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La Boemia di Dvorák con colore e ironia

Ultimo Aggiornamento: 26/02/2008 14:31
26/02/2008 14:31
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PUBBLICO DISCRETAMENTE NUMEROSO E MOLTI APPLAUSI PER LA SERATA AL TEATRO COMUNALE CITTÀ DI VICENZA


La Boemia di Dvorák con colore e ironia


Cesare Galla
VICENZA
La serata-Dvorák con l'Orchestra del Teatro Olimpico non era soltanto, come poteva fare intendere il suo titolo (“La grande tradizione slava") una finestra sulla musica “nazionale " nella seconda metà dell'Ottocento. Essa offriva invece - nella netta divisione del programma - un'interessante prospettiva sulla complessità delle istanze creative dell'autore boemo, che non cessò mai di guardare a Occidente (e ai paesi tedeschi in particolare) e di perseguire un ideale romantico “puro", alla Brahms, anche se non ripudiò mai, e anzi fervidamente continuò a coltivare il legame con le forme e le melodie della sua terra.
Nella prima parte del concerto campeggiava la Settima Sinfonia, ambizioso affresco dalla tinte scure, drammatiche (come postulato del resto dalla tonalità di Re minore), a pieno diritto espressione della gloriosa tradizione che negli ultimi anni dell'Ottocento aveva il suo campione in Brahms (e il suo “outsider" nel più appartato Bruckner). Qui Dvorák si misura con la forma e con la scrittura orchestrale “pure", elaborando un linguaggio denso, quasi magmatico, pur senza rinunciare a una delle sue più tipiche prerogative, quella dell'inventiva melodica.
Nella seconda parte della serata si è passati a un mondo più tipicamente popolare ed “etnico", contesto che del resto era oggetto dell'attenzione di molti autori anche non “nazionali" a quell'epoca, secondo un approccio di curiosità non certo “filologica" (si pensi alle Danze Ungheresi brahmsiane). Naturalmente Dvorák aveva in questo campo il vantaggio di “giocare in casa". Le sue Danze Slave sono vivaci piccoli bozzetti evocativi, “aggiustati" quanto basta per non perdere il loro carattere esotico pur smussandone le più ardite peculiarità linguistiche (che solo il primo Novecento s'incaricherà di illuminare senza “trucchi"). E sono soprattutto piccoli capolavori di scrittura per orchestra (successiva all'originale stesura pianistica) che offrono una tavolozza mutevole e ricca di particolari preziosi, in un incessante gioco di intarsi fra i timbri degli archi, dei legni, degli ottoni, anche delle percussioni.
Per un'orchestra, un delicato banco di prova. La Oto lo ha risolto con scioltezza ed efficacia, mettendo in vetrina la precisione delle parti e l'omogeneità dell'insieme, sotto la bacchetta attenta e precisa di Daniele Agiman. Una lettura distesa e sorridente, quella del direttore milanese, ben articolata nel fraseggio e nelle dinamiche; tempi stagliati, grande duttilità negli insieme, ottimo risalto per le linee interne dei gruppi strumentali e per le uscite “a solo". Non altrettanto rivelatrice era parsa, nella prima parte, la lettura della Settima Sinfonia, che è stata proposta sì con la tinta giusta (e gli archi della Oto, in tutte le tessiture, si sono proposti con adeguato smalto), ma con scelta di tempi un po' allentata e con un generale senso di pesantezza che non è servito a definire la drammaticità dell'insieme ma ha finito piuttosto per dare il senso di una uniformità macchinosa, poco attenta alle sottigliezze melodiche e allo scatto espressivo.
Pubblico discretamente numeroso, con molti giovani e giovanissimi, giustamente invitati a prendere contatto con il grande repertorio sinfonico in un vero teatro. Successo vivissimo, bis con una Danza.

da: www.ilgiornaledivicenza.it/



vanni
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