio Dio, Maria... mi hai commosso [SM=x47964]
Non credevo che potesse piacere fino a questo punto... non ci posso credere... e sì, un giorno farò la continuazione. Ho già tutto in mente, ma prima devo pensare a The Wish. e a tutte le altre che ho lasciato un po' ''da parte''.
Ho visto anche che si sei iscritta, più o meno... ti ringrazio! [SM=x47963]
Ti dirò stasera come si chiama la melodia, quando avrò completamente spostato la storia anche qui! Non ti preoccupare [SM=g27822]
Ti voglio bene anche io [SM=x47938] [SM=x47928]

Dayna87, 22/06/2011 07.57:

Ciao tati! [SM=g27822]
La storia è bellissima e loro due sono un amore insieme ,continuala per favore.[SM=g27828]L'avevo letta tempo fa in un altro sito credo il EFP,anche lì sono rimasta incantata dalla tua bravura.Sono felice che tu ti sia decisa a finirla [SM=g27835] Bye Bye!! [SM=x47938]



Grazie Dayna, vedrai che la sposterò presto completa [SM=g27824]
Grazie anche a te per essermi accanto, non so come farei senza tutto questo appoggio... ti ringrazio di cuore! [SM=x47938] [SM=g27838]
maria0881
00mercoledì 22 giugno 2011 17:01
Ho terminato l'iscrizione.
Non mi arrivava l'e-mail di conferma! ahahah :D
Ora ci sono =)
Fammi sapere presto :)
Ti voglio bene
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