00 07/01/2012 23:16
La storia prosegue ...
CAPITOLO 7

-Mi mancherai tantissimo. – sussurrò Michael, stringendomi forte a sé e cullandomi per qualche istante.
-Anche tu. Sii felice. – risposi, in un soffio, ricacciando indietro le lacrime che stavano per affiorare. Il mio non era solo un augurio: era una raccomandazione, una necessità. Non avrei potuto vivere così lontano da lui sapendolo triste o preoccupato. Doveva promettermi che avrebbe cercato di raggiungere quel minimo di serenità che gli era concessa.
-Tu guarisci. – mormorò al mio orecchio, sfiorandomi una guancia con la punta del naso e facendomi rabbrividire.
Ridacchiai, per spezzare quell’attimo drammatico e interrompendo l’abbraccio.
Michael mi posò le mani sulle spalle, come se mi stesse guardando per la prima volta. O per l’ultima. Quel gesto mi mise tristezza: fui costretta ad abbassare lo sguardo per nascondere gli occhi lucidi.
-Ti porterò a Neverland. – mi promise, d’un tratto, cogliendomi di sorpresa. Diceva sul serio? Era disposto a portarmi nel suo regno eterno? Apparentemente, sì.
Un pensiero mi offuscò la mente all’improvviso: avrei fatto in tempo a vedere con i miei occhi quell’angolo di paradiso che Michael aveva costruito e trasformato nel suo rifugio felice?
Lo fissai, in cerca delle parole giuste per dirgli ciò che sentivo di non poter tacere, per esprimere in qualche modo il turbamento che mi sconvolgeva i pensieri. Per dirgli addio per sempre. Perché, lo sapevo, la leucemia mi avrebbe condotta alla morte: quando i dottori me l’avevano ripetuto più volte, con la spietatezza e la freddezza negli occhi, di fronte ai loro numeri, alle loro statistiche, alle loro spiegazioni, di fronte alla scienza, mi ero rassegnata. Mi ero arresa già molto prima di iniziare a combattere. Di tanto in tanto mi stupivo ancora nell’osservare come il mondo intorno a me mutasse lentamente: ma quando guardavo un tramonto, o ammiravo un ciottolo in riva al mare, o vedevo un gabbiano sorvolare pigro la mia terra, sentivo di aver rinunciato. Perché, invece di trarre da ciò che mi circondava la forza per andare avanti, mi lasciavo semplicemente portare alla deriva da flutti violenti che percuotevano il mio corpo, tentando di smembrarmi, di farmi a pezzi. Avevo incassato in silenzio ogni colpo, senza nemmeno aver provato a reagire.
Ma ora che i secondi ticchettavano imperterriti e tediosi verso la fine, ricordandomi che il tempo rimasto a mia disposizione era scarso, sentivo la sete di vivere esplodermi nello stomaco, invadermi il petto e farsi strada lungo la gola.
Sapevo che non era merito della mia forza morale, né della mia famiglia: quelle non erano affatto cambiate rispetto a prima. Era stato Michael, ne ero certa. Con la sua vitalità, mi aveva strappata alla morte. Era come se mi avesse presa per mano e mi avesse mostrato con pazienza paterna quanto stupefacente ed interessante potesse essere la vita,di cui lui aveva forse conosciuto il lato peggiore, quello più doloroso e che ciononostante lui continuava ad amare.
Con Michael, mi sentivo importante e indispensabile.
Ma, essenzialmente, non era cambiato nulla.
Io forse ero diversa, ero tornata viva, ma la leucemia non era sparita: era ancora lì, non si sarebbe mai dissolta,anzi. Con il tempo sarebbe stato sempre peggio. Ne ero pienamente consapevole, lo ero stata fin dall’inizio, eppure fu come se lo avessi scoperto in quell’istante, perché solo in quel momento capii davvero che cosa avrei perso se me ne fossi andata per sempre.
-Michael, tu credi nel Paradiso? – gli chiesi dunque, senza osare guardarlo mentre gli ponevo la domanda: temevo che si sarebbe adirato con me. Mi invitava sempre ad essere ottimista: perciò si arrabbiava tanto quando toccavo l’argomento della mia morte imminente.
-Sono sicuro che esiste. – rispose con convinzione: nella sua voce non vi era alcuna traccia del rancore che avevo temuto di trovarvi.
-Perché questa certezza? – domandai, ora incuriosita.
Michael mi sollevò delicatamente il mento con un dito, per potermi guardare negli occhi.
-Perché esisti tu. – mormorò, con gli occhi gonfi di lacrime.
A quel punto lo abbracciai saltandogli al collo quasi con violenza e inzuppando di lacrime la sua bella camicia.
-Ma come può essere il Paradiso, se tutto ciò che amo, se tutto ciò a cui tengo lo lascio quaggiù? La mia famiglia, la danza e te … Perché sono costretta a perdere tutto questo? – gridai, con la voce rotta dal pianto. Mike mi accarezzava la schiena e sentivo che anche lui tratteneva a stento i singhiozzi.
Quando mi fui calmata lo pregai:
-Parlami di Neverland. Raccontamela … -
Se non potevo vederla, potevo sempre immaginarla, quasi ne conservassi un vivido ricordo da rievocare ogni qualvolta ne avessi sentita la necessità.
Le labbra di Michael dipinsero un sorriso sghembo mozzafiato sul suo volto.
Cominciò ed io, dimentica dell’ora, di Javier che mi aspettava fuori dall’albergo, dell’aereo che mi avrebbe portata a casa e che rischiavo di perdere, mi apprestai ad ascoltarlo.
-E’ verde e blu. Il cielo terso e perfetto si fonde con prati sconfinati e con boschetti che promettono frescura e sollievo dal caldo in estate. Ad ogni angolo vi sono giardini costellati di fiori che crescono spontanei, oppure circondati da roveti, arbusti o siepi ordinate. C’è uno zoo, con tanti animali. Le scimmie sono così buffe … E anche da lontano puoi scorgere la ruota panoramica e altre giostre, che si ergono quasi con arroganza verso l’alto, stagliandosi sul cielo lambito solo di tanto in tanto da qualche rara nuvola bianca, che quasi mai porta pioggia. La California è così assolata. -
Sospirò, perso nel lontano ricordo di casa sua.
E il cellulare squillò.
Michael lo avvicinò all’orecchio.
-Pronto?- chiese, titubante.
Qualcuno all’altro capo della cornetta parlò frettoloso. Mike annuì serio e riattaccò.
-Era tuo fratello. – mi spiegò, paziente. –Dovete sbrigarvi. L’aereo parte presto. Ha già chiamato un taxi. Ti sta aspettando.-



















Capitolo 8

-Non so come sia possibile … ma è così. Davvero. Tutti gli esami a cui ti sei sottoposta nel corso di questa settimana lo confermano. Il livello dei globuli bianchi nel tuo sangue è tornato normale e il tuo midollo è sano: sei guarita. Non c’è alcun bisogno di ulteriori accertamenti: la leucemia è scomparsa. Credo si tratti di una sorta di miracolo. Sarebbe difficile definirlo altrimenti. – mi ripeté per l’ennesima volta il dottor Torres.
Non lo ascoltai.
Non riuscivo a credergli. Non potevo farlo. Non potevo permettere alla speranza di radicarsi nel mio cuore, perché sapevo che ciò che il medico stava cercando di spiegarmi e che lui mi descriveva con tanta cura non poteva essere altro che un sogno evanescente. Quella non era la realtà. La leucemia non può sparire. Era assurdo. Rimasi a fissarlo apatica, indifferente, certa che si trattasse di uno scherzo di cattivo gusto.
Mia madre mi cinse le spalle con un braccio e mi scosse delicatamente, un poco ansiosa di fronte alla mia mancanza di reazioni.
-Hai sentito,cara? Sei guarita! È un miracolo! – mi sussurrò all’orecchio con voce gioiosa.
Ero molto più che confusa. Mi scrollai di dosso il braccio di mamma, che mi guardò allibita e turbata dalla mia improvvisa e apparentemente immotivata scontrosità. Cercai di riflettere, di trovare un senso a quel turbinio di voci, lacrime e volti che avevo intorno.
-Non è vero. – bofonchiai, infine, quasi per un riflesso automatico. La mia mente rifiutava di accettare quella situazione.
Il dottor Torres mi sorrise bonario e mi si fece vicino, con fare esperto.
-So che può essere difficile da comprendere, ma non avrei alcun motivo di mentirti. Stai bene. – disse, e nel farlo mi rivolse lo sguardo più convincente di cui era capace.
Fu allora che capii. Soffocai con un pugno il grido d’incredulità che si stava facendo strada attraverso la mia gola.
Javier mi corse incontro dall’altra parte della stanza e mi abbracciò stretta, baciandomi i capelli e bisbigliando parole incomprensibili. I miei genitori si tennero a distanza, ma i loro volti rimanevano distesi e sereni: sprizzavano felicità e gratitudine da tutti i pori.
Quando tornai a casa dall’ospedale, la prima cosa che feci fu chiamare Michael. In fondo, ero più che sicura che quella guarigione inspiegabile fosse, almeno in parte, merito suo.
Il telefono squillò un paio di volte, quando all’altro capo della cornetta rispose una voce profonda molto poco famigliare.
-Pronto? – domandò l’uomo, cauto. Aveva un accento strano e insolito.
-Sono Susan. Con chi parlo? – m’informai diffidente.
- Con Dieter Wiesner. –
Riflettei velocemente. Quel nome non mi era affatto nuovo. Mi pareva di averlo sentito pronunciare da Michael in una qualche occasione … Ma al momento non ricordavo.
-Posso aiutarla, signorina? – chiese cortese Dieter, riportandomi con i piedi per terra.
Scossi la testa per riordinare le idee.
-Dov’è Michael? – domandai con impazienza, utilizzando un tono autorevole che non sapevo di possedere.
-Al momento non è qui. Desidera lasciargli un messaggio? –
Dieter era terribilmente professionale. In quell’istante ricordai: Mike me l’aveva nominato un paio di volte.

“E’ molto più che efficiente. Penso che lo assumerò.” aveva detto un giorno, ridacchiando, durante la mia breve vacanza nel Brunei.
Forse non aveva scherzato, forse diceva sul serio. Ad ogni modo, non mi andava di intromettermi nei suoi affari nemmeno in quel momento.
-No, grazie. Dica solo che ho chiamato.- risposi.
-Ehm, sì, sì … -
Sentii Dieter tentennare.
-C’è qualcos’altro? – chiesi incuriosita dal cambiamento del suo tono di voce.
-In realtà è appena tornato. – confessò, dopo un po’, lievemente imbarazzato.
-Bhè, allora me lo passi. – lo esortai, perplessa.
L’uomo mugugnò qualcosa ma non si oppose. Dopo qualche minuto, udii la voce di Michael, più stanca e affaticata di come la ricordavo, ma comunque vellutata e dolcissima.
-Susan. – sospirò, sollevato. Forse attendeva una mia telefonata. Mi rimproverai tra me e me: avrei dovuto chiamarlo prima.
-Ti devo dire una cosa. – annunciai, con tono solenne, sebbene il suo tono avesse un poco smorzato il mio entusiasmo.
Rimase in silenzio, in attesa che proseguissi. Non era da lui, decisamente.
-Sono … sono guarita. – mormorai, ma nella mia voce non vi era traccia di alcuna emozione. Ero troppo preoccupata. Che cos’aveva Michael? Perché all’improvviso lo sentivo distante?
Era passata poco più che una settimana: possibile che i rapporti tra noi fossero mutati così velocemente?
Mike non rispose subito.
Dopo un paio di minuti, sussurrò piano il mio nome. Poi riattaccò.






Capitolo 9

Ripresi a frequentare le lezioni di danza di Mrs. Sullivan, perché erano l’unica cosa che m’impedisse davvero di rimuginare e ritornare con la mente a Michael e a quella telefonata.
Ma, sebbene mi obbligassi a tenere a bada i pensieri e a non rievocare con la memoria quei giorni trascorsi insieme a quello che avevo creduto, forse erroneamente,esser diventato il mio migliore amico, talvolta cedevo e cadevo in preda allo sconforto e al dolore.
L’abitudine e la speranza mi spingevano a controllare ogni giorno la posta e i messaggi in segreteria: m’illudevo che probabilmente avrebbe chiamato presto e che avremmo chiarito tutto.
Ma non fu così. Passarono le settimane, lente ed inesorabili. Non si fece più sentire.
Cercai di non farci caso: non era facile. Avevo bisogno di qualcosa che mi assorbisse completamente, anima e corpo; sentivo la necessità di distrarmi.
Ma ovunque fuggissi – alla scuola, in riva al mare, a casa di un’amica – il ricordo di lui non mi abbandonava. Il suo volto era pronto a far capolino tra i miei pensieri quando meno me l’aspettavo.
Stavo malissimo: le mie notti erano popolate da incubi.
Ero pienamente consapevole del fatto che il mio atteggiamento non fosse né maturo né tantomeno sensato: ciononostante, sentivo di non essere dotata di sufficiente autocontrollo per rimanere completamente indifferente di fronte a tutto ciò né di sufficiente tenacia per mantenere un minimo di decoro davanti alla mia famiglia e per decidere di andare avanti superando questo ostacolo.
Lessi da qualche parte – forse su una rivista di gossip – che Debbie aveva dato alla luce un maschio, Prince, il giorno 13 febbraio: Mike era diventato padre.
Quel giorno rimasi in attesa invano, seduta di fronte al telefono di casa, con lo sguardo sempre più vacuo man mano che passavano i minuti immersi nel silenzio. Avevo sperato inutilmente che almeno in quell’occasione mi avrebbe chiamato, forse per ripristinare quel rapporto di amicizia che si era stabilito fra noi, forse per mettergli fine una volta per tutte.
Javier, notando il mio sconforto, mi suggerì di provare a scrivergli una lettera, ma rifiutai a priori l’idea: ero troppo codarda per affrontare davvero Michael e, anche se non volevo ammetterlo di fronte a mio fratello, mi sentivo ferita nel profondo dal suo comportamento.
Nel 1998 Michael divenne padre per la seconda volta: sua figlia, Paris, era nata quel 3 aprile senza le stesse complicazioni riscontratesi con Prince.
Il 28 maggio compii diciotto anni. Due settimane dopo, con un’ audacia che mai avrei immaginato di avere e che, in realtà, mi si addiceva ben poco, me ne andai di casa, con grande disappunto dei miei genitori. Javier non si oppose né mostrò mai quale fosse la sua opinione al riguardo, ma in seguito ripensai al suo come ad un muto consenso, quasi condividesse la mia scelta e l’approvasse appieno ma non osasse pronunciarsi comunque.
Mrs. Sullivan, fiera di me e al settimo cielo, mi aveva fissato un provino per entrare ad una famosa accademia di danza americana. Ai miei genitori che chiedevano spiegazioni, raccontai che sarei andata lì.
Ma sapevo che non ci avrei mai messo piede.
Volevo solo andarmene, cambiare cielo, cambiare vita.
Desideravo cancellare le tracce che aveva lasciato su di me Michael, il cui vivido ricordo era ancora presente nella mia testa: sapevo che non sarebbe stato facile, ma lo sarebbe stato ancora meno continuare a vivere in quel modo.
Ma prima, prima di eliminarlo completamente dalla mia vita, prima di allontanarmi da lui una volta per tutte, volevo rivederlo.
Era assurdo, lo sapevo, oltre che incredibilmente masochista. Ma era l’unico modo che mi era rimasto per accertarmi che stesse bene.
Era strano come ciò mi toccasse ancora tanto: dopo il trattamento che mi aveva riservato, avrei dovuto essere arrabbiata, o quantomeno una sorta di istinto di sopravvivenza rimasto sepolto per anni chissà dove avrebbe dovuto spingermi lontano da Mike, verso altri orizzonti. Ma non era così che mi sentivo. Dopo tutto quello che mi aveva fatto (consciamente o meno) ciò che mi preoccupava ancora era che lui stesse bene. Sapevo che la chiave di tutto era in quel dettaglio. Ma quella chiave … che porte apriva?
Questa era la domanda che mi perseguitava ovunque andassi: persino quando toccai il suolo americano non potei fare a meno di chiedermi chi era Michael Jackson per me.
Un amico? No, molto di più, era ovvio. Forse il mio migliore amico. Plausibile. Ma non mi sembrava abbastanza per esprimere tutto l’affetto che provavo nei suoi confronti.
Di una cosa ero più che certa, però: le nostre vite ormai erano intrecciate in modo inevitabile. Non vi era alcun modo di dividerci senza arrecare danni a uno o all’altra.
Ma, se un po’ di dolore era la cosa peggiore che avrei dovuto sopportare quel giorno pur di ottenere delle risposte, l’avrei fatto.
Quando giunsi a New York, presi il primo volo diretto per Los Angeles. Non sapevo dove si trovasse Michael in quel momento, ma la California mi sembrava un buon punto di partenza da cui iniziare la mia ricerca.
Arrivata a Los Angeles, mi resi conto di aver quasi esaurito il mio budget. Rimpiansi di non aver portato con me più contanti, ma era troppo tardi per lamentarsi.
Fui costretta, dunque, a spostarmi verso l’interno del continente, sempre rimanendo,però, nel distretto di L.A. , per trovare un albergo più economico.
Lo trovai quando ormai l’orologio che portavo al polso segnava le nove meno un quarto. Era un edificio dalla struttura solida e compatta, alla periferia di una qualche cittadina della California al cui nome non avevo fatto caso. Si ergeva stipato tra due costruzioni decisamente molto più imponenti ed eleganti: il raffronto era quasi comico. Entrai.
Vi era una hall dal soffitto basso, quasi claustrofobica, arredata in modo decisamente insolito: non c’era un mobile che facesse il paio con un altro,ciononostante trasudava calore e famigliarità. Una scrivania d’acero era accostata a un bancone in noce e poco lontano vi era un tavolino basso e rotondo di produzione sicuramente industriale affiancato da sedie anonime e sgangherate, tutte di colore diverso. In un angolino era stata incastrata alla bell’e meglio una vecchia credenza color crema che ora era utilizzata come una libreria. Mi avvicinai ghignando tra me e me a una ragazza, probabilmente di origini messicane, che con aria annoiata attendeva dietro al bancone che finisse il suo turno.
Quando finalmente mi fu assegnata la camera – una stanzetta poco più grande di uno sgabuzzino molto capiente- disfai l’unico bagaglio che avevo ed estrassi il cellulare dalla tasca laterale dello zaino che avevo portato con me.
Dopo un sospiro, digitai sulla tastiera del mio decrepito telefono il numero che conoscevo a memoria, nonostante fossero passati mesi dall’ultima volta che l’avevo usato.
Attesi cinque minuti. Niente.
Misi giù e riprovai, lanciando di tanto in tanto un’imprecazione.
Al quarto tentativo, qualcuno ebbe il buon senso di rispondere.

-Pronto?-
Chiusi gli occhi. La sua voce era ancora più dolce di come la ricordassi.
-Ciao, Michael. – lo salutai, timida. Mi avrebbe chiuso la comunicazione in faccia? Come avrebbe giustificato il suo comportamento? Sarebbe stato in grado di mentire o mi avrebbe confessato la verità? E io … ero capace di perdonarlo o, qualora si rivelasse necessario, di lasciarlo andare?
-S-Su-Susie?!?! – balbettò il mio nome incredulo.
Riuscii a percepire la sorpresa in lui, ma non vi era traccia del rancore o della tensione che avevo temuto di incontrare.
Non era affatto ostile. Forse, da qualche parte, in lui, c’era ancora il mio Michael. Forse quella telefonata di quasi due anni prima non aveva più alcun significato. Magari non ne aveva mai avuto alcuno.
A quel pensiero mi si gonfiò il cuore di gioia, ma cercai di ricompormi il più velocemente possibile.
-Sono a Los Angeles. – mormorai, incerta. Ora che lo dicevo ad alta voce, quasi non potevo crederci. Ero a Los Angeles! Bhè, insomma, nei dintorni, perlomeno.
In realtà ignoravo in quale strano ed insignificante agglomerato urbano mi trovassi.
A Mike si bloccò il respiro: riuscii a sentirlo nonostante fossimo probabilmente a chilometri di distanza e sebbene la linea minacciasse, con gracchi e suoni metallici, di cadere da un momento all’altro.
-Sei qui? In America? – domandò, allibito, cercando di capacitarsene. Ero più vicina a lui di quanto immaginasse.
-Sono qui. – sussurrai dolcemente. Solo lui non riuscì a cogliere il doppio senso della frase.
-Ma perché? È successo qualcosa? – chiese allarmato.
Ma che cosa poteva importargliene? Fosse stato per lui, avrei potuto morire investita da un autobus, o buttandomi da uno scoglio: non lo sarebbe mai venuto a sapere. Mi aveva abbandonata a me stessa.
-No, affatto. Piuttosto, però, sarei io a doverti fare la stessa domanda.-
La mia determinazione lo colse alla sprovvista. Esitava.
-Susie, mi dispiace. – riuscì a mormorare dopo qualche istante.
Non potevo accontentarmi di quelle scuse, sebbene la tentazione di lasciar correre e dimenticare tutto fosse forte.
-Non ti aspetterai che io mi arrenda così dopo due anni di inspiegabile silenzio, vero? Voglio sapere. Ne ho il diritto. -
-E’ vero … - mi concesse lui ancora restio.
Il suo comportamento mi esasperava e rischiava di farmi saltare i nervi. Inspirai profondamente per cercare di mantenere la calma: urlargli contro non avrebbe affatto giovato al nostro già delicato rapporto d’amicizia.
-Bene. Pensavo t’importasse abbastanza di me per gioire del fatto che non sarei morta. Evidentemente non è così. – dissi, in un soffio, cercando di vincere il dolore che mi attanagliava da dentro. Michael non mi lasciò quasi finire la frase.
-No, no, Susie, ma che dici? Io ti voglio bene, davvero … è che … è colpa mia, vedi, non ti posso spiegare. Mi odieresti troppo. Ma non dipende da te! Sei la persona più importante della mia vita, lo sei diventata due anni fa e sempre lo sarai! -
Scossi il capo impercettibilmente, per impedire a quelle parole di radicarsi nel mio cuore. Non potevo credergli.
-Tu non hai idea di come mi sono sentita. – mormorai meccanicamente con una voce che sembrava non appartenermi.
-Lo so, credimi, è ciò che ho provato anche io.- mi assicurò. La sua voce si spezzava in punti strani. E da ognuna di queste fratture uscivano cascate di dolore che bussavano direttamente alla porta del mio cuore, mettendomi terribilmente in difficoltà: ma non potevo cedere.
-Esigo una spiegazione. – ripetei, determinata, ignorando le sue suppliche disperate.
-Non posso. – singhiozzò. Vacillavo: il mio intento iniziale stava scemando, sostituito da un sentimento di pena verso l’uomo che mi aveva sì ferita irreparabilmente, ma mi aveva anche aiutata a guarire. Ne ero certa: Mike mi aveva donato una vita nuova. Che lui fosse destinato a farne parte o meno, questa era un’altra storia.
Pensai che, forse, avrei dovuto essergli grata per avermi regalato una seconda possibilità: perché, ne ero più che certa, Michael, in qualche modo, mi aveva guarita. Forse era un angelo. Forse solo un uomo a conoscenza di qualche strano meccanismo psicologico per il quale la leucemia era scomparsa. Ad ogni modo, avrei dovuto essergli riconoscente. No?
Eppure avevo la strana sensazione che una vita senza di lui non potesse essere così piena da valer lo sforzo e la fatica di viverla tutta.
Perché mi aveva fatto questo? Perché aveva deciso di salvarmi per poi farmi precipitare di nuovo nelle tenebre?
-Michael … ti prego. – mormorai, piangendo, e non mi riferivo affatto alla conversazione di poco prima, o al male che mi aveva procurato, o al fatto che mi ero preposta, già prima di toccare il suolo americano, di cavargli di bocca qualche stralcio d’informazione o di giustificazione, per falsa che sarebbe potuta essere. Intendevo dire: “Michael, ti prego, resta con me.”
Avevo un disperato bisogno di lui. La necessità impellente di stringerlo forte a me e la constatazione che ciò non era al contempo possibile, mi distrussero. Mi lasciai crollare sul pavimento.
-Susie, stai bene? – domandò Michael preoccupato. Forse aveva capito che in realtà mi sentivo molto peggio di quanto dessi a vedere.
Ripresi il controllo di me stessa in pochi secondi, quel tanto che bastava a degnarlo di una risposta sensata.
-Come puoi farmi una domanda del genere? Sai come sto. – gli ricordai, severa. E la mia frase suonava come se sottintendessi che la causa di tutti i miei mali fosse lui.
-Finalmente stai bene.- mormorò. Sapevo che si riferiva alla leucemia e non al mio stato d’animo, ma la sua osservazione mi parve comunque fuori luogo: poco si addiceva a come in realtà mi sentivo dentro.
Cercai di ragionare.
-Forse. Forse, grazie a te o a un miracolo sono guarita. Sono viva. Ma non mi sono mai sentita più morta, più spenta e stanca di così. Perché non sono mai stata più sola di così. C’è il vuoto intorno a me,Michael. Mi hai abbandonata … Magari … magari, se ci vedessimo, uno di questi giorni … - cominciai ad ipotizzare e mi maledissi nella mia mente per quella manifestazione aperta e palese di nostalgia: perché non si trattava d’altro. Mi mancava terribilmente, più di quanto in realtà avrei gradito ammettere.
Ma era così, davvero. All’improvviso scoprii che il suo comportamento non aveva scatenato nessun effetto deterrente in me. Ero ugualmente ed inevitabilmente attratta da lui, come una figlia da un padre, una discepola da un maestro, un pianeta dal suo sole …
-E’ meglio di no,Susie. – rispose, pacato, freddo e distaccato.
Quel suo improvviso cinismo mi stupì, ferendomi e rendendomi di colpo dura.
-Bene. Anzi, perfetto. Hai ragione tu: perché dovrei rovinarmi un’esistenza per rincorrerti, come una povera e patetica stupida? Ho ancora tante cose da fare, tanti posti da vedere, molte persone da incontrare … Non voglio perdermi tutto questo. Non ne vale la pena, giusto? – dissi, acida, con tono volutamente sarcastico.
Michael non rispose. Lo sentivo respirare affannosamente all’altro capo della cornetta,come se quella conversazione l’avesse affaticato. E riattaccai.