LITTLE SUSIE © (in corso). Rating: verde

Versione Completa   Stampa   Cerca   Utenti   Iscriviti     Condividi : FacebookTwitter
Lily96jackson
00sabato 7 gennaio 2012 10:31
Link: http://www.facebook.com/pages/MJ4ever/130325460375796?sk=notes
Capitolo 1


Era il 9 dicembre 1996. Sdraiata su uno scomodo letto di un ospedale di Manila,con le cuffiette dell’MP3 nelle orecchie,guardavo inorridita il liquido biancastro contenuto in un sacchetto trasparente appeso ad una specie di gruccia di metallo farsi strada lungo un tubicino che terminava in un ago,infilato direttamente nel mio braccio.
Erano passate quasi cinque settimane da quando i dottori mi avevano diagnosticato una leucemia mieloide acuta,in realtà piuttosto rara nei giovani,in uno stadio ormai avanzato. Mi avevano ricoverata immediatamente,sottoponendomi a cicli regolari di chemioterapia,ma in cuor mio sapevo che sarebbe stato inutile. Era come se fossi già morta.
Il mio fratello gemello Javier mi fissava terrorizzato dalla parte opposta della stanza,con la schiena appoggiata allo stipite della porta. Non osava nemmeno avvicinarsi.
Nei suoi occhi leggevo lo stesso dolore che riempiva i miei ormai da giorni. Ricordo che gli sorrisi per tranquillizzarlo. Gli volevo bene. E lui ne voleva a me. Ero pienamente cosciente del fatto che,se i miei genitori gliel’avessero permesso,si sarebbe immediatamente sottoposto ad un prelievo di midollo per salvarmi. La chemio non poteva tenermi in vita,ma un trapianto midollare sì. I nostri midolli ossei avevano una compatibilità di sei su sei. Non c’era alcun rischio per me,dunque,di contrarre la G.V.H.
Ma i miei genitori ,entrambi mezzosangue spagnoli,tutti e due ferventi cattolici,si erano opposti all’idea sin dal principio: in realtà, non avevano mai riposto troppa fiducia nella medicina e nella scienza in generale, che ritenevano un “affronto a Dio onnipotente”. L’uomo non doveva nemmeno osare elevarsi al livello del Padre: solo lui era in grado di stabilire le sorti delle sue creature. Inoltre, sebbene si rifiutassero di ammetterlo e nonostante la scienza dimostrasse il contrario, temevano che la malattia fosse contagiosa e che Javier avrebbe potuto contrarla. Erano molto superstiziosi a riguardo e il loro atteggiamento poteva anche venir considerato stupido e denotazione d’ignoranza, ma nulla poteva far cambiare loro idea.
-Il Signore ti sta mettendo alla prova,Susie. Devi essere forte. L’Altissimo ti salverà. – continuava a ripetermi la mamma,accarezzandomi la fronte madida di sudore.
Mio padre e mia madre mi amavano moltissimo e ovviamente non desideravano la mia morte: semplicemente credevano che il Padre avesse un piano per ognuno di noi e che nessuno dovesse interferire con esso. Bloccai qui il flusso dei miei pensieri,prima che divenissero troppo penosi per me.
In quel mentre nostro cugino Phil si precipitò all’interno della stanza e,visibilmente eccitato,sussurrò qualcosa all’orecchio di Javier accompagnando alle parole ampi gesti delle mani.
Mio fratello ascoltò attentamente,dopodiché sgranò gli occhi incredulo e sorrise.
-Cosa succede? – domandai,perplessa,fermando la musica dell’MP3. Riconoscevo quella luce negli occhi di Javier e quel suo sorriso furbesco: aveva in mente qualcosa.
-Non preoccuparti. Ehm … Io e Phil ... andiamo giù al primo piano a prendere qualcosa da bere. Torno subito. – mi promise.
Ero troppo stanca per indagare,quindi semplicemente chiusi gli occhi e strinsi i denti per combattere la nausea causata dai medicinali somministratimi.
Probabilmente mi addormentai,perché la prima cosa che percepii dopo quella breve conversazione furono le dita fredde e delicate di qualcuno che percorrevano leggere il profilo del mio viso,dalla tempia fino al mento.
Mi stropicciai gli occhi e sbadigliai. Avevo la vista ancora appannata dal sonno,ma riuscii a scorgere accanto al mio letto una figura scura,decisamente poco familiare. Socchiusi gli occhi,cercando di mettere a fuoco la persona che mi sorrideva,timida …
-Oh mio Dio! – gridai,sbalordita,mettendomi a sedere immediatamente e facendo cadere a terra l’MP3. Per qualche secondo,mentre il sangue rifluiva,mi girò la testa.
-Perdonami. Non avevo intenzione di spaventarti. – si scusò Michael Jackson,mentre giocherellava con le dita della mia mano.
Non riuscivo a spostare lo sguardo dal suo viso,così pallido e perfetto. I suoi tratti delicati non sembravano umani … Erano alieni,diversi e … bellissimi. Studiai il suo volto,contemplandolo a lungo, e mi piacque molto.
Javier si accostò a noi e mi spiegò:
-Phil mi aveva detto che Michael Jackson stava visitando l’ospedale,così ho pensato che ti sarebbe piaciuto incontrarlo. Non è stato facile avvicinarlo,ma n’è valsa la pena. –
Michael aggiunse,ridacchiando:
-Non ho mai visto un ragazzino tanto determinato quanto tuo fratello,Susie. Si è fatto largo tra la folla … Per un momento,le mie guardie del corpo hanno temuto che volesse assalirmi! –
Javier abbassò lo sguardo e arrossì,imbarazzato.
-Ehm … Vi lascio un po’ soli. – farfugliò,dopo qualche secondo.
Lo seguii con gli occhi finchè non richiuse la porta dietro di sé. In quel mentre capii che mi stava regalando l’istante più bello della mia breve vita: pochi ma preziosi minuti con il mio idolo.
-Ti vuole molto bene. – osservò Michael. Sospirai. I nostri pensieri erano sulla stessa lunghezza d’onda.
Si chinò per raccogliere l’MP3 che avevo fatto cadere prima. Invece di porgermelo,infilò una delle due cuffiette,ascoltando la musica assorto nelle sue riflessioni. Sorrise.
-You are not alone. La mia canzone. – mormorò compiaciuto e prese a canticchiarla tra sé e sé. Mi sentivo a disagio: non sapevo come comportarmi.
-E’ la mia preferita. – ammisi a bassa voce.
-Perché? – domandò lui,improvvisamente animato,sollevando il capo per potermi guardare negli occhi.
La mia mente si svuotò. Scrollai la testa per riordinare le idee.
-Ehm … non c’è un motivo preciso. – mentii,stringendomi nelle spalle,ma Michael non se la bevve.
-Secondo me sì. – sentenziò.
Arrossii violentemente. Imbarazzante.
-Ti vergogni?- mi chiese,perplesso.
Feci cenno di no con il capo.
-Allora,per favore,raccontami la storia di questa canzone … Perché ti piace tanto? –ripeté. Si sedette dolcemente sul bordo del letto,attento a non urtarmi e mi sorrise,incoraggiandomi. I suoi occhi neri ardevano di curiosità. Come resistere ad una così dolce supplica?
Feci un respiro profondo,poi lasciai che le parole sgorgassero in un flusso di verità:
-Penso sia molto rassicurante sapere di non essere soli nelle difficoltà che s’incontrano nel corso di una vita,breve o lunga che sia. Ci sarà sempre qualcuno al nostro fianco a sostenerci e a guidarci. Esistono momenti in cui ci sentiamo completamente abbandonati,situazioni che ci mettono a dura prova logorandoci e consumandoci. Ma c’è sempre qualcuno disposto a portare i nostri fardelli e questo è ciò che rende magica un’esistenza. Dobbiamo solo permettere a quel qualcuno di entrare nella nostra vita e ci porterà luce nei momenti più bui,ci terrà per mano lungo i sentieri più impervi … -
La mia voce si affievolì,sino a perdersi nel silenzio che riempiva la stanza. Chiusi gli occhi,concentrandomi per non cedere alla tentazione di piegarmi in due per il dolore lancinante allo stomaco.
-Ti senti bene? – mi domandò preoccupato Michael,scostando una ciocca dei miei lunghi capelli neri dalla fronte sudata e appiccicosa.
-Sì … Adesso passa. È solo la chemio. – sussurrai a denti stretti.
Odiavo l’idea che uno sconosciuto mi vedesse in quelle condizioni; a maggior ragione se quello sconosciuto era il Re del Pop.
Ma,nonostante l’avessi pregato più volte di andarsene,rimase con me stringendomi la mano e sussurrandomi all’orecchio le dolci parole della mia canzone preferita.
-Mi sembra che vada meglio. – osservò,più tranquillo.
Annuii. Il dolore era svanito cedendo il posto alla stanchezza.
Si alzò in piedi. Non era particolarmente alto,né tantomeno un uomo possente,eppure pareva circondato da un’aura impalpabile di solennità e regalità, tanto che si sarebbe distinto ovunque fosse andato anche se non fosse stato uno degli artisti più famosi del mondo.
-Ora devo andare. Sono davvero molto felice di averti conosciuto,Susan. Spero che ci rincontreremo presto.- mormorò,mentre le labbra si schiudevano appena sui denti bianchissimi sino a disegnare un sorriso angelico.
Si chinò su di me,baciandomi la fronte e accarezzandomi il braccio,dopodiché lasciò l’ospedale con la stessa velocità con cui era arrivato.








Capitolo 2



Fui dimessa due giorni dopo. Quando tornai a casa,ripresi subito a frequentare le lezioni di danza di Mrs. Sullivan,una simpatica e possente signora ormai sessantenne che si era trasferita da Chicago nelle Filippine solo tre anni prima.
Ero la sua allieva prediletta.
-Potresti farti ammettere alla Julliard,un giorno. – usava ripetermi,orgogliosa,mentre eseguivo con grazia gli esercizi alla sbarra.
Ballare in America era il sogno di una vita per me.
Lo accarezzavo dolcemente con il pensiero ogni notte,nel buio,immobile e familiare silenzio della mia camera,nel segreto del mio cuore,cosciente del fatto che se avessi osato rivelare ai miei genitori le mie ambizioni,mi avrebbero obbligata in casa. Credevano che una mezzosangue spagnola ignorante non sarebbe mai riuscita a trovare il suo posto nel mondo, il posto in cui brillare: pensavano dovessi semplicemente accontentarmi di sopravvivere,il che prevedeva sposarmi e procreare. Era una concezione assurda della vita, soprattutto considerando che ormai eravamo nel ventesimo secolo.
-Sei ancora troppo debole. Dovresti aspettare di riprenderti prima di ritornare a ballare.– mi ammonì Javier.
Alzai malvolentieri la testa dall’interessante romanzo che stavo leggendo sdraiata sul divano del nostro modesto salotto e fulminai mio fratello con lo sguardo.
-Sai che non ho più tempo. Io voglio vivere ancora. – mormorai.
Javier mi squadrò con apprensione, dopodiché mi si avvicinò e mi afferrò all’altezza delle spalle,scuotendomi leggermente avanti e indietro ma attento a non farmi male,come se fossi un oggetto troppo fragile tra le sue mani grandi e forti.
-La chemio funzionerà. Devi crederci. –
Ma persino nei suoi occhi leggevo il dubbio.
-Sai che non servirà a niente. – mugugnai,rassegnata.
-Ho bisogno di sperare nel contrario. – mi confessò,stringendomi improvvisamente a sé e abbracciandomi forte.
Mi cullò per qualche secondo,dopodiché si allontanò e mi scompigliò i capelli.
-Allora,cosa vuoi fare oggi? – mi chiese,obbligandosi a sorridere.
Sapevo che tentava in ogni modo di proteggermi,sforzandosi di non mostrarmi il dolore che provava quando mi guardava negli occhi e vi leggeva rassegnazione nei confronti di ciò che mi attendeva.
-Andiamo in spiaggia? – proposi,titubante.
In realtà farmi vedere in giro in quelle condizioni era proprio l’ultimo dei miei pensieri. Ma mi mancavano terribilmente quegli infuocati tramonti mozzafiato,quando il sole brillava basso,come se lottasse per non lasciare spazio alla notte e poi si spegneva immergendosi nel mare quieto e infinito in un’ultima,accecante esplosione di luce.
In quel mentre qualcuno bussò alla porta.
Javier andò ad aprire. Allungai il collo, cercando di capire chi fosse: non aspettavo visite. Sentii una voce profonda parlare sottovoce e velocemente, tanto che non riuscii a carpire una parola.
Dopo poco più di un minuto, mio fratello richiuse la porta dietro di sé e mi si avvicinò con una busta bianca in mano.
Studiai la sua espressione insolita e, per la prima volta, non seppi catalogarla.
Mi consegnò la busta e ordinò, con una voce da automa:
-Aprila. –
Obbedii. Mi aveva intimorita. Cosa poteva essere successo di tanto grave sulla soglia della porta, in così poco tempo, da averlo sconcertato in quel modo?
Estrassi da quella custodia di carta costosa e pesante due biglietti per un concerto. Li studiai meglio, avvicinandoli agli occhi.
-O mio Dio! – urlai di gioia, balzando in piedi sul divano e rischiando di rovesciarlo.
Javier mi guardò impassibile mentre correvo e saltavo euforica per tutta la stanza.
-O mio Dio, o mio Dio! Javier,guarda! Sono … sono due biglietti! Oh,non ci posso credere! Due biglietti per il concerto di Michael nel Brunei! –
Mio fratello raccolse la busta da terra e la esaminò, riluttante. Ne estrasse altri due biglietti, di un formato e di un colore diverso rispetto a quelli del concerto che stringevo nella mano, oltre ad una lettera destinata a me.
Quasi gliela strappai dalle mani, tanto ero elettrizzata. Ma c’era qualcosa che ancora non mi convinceva … Esitai prima di aprirla e di leggerla. Nessuno dei miei parenti o conoscenti era così ricco da potersi permettere di farmi un simile regalo. E come spiegare l’espressione di Javier?
-Okay … Cosa succede? – domandai, finalmente seria, facendo un respiro profondo per calmarmi e per cercare di essere razionale.
Mio fratello si strinse nelle spalle, ma non rispose.
-Chi era alla porta? –
Anche questa domanda si perse nel vuoto, rimanendo senza risposta.
-Javier! – gridai,spazientita, esigendo la sua attenzione. Perché m’ignorava?
Alzò le mani, sulla difensiva.
-Okay, siediti. –
Seguii il suo consiglio e mi accomodai sul pavimento duro e fresco del soggiorno.
Con la coda dell’occhio lo vidi sospirare ma non commentai.
-Era un uomo enorme, sulla quarantina. Sinceramente non l’ho mai visto in vita mia. Ha detto che doveva fare una consegna molto importante. E mi ha dato quella.– mi spiegò, indicando la busta ormai vuota, poi s’interruppe e si morse le labbra, come se non volesse proseguire.
-Da parte di chi? – m’informai.
Passò non poco tempo prima che si decidesse ad aprir bocca:
-Da parte di Michael Jackson. -
Mi ci volle qualche minuto perché il mio cervello assimilasse quelle parole impossibili e irreali.
Michael Jackson? Assurdo. Non mi conosceva. Come aveva ottenuto il mio indirizzo? Mi tornò in mente il nostro breve dialogo all’ospedale.
“Spero che ci rincontreremo presto.” aveva mormorato. Forse diceva sul serio … Mi sembrava incredibile. Troppo, troppo bello per essere vero.
-Stai attenta, Susie. –
L’ammonimento severo di mio fratello interruppe bruscamente le mie riflessioni.
-Attenta? – ripetei, incredula. Mi sembrò che non esistesse un aggettivo più fuori luogo in quel momento.
-Quello che voglio dire è che non devi montarti la testa e devi sempre stare all’erta. Sai ciò che si dice sul suo conto … - brontolò.
-Tutte cose false. – sibilai,riducendo gli occhi a due fessure. Dove voleva arrivare?
-Tu non puoi saperlo.- disse, a denti stretti. Non riuscivo a spiegarmi l’improvviso rancore di Javier nei confronti di Michael. Era assolutamente immotivato.
-Pensavo ti piacesse. È un brav’uomo. – osservai in un soffio.
-Tu non puoi saperlo. – ripeté.
Mi alzai in piedi di scatto, tremando per la collera repressa. Perché si comportava in quel modo?
-Nemmeno tu! Sei nella condizione più sbagliata per giudicare! Non devi nemmeno osare pronunciarti in merito a questo argomento! Chi sei tu per criticare? – sbraitai. Gli voltai le spalle e corsi verso la porta, furibonda. Esitai qualche secondo prima di aprirla, vedendo che non si era mosso di un centimetro. L’avevo ferito nel profondo: io e Javier non avevamo mai litigato prima d’allora. Ma non poteva pretendere di fare simili insinuazioni sul conto di una persona che non conosceva e che io ammiravo, pretendendo che non reagissi. Sbuffai e uscii.
Non avevo una meta precisa: volevo solo camminare un po’, per sbollire la rabbia. Il sole splendeva alto nel cielo con maestosità e arroganza, scaldandomi fin nelle ossa.
Era un piacere assaporare di nuovo la sensazione di tepore dei suoi raggi sulla mia pelle scura. Ora che stavo morendo sentivo la disperata necessità di godermi ogni aspetto della vita che prima avevo sempre dato per scontato.
Ogni sasso, ogni albero, ogni granello di sabbia sembrava aver assunto un significato diverso, più profondo, tanto che spesso rimanevo a contemplarli per ore ed ore, spinta da un’insaziabile sete di vivere e da un’irrefrenabile e nuova curiosità.
Finalmente giunsi alla scuola di danza di Mrs. Sullivan, un vecchio edificio di mattoni scuro, all’apparenza austero e poco invitante. Era completamente deserto: ciò gli conferiva un’insolita aria magica.
Non dovetti nemmeno forzare la serratura per entrare: la porta era aperta. D’altronde, cosa avrebbero potuto rubare? Le pareti erano spoglie, gli innumerevoli sgabuzzini (che spesso e volentieri fungevano da spogliatoi) erano vuoti, eccezion fatta per i bagni, alcune stanze del complesso cadevano addirittura a pezzi, tanto che ne era stato proibito l’accesso a tutti.
Era facile capire che quell’edificio esisteva da molto, troppo tempo e purtroppo nessuno poteva permettersi di finanziare personalmente un’operazione di restauro.
Riuscii ad intrufolarmi all’interno e, orientandomi fra i vari corridoi, gli sgabuzzini e alcune stanzette buie e polverose, giunsi nella sala centrale, l’unica che non facesse pensare a quel posto come ad una vecchia fabbrica abbandonata. Mi sedetti sul pavimento di legno solido e duro e inspirai, osservando per qualche istante la mia immagine riflessa nell’immenso specchio che rivestiva per intero la parete di fronte a me. La chemio e la malattia mi avevano indebolita e fiaccata. Fissai l’attenzione sui miei lunghi capelli spenti e ogni giorno sempre più deboli e radi: presto avrei dovuto tagliarli, separandomi dalla mia unica fonte di vanità ed orgoglio.
Trattenni a stento un gemito d’orrore che si era inconsapevolmente fatto strada lungo la mia gola. Sospirai ed aprii la lettera:

“Carissima Susie,
mi è rimasto impresso il ricordo del giorno in cui ti ho incontrata. La tua visione della vita mi ha molto colpito e toccato nel profondo: mi hai regalato pochi ma preziosi momenti durante i quali mi sono sentito onorato che mi fosse stata concessa la possibilità di conoscerti. Sei una brava ragazza. Molto intelligente e profonda. Ti prego, dunque, di accettare il mio umile regalo: so che non sarà mai in grado di eguagliare quello che mi hai donato,cioè un importante stralcio delle tue attente e meticolose riflessioni .
Suppongo tu non abbia mai partecipato ad un concerto. In tal caso, mi sentirò doppiamente felice se mi omaggerai con la tua presenza, perché sarò in grado di regalarti un’esperienza che ritengo indispensabile.
Credo che nessuno possa dichiararsi davvero felice e completo se non ha mai avuto l’occasione di accostarsi a qualcosa e di dedicarsi a questo qualcosa con tutto se stesso. Questo è il mio rapporto con la musica e con tutto ciò che è legato al suo mondo che,ormai da decenni,è diventato anche il mio mondo. Nella busta che ti è stata consegnata troverai, oltre ai due tagliandi che ti consentiranno l’ingresso al concerto, anche due biglietti aerei (andata e ritorno) già pagati. Per quanto riguarda i tuoi genitori, non hanno di che preoccuparsi. Uno di loro può tranquillamente usufruire del secondo biglietto, anche se immagino che Javier non vorrà certo perdersi un’occasione del genere ed insisterà affinché quel biglietto venga prontamente destinato a lui. Nel frattempo, ti auguro tutta la serenità possibile. Dio ti benedica. Spero di vederti presto. Con immenso affetto,

Michael Jackson”
Lily96jackson
00sabato 7 gennaio 2012 11:21
Capitolo 3
Il volo da Manila a Bandar Seri Begawan durò poco più di due ore. Non ero mai stata su un aereo prima d’allora. Tutto era nuovo e magico.
Javier sedeva imbronciato accanto a me, sui comodi e spaziosi sedili di prima classe. La tensione tra noi era ancora palpabile. Ma, tutto sommato, eravamo insieme: questo era ciò che contava davvero.
Ogni tanto sentivo il bisogno di rileggere la lettera di Michael, solo per assicurarmi che quello che stavo vivendo non fosse solo un semplice e bellissimo sogno dal quale prima o poi mi sarei svegliata.
-Mi stai innervosendo. – sbottò improvvisamente mio fratello, arrestandosi di colpo e inchiodandomi con un’occhiata gelida.
Stavamo cercando di orientarci in mezzo a quella massa disordinata di turisti eccitati e uomini d’affari in giacca e cravatta, per incanalarci e uscire finalmente dall’aeroporto.
Javier non mi rivolgeva la parola da più di ventiquattro ore ormai, quindi colsi quell’occasione al volo.
-Non capisco a cosa tu ti stia riferendo. – mormorai, accennando appena un timido sorriso.
Alzò gli occhi al cielo, sbuffando spazientito.
-Ritira quella dannata lettera, Susie … e cerca di tenere il passo. -
Obbedii senza protestare. Quando fummo all’esterno, tirammo entrambi un sospiro di sollievo: non eravamo abituati a tutta quella confusione.
Rimanemmo qualche minuto in silenzio, ad ammirare attoniti la città che si apriva snodandosi davanti ai nostri occhi: la gente che fino a pochi istanti prima si era ammassata nei pressi dell’ingresso dell’aeroporto, impaziente di uscire da quel luogo, ora si disperdeva per le vie della capitale, a piedi oppure a bordo di taxi e mezzi pubblici.
Javier mi sfiorò appena il braccio, reclamando la mia attenzione.
-Qual è l’indirizzo dell’albergo?
Estrassi uno stralcio di carta spiegazzato dalla tasca sul quale avevo annotato poco tempo prima il nome dell’hotel in cui avremmo alloggiato.
Lo consegnai ad Javier, che strizzò gli occhi nel tentativo di decifrare la mia scrittura, dopodiché fermò un taxi.
-Poteva almeno darci un passaggio su una delle sue innumerevoli limousine. Non penso sarebbe stato troppo dispendioso per lui. - bofonchiò Javier, quando il tassista mise in moto l’auto e alzò il volume della radio.
-Javier! – lo ammonii.
Mi fissò accigliato. L’ultima cosa che desideravo era offenderlo nuovamente, quindi cercai di rivolgermi a lui in modo pacato e gentile:
-Sai bene che non avrebbe potuto. I paparazzi e i fans lo seguono ovunque, sembrano perseguitarlo. Lo adorano e lui contraccambia, certo, ma a volte può risultare fastidioso questo comportamento,non trovi? Non piacerebbe nemmeno a te essere così popolare. È assurdo. Non può andare al cinema, al supermercato o all’aeroporto che subito viene circondato da masse di ragazze urlanti che gridano il suo nome come delle ossesse. –
Ridacchiai. Prima della nostra partenza, avevo avuto l’occasione di discuterne al telefono con Mike, che mi era sembrato tra il divertito e il terrorizzato.
Javier non commentò: semplicemente si voltò verso il finestrino. Lo imitai.
Quando giungemmo all’albergo, fummo condotti in un’ala dell’edificio che era stata destinata solo a Michael e che comprendeva un totale di otto stanze: sei camere di modeste dimensioni e due suite spaziose ed eleganti, perennemente sorvegliate.
In una di queste dormiva Michael.
-Secondo me ha qualche mania di grandezza. – mi sussurrò all’orecchio Javier, poco prima di entrare nella camera più ampia e lussuosa che avessi mai visto.
L’arredamento denotava raffinatezza e buon gusto, sebbene ci trovassimo all’interno di un hotel. Il mobilio era semplice e consono all’ambiente, ma comunque molto elegante e all’altezza della situazione. Di fronte a noi, vi era un’enorme portafinestra chiusa rigorosamente a chiave, che dava sul balcone. Dubitavo che Mike l’avrebbe mai utilizzata: probabilmente desiderava essere il più discreto possibile e teneva alla sua privacy e alla sua sicurezza.
-Susie! – esclamò Michael, correndomi incontro con un sorriso caloroso e accogliendomi con un abbraccio. Sembrava ci conoscessimo da sempre.
-Ciao. – mormorai, impacciata. Non avevo idea di come comportarmi con lui. Temevo di offenderlo se gli avessi dato troppa confidenza e, viceversa, speravo di non turbarlo con la mia apparente freddezza.
Rise come un bambino,poi salutò Javier che cercò di mostrarsi cordiale e affabile.
-Prego! Accomodatevi! Com’è stato il viaggio? – s’informò, dirigendosi verso un grande divano al centro della stanza dall’aria estremamente comoda e confortevole e sprofondando con eleganza tra i cuscini.
-Piuttosto bene, grazie. – risposi. Pareva deluso dalla mia risposta evasiva,per cui aggiunsi, affinché non ne avesse a male:
- Era la prima volta che volavo. Non è stato così terribile.-
Rise. Era così gentile e di buon umore che poco a poco mi rilassai e presi a parlare con maggiore spontaneità.
-I tuoi genitori come hanno reagito?-
Feci una smorfia scomposta al ricordo delle suppliche che avevo rivolto a mamma e papà affinché mi permettessero di partire. In principio mi erano apparsi irremovibili, ma poi, a causa della mia insistenza, mi avevano concesso, anche se malvolentieri e con qualche riserbo, quella breve vacanza. Comunque, erano rimasti molto delusi. Michael, divertito, cercò d’imitare la mia espressione che evidentemente trovava incredibilmente buffa. Ridemmo entrambi. Con la coda dell’occhio notai però che Javier, seduto sul divano di fianco a me, ci controllava attentamente, con la schiena ritta come un fuso, quasi fosse in procinto d’intervenire per rimettere ciascuno al proprio posto.
Il suo comportamento mi irritava, per cui poco dopo mi congedai con una scusa banale e non troppo credibile.
-Michael, forse dovremmo andare a riposarci un poco. Sono piuttosto stanca. – dissi alzandomi e avviandomi verso la porta della camera. Javier mi seguì.
-D’accordo. Ci vediamo stasera.- mi salutò Mike.
Ma poi, più tardi, all’ora di cena, mi rifiutai di raggiungerlo nella sua camera: troppi pensieri mi affollavano la mente, e un turbinio di emozioni diverse mi stringevano il cuore. Non volevo affrontare la cordialità di Mike e l’inquietudine di mio fratello in quello stato: non avrei saputo far fronte né all’una, né all’altra.
Mi sdraiai sul mio letto e mi misi ad osservare il soffitto immacolato. Il bianco uniforme del muro sembrava riflettere il bianco in cui galleggiavano le mie riflessioni in quel momento: riflessioni fini a se stesse, che non mi portavano da nessuna parte, se non alla deriva.
Chiusi gli occhi, tuttavia non riuscii ad addormentarmi.
Scesi dal letto, furiosa, e presi a passeggiare per la stanza. Ma ad ogni mio passo, la camera sembrava stringersi intorno al mio esile e debole corpo, diventando sempre più piccola e soffocante.
Lacrime di rabbia e confusione mi rigarono le guance mentre l’oscurità pareva farsi sempre più fitta e impenetrabile.
“Devo uscire da qui!”
Allungai le mani dritte davanti a me alla ricerca della maniglia della porta. Incespicai diverse volte ma infine la trovai, soffocai un grido di gioia ed uscii quasi correndo.
Mi ritrovai in corridoio.
In fondo ad esso vi era la camera di Michael, dalla cui porta socchiusa proveniva un sottile fascio di luce. Guadai l’orologio che portavo al polso e che troppo spesso dimenticavo di togliere quando andavo a dormire: segnava le due di notte. Possibile che fosse ancora sveglio?
Mi avvicinai, spinta dalla curiosità, quasi strisciando contro il muro, che trasudava calore e famigliarità, contrariamente a quelli della mia fredda e austera stanza d’albergo,nella quale ritenevo fosse impossibile trascorrere anche una sola notte.
Quando fui a poco più di due metri dalla porta, avvertii un rumore sordo, accompagnato da un fruscio di passi leggeri e da un gemito di dolore.
Entrai quasi istintivamente. Trovai Michael seduto per terra, a gambe incrociate, con la testa fra le mani.
Alzò lo sguardo verso di me, stupito. Non vidi mai degli occhi più addolorati dei suoi quella notte, né prima, né dopo.
Mi gettai al suo collo, stringendolo forte a me e piangendo con lui, colta da un’improvvisa malinconia e da uno sconforto straziante.
Ogni singhiozzo lo attraversava e lo faceva tremare fra le mie braccia magrissime, trasferendosi dal suo corpo al mio.
Non saprei dire quanto tempo rimanemmo accoccolati su quel pavimento duro e freddo, a consolarci, a scambiarci l’un l’altro dolori e preoccupazioni, lacrime e sorrisi di gratitudine.
Ma più tardi, esausti e svuotati, ci addormentammo l’uno nelle braccia dell’altra, senza trovare la forza per alzarci e tornare nei nostri rispettivi letti.
Il mattino dopo mi risvegliai sul divano della suite di Mike.
Mi guardai intorno, spaesata. Sul tavolino di fronte al divano era stato appoggiato un vassoio elegante e capiente decorato con motivi floreali, colmo di ogni ben di Dio: dalla fetta biscottata alle uova strapazzate, dal caffelatte alla spremuta, dalla torta al cioccolato al bacon.
Mi misi a sedere. Un tiepido raggio di sole filtrava dalla portafinestra della suite e si posava sulla mia schiena, scaldandomi.
Michael sbucò all’improvviso da una stanza adiacente, che probabilmente fungeva da camera in quella suite che più che a una stanza d’albergo assomigliava a un lussuoso appartamento. Mi sorrise impacciato e stanco.
-Non sapevo che cosa preferissi mangiare per colazione. – si giustificò, di fronte al mio sguardo sbigottito. Annuii.
-Mi fai compagnia? – gli domandai, accennando un sorriso timido e tamburellando con le dita il posto vicino al mio.
Si sedette accanto a me, così vicino che potevo respirare il profumo della sua pelle,fresco e intenso, quasi inebriante.
Addentai la fetta di torta al cioccolato, il cui aspetto era così invitante che mi sembrò quasi un sacrilegio non assaggiarla.
Masticai pensosa, osservando con la coda dell’occhio Mike che se ne stava in silenzio di fianco a me, evidentemente a disagio.
-A che cosa pensi?- chiese, per rompere il silenzio.
La mia bocca parlò quasi da sola:
-A ieri notte.-
Appena le ebbi pronunciate, desiderai rimangiarmi subito quelle parole. Michael levò lo sguardo dai miei occhi, imbarazzato e teso. Era piuttosto chiaro che avrebbe preferito non tornare mai più sull’argomento. Tacque per qualche minuto, mentre sorseggiavo la spremuta. Dopodiché domandò, in un soffio, senza guardarmi:
-E che cosa pensi? –
Sospirai. Michael cercava sempre di aprirsi un varco per insinuarsi nella mia testa, ma la sua per me e per il mondo intero rimaneva un mistero insondabile.
-Sto pensando come sia possibile, dopo quello che è successo, cercare di ricostruire di nuovo quel muro. – mormorai.
Mike si voltò verso di me.
-Quale muro? –
- Questo. – risposi, posandogli con delicatezza la mano sul cuore.
Lui si scostò con un fremito. Annuii a me stessa.
-Ieri notte sono state abbattute tutte le barriere imposte dal buon senso e dal pudore. Oggi, invece, ti sento così distante che tutte le volte che cerco di riafferrarti svanisci come labile fumo e mi scivoli via dalle dita. Ieri avevo un amico. Oggi non so. -
Il suo sguardo si ammorbidì.
-Sono qui, Susie. Sono sempre io. – mi giurò.
A quel punto, assillata da mille dubbi, alzai la voce:
-Ma chi è Michael Jackson? Il Re del Pop? L’artista più venduto del mondo? O un uomo solo, lo stesso che ieri sera ho visto piangere seduto sul pavimento di questa stanza? Non lo so. Non so chi sei. –
Si strinse nelle spalle.
-Non mi aspetto che tu mi comprenda perché nessuno l’ha mai fatto. Forse hai ragione. Forse per godere appieno di tutti gli aspetti di un rapporto d’amicizia oppure anche solo, semplicemente, del mondo che ci circonda, bisogna imparare ad aprire le porte dell’anima. Ma cerca di metterti nei miei panni,Susan: tante volte ho amato, tante volte ho riposto la mia fiducia in persone che credevo essere sincere, e troppo spesso questa mia fiducia è stata tradita. Non biasimarmi, dunque, se prendo le distanze da tutto e da tutti, perché penso sia una sorta di istinto di sopravvivenza, una specie di corazza che m’impedisce di soffrire ancora. – mormorò.
Strinsi la sua mano fra le mie.
-Ma tu chi sei? – gli chiesi, di nuovo, in un soffio.
Avrei anche voluto porgli un’altra domanda, ma mi pareva troppo ardita e quasi infantile. La tenni dunque per me.
Mi sorrise.
-Io sono semplicemente Michael Jackson. -
WalkerDady
00sabato 7 gennaio 2012 14:55
Hey Lily!
Ho appena finito di leggere e devo dire che questi primi tre capitoli mi piacciono...la storia coinvolge il lettore [SM=g27836]
Vedo che tu stai affrontando un argomento molto delicato che è quello della Leucemia....beh, dato che ne stai parlando, spero che tu o qualcuno della tua famiglia non abbiate questo problema perchè non è facile da affrontare!! Comunque voglio dirti che mi piace il fatto che Michael l'abbia invitata al suo concerto e...a dire la verità...sono rimasta colpita quando Michael stava piangendo in camera [SM=g27831] spero che ci spiegherai i motivi di questo sfogo e che proseguirai presto con la tua storia! [SM=g27828] Io ti seguirò e farò del mio meglio per esprimere il mio parere! [SM=g27838]
Dady [SM=g27836]
(StreetWalker )
00sabato 7 gennaio 2012 20:20
Finito di leggere i Primi Tre Capitoli sono belli ed emozionanti. Attenderò il prossimo per sapere il motivo del pianto di Michael.
Lily96jackson
00sabato 7 gennaio 2012 21:55
La storia prosegue ...
CAPITOLO 4:
Il nome di Michael gridato all’unisono dalle migliaia di fans che partecipavano a quel concerto si levò nell’aria simile ad un canto che spezzava l’immobilità altrimenti uniforme di quella notte.
Lo volevano, lo pretendevano.
Io, seduta in prima fila, tacevo, ascoltando e assaporando ogni istante di quel momento: le luci quasi abbaglianti provenienti dal palco, l’eccitazione della massa disordinata che fremeva intorno a me, il cielo che si chiudeva scuro e minaccioso su quel luogo.
Javier, di fianco a me,sorrideva quasi euforico. Aveva cominciato a metter da parte il suo astio immotivato nei confronti di Mike e stava iniziando a godersi davvero quella breve vacanza: ciò non poteva che allietarmi e rassicurarmi.
Ad un tratto, un boato ancor più forte fece quasi tremare la terra sotto i nostri piedi: il concerto era iniziato.
La figura di Michael si stagliava immobile e superba sul palco illuminato a giorno, mandando in fibrillazione gli spettatori.
Quasi inquietante nella sua tuta dorata, diede le spalle al pubblico con grande teatralità e con gesti lenti e misurati cominciò a togliersi il casco e le altre parti di quella che più che a una divisa assomigliava ad un’armatura.
Dopo pochi secondi, le note di Scream fecero accelerare i battiti del mio cuore e mi ritrovai a cantare a squarciagola insieme a tutto lo stadio.
In quel momento,Mike pareva così distante e irraggiungibile che quasi non riuscivo a credere che fosse lo stesso uomo che avevo abbracciato e consolato la notte prima e con il quale avrei trascorso amichevolmente l’ultimo giorno dell’anno in una qualche camera d’albergo.
Sembrava provare un gusto perverso nell’accostarsi alle persone e ad escluderle poi improvvisamente dalla sua vita, lasciandole perplesse, frustrate ed ingiustamente emarginate.
Non riuscivo mai a comprenderlo appieno, sebbene fossimo diventati molto intimi in così poco tempo e ci raccontassimo pressoché tutto; ciononostante era sempre lui ad avere il controllo della situazione. Se si accorgeva di essersi spinto troppo oltre, di essersi aperto in modo esagerato, allora rimbalzava indietro come un elastico e avvicinarlo nuovamente diventava un’impresa ardua. D’altronde, la gente che lo incontrava rimaneva così affascinata dai suoi comportamenti, che si abbandonava quasi inconsciamente a lui, diventando uno strumento incredibilmente malleabile nelle sue mani in un modo quasi patetico. Mike sapeva di avere questo potere e, forte di questa consapevolezza, quasi si divertiva a farne un gioco.
La sua non era cattiveria, ma piuttosto una sorta di ingenuo e relativamente innocente sadismo.
Cominciò a girarmi la testa per i tanti pensieri che mi affollavano la mente. Strizzai gli occhi, sorpresa più che preoccupata: avevo la sensazione di fluttuare. I rumori provenienti dall’ambiente circostante mi giungevano come lontani e sordi, attutiti da una qualche barriera invisibile che mi avvolgeva come una bolla fastidiosa.
-Che c’è, Susie? Stai male?- mi domandò Javier, costretto ad urlare per farsi sentire.
Feci cenno di no con il capo ma in realtà mi sentivo molto debole: mi tremavano le gambe anche da seduta.
Lui spalancò gli occhi, mi accarezzò i capelli in apprensione, dopodiché tentò con un gesto della mano di attirare l’attenzione di uno dei tanti uomini che indossavano una maglietta scura di cotone con la scritta “Michael Jackson Security” e che cercavano di mantenere l’ordine, soprattutto nelle prime file. Ci riuscì.
L’uomo si avvicinò sospettoso.
-Sta male!- gridò Javier all’addetto alla sicurezza, indicandomi.
Ero accasciata sulla sedia, con un sottile velo di sudore sulla fronte e sul collo.
-Lascia. La porto dietro. – mugugnò l’uomo. Si avvicinò pigro e mi domandò se riuscivo a camminare. Non ne ero sicura, ma ci provai comunque.
Un po’ incerta sulle gambe, mentre quel tale mi aiutava a sollevarmi in piedi e a muovere qualche passo, alzai lo sguardo verso il palco e vidi che Michael mi fissava confuso e preoccupato.
Abbassai gli occhi immediatamente, imbarazzata.
Nello stesso istante, Javier bloccò afferrandolo il braccio dell’addetto alla sicurezza, che lo guardò bieco.
-E’ amica di MJ- spiegò mio fratello.
-Me lo puoi dimostrare? – ribatté l’altro.
Javier gli mostrò un tesserino e uno stralcio di carta sul quale Mike aveva annotato qualcosa, forse un numero di telefono o un indirizzo.
-Questo tesserino ci permette di accedere ai suoi camerini e di muoverci liberamente dietro le quinte. E questa è la sua calligrafia. – gli assicurò.
L’uomo studiò seccato entrambi i documenti, poi sbuffò.
-D’accordo. E che cosa dovrei farci io con queste cartacce? – brontolò, ma si rivolgeva più a se stesso che a noi.
Javier gli si fece vicino e gli bisbigliò qualcosa all’orecchio, velocemente e rivolgendomi uno sguardo di tanto in tanto, quindi l’addetto alla sicurezza mi fissò per pochi secondi, con un lampo di consapevolezza negli occhi.
Poi sospirò.
-Va bene. Si può anche fare. Forse è meglio così. – convenne alla fine.


CAPITOLO 5
-Cos’è successo? –
Michael si precipitò al mio fianco, in ansia.
L’addetto alla sicurezza mi aveva quasi trascinata via con sé. Del percorso che avevamo seguito ricordavo molto poco: un passaggio buio, una scala male illuminata e poi quella sorta di stanzetta umida, disordinata e affollata dove mi trovavo in quel momento, seduta con la schiena appoggiata ad una parete di metallo.
-Susie, mi senti? Chiamate un paramedico, per favore! – ordinò burbero a qualcuno che stava al suo fianco. Riuscii a percepire l’urgenza nella sua voce vellutata.
-Susan, guardami. – m’intimò. Obbedii di malavoglia: desideravo solo dormire.
Vidi il suo viso squisito a pochi centimetri dal mio e d’un tratto mi costrinsi a tenere gli occhi aperti: nulla, nemmeno il sonno, mi avrebbe impedito di ammirarlo in tutta la sua dannata perfezione.
Sospirò di sollievo, o almeno così mi parve.
-Ti senti debole? – domandò un’altra voce, che non riuscii ad identificare. Probabilmente proveniva da qualcuno al mio fianco ma non mi voltai a verificare: in quell’istante esisteva solo il viso di Michael, la sua pelle diafana leggermente velata di sudore e i suoi occhi grandi, neri e dolci che mi scrutavano preoccupati.
-Sì. – biascicai, dopo qualche minuto.
Michael si rivolse alla voce:
-Susan ha la leucemia. L’ultimo ciclo di chemioterapia è stato … -
Mi guardò con aria interrogativa e la fronte corrugata.
-Cinque o sei giorni fa, mi pare. – risposi, con la voce impastata.
-Certo, capisco. – disse lo sconosciuto. –Ora ti misuriamo la pressione. Cerca di stare sveglia, d’accordo? –
Annuii. Qualcuno ebbe il buon senso di portarmi da bere qualcosa di caldo e zuccherato, un tè forse: non ci prestai troppa attenzione. Lo sorseggiai cauta, temendo una reazione negativa dello stomaco che però non si verificò,anzi: la bevanda miracolosa mi donò un immediato sollievo.
-Va meglio? – domandò la voce, accorgendosi probabilmente che il peggio era passato.
Risposi di sì. Lentamente, la testa prese a girarmi meno e la debolezza abbandonò il mio corpo. Cercai di alzarmi in piedi: ora che mi rendevo conto di avere decine di occhi puntati addosso, mi sentivo terribilmente in imbarazzo.
-Ti serve aiuto,cara? – mi chiese una donna bionda e possente, dal sorriso gentile e lo sguardo materno.
-Sì,grazie.- sussurrai.
La donna mi cinse le spalle con un braccio, sostenendomi mentre mi sollevavo con cautela.
Fino a quando non ebbi riacquistato completamente il senso dell’equilibrio la gentile sconosciuta sorresse quasi tutto il mio peso, senza mostrare sul suo adorabile volto segni di fastidio o impazienza.
-Ora sto bene, grazie. – la rassicurai dopo qualche minuto.
La donna mi guardò con aria interrogativa.
-Sei sicura? – domandò, con una lieve sfumatura d’indecisione nella voce. Annuii. Un poco mi commosse quella sua preoccupazione sincera, che sembrava nascere da un affetto improvviso, inspiegabile e disinteressato.
Lei mi assecondò ma mi tenne gli occhi puntati addosso per qualche istante ancora, come se fosse pronta a riafferrarmi qualora avessi avuto un altro mancamento.
Mossi qualche passo: in effetti, mi sentivo abbastanza bene. Anche la donna lo capì e sorrise rincuorata.
-Sono felice che ti sia ripresa. Gli hai fatto prendere un bello spavento. – spiegò con un sorrisetto, inclinando leggermente la testa, come ad indicare qualcosa alla sua sinistra.
Inarcai un sopracciglio, confusa dalle parole di lei.
La donna parve ricordarsi di qualcosa: i suoi occhi s’illuminarono e, ridendo di sé, mi porse la mano, che strinsi con delicatezza cercando, invano purtroppo, di sembrare disinvolta e naturale quanto lei.
-Sono Karen Faye. – si presentò. – Lavoro con Mike dai tempi di Thriller. Ti posso assicurare che non l’ho mai visto così turbato in vita mia. Deve tenere molto a te. Si vede dal modo in cui ti guarda … - aggiunse, questa volta pensierosa.
Arrossii e abbassai lo sguardo.
Karen ridacchiò e annuì tra sé, tornando subito seria. Era difficile seguire il filo dei suoi pensieri.
-Michael è una persona molto speciale e … rara,se devo dire il vero. La sua natura l’ha sempre spinto ad abbandonarsi completamente alle emozioni e alle sensazioni, a fidarsi della gente, confidando nella sincerità e nell’ingenuità di quelli che lo circondavano. Purtroppo, troppi hanno approfittato di lui, spingendolo a poco a poco a chiudersi in se stesso: forse già lo sai… Ma con te è diverso. È come se si riaccendesse una scintilla… Un bagliore. – mormorò, senza guardarmi veramente, ma scrutando attraverso i miei occhi nella mia anima,forse per comprendere se fossi anche io una approfittatrice, una sorta di traditrice crudele, insomma. O forse stavo semplicemente lasciando correre la mia immaginazione a briglia sciolta. Mi ricomposi, per non far notare quanto patetici fossero i miei ragionamenti in quel momento.
-Non so … A volte, mi sembra che, per quanto amici possiamo diventare, non saremo mai veramente vicini. Mi tiene a distanza. Perlomeno, questo è ciò che percepisco talvolta quando sono in sua compagnia. – risposi, un po’ in ritardo.
Karen scosse la testa,ribadendomi:
-Ti vuole bene, Susie, non dubitarne. Dagli tempo. Sei importante per lui.-


CAPITOLO 6

-Sì, certo. Abbi cura di te. Chiamami se hai novità. Ciao. -
Michael riattaccò sospirando e spiandomi con la coda dell’occhio dall’angolino in cui si era rintanato per fare una breve telefonata a Debbie, sua moglie, l’ultimo giorno dell’anno che, come avevo previsto, avremmo passato in quella elegantissima camera d’albergo.
Non avevo esperienze in proposito,ovviamente, ma quella non mi era affatto sembrata una conversazione tra innamorati: non che Michael fosse stato freddo e distaccato con Deborah, ma comunque sembrava rivolgersi a lei più come ad un’amica che come ad una moglie e ciò non poteva che incuriosirmi e lasciarmi un poco meravigliata.
Mike probabilmente aveva previsto la mia reazione, o perlomeno si aspettava domande al riguardo. In tutta risposta, feci finta di niente: non volevo forzarlo.
Sentivo che non era disposto a parlarne. Già prima avevo vagamente intuito quanto poco Debbie facesse parte della vita di Michael e quella telefonata non faceva altro che confermare le mie supposizioni: il loro non era un matrimonio d’amore. Ovviamente, potevo anche sbagliarmi: apparentemente, però, non vi erano prove che confutassero la mia tesi.
Mike mi mostrò la lingua, indispettito:
-Bhè, perché quella faccia? –
Decisi di stare al gioco.
-Questa faccia, - sottolineai, indicando me stessa –è l’unica faccia che possiedo. Mi dispiace, ma ti dovrai accontentare. –
Mi strinsi nelle spalle con finta aria sconsolata. Era facile scherzare con lui: mi veniva sempre spontaneo e naturale.
Michael scoppiò a ridere di fronte alla mia espressione e venne a sedersi accanto a me, di fronte al camino in cui crepitava un timido fuocherello che gettava piccoli, scoppiettanti bagliori tutt’ intorno. Rimasi a contemplarlo a lungo, indecisa su come addentrarmi nell’argomento.
La risata angelica di Mike s’interruppe improvvisamente quando si accorse di quanto fossi taciturna e impensierita.
-A che cosa pensi? – mi chiese e mi passò delicatamente una mano tra i capelli neri, che avevo tagliato fin sotto al mento: la parrucchiera mi aveva assicurato che così sarebbero divenuti più forti e che probabilmente non li avrei persi tutti con la chemio. Non ci speravo troppo, comunque.
-Che forse in questo momento dovresti essere con Debbie. Lei è la tua famiglia. – gli feci notare, dopo qualche minuto, rispondendo alla sua domanda in ritardo. Ero stata incerta se mentire o essere sincera. Alla fine, come sempre, avevo optato per la verità.
Michael scosse la testa lentamente ma non rispose. Forse non trovava le parole. Forse non aveva intenzione di farlo.
La possibilità, anche solo remota, che si fosse stancato della mia compagnia e che le mie domande e i miei rimproveri suonassero alle sue orecchie terribilmente noiosi ed inadeguati mi fece impallidire: forse era proprio così.
Ma poi Mike si decise a parlare, sebbene lo facesse con fatica, come fortemente provato dal peso che la verità esercitava su di lui.
-Voglio bene a Debbie. È una donna fantastica ed è molto innamorata di me. La considero una cara amica, una persona splendida, affettuosa e disponibile … - mormorò, ma poi la sua voce si affievolì. Abbassò lo sguardo, come se d’un tratto fosse improvvisamente assorto e concentrato mentre studiava piccoli granelli di polvere rimasti intrappolati tra le fibre del tappeto su cui sedevamo.
-Ma non la ami. – conclusi. La mia non era una domanda,ma una semplice constatazione.
-Non giudicarmi, ti prego. – mi supplicò guardandomi negli occhi. Non riuscii a sostenere quello sguardo. Avevo visto quanto soffrisse, quando la solitudine fosse in grado di opprimerlo con il suo peso insostenibile. L’avevo visto piangere e l’avevo stretto e cullato tra le mie braccia a lungo.
Pensando un poco al suo immenso dolore, quell’atto, quel matrimonio basato esclusivamente sull’utile, sulla procreazione, mi parve subito molto meno ignobile ed egoista. Voleva dei figli. Deborah amava Michael, provava nei suoi confronti un affetto molto vicino all’adorazione. Sarebbe stata pronta ad offrirgli tempo, pazienza e una famiglia. E sebbene lui non l’amasse, le voleva molto bene, abbastanza per informarsi sulla sua salute e per mettere a sua disposizione tutto ciò che poteva servirle. Era davvero così terribile? Debbie poteva davvero essere considerata una semplice madre-surrogato, come la definivano i tabloid?
-Ti capisco. – sospirai infine.
Mike accennò un sorriso amaro, che non infiammò le sue guance né accese i suoi occhi.
Quelli restarono fissi su di me, penetrandomi.
-Davvero? Saresti veramente pronta a giustificare un comportamento come il mio? Un matrimonio che è stato concepito esclusivamente con lo scopo di mettere al mondo degli eredi? Un rapporto fondato non sull’amore, ma su un compromesso? –
Il suo tono di voce si fece man mano più aspro. Riuscivo a percepire tutta la condanna e la critica del mondo in quelle parole dense di odio. Michael stesso era incredulo di fronte a ciò che stava facendo: si detestava per come stava sfruttando Debbie.
Ma, allo stesso tempo, non aveva scelta.
-Non ho detto che ti giustifico … Ma che capisco perché lo fai. Alcuni potrebbero considerarlo un atto egoista e forse un poco lo è, ma è la prima volta da quando sei entrato nel mondo della musica che fai qualcosa per te, se non sbaglio. Ti sei già sacrificato troppo. Perché dovresti rinunciare anche alla gioia di avere dei bambini? –
Mike non rispose. Era profondamente combattuto: lo si capiva dalle sopracciglia aggrottate, dalla fronte corrugata e da come torturava un piccolo lembo del tappeto con le dita agili e sottili.
-Non è giusto. – sbottò infine, dopo una decina di minuti trascorsi immersi nel silenzio.
-Che cosa? – mormorai confusa. Si riferiva a Debbie? Dal tono di voce non si sarebbe detto. Che alludesse ad altro?
-Una ragazza di sedici anni dovrebbe andare incontro alla vita, non alla morte! – esclamò frustrato e chinò di colpo il capo tra le mani.
Sussultai, spaventata dall’improvviso cambio di direzione che aveva preso il filo dei suoi pensieri. Le sue parole mi avevano intimamente commossa.
Mi feci ancora più vicina a lui, sfiorandogli una spalla, come a rassicurarlo.
-Non dovresti preoccuparti di questo, ora. – sussurrai con tono gentile.
Mike scosse la testa, come un bambino capriccioso.
-Non voglio perderti .. – disse, sincero, con la voce rotta dal pianto. E poi aggiunse:- E’ come se il Cielo ti avesse mandata quaggiù ad illuminare la mia vita. Mi comprendi molto più di me stesso. –
Con il viso rigato di lacrime lo guardai e vidi un amico. Un amico che mi voleva bene, che non voleva perdermi e che aveva un disperato bisogno di qualcuno disposto ad ascoltarlo e a consolarlo.
Ed io volevo essere quel qualcuno.

Lily96jackson
00sabato 7 gennaio 2012 21:58
Rispondo a WalkerDady e a Streetwalker ..
Il motivo del pianto di Michael è abbastanza a libera interpretazione. Michael non si apre facilmente neanche con Susie, quindi non è semplice nemmeno per lei "indovinare" il motivo di tutta quella tristezza ... Lei intuisce che sia uno sfogo, che il peso opprimente e gravoso della solitudine e della celebrità lo stia logorando ...

Per quanto riguarda la leucemia, tranquille, nessuno dei miei familiari, per fortuna, ne è affetto. Però mi sono interessata molto all'argomento, soprattutto dopo la guarigione da un tumore al seno di mia mamma e dopo aver visto un film che mi ha molto colpita.
WalkerDady
00sabato 7 gennaio 2012 22:54
Lily...ho finito di leggere il testo ed il tuo commento. Grazie per la risponsta [SM=g27823] e brava di nuovo! Mi piace la storia! Si capisce che tra di loro sta nascendo qualcosa...forse un'amicizia...beh lei ha 16 anni...seguirò la tua storia perchè mi stai incuriosendo!
Baci Dady [SM=g27836] [SM=g27838]
CharlyJackson97
00sabato 7 gennaio 2012 23:05
Continua....è bellissimaaaaa
Lily96jackson
00sabato 7 gennaio 2012 23:16
La storia prosegue ...
CAPITOLO 7

-Mi mancherai tantissimo. – sussurrò Michael, stringendomi forte a sé e cullandomi per qualche istante.
-Anche tu. Sii felice. – risposi, in un soffio, ricacciando indietro le lacrime che stavano per affiorare. Il mio non era solo un augurio: era una raccomandazione, una necessità. Non avrei potuto vivere così lontano da lui sapendolo triste o preoccupato. Doveva promettermi che avrebbe cercato di raggiungere quel minimo di serenità che gli era concessa.
-Tu guarisci. – mormorò al mio orecchio, sfiorandomi una guancia con la punta del naso e facendomi rabbrividire.
Ridacchiai, per spezzare quell’attimo drammatico e interrompendo l’abbraccio.
Michael mi posò le mani sulle spalle, come se mi stesse guardando per la prima volta. O per l’ultima. Quel gesto mi mise tristezza: fui costretta ad abbassare lo sguardo per nascondere gli occhi lucidi.
-Ti porterò a Neverland. – mi promise, d’un tratto, cogliendomi di sorpresa. Diceva sul serio? Era disposto a portarmi nel suo regno eterno? Apparentemente, sì.
Un pensiero mi offuscò la mente all’improvviso: avrei fatto in tempo a vedere con i miei occhi quell’angolo di paradiso che Michael aveva costruito e trasformato nel suo rifugio felice?
Lo fissai, in cerca delle parole giuste per dirgli ciò che sentivo di non poter tacere, per esprimere in qualche modo il turbamento che mi sconvolgeva i pensieri. Per dirgli addio per sempre. Perché, lo sapevo, la leucemia mi avrebbe condotta alla morte: quando i dottori me l’avevano ripetuto più volte, con la spietatezza e la freddezza negli occhi, di fronte ai loro numeri, alle loro statistiche, alle loro spiegazioni, di fronte alla scienza, mi ero rassegnata. Mi ero arresa già molto prima di iniziare a combattere. Di tanto in tanto mi stupivo ancora nell’osservare come il mondo intorno a me mutasse lentamente: ma quando guardavo un tramonto, o ammiravo un ciottolo in riva al mare, o vedevo un gabbiano sorvolare pigro la mia terra, sentivo di aver rinunciato. Perché, invece di trarre da ciò che mi circondava la forza per andare avanti, mi lasciavo semplicemente portare alla deriva da flutti violenti che percuotevano il mio corpo, tentando di smembrarmi, di farmi a pezzi. Avevo incassato in silenzio ogni colpo, senza nemmeno aver provato a reagire.
Ma ora che i secondi ticchettavano imperterriti e tediosi verso la fine, ricordandomi che il tempo rimasto a mia disposizione era scarso, sentivo la sete di vivere esplodermi nello stomaco, invadermi il petto e farsi strada lungo la gola.
Sapevo che non era merito della mia forza morale, né della mia famiglia: quelle non erano affatto cambiate rispetto a prima. Era stato Michael, ne ero certa. Con la sua vitalità, mi aveva strappata alla morte. Era come se mi avesse presa per mano e mi avesse mostrato con pazienza paterna quanto stupefacente ed interessante potesse essere la vita,di cui lui aveva forse conosciuto il lato peggiore, quello più doloroso e che ciononostante lui continuava ad amare.
Con Michael, mi sentivo importante e indispensabile.
Ma, essenzialmente, non era cambiato nulla.
Io forse ero diversa, ero tornata viva, ma la leucemia non era sparita: era ancora lì, non si sarebbe mai dissolta,anzi. Con il tempo sarebbe stato sempre peggio. Ne ero pienamente consapevole, lo ero stata fin dall’inizio, eppure fu come se lo avessi scoperto in quell’istante, perché solo in quel momento capii davvero che cosa avrei perso se me ne fossi andata per sempre.
-Michael, tu credi nel Paradiso? – gli chiesi dunque, senza osare guardarlo mentre gli ponevo la domanda: temevo che si sarebbe adirato con me. Mi invitava sempre ad essere ottimista: perciò si arrabbiava tanto quando toccavo l’argomento della mia morte imminente.
-Sono sicuro che esiste. – rispose con convinzione: nella sua voce non vi era alcuna traccia del rancore che avevo temuto di trovarvi.
-Perché questa certezza? – domandai, ora incuriosita.
Michael mi sollevò delicatamente il mento con un dito, per potermi guardare negli occhi.
-Perché esisti tu. – mormorò, con gli occhi gonfi di lacrime.
A quel punto lo abbracciai saltandogli al collo quasi con violenza e inzuppando di lacrime la sua bella camicia.
-Ma come può essere il Paradiso, se tutto ciò che amo, se tutto ciò a cui tengo lo lascio quaggiù? La mia famiglia, la danza e te … Perché sono costretta a perdere tutto questo? – gridai, con la voce rotta dal pianto. Mike mi accarezzava la schiena e sentivo che anche lui tratteneva a stento i singhiozzi.
Quando mi fui calmata lo pregai:
-Parlami di Neverland. Raccontamela … -
Se non potevo vederla, potevo sempre immaginarla, quasi ne conservassi un vivido ricordo da rievocare ogni qualvolta ne avessi sentita la necessità.
Le labbra di Michael dipinsero un sorriso sghembo mozzafiato sul suo volto.
Cominciò ed io, dimentica dell’ora, di Javier che mi aspettava fuori dall’albergo, dell’aereo che mi avrebbe portata a casa e che rischiavo di perdere, mi apprestai ad ascoltarlo.
-E’ verde e blu. Il cielo terso e perfetto si fonde con prati sconfinati e con boschetti che promettono frescura e sollievo dal caldo in estate. Ad ogni angolo vi sono giardini costellati di fiori che crescono spontanei, oppure circondati da roveti, arbusti o siepi ordinate. C’è uno zoo, con tanti animali. Le scimmie sono così buffe … E anche da lontano puoi scorgere la ruota panoramica e altre giostre, che si ergono quasi con arroganza verso l’alto, stagliandosi sul cielo lambito solo di tanto in tanto da qualche rara nuvola bianca, che quasi mai porta pioggia. La California è così assolata. -
Sospirò, perso nel lontano ricordo di casa sua.
E il cellulare squillò.
Michael lo avvicinò all’orecchio.
-Pronto?- chiese, titubante.
Qualcuno all’altro capo della cornetta parlò frettoloso. Mike annuì serio e riattaccò.
-Era tuo fratello. – mi spiegò, paziente. –Dovete sbrigarvi. L’aereo parte presto. Ha già chiamato un taxi. Ti sta aspettando.-



















Capitolo 8

-Non so come sia possibile … ma è così. Davvero. Tutti gli esami a cui ti sei sottoposta nel corso di questa settimana lo confermano. Il livello dei globuli bianchi nel tuo sangue è tornato normale e il tuo midollo è sano: sei guarita. Non c’è alcun bisogno di ulteriori accertamenti: la leucemia è scomparsa. Credo si tratti di una sorta di miracolo. Sarebbe difficile definirlo altrimenti. – mi ripeté per l’ennesima volta il dottor Torres.
Non lo ascoltai.
Non riuscivo a credergli. Non potevo farlo. Non potevo permettere alla speranza di radicarsi nel mio cuore, perché sapevo che ciò che il medico stava cercando di spiegarmi e che lui mi descriveva con tanta cura non poteva essere altro che un sogno evanescente. Quella non era la realtà. La leucemia non può sparire. Era assurdo. Rimasi a fissarlo apatica, indifferente, certa che si trattasse di uno scherzo di cattivo gusto.
Mia madre mi cinse le spalle con un braccio e mi scosse delicatamente, un poco ansiosa di fronte alla mia mancanza di reazioni.
-Hai sentito,cara? Sei guarita! È un miracolo! – mi sussurrò all’orecchio con voce gioiosa.
Ero molto più che confusa. Mi scrollai di dosso il braccio di mamma, che mi guardò allibita e turbata dalla mia improvvisa e apparentemente immotivata scontrosità. Cercai di riflettere, di trovare un senso a quel turbinio di voci, lacrime e volti che avevo intorno.
-Non è vero. – bofonchiai, infine, quasi per un riflesso automatico. La mia mente rifiutava di accettare quella situazione.
Il dottor Torres mi sorrise bonario e mi si fece vicino, con fare esperto.
-So che può essere difficile da comprendere, ma non avrei alcun motivo di mentirti. Stai bene. – disse, e nel farlo mi rivolse lo sguardo più convincente di cui era capace.
Fu allora che capii. Soffocai con un pugno il grido d’incredulità che si stava facendo strada attraverso la mia gola.
Javier mi corse incontro dall’altra parte della stanza e mi abbracciò stretta, baciandomi i capelli e bisbigliando parole incomprensibili. I miei genitori si tennero a distanza, ma i loro volti rimanevano distesi e sereni: sprizzavano felicità e gratitudine da tutti i pori.
Quando tornai a casa dall’ospedale, la prima cosa che feci fu chiamare Michael. In fondo, ero più che sicura che quella guarigione inspiegabile fosse, almeno in parte, merito suo.
Il telefono squillò un paio di volte, quando all’altro capo della cornetta rispose una voce profonda molto poco famigliare.
-Pronto? – domandò l’uomo, cauto. Aveva un accento strano e insolito.
-Sono Susan. Con chi parlo? – m’informai diffidente.
- Con Dieter Wiesner. –
Riflettei velocemente. Quel nome non mi era affatto nuovo. Mi pareva di averlo sentito pronunciare da Michael in una qualche occasione … Ma al momento non ricordavo.
-Posso aiutarla, signorina? – chiese cortese Dieter, riportandomi con i piedi per terra.
Scossi la testa per riordinare le idee.
-Dov’è Michael? – domandai con impazienza, utilizzando un tono autorevole che non sapevo di possedere.
-Al momento non è qui. Desidera lasciargli un messaggio? –
Dieter era terribilmente professionale. In quell’istante ricordai: Mike me l’aveva nominato un paio di volte.

“E’ molto più che efficiente. Penso che lo assumerò.” aveva detto un giorno, ridacchiando, durante la mia breve vacanza nel Brunei.
Forse non aveva scherzato, forse diceva sul serio. Ad ogni modo, non mi andava di intromettermi nei suoi affari nemmeno in quel momento.
-No, grazie. Dica solo che ho chiamato.- risposi.
-Ehm, sì, sì … -
Sentii Dieter tentennare.
-C’è qualcos’altro? – chiesi incuriosita dal cambiamento del suo tono di voce.
-In realtà è appena tornato. – confessò, dopo un po’, lievemente imbarazzato.
-Bhè, allora me lo passi. – lo esortai, perplessa.
L’uomo mugugnò qualcosa ma non si oppose. Dopo qualche minuto, udii la voce di Michael, più stanca e affaticata di come la ricordavo, ma comunque vellutata e dolcissima.
-Susan. – sospirò, sollevato. Forse attendeva una mia telefonata. Mi rimproverai tra me e me: avrei dovuto chiamarlo prima.
-Ti devo dire una cosa. – annunciai, con tono solenne, sebbene il suo tono avesse un poco smorzato il mio entusiasmo.
Rimase in silenzio, in attesa che proseguissi. Non era da lui, decisamente.
-Sono … sono guarita. – mormorai, ma nella mia voce non vi era traccia di alcuna emozione. Ero troppo preoccupata. Che cos’aveva Michael? Perché all’improvviso lo sentivo distante?
Era passata poco più che una settimana: possibile che i rapporti tra noi fossero mutati così velocemente?
Mike non rispose subito.
Dopo un paio di minuti, sussurrò piano il mio nome. Poi riattaccò.






Capitolo 9

Ripresi a frequentare le lezioni di danza di Mrs. Sullivan, perché erano l’unica cosa che m’impedisse davvero di rimuginare e ritornare con la mente a Michael e a quella telefonata.
Ma, sebbene mi obbligassi a tenere a bada i pensieri e a non rievocare con la memoria quei giorni trascorsi insieme a quello che avevo creduto, forse erroneamente,esser diventato il mio migliore amico, talvolta cedevo e cadevo in preda allo sconforto e al dolore.
L’abitudine e la speranza mi spingevano a controllare ogni giorno la posta e i messaggi in segreteria: m’illudevo che probabilmente avrebbe chiamato presto e che avremmo chiarito tutto.
Ma non fu così. Passarono le settimane, lente ed inesorabili. Non si fece più sentire.
Cercai di non farci caso: non era facile. Avevo bisogno di qualcosa che mi assorbisse completamente, anima e corpo; sentivo la necessità di distrarmi.
Ma ovunque fuggissi – alla scuola, in riva al mare, a casa di un’amica – il ricordo di lui non mi abbandonava. Il suo volto era pronto a far capolino tra i miei pensieri quando meno me l’aspettavo.
Stavo malissimo: le mie notti erano popolate da incubi.
Ero pienamente consapevole del fatto che il mio atteggiamento non fosse né maturo né tantomeno sensato: ciononostante, sentivo di non essere dotata di sufficiente autocontrollo per rimanere completamente indifferente di fronte a tutto ciò né di sufficiente tenacia per mantenere un minimo di decoro davanti alla mia famiglia e per decidere di andare avanti superando questo ostacolo.
Lessi da qualche parte – forse su una rivista di gossip – che Debbie aveva dato alla luce un maschio, Prince, il giorno 13 febbraio: Mike era diventato padre.
Quel giorno rimasi in attesa invano, seduta di fronte al telefono di casa, con lo sguardo sempre più vacuo man mano che passavano i minuti immersi nel silenzio. Avevo sperato inutilmente che almeno in quell’occasione mi avrebbe chiamato, forse per ripristinare quel rapporto di amicizia che si era stabilito fra noi, forse per mettergli fine una volta per tutte.
Javier, notando il mio sconforto, mi suggerì di provare a scrivergli una lettera, ma rifiutai a priori l’idea: ero troppo codarda per affrontare davvero Michael e, anche se non volevo ammetterlo di fronte a mio fratello, mi sentivo ferita nel profondo dal suo comportamento.
Nel 1998 Michael divenne padre per la seconda volta: sua figlia, Paris, era nata quel 3 aprile senza le stesse complicazioni riscontratesi con Prince.
Il 28 maggio compii diciotto anni. Due settimane dopo, con un’ audacia che mai avrei immaginato di avere e che, in realtà, mi si addiceva ben poco, me ne andai di casa, con grande disappunto dei miei genitori. Javier non si oppose né mostrò mai quale fosse la sua opinione al riguardo, ma in seguito ripensai al suo come ad un muto consenso, quasi condividesse la mia scelta e l’approvasse appieno ma non osasse pronunciarsi comunque.
Mrs. Sullivan, fiera di me e al settimo cielo, mi aveva fissato un provino per entrare ad una famosa accademia di danza americana. Ai miei genitori che chiedevano spiegazioni, raccontai che sarei andata lì.
Ma sapevo che non ci avrei mai messo piede.
Volevo solo andarmene, cambiare cielo, cambiare vita.
Desideravo cancellare le tracce che aveva lasciato su di me Michael, il cui vivido ricordo era ancora presente nella mia testa: sapevo che non sarebbe stato facile, ma lo sarebbe stato ancora meno continuare a vivere in quel modo.
Ma prima, prima di eliminarlo completamente dalla mia vita, prima di allontanarmi da lui una volta per tutte, volevo rivederlo.
Era assurdo, lo sapevo, oltre che incredibilmente masochista. Ma era l’unico modo che mi era rimasto per accertarmi che stesse bene.
Era strano come ciò mi toccasse ancora tanto: dopo il trattamento che mi aveva riservato, avrei dovuto essere arrabbiata, o quantomeno una sorta di istinto di sopravvivenza rimasto sepolto per anni chissà dove avrebbe dovuto spingermi lontano da Mike, verso altri orizzonti. Ma non era così che mi sentivo. Dopo tutto quello che mi aveva fatto (consciamente o meno) ciò che mi preoccupava ancora era che lui stesse bene. Sapevo che la chiave di tutto era in quel dettaglio. Ma quella chiave … che porte apriva?
Questa era la domanda che mi perseguitava ovunque andassi: persino quando toccai il suolo americano non potei fare a meno di chiedermi chi era Michael Jackson per me.
Un amico? No, molto di più, era ovvio. Forse il mio migliore amico. Plausibile. Ma non mi sembrava abbastanza per esprimere tutto l’affetto che provavo nei suoi confronti.
Di una cosa ero più che certa, però: le nostre vite ormai erano intrecciate in modo inevitabile. Non vi era alcun modo di dividerci senza arrecare danni a uno o all’altra.
Ma, se un po’ di dolore era la cosa peggiore che avrei dovuto sopportare quel giorno pur di ottenere delle risposte, l’avrei fatto.
Quando giunsi a New York, presi il primo volo diretto per Los Angeles. Non sapevo dove si trovasse Michael in quel momento, ma la California mi sembrava un buon punto di partenza da cui iniziare la mia ricerca.
Arrivata a Los Angeles, mi resi conto di aver quasi esaurito il mio budget. Rimpiansi di non aver portato con me più contanti, ma era troppo tardi per lamentarsi.
Fui costretta, dunque, a spostarmi verso l’interno del continente, sempre rimanendo,però, nel distretto di L.A. , per trovare un albergo più economico.
Lo trovai quando ormai l’orologio che portavo al polso segnava le nove meno un quarto. Era un edificio dalla struttura solida e compatta, alla periferia di una qualche cittadina della California al cui nome non avevo fatto caso. Si ergeva stipato tra due costruzioni decisamente molto più imponenti ed eleganti: il raffronto era quasi comico. Entrai.
Vi era una hall dal soffitto basso, quasi claustrofobica, arredata in modo decisamente insolito: non c’era un mobile che facesse il paio con un altro,ciononostante trasudava calore e famigliarità. Una scrivania d’acero era accostata a un bancone in noce e poco lontano vi era un tavolino basso e rotondo di produzione sicuramente industriale affiancato da sedie anonime e sgangherate, tutte di colore diverso. In un angolino era stata incastrata alla bell’e meglio una vecchia credenza color crema che ora era utilizzata come una libreria. Mi avvicinai ghignando tra me e me a una ragazza, probabilmente di origini messicane, che con aria annoiata attendeva dietro al bancone che finisse il suo turno.
Quando finalmente mi fu assegnata la camera – una stanzetta poco più grande di uno sgabuzzino molto capiente- disfai l’unico bagaglio che avevo ed estrassi il cellulare dalla tasca laterale dello zaino che avevo portato con me.
Dopo un sospiro, digitai sulla tastiera del mio decrepito telefono il numero che conoscevo a memoria, nonostante fossero passati mesi dall’ultima volta che l’avevo usato.
Attesi cinque minuti. Niente.
Misi giù e riprovai, lanciando di tanto in tanto un’imprecazione.
Al quarto tentativo, qualcuno ebbe il buon senso di rispondere.

-Pronto?-
Chiusi gli occhi. La sua voce era ancora più dolce di come la ricordassi.
-Ciao, Michael. – lo salutai, timida. Mi avrebbe chiuso la comunicazione in faccia? Come avrebbe giustificato il suo comportamento? Sarebbe stato in grado di mentire o mi avrebbe confessato la verità? E io … ero capace di perdonarlo o, qualora si rivelasse necessario, di lasciarlo andare?
-S-Su-Susie?!?! – balbettò il mio nome incredulo.
Riuscii a percepire la sorpresa in lui, ma non vi era traccia del rancore o della tensione che avevo temuto di incontrare.
Non era affatto ostile. Forse, da qualche parte, in lui, c’era ancora il mio Michael. Forse quella telefonata di quasi due anni prima non aveva più alcun significato. Magari non ne aveva mai avuto alcuno.
A quel pensiero mi si gonfiò il cuore di gioia, ma cercai di ricompormi il più velocemente possibile.
-Sono a Los Angeles. – mormorai, incerta. Ora che lo dicevo ad alta voce, quasi non potevo crederci. Ero a Los Angeles! Bhè, insomma, nei dintorni, perlomeno.
In realtà ignoravo in quale strano ed insignificante agglomerato urbano mi trovassi.
A Mike si bloccò il respiro: riuscii a sentirlo nonostante fossimo probabilmente a chilometri di distanza e sebbene la linea minacciasse, con gracchi e suoni metallici, di cadere da un momento all’altro.
-Sei qui? In America? – domandò, allibito, cercando di capacitarsene. Ero più vicina a lui di quanto immaginasse.
-Sono qui. – sussurrai dolcemente. Solo lui non riuscì a cogliere il doppio senso della frase.
-Ma perché? È successo qualcosa? – chiese allarmato.
Ma che cosa poteva importargliene? Fosse stato per lui, avrei potuto morire investita da un autobus, o buttandomi da uno scoglio: non lo sarebbe mai venuto a sapere. Mi aveva abbandonata a me stessa.
-No, affatto. Piuttosto, però, sarei io a doverti fare la stessa domanda.-
La mia determinazione lo colse alla sprovvista. Esitava.
-Susie, mi dispiace. – riuscì a mormorare dopo qualche istante.
Non potevo accontentarmi di quelle scuse, sebbene la tentazione di lasciar correre e dimenticare tutto fosse forte.
-Non ti aspetterai che io mi arrenda così dopo due anni di inspiegabile silenzio, vero? Voglio sapere. Ne ho il diritto. -
-E’ vero … - mi concesse lui ancora restio.
Il suo comportamento mi esasperava e rischiava di farmi saltare i nervi. Inspirai profondamente per cercare di mantenere la calma: urlargli contro non avrebbe affatto giovato al nostro già delicato rapporto d’amicizia.
-Bene. Pensavo t’importasse abbastanza di me per gioire del fatto che non sarei morta. Evidentemente non è così. – dissi, in un soffio, cercando di vincere il dolore che mi attanagliava da dentro. Michael non mi lasciò quasi finire la frase.
-No, no, Susie, ma che dici? Io ti voglio bene, davvero … è che … è colpa mia, vedi, non ti posso spiegare. Mi odieresti troppo. Ma non dipende da te! Sei la persona più importante della mia vita, lo sei diventata due anni fa e sempre lo sarai! -
Scossi il capo impercettibilmente, per impedire a quelle parole di radicarsi nel mio cuore. Non potevo credergli.
-Tu non hai idea di come mi sono sentita. – mormorai meccanicamente con una voce che sembrava non appartenermi.
-Lo so, credimi, è ciò che ho provato anche io.- mi assicurò. La sua voce si spezzava in punti strani. E da ognuna di queste fratture uscivano cascate di dolore che bussavano direttamente alla porta del mio cuore, mettendomi terribilmente in difficoltà: ma non potevo cedere.
-Esigo una spiegazione. – ripetei, determinata, ignorando le sue suppliche disperate.
-Non posso. – singhiozzò. Vacillavo: il mio intento iniziale stava scemando, sostituito da un sentimento di pena verso l’uomo che mi aveva sì ferita irreparabilmente, ma mi aveva anche aiutata a guarire. Ne ero certa: Mike mi aveva donato una vita nuova. Che lui fosse destinato a farne parte o meno, questa era un’altra storia.
Pensai che, forse, avrei dovuto essergli grata per avermi regalato una seconda possibilità: perché, ne ero più che certa, Michael, in qualche modo, mi aveva guarita. Forse era un angelo. Forse solo un uomo a conoscenza di qualche strano meccanismo psicologico per il quale la leucemia era scomparsa. Ad ogni modo, avrei dovuto essergli riconoscente. No?
Eppure avevo la strana sensazione che una vita senza di lui non potesse essere così piena da valer lo sforzo e la fatica di viverla tutta.
Perché mi aveva fatto questo? Perché aveva deciso di salvarmi per poi farmi precipitare di nuovo nelle tenebre?
-Michael … ti prego. – mormorai, piangendo, e non mi riferivo affatto alla conversazione di poco prima, o al male che mi aveva procurato, o al fatto che mi ero preposta, già prima di toccare il suolo americano, di cavargli di bocca qualche stralcio d’informazione o di giustificazione, per falsa che sarebbe potuta essere. Intendevo dire: “Michael, ti prego, resta con me.”
Avevo un disperato bisogno di lui. La necessità impellente di stringerlo forte a me e la constatazione che ciò non era al contempo possibile, mi distrussero. Mi lasciai crollare sul pavimento.
-Susie, stai bene? – domandò Michael preoccupato. Forse aveva capito che in realtà mi sentivo molto peggio di quanto dessi a vedere.
Ripresi il controllo di me stessa in pochi secondi, quel tanto che bastava a degnarlo di una risposta sensata.
-Come puoi farmi una domanda del genere? Sai come sto. – gli ricordai, severa. E la mia frase suonava come se sottintendessi che la causa di tutti i miei mali fosse lui.
-Finalmente stai bene.- mormorò. Sapevo che si riferiva alla leucemia e non al mio stato d’animo, ma la sua osservazione mi parve comunque fuori luogo: poco si addiceva a come in realtà mi sentivo dentro.
Cercai di ragionare.
-Forse. Forse, grazie a te o a un miracolo sono guarita. Sono viva. Ma non mi sono mai sentita più morta, più spenta e stanca di così. Perché non sono mai stata più sola di così. C’è il vuoto intorno a me,Michael. Mi hai abbandonata … Magari … magari, se ci vedessimo, uno di questi giorni … - cominciai ad ipotizzare e mi maledissi nella mia mente per quella manifestazione aperta e palese di nostalgia: perché non si trattava d’altro. Mi mancava terribilmente, più di quanto in realtà avrei gradito ammettere.
Ma era così, davvero. All’improvviso scoprii che il suo comportamento non aveva scatenato nessun effetto deterrente in me. Ero ugualmente ed inevitabilmente attratta da lui, come una figlia da un padre, una discepola da un maestro, un pianeta dal suo sole …
-E’ meglio di no,Susie. – rispose, pacato, freddo e distaccato.
Quel suo improvviso cinismo mi stupì, ferendomi e rendendomi di colpo dura.
-Bene. Anzi, perfetto. Hai ragione tu: perché dovrei rovinarmi un’esistenza per rincorrerti, come una povera e patetica stupida? Ho ancora tante cose da fare, tanti posti da vedere, molte persone da incontrare … Non voglio perdermi tutto questo. Non ne vale la pena, giusto? – dissi, acida, con tono volutamente sarcastico.
Michael non rispose. Lo sentivo respirare affannosamente all’altro capo della cornetta,come se quella conversazione l’avesse affaticato. E riattaccai.
(StreetWalker )
00sabato 7 gennaio 2012 23:56
Michael ha illusso Susie facendole credere di tenere alla sua amicizia invece non è cosi perchè ha sposato Dabbie con cui ha avuto due figli ed infine quando vuole vederlo gli ha risposto in modo freddo. Attenderò il prossimo
Lily96jackson
00domenica 8 gennaio 2012 00:02
La storia prosegue ...
Capitolo 10

Trovai un modesto lavoro presso un locale della zona come cameriera e addetta alle pulizie. I miei genitori, a lungo andare, smisero di telefonarmi: lasciavo squillare il cellulare a vuoto da troppo tempo. Avevo solo bisogno di restare un po’ sola con me stessa,mi ripetevo. Dovevo distrarmi. Poi sarei tornata a casa, da Javier e dalla mia famiglia, nella mia terra che tanto amavo. Ma non andò così.
Dopo circa otto mesi, il 17 gennaio del 1999, mi sposai, ubriaca e strafatta, con il proprietario del pub in cui ero stata assunta: si chiamava Liam. Erano due settimane che mangiavo solo avanzi, che bevevo superalcolici e mi facevo di eroina e cocaina per rifugiarmi per qualche ora in luoghi del tutto irreali che mi aiutassero a non pensare a ciò che in verità mi stava accadendo.
Sarei stata disposta a tutto pur di scacciare la terribile sensazione di quel vuoto incolmabile nello stomaco causato dalla fame, la stessa che quasi m’impediva di reggermi in piedi ultimamente.
Mio marito era dieci anni più vecchio di me e lo conoscevo da appena due mesi quando obbligammo, un po’ per gioco, un po’ per dare una svolta imprevista alle nostre vite, un po’ perché spinta dai morsi della fame a cercare una soluzione alternativa a quella che stavo vivendo,un sacerdote incontrato per caso pochi istanti prima a sposarci in una manciata di minuti in cambio di una cospicua somma di denaro.
Il nostro viaggio di nozze consistette in una sola,interminabile notte trascorsa nella sua lussuosa villa di Los Angeles, in cui Liam viveva immerso nel lusso e nell’agiatezza.
Ma già la mattina seguente, quando recuperai la lucidità sufficiente a rendermi conto di ciò che era successo, abbandonai il suo fianco per fuggire lontano.
Ero sposata, affamata, esausta e tormentata.
Camminai a lungo nella polvere, cercando vie nascoste agli occhi della gente: non volevo farmi vedere. Mi vergognavo di me stessa, di ciò che ero diventata. Avrei voluto nascondermi persino a me stessa.
Soffiava un vento insistente quel giorno, che mi scompigliava i capelli e mi frustava il viso e che mi diede una sorta di energia elettrica che alimentò la mia confusione e la velocità della mia andatura.
Verso sera, dopo un’intera giornata trascorsa a scappare, inseguita forse solo dalla mia ombra, il numero del mio nuovo marito comparve sul display del mio cellulare.
-Pronto? – domandai, incerta su come giustificare la mia assenza, con la mano che mi tremava mentre portavo il telefono all’orecchio.
-Dove sei?!?! – ruggì Liam.
Trattenni il fiato, spaventata ed incredula di fronte all’uomo violento che avevo conosciuto quella notte. In realtà, quel lato era sempre riuscito a mascherarlo molto bene, nascondendolo dietro ad una facciata impeccabile ed impenetrabile. Ricordo che quando lo conobbi la prima volta mi fece un’ottima impressione: l’avevo giudicato estremamente gentile, anche se un poco misterioso. Mi aveva offerto da bere e mi aveva tenuto compagnia tutta la notte quella volta. Gliene ero stata infinitamente grata: di tanto in tanto mi sentivo un fantasma che errava senza meta, e avevo bisogno di parlare con qualcuno che mi ascoltasse per sentirmi nuovamente viva e reale.
Ma i ricordi di Liam che abusava di me, sua moglie, la prima notte di nozze, ritornarono a galla, terribilmente vicini e nitidi.
Fui scossa da un tremito.
-Lontano da te. – sussurrai, sempre terrorizzata.
Fui attraversata da qualcosa che assomigliava molto ad un conato di vomito: non seppi se attribuire quella nausea all’alcol o a Liam.
-L’ho notato. Ma il tuo posto è qui, ora. – disse, con la voce impastata. Intuii che non era affatto sobrio. Aggiunse:- Ieri sera mi hai sposato perché eri così disperata che per sfamarti, in alternativa, avresti solo potuto cominciare a concederti al primo che passava, giusto per metter da parte un po’ di soldi.-
Rise, perfido e spietato, divertito dall’idea che potessi essere venduta come della merce di poco valore al migliore offerente. Lo lasciai parlare, troppo preoccupata per interromperlo. Proseguì, perentorio: -Io me ne sono stato zitto e ti ho accolto in casa mia come una delle mie protette: ora adempi ai tuoi doveri di moglie e torna da me. Subito. –
Cercai di trovare la forza per rifiutarmi.
Sentii una voce in sottofondo: intuii che apparteneva ad una donna e mi aggrappai a quel dettaglio quasi fosse un appiglio in grado di tirarmi fuori dal corso di un fiume impetuoso che mi trascinava via con sé senza concedermi il tempo di rendermi conto di dove stessi andando.
-C’è qualcuno in casa? – chiesi, fingendomi sorpresa. In realtà ero semplicemente molto spaventata.
-Due o tre amiche che molto gentilmente e premurosamente rimediano alla tua negligenza. – sputò, ironico, tra i denti.
Riattaccai di scatto. Tremavo.
Desideravo solo cancellare tutti quegli errori che avevo commesso ultimamente, lasciarli scivolare in fondo alla memoria, quasi non fossero altro che sogni evanescenti. Volevo dimenticare e tornare sui miei passi prima che fosse troppo tardi.
Così feci una cosa che avrei dovuto fare molto prima.






Capitolo 11

-Michael? – domandai, incerta, con un filo d’isteria nella voce.
Non mi ero ancora del tutto ripresa dalla discussione con Liam e avevo paura che presto mio marito sarebbe venuto a prendermi con la forza se non avessi fatto ritorno a casa.
-Susan? Susan, stai bene? – chiese Mike all’altro capo della cornetta, in apprensione. Aveva capito che qualcosa non andava.
-No. – singhiozzai, sincera. Non seppi aggiungere altro. Cosa potevo raccontargli? Che mi ero sposata il giorno prima e che il mio sposo aveva osato violentarmi, trattandomi al pari di una miserabile bestia? Come avrebbe potuto consolarmi, anche se gliel’avessi detto?
Michael si inquietò e sentii che si stava spostando. Probabilmente l’avevo svegliato con quella mia telefonata notturna e si stava alzando dal letto.
-Dove sei? – s’informò, cercando d’infondermi un po’ di sicurezza. Ci riuscì.
-In una sorta di ristorante alla periferia di Los Angeles. – risposi, in un lampo di lucidità.
Gli dettai l’indirizzo meccanicamente.
-Susie, vengo a prenderti. – mi promise, dolcemente. La sua voce era una cucchiaiata di miele.
“Oh, sì, Michael. Vieni a prendermi per mano e a trascinarmi fuori da questa situazione. Ti prego.” pensai. Avevo bisogno del mio angelo custode in quel momento più che mai.
-Fai in fretta.- lo pregai. Carpì l’urgenza nella mia voce e non aggiunse altro. Chiusi la comunicazione.
“Ho fatto la cosa giusta” mi ripetevo, in continuazione, per convincermene. Ma i dubbi persistevano. Michael si era rifiutato di starmi accanto, mi aveva respinta come amica non molto tempo prima.
Mi aveva fatto soffrire. Davvero era stato un bene chiedere aiuto a lui?
Esitavo. Cosa gli avrei detto una volta che mi avrebbe raggiunta?
Tra noi non era rimasto più nulla: ogni legame si era dissolto.
Ogni probabilità di ripristinarlo era svanita otto mesi prima. Avevo deciso di arrendermi, di lasciarlo andare. Anzi, io stessa l’avevo allontanato da me. Avevo creduto che dopo qualche tempo sarei riuscita a dimenticarlo. Ma non era successo, quasi non fosse possibile rimuoverlo veramente dalla mia mente. Ci appartenevamo, eppure ci eravamo fatti del male a vicenda fino a ritrovarci ad un punto di non ritorno.
Lanciai un’occhiata nervosa all’orologio a muro appeso alla parete di fronte: mancavano due minuti a mezzanotte.
Sospirai.
In quel mentre, la porta a vetri del ristorante si spalancò, lasciando entrare nel locale un soffio d’aria fresca.
Un uomo che non riconobbi mi si avvicinò. Era alto, indossava un cappotto scuro con il bavero tirato su ad oscurargli il viso, sebbene non facesse affatto freddo, e un paio di occhiali scuri, oltre che ad un cappello.
Lo fissai sospettosa, indecisa se scappare o fingermi indifferente finché non fosse passato oltre.
-Susan. – sussurrò allora lo sconosciuto, con un sospiro di sollievo, quando fu a soli due metri da me; si guardava intorno furtivamente per appurare che nessuno potesse averlo sentito e dunque riconosciuto.
-Michael? – domandai, incredula. Travestito in quel modo, solo la voce inconfondibile l’avrebbe tradito.
Annuì.
-Vieni. Sali in macchina. – ordinò, ma non sembrava una costrizione: più che altro, una promessa di conforto e calore, un gentile invito, l’offerta di un vecchio amico, che potevo decidere di declinare se l’avessi ritenuta inopportuna. Ma non vi era nulla di più opportuno del farmi rapire da quell’uomo per qualche ora in quel momento.
Così mi alzai senza dir nulla,avviandomi a capo chino verso l’uscita. Michael mi seguì. Vidi che si teneva a distanza, forse perché temeva di turbarmi, forse per osservarmi meglio senza farsi notare.
Percepivo il suo sguardo critico ed insistente su di me.
Quando fummo in macchina – chissà perché mi stupii di trovare una Volvo nera tirata a lucido ad aspettarmi al posto di una senz’altro più appariscente limousine – finalmente si tolse occhiali, cappello e baffi finti.
Prima di mettere in moto si volse verso di me accennando una smorfia e indicandomi.
-Sei molto dimagrita. – osservò con disappunto.
I suoi occhi erano freddi e severi.
-Anche tu. – ribattei, balbettando e trattenendo a sento l’impulso di mostrargli la lingua per dispetto.
Mi girai verso il finestrino leggermente offesa.
Michael sospirò e accese l’auto che prese vita con delle fusa appena percepibili.
Mi rannicchiai contro il sedile incredibilmente confortevole e non proferii parola mentre i palazzi, i parchi e le vie di Los Angeles mi sfrecciavano davanti agli occhi.
-Non sapevo sapessi guidare. – osservai, ad un certo punto, con aria annoiata, sperando di avviare una sorta di conversazione.
-Ho la patente. – mormorò Mike,distratto, ed intuii che stava pensando ad altro, così lasciai cadere il discorso.
Trascorremmo ancora qualche minuto in silenzio.
-Susie. – mi chiamò. Poi tacque.
-Susie. – ripeté ancora, addolorato. Mi voltai verso di lui incuriosita. Guardava la strada, dritto davanti a sé, con la mascella contratta e gli occhi socchiusi ridotti a due fessure.
-Dimmi. – lo incitai, vedendo che non proseguiva.
Accostò improvvisamente con una manovra sicura su un lato della strada. Per la prima volta in vita mia, lo vidi furioso.
Prese il mio viso scarno tra le sue mani grandi e pallide e mi guardò fisso negli occhi:
-Perché? Perché hai rinunciato a vivere?-
-Io non ho … - cominciai, ma non mi permise di terminare la frase.
Con due dita tracciò leggero il profilo del mio volto, dalla tempia fino al mento, poi accarezzò con lentezza misurata le ombre pesanti che mi cerchiavano gli occhi ormai da tempo .
Avevo il fiato grosso.
-Ti sei lasciata portare alla deriva, Susie … - mi fece notare,scuotendo impercettibilmente il capo.
Le sue labbra perfette erano a pochi centimetri dalle mie, così deliziose ed irresistibili da sentirne quasi il sapore sulla punta della lingua.
-Michael … - mormorai. Poi lo baciai.
















Capitolo 12

Nel momento in cui si verificò il contatto, in cui le mie labbra carnose incontrarono quelle fredde e sorprese di Michael, sentii il suo corpo irrigidirsi e trasformarsi in statua, reazione insolita e inaspettata.
Cercò di scostarsi con delicatezza per non ferirmi.
-No,Susan … è sbagliato. – mi fece notare, in un soffio. Ma la sua voce era debole quanto la sua volontà, o almeno così la percepivo.
Ridacchiai, nervosa eppure finalmente felice, completa. Il mio cuore aveva ripreso a battere. Me lo sentivo rimbombare nel petto, in preda all’euforia.
-Baciami.- lo pregai, in un soffio. Per un breve istante le sue labbra si mossero in sincrono con le mie, adattandosi alla mia bocca che cercava ingorda la sua e rispondendo ad ogni mia richiesta inespressa.
Ma poi, improvvisamente, Mike mi afferrò all’altezza delle spalle, allontanandomi da sé e tenendomi a distanza di sicurezza dal suo viso squisito. La sua incertezza era disarmante.
Chiuse gli occhi, come per concentrarsi meglio.
-No. – disse poi, fermo, perentorio ed irremovibile.
Mi sentii come se il mondo avesse preso a girare al contrario.
-Non … non mi vuoi? – chiesi, in un sussurro quasi incomprensibile, e cominciai a piangere in silenzio. Le lacrime che sgorgavano dai miei occhi mi rigavano le guance e morivano tra le mie labbra. Cercai di spazzare via quella strana sensazione che mi stava nascendo dentro.
Inspiegabilmente, mi ero comportata da ingenua e in modo avventato. Ora, a quanto pareva, dovevo pagarne le terribili conseguenze.
Quante volte può essere lacerato un cuore prima di smettere di battere?
Michael si mordicchiò il labbro inferiore con gli occhi lucidi, come se non intendesse rispondermi.
-Io ti amo. – mormorai, sincera, e sapevo che era la verità.
Ma quanto poteva contare in quel momento? Avevo lasciato che quel sentimento sgorgasse fuori come un torrente impetuoso e ora il dolore straziante che ne derivava mi lasciava senza fiato.
Perché doveva fare così male?
-Perché piangi? – domandò, tormentato e sorpreso.
I suoi occhi danzavano inquieti dal mio volto alle mie mani con le quali stavo martoriando quasi inconsciamente un lembo della maglia di cotone grigia e insignificante che indossavo.
In quel mentre pensai che quella maglia potesse in realtà essere un riflesso di ciò che ero veramente: una ragazzina anonima e banale. Che cosa avrebbe potuto rendermi interessante agli occhi di un uomo talentuoso, sottile e sensibile come Mike? Emisi una sorta di rantolo di frustrazione quando mi resi conto della sua palese superiorità.
Michael mi strinse forte a sé, cullandomi dolcemente. Respirai a lungo sul suo collo marmoreo, riflettendo e tornando con la mente a ricordi lontani e più piacevoli, immersi nella pace e nella serenità che avevano caratterizzato il mio rapporto con Michael fino a due anni prima, quando tutto risultava più spontaneo e naturale.
-A che cosa pensi? – mi chiese Mike, dopo qualche minuto.
Vi era una strana sfumatura d’angoscia nel suo tono di voce, quasi fosse sofferente. Quasi il mio dolore non fosse che un’eco lontana del suo, più profondo e antico.
-A scomparire. – risposi, sincera. Non ero sufficientemente forte per mentire o nascondere anche solo in parte la verità.
Michael si scostò appena, per scrutarmi e studiare attentamente il mio volto con i suoi occhi che bruciavano d’intensità.
-Non voglio che tu te ne vada. –
Queste sue parole rimasero sospese nell’aria, intrise di un significato magico che al momento mi sfuggiva.
-Non posso restarti accanto in questo modo. – mormorai, cercando di dar ascolto al mio buon senso almeno quella volta.
Ciò che ancora era rimasto intatto tra noi dopo quelle telefonate, l’avevo mandato in frantumi nel giro di pochi secondi. Non potevo vivergli vicino con questa consapevolezza. Né potevo costringermi in continuazione a seppellire i miei sentimenti sotto strati di raziocinio: non ne ero mai stata in grado e sarei finita con il fare del male sia a me stessa, sia a lui.
-Ma io ho bisogno di te.-
Michael m’implorava e io, da parte mia, non capivo il significato di quella triste supplica. Sorrisi mesta, posandogli una mano tremante sulla guancia, dopodiché aprii la portiera. Ero già in procinto di scendere quando qualcosa mi trattenne per un braccio. Michael mi tirò di nuovo dentro all’abitacolo con foga, mi strinse a sé e si arrese con un gemito a quell’amore che, per troppo tempo, avevamo deciso di celare ma che quella notte intasava l’ambiente e si trasmetteva da una cosa all’altra, da un corpo all’altro come energia pura, frizzante ed inarrestabile.












Capitolo 13

Quando mi svegliai, il mattino seguente, tra le lenzuola fresche ed immacolate del letto di Michael, ci misi qualche minuto per rimettere in moto il cervello e cercare di ricordare che cosa fosse successo la notte prima.
Mike era ovunque: l’aria era quasi satura del suo profumo inebriante che sapeva di sole, fiori e vaniglia,e la sensazione delle sue labbra sulla mia pelle non mi aveva ancora abbandonata del tutto. Mi misi a sedere e mi guardai intorno, incantata dal pulviscolo che danzava trascinato da una leggera brezza e illuminato da un fascio di luce proveniente da un’ampia e luminosa finestra spalancata.
Avvolta in un lenzuolo lungo e svolazzante mi avvicinai ad essa, sporgendomi appena, come per assaporare meglio le fragranze e gli aromi portati dal vento che, dopo aver accarezzato i prati e i fiori di Neverland, giungeva sino a me, in quella stanza dai contorni sfocati ed evanescenti come quelli di un sogno.
Sospirai, appagata e in pace.
In quell’istante eterno mi parve di sentire di nuovo le braccia di Michael che mi cingevano la vita mentre oltrepassavamo la soglia di quella casa, più simile ad una reggia in realtà, che ad una vera e propria abitazione; le sue mani delicate e leggere sul mio corpo, le mie dita intrecciate ai suoi capelli lunghi e neri.
E poi le sue labbra, la loro infinita dolcezza mentre sfioravano le mie, folli, piene di disperato amore; mentre si accostavano al mio orecchio e sussurravano tremanti il mio nome; quando, sulla mia pelle, esprimevano mute il loro incontenibile e travolgente bisogno di me, un insaziabile desiderio che poteva essere colmato soltanto da quei momenti in cui ci fondevamo insieme sino a formare una lega indistruttibile, che sarebbe resistita,pensavo, anche al logorio del tempo.
In quel mentre, la porta della camera si socchiuse appena.
Rimasi immobile, senza voltarmi, in balia di sensazioni ancora troppo vicine e intense per lasciare il mio corpo così velocemente.
-Susie. – mormorò quella voce terribilmente familiare, che ogni volta mi faceva sentire a casa, al sicuro, lontana da tutto e da tutti.
Michael mi abbracciò da dietro posando le labbra sulla punta della mia spalla nuda.
Un brivido mi corse lungo la schiena.
Feci un respiro profondo e mi voltai verso il mio angelo dalla pelle diafana e il volto serafico e splendente. Irradiava una strana luce celestiale tutt’intorno a sé, specie in quel momento, in cui il suo sorriso da solo sembrava capace d’illuminare l’intera stanza.
Gli passai una mano tra i ricci lunghi e disordinati.
-Ti amo. – dissi, in un soffio, rivolta più a me stessa che a lui.
Dare finalmente un nome e un volto al sentimento che provavo nei suoi confronti e che inevitabilmente ci legava quasi mi rasserenò.
-Ti amo. – mi fece eco, dopodiché mi baciò, tenero.
Ricambiai con trasporto e per qualche momento restammo così, avvolti da quel vortice di sospiri,sussurri e cuori che battevano all’unisono. Ma poi Mike si scostò, come se si fosse ricordato di qualcosa.
-Ti amo, però … - accennò, e il sorriso sul suo volto si spense.
Divenne improvvisamente e inspiegabilmente serio.
-Però? – domandai io,tentennando ma cercando di non far trapelare il panico che cominciava a stringermi il cuore e a tormentarmi lo stomaco, con mille schegge di ghiaccio che si agitavano simultaneamente dandomi la nausea. Non ero sicura di voler sentire il seguito della frase.
Michael, in silenzio, mi posò le mani sulle spalle. Dopo qualche secondo, le fece scivolare lentamente lungo le mie braccia, che ora tenevo incrociate sul petto, per sorreggere il lenzuolo bianco che mi copriva. Mi afferrò i polsi con delicatezza.
-Lascia … - sussurrò.
Il cuore mi batteva all’impazzata e avevo il fiato corto.
Obbedii. Sentii il lenzuolo scivolarmi lungo i fianchi e cadere ai miei piedi. Tremavo.
-Ora … - cominciò Mike, in un soffio, e posò le labbra nell’incavo del mio collo.
-Sì? – lo incitai a proseguire, mentre la sua bocca assaporava ogni centimetro della mia pelle.
-Spiegami … che cos’è questo.-
Michael si allontanò un poco, per concedermi di respirare.
Dopo qualche secondo, la testa prese a girarmi un po’ meno, così trovai la forza di chiedere delucidazioni.
-Questo? – mormorai, incuriosita, e intenta a capire a che cosa si riferisse.
-Questo. – indicò Michael con un cenno della testa, puntandomi gli occhi addosso. Seguii il suo sguardo.
Capii che alludeva ad una piccola macchia violacea e dolorosa all’altezza di una mia costola.
Sapevo bene a cos’era dovuta. I ricordi della violenza di Liam erano ancora vividi, solo attenuati dalla dolcezza della notte appena trascorsa con Michael.
-Non è nulla. – cercai di rassicurarlo, ma lui non se la bevve.
-E questo? – chiese nuovamente, afferrandomi questa volta il polso e puntando il dito ad un centimetro di distanza da quattro chiazze ravvicinate – corrispondenti con le dita della mano di mio marito – stampate sul mio avambraccio.
“Sono solo lividi.” ripetei a me stessa. “Passeranno.”
Ma non ero sicura che se ne sarebbero andati senza lasciare tracce. La ferita che Liam aveva aperto nel mio cuore avrebbe continuato a pulsare, ne ero più che certa. Quelli erano solo i danni superficiali, ma l’abuso di quella notte era andato ben oltre la pelle.
-Sto bene. – mentii, facendo spallucce.
-Non è vero! – sbraitò lui, dirigendosi con passi lunghi e decisi verso la parte opposta della stanza. Era furioso. Spalancò l’armadio, frugando al suo interno con gesti nervosi delle mani.
Fu di nuovo al mio fianco in pochi secondi e mi lanciò dei vestiti appallottolati, tra i quali riuscii a distinguere solo una camicia bianca.
-Copriti! – mi ordinò, pieno di rabbia e cinismo, come se all’improvviso la mia vista fosse diventata per lui insopportabile.
Rimasi interdetta a fissarlo.
Nel frattempo, il mio cellulare, appoggiato sul comodino alla destra del letto, squillò, insistente. All’inizio pensai d’ignorarlo, ma rinunciai subito al mio proposito iniziale.
Portai il telefono all’orecchio, esasperata, senza nemmeno lanciare un’occhiata al display per verificare chi potesse aver avuto l’ardire di chiamare a quell’ora.
-Pronto? – domandai, distratta.
Solo in quel momento mi resi conto, in un lampo di lucidità, che non avrebbe mai potuto essere nessun altro, se non lui.
-Moglie mia! – esclamò, ironico, perfido. Odioso.
Rimasi di sasso. Probabilmente Mike si accorse della mia espressione smarrita, perché mi si avvicinò ansioso.
“Chi è?” lo vidi mimare con le labbra. Lo ignorai.
-Che cosa vuoi?- chiesi a Liam, cercando di mostrarmi scontrosa e augurandomi di apparire forte e spavalda.
-Lo sai … - mi stuzzicò, con la sua voce ruvida. Mi mandò un bacio sonoro attraverso il telefono. Sussultai.
-Non mi rivedrai mai più. – gli promisi. Ma avevo la sensazione che prima o poi mi avrebbe scovata.
Nascondersi sarebbe stato inutile. Liam era ricco ed influente. Avrebbe delegato i suoi scagnozzi affinché mi trovassero e mi riportassero da lui. Era solo questione di tempo,lo sapevo. Eppure non riuscivo a cancellare quel filo sottile di speranza, che strisciava tra i miei pensieri e le mie constatazioni più razionali e realistiche, tentando di incendiarle: ma il fuoco non attecchiva,purtroppo.
-Ho come l’impressione che tu ti stia sbagliando. – disse, facendo eco ai miei pensieri.
A quel punto Michael, al mio fianco, s’irrigidì. Aveva capito.
Nel corso della sua vita fu sempre descritto dai giornali e dai media come un uomo bizzarro ed ingenuo, fuori dal mondo. Ma, se era vero che dentro, almeno in parte, rimase un bambino per sempre, era anche vero che Michael non era uno stupido,anzi: spesso il suo acume e la sua pronta intelligenza stupirono le persone che lavorarono e fecero affari con lui e che ebbero quindi modo di stargli accanto.
-Passamelo. – mi ordinò, con voce calma, fredda ed impassibile. Lo fissai a lungo negli occhi e decisi che forse non era una buona idea.
Gli feci cenno di no e Mike contrasse la mascella,nervoso.
-Chi c’è lì con te,Susan? – domandò allora Liam, che aveva evidentemente udito una voce maschile in sottofondo.
Indugiai troppo a lungo.
-Non .. non sono più affari tuoi. – balbettai infine, incerta.
A quel punto, Michael intervenne.
Mi strappò il cellulare dalle mani.
-Lo sono eccome, bastardo. Perché io sono colui che ti sbatterà in prigione. – disse, con voce ferma e convinta.
Non l’avevo mai sentito imprecare prima d’allora.
Mi misi le mani tra i capelli.
“Non istigarlo!” lo pregai, con un muto movimento delle labbra.
Che diamine stava facendo?
Sentii una risata secca, di scherno, all’altro capo del telefono ma non riuscii a sentire nulla di ciò che Liam rispose. Potevo però immaginarlo. Non si sarebbe affatto lasciato intimidire da una persona come Michael,anzi: avrebbe raccolto volentieri la sfida.
Mike, in ascolto, mi fissò con aria protettiva, come se temesse di perdermi da un momento all’altro. Sbiancai.
-Non permetterò che tu le faccia del male. – mormorò, abbracciandomi nel contempo, come se potesse trarre da quella vicinanza la forza che gli serviva per combattere mio marito e sconfiggerlo.
Per qualche secondo la stanza piombò nel silenzio, silenzio interrotto solo di tanto in tanto da una voce metallica all’altro capo della cornetta, che biascicava qualche parola che riuscii ad udire appena e snocciolava qualche constatazione.
-Non è la tua donna! – abbaiò Mike al mio fianco, all’improvviso, spaventandomi.
Poi chiuse la comunicazione con un gesto secco e scaraventò il cellulare contro il muro.
(StreetWalker )
00domenica 8 gennaio 2012 10:11
Liam se si azzarderà ad andare a Neverland per farle del male dovrà vedersela con Michael.
Lily96jackson
00domenica 8 gennaio 2012 10:56
Re:
(StreetWalker ), 08/01/2012 10.11:

Liam se si azzarderà ad andare a Neverland per farle del male dovrà vedersela con Michael.




Assolutamente! Michael non gli permetterà di farle del male <3 Presto pubblicherò gli altri capitoli <3
WalkerDady
00lunedì 9 gennaio 2012 22:32
Ok...sono senza parole [SM=g27816]
Non so da dove cominciare....ehm...intanto credo che abbia fatto bene a partire da sola per trasferirsi in America...non era solo un modo per scappare ma anche un modo per avvicinarsi a Michael e questo rende ancora più vivo l'amore che prova nei suoi confronti. Poi....Liam farà la fine di questo computer [SM=x47978] se solo prova a toccarla o a toccare Michael o Neverland!!!! Sus deve chiedere il divorzio immediatamente!!! Lo devono mettere alle strette per farlo firmare...è uno str***o!! Infine....Michael [SM=g27836] finalmente insieme e....che incontro!!! [SM=x47962] Adoro il fatto che sia così protettivo nei suoi confronti...anche Sus lo è...li rende speciali! [SM=x47928]
PS: ti chiedo scusa se non rispondo sempre ma oltre la scuola ho altri impegni e ho poco tempo per leggere....
Comunque continua così!!! Spero di poter leggere al più presto i prossimi!!!
Dady [SM=g27838]
keepthefaith89
00lunedì 9 gennaio 2012 23:32
Ho letto tutto di un fiato la tua ff e devo dire che è veramente bella!!! complimenti... aspetto il seguito... baci!
Lily96jackson
00martedì 10 gennaio 2012 14:32
Re:
WalkerDady, 09/01/2012 22.32:

Ok...sono senza parole [SM=g27816]
Non so da dove cominciare....ehm...intanto credo che abbia fatto bene a partire da sola per trasferirsi in America...non era solo un modo per scappare ma anche un modo per avvicinarsi a Michael e questo rende ancora più vivo l'amore che prova nei suoi confronti. Poi....Liam farà la fine di questo computer [SM=x47978] se solo prova a toccarla o a toccare Michael o Neverland!!!! Sus deve chiedere il divorzio immediatamente!!! Lo devono mettere alle strette per farlo firmare...è uno str***o!! Infine....Michael [SM=g27836] finalmente insieme e....che incontro!!! [SM=x47962] Adoro il fatto che sia così protettivo nei suoi confronti...anche Sus lo è...li rende speciali! [SM=x47928]
PS: ti chiedo scusa se non rispondo sempre ma oltre la scuola ho altri impegni e ho poco tempo per leggere....
Comunque continua così!!! Spero di poter leggere al più presto i prossimi!!!
Dady [SM=g27838]



Quanto a scuola ti capisco ... anche io sono messa malissimo e penso che riuscirò a postare altri quattro o cinque capitoli solo stasera o domani pomeriggio. Abbiate pazienza, per favore <3 E grazie per l'approvazione. Non immaginavo che sarebbe riuscita la storia *w*
Lily96jackson
00domenica 15 gennaio 2012 16:22
La storia prosegue ...
Capitolo 14

-L’hai sposato. – sussurrò Michael, sconfitto, incapace di muoversi. La rabbia che sino a quel momento aveva alimentato ogni suo gesto o parola era ormai scemata, lasciando il posto ad una sensazione di vuoto e di solitudine. Glielo leggevo negli occhi.
-Michael, guardami. – gli ordinai, seria, prima che potesse distruggere tutto il mio mondo con poche, dure parole. M’ignorò.
-Guardami!- urlai, esasperata dalla sua ostinazione.
Obbedì di malavoglia. Si girò verso di me lentamente, con una smorfia di fastidio dipinta sul volto. Quella sua espressione mi gelò il cuore, ma mi costrinsi a farmi forza e a non credere a quella sua apparente freddezza: quella era solo una maschera, una delle tante che Mike amava indossare per sottrarsi al confronto diretto con le difficoltà e gli ostacoli che inevitabilmente s’incontrano nel corso di un’esistenza. Era una barriera che ergeva tra lui e il mondo quando combattere diventava troppo difficile. Michael, in realtà, era terribilmente fragile.
Gli presi il volto fra le mani e,inspiegabilmente,cominciai a piangere. La mia vita mi sembrava ormai un enorme, sconfinato mare salato, formato da tutte le lacrime che avevo versato e che ancora i miei occhi avrebbero lasciato cadere.
Perché la vita è dolore. Se non soffri, vuol dire che non stai vivendo davvero. Chi crede che l’indifferenza sia la migliore arma per vincere la paura e la morte, in realtà troverà proprio in questa insensibilità un potente strumento di distruzione.
Perché la vita è incontrare qualcuno, amarlo, perderlo, ritrovarlo … La vita è un pianto senza fine: lacrime di gioia,dolore, paura, confusione …
E per Mike avevo versato tante, troppe lacrime: perché l’avevo vissuto fino in fondo, ne avevo assaporato ogni pregio e difetto, lo avevo amato intensamente, aprendogli le porte dell’anima.
E ancora l’avrei amato, perché non potevo fare a meno di vivergli accanto, di dedicargli la mia vita, che era l’unica cosa che possedevo.
-Sarei morta di fame,Michael. Tu non sai cosa significa. Io l’ho provato sulla mia pelle. Ti giuro che avrei fatto qualsiasi cosa per colmare quel vuoto all’interno del mio stomaco. – gli confessai, come se fosse una terribile colpa.
Lo sguardo di Michael si addolcì e si riempì d’antica tristezza.
-Non lascerò che ti faccia del male. – mi promise, poi mi strinse a sé in un abbraccio che speravo sarebbe durato in eterno.
Eravamo due tessere di un puzzle che s’incastravano perfettamente: ci completavamo a vicenda. Ognuno colmava i vuoti dell’altro, ne levigava gli spigoli, ne riduceva le imperfezioni.
In quel mentre, una risata giocosa e un urlo divertito di bimbo raggiunse le nostre orecchie. Sorrisi.
-Vado a darmi una sistemata. – annunciai, in un soffio.
Mi allungai sulle punte dei piedi per baciarlo e poi mi allontanai, diretta verso il bagno enorme indicatomi da Mike.
Quando tornai in camera, Michael stava ingaggiando sul letto una lotta all’ultimo solletico con un bambino dai lineamenti angelici deformati da smorfie buffe ed esilaranti.
Il bimbo urlò, divertito, cercando di afferrare le mani del padre per fermarle. Sorrisi e mi mantenni a distanza, come si conviene ad uno spettatore, un intruso che si limita ad osservare perché sente di non poter far parte, per qualche oscura ragione, del mondo gioioso e spensierato che sta esaminando con tanta attenzione e un filo d’invidia.
Prince saltò al collo di suo padre, stampandogli un bel bacio sulla guancia.
-Ti voglio bene. – balbettò il piccolo, con la trasparente e commovente sincerità dei bambini.
Michael sorrise, lo abbracciò forte e,appena ebbe intercettato il mio sguardo rapito, mi fece segno di avvicinarmi per unirmi a loro. Indugiai un poco. Che cosa avrebbe pensato Prince di me?
Il fatto che possedesse l’ingenuità tipica dell’infanzia non mi rassicurava affatto,anzi: questo sicuramente lo avrebbe portato a pormi domande difficili con il candore e la schiettezza di chi si aspetta che per ogni cosa esista una spiegazione.
Se mi avesse chiesto perché mi trovavo in camera di suo padre a quell’ora? Sarei stata capace di mentirgli per non turbare la sua innocenza e non destare in lui alcun tipo di dubbio?
Ma quando mi sedetti sul grande materasso accanto a loro, compresi che mi ero preoccupata troppo e inutilmente: Mike ci presentò pieno di tranquillità – tanto che a poco a poco mi quietai anch’io - e Prince mi salutò con la manina paffuta, sorridendo timido. Parlammo poco, ma subito mi parve chiaro che doveva aver ereditato l’intelligenza del padre: era estremamente sveglio e sagace per la sua età. Non si lasciava sfuggire assolutamente nulla e, quando ci lasciò per andare a fare colazione insieme alla “Tata Grace”, ringraziai il cielo che non avesse fatto caso proprio al dettaglio più importante, cioè la mia presenza lì, in quella stanza, a quell’ora.
Michael, allora,ormai di buonumore, mi prese per mano e m’invitò a conoscere anche Paris, la sua bambina.
Era una neonata deliziosa. Mike era orgoglioso e al contempo molto geloso dei suoi figli, però mi permise di tenerla in braccio per qualche minuto e cullarla lentamente: ne rimasi incantata.
Gli occhi di Paris erano magnetici e indimenticabili: contenevano una sapienza antica e lontana, come se avessero attraversato spazi e tempi inimmaginabili per giungere sino a lì, sul suo visetto adorabile, come due diamanti incastonati sul più prezioso dei gioielli.
Dio solo sa quanto ho amato quella bambina, quasi fosse stata mia figlia.































Capitolo 15

-Questo è il Giving Tree. – annunciò Mike, orgoglioso ed eccitato, lasciando la mia mano e correndo incontro ad un magnifico albero, dalla chioma ampia e dal tronco scuro e nodoso.
Appoggiò delicatamente l’orecchio su quel legno vecchio di secoli probabilmente, e prese ad accarezzarne la superficie ruvida e dura. Chiuse gli occhi e sorrise, come se stesse parlando con quella strana creatura, quell’essere immobile e saggio che innalzava i suoi rami verso il cielo, come se tentasse di afferrarlo, e al contempo sprofondava le sue radici nella terra fertile ai suoi piedi, come se cercasse di raggiungere il centro del pianeta, per assicurarsi una stabilità eterna.
Mi avvicinai a Michael e lo imitai, appoggiando la guancia contro la corteccia dell’albero miracoloso che aveva ispirato al maggiore intrattenitore di sempre alcune tra le sue canzoni più belle.
-Lo senti? – chiese in un sussurro Mike, estasiato.
Rimasi in ascolto: una sorta di soffio vitale, di respiro secolare, attraversava il Giving Tree, che sembrava quasi sospirare paziente e docile come un animale domestico al tocco del proprio padrone. Ancora oggi sono convinta che Michael avesse riposto in quella pianta prodigiosa una parte della sua anima e che quell’albero fosse, in qualche modo, vivo e magico.
-Muori dalla voglia di arrampicarti fino in cima, non è così? – tentai d’indovinare, ridacchiando, dopo qualche istante di silenzio.
Michael ammiccò, con finta aria colpevole.
-Vieni con me. – propose, offrendomi una mano, per aiutarmi a salire.
Feci cenno di no e Mike corrugò la fronte, confuso e forse un poco deluso.
-E’ il tuo albero. Voglio che rimanga tale. Va’, ti aspetto quaggiù.- gli spiegai, serena.
In effetti, non volevo risultare invadente: mi sentivo ancora una specie d’infiltrata in quel regno magico e segreto che Michael si era costruito intorno nel corso degli anni per riconquistare quel minimo di autonomia e privacy che dovrebbero essere dovute ad ogni uomo e delle quali lui era stato privato.
Neverland, l’atmosfera di pace che si poteva respirare al suo interno, non mi appartenevano. Non ancora,perlomeno. Un giorno forse ne avrei fatto parte, speravo.
Michael comprese e non insistette.
-Vuoi rientrare? – mi domandò, cortese. La leggera brezza mattutina si stava trasformando in un vento forte ed insistente.
Feci cenno di sì.
Mi prese sottobraccio e cominciammo ad avviarci verso casa. Quando rientrammo, Michael si offrì di mostrarmi il resto dell’abitazione.
Accettai di buon grado, spinta dalla curiosità, e ciononostante un poco timorosa di fronte all’ignoto.
L’edificio in sé era affascinante e misterioso,dall’aria solida e maestosa. Questa sua magnificenza si rifletteva anche all’interno, come era facile dedurre dalle stanze elegantemente arredate secondo i gusti particolari e raffinati di Michael, dai mobili in legno massiccio, dai corridoi interminabili, dai soffitti alti ed elaborati e dagli innumerevoli oggetti che decoravano ogni angolo della casa. Ciò suscitava soggezione e incuteva un senso d’inferiorità un po’ fastidioso. Ma nel complesso mi sentii felice di seguirlo mano nella mano ad esplorare ogni angolo della villa.
Le varie stanze si assomigliavano tra loro,erano accomunate da qualcosa che non seppi identificare subito, quindi lasciai perdere.
Ma l’unica che suscitò davvero il mio interesse fu una sala particolare, dal pavimento di legno e dai muri ricoperti interamente da specchi. Entrai estasiata, senza nemmeno aprir bocca.
Mai avrei immaginato di trovare all’interno di una casa una stanza adibita a ciò che più amavo nella mia vita dopo Mike: la danza.
-Wow. – riuscii a sussurrare dopo qualche minuto di silenzio. Michael, al mio fianco, mi osservava attentamente, rapito forse dall’espressione incantata del mio viso.
-Ti va di ballare? – mi chiese improvvisamente, cingendomi la vita.
Sorrisi.
-Ma non c’è la musica … - protestai.
Mike si mordicchiò il labbro inferiore, pensoso. Poi gli venne un’idea.
Afferrò la mia mano destra e la posò con delicatezza sul suo cuore che batteva forte, euforico, energico. La lasciai lì, affascinata da quel suono.
Così cominciammo a muoverci, lentamente, attraverso la stanza.
Stavamo ballando al ritmo del SUO cuore.














Capitolo 16

-Susan? – domandò Javier, incredulo, all’altro capo del telefono.
Sorrisi. Era evidente che non si aspettava una mia chiamata.
-Come stai? – chiesi, felice di sentire la sua voce dopo tanto tempo.
Avevo deciso di riprendere i contatti con la mia famiglia su invito di Michael. Sentivo la loro mancanza e avevo nostalgia di casa, ma fino a quel momento mi ero comportata da codarda, facendo perdere le mie tracce, nascondendomi. Non avevano saputo più nulla di me. Probabilmente pensavano ancora che fossi partita per l’America in cerca di fortuna e che frequentassi la scuola di danza per la quale l’adorabile Mrs. Sullivan mi aveva fissato prontamente un provino circa un anno prima.
Ma poi Mike aveva avuto la brillante idea d’infondermi un poco di coraggio. E nessuno sapeva essere più persuasivo di lui.
“Non temere di esser giudicata, Susie. Loro sono la tua famiglia e lo saranno sempre.” aveva detto.
In quel momento più che mai sperai che le sue parole fossero state sincere e che corrispondessero pienamente al vero.
Aveva sempre avuto la tendenza ad idealizzare un po’ troppo l’istituzione “famiglia”. Forse non c’era da stupirsene: era cresciuto insieme a cinque fratelli e tre sorelle ed era ancora molto legato ad alcuni valori che giudicava fondamentali.
Se Michael e la sua famiglia, nonostante vivessero a chilometri di distanza e si vedessero assai raramente, riuscivano comunque a mantenersi in contatto e a volersi bene, pensai, non vi era alcuna ragione che potesse realmente impedirmi di fare lo stesso.
-Non ci posso credere … Sono passati mesi dall’ultima volta che…- cominciò mio fratello, ma lo interruppi.
-Lo so. Mi dispiace. Ho telefonato per domandarvi perdono. Purtroppo … non è stato un periodo facile per me. – ammisi, con un filo di malinconia nella voce. Desiderai – invano,purtroppo – che non mi chiedesse i dettagli. La delusione sarebbe stata dolorosa per entrambi.
Sfortunatamente, Javier mi pose la fatidica domanda che tanto temevo.
Tre parole che ne prevedono, in risposta, altre mille. E io non sapevo dove e come trovarle.
-Cos’è successo? –
Sospirai, rassegnata. Prima o poi avrebbe dovuto saperlo comunque. Certo, avrei preferito spiegarglielo con più calma e magari di persona. In circostanze migliori, insomma. Ma ormai sembrava che non avessi scampo.
-Mi sono sposata. – annunciai, dopo aver fatto un respiro profondo. Quelle parole risultarono assurde persino alle mie orecchie.
Dall’altra parte non si udì alcuna risposta.
-Hai capito? – chiesi dopo qualche minuto, infastidita da quel silenzio imbarazzante.
Javier si riprese. Chissà cosa gli passava per la testa. Non che fosse difficile immaginarlo,comunque.
-Sì. – rispose, in un soffio.
-Non dici niente?- lo incalzai, sempre più turbata.
Certo non mi ero aspettata che reagisse positivamente alla notizia, ma quell’apparente mancanza di emozioni mi preoccupava. Forse una sfuriata sarebbe stata meno inquietante di quella freddezza inaspettata.
-Cosa dovrei dire? Tante felicitazioni. – disse, cinico, con falso entusiasmo.
Ridussi gli occhi a due fessure, indispettita.
-Bene. Anzi, benissimo! – esclamai, acida.
Sapevo perfettamente che quella conversazione non sarebbe sfociata in nulla di buono, eppure ciò non fece altro che accrescere la mia irritazione. Non poteva, dopo tanto tempo, dimostrarsi più gentile e comprensivo?
Se solo avesse saputo cos’era successo davvero, allora avrebbe cambiato idea: sarebbe stato dalla mia parte, invece di condannarmi così impietosamente.
-Posso aver l’onore di sapere come si chiama lo sposo? – domandò Javier, pungente. Era veramente insopportabile quando si comportava in quel modo.
Fu a quel punto che persi definitivamente le staffe.
Io e Michael avevamo stabilito di tener nascosta la nostra relazione sia perché voleva evitare di creare problemi a me con Liam, visto che perlomeno su carta noi rimanevamo ufficialmente sposati e che lui poteva risultare talvolta assai pericoloso e determinato quando si trattava di ottenere qualcosa che desiderava ardentemente, sia perché avrebbe preferito che il mondo intero non s’intromettesse tra noi due, ostacolandoci e limitandoci in un rapporto che, ne eravamo certi, era destinato ad evolversi e a durare in eterno.
-Non dovresti interessarti allo sposo. – osservai allora, alzando la voce di qualche ottava e attirando, dunque, la sua attenzione.
-Perché? – chiese mio fratello, improvvisamente confuso e spaesato.
Ghignai tra me e me, assaporando il gusto della vittoria in quella sorta di dibattito che si era prolungato più del dovuto. La rabbia aveva offuscato tutti i miei buoni propositi e m’impedì di agire razionalmente, come avrei senz’altro fatto se Javier non mi avesse attaccata in modo così esplicito.
A mente fredda me ne sarei poi pentita, ne ero più che certa.
Ma al momento riuscivo solo a pensare alla maniera migliore per rispondere alla sua provocazione in modo esemplare.
-Bhè, perché in realtà ora non sono con lui. – annunciai, con naturalezza.
-E dove ti troveresti? – domandò Javier, di nuovo sarcastico.
-A casa di Michael. – risposi, con finta spontaneità. Ci volle qualche secondo prima che comprendesse cosa ciò significasse.
Ma, quando lo capì, cominciò a sbraitare e ad inveire, furioso.
-Che COSA?!?! Da quanto? E che cosa ci fai lì? Sei impazzita? – gridò, infilando tra una parola e l’altra una sequela di bestemmie che mai mi sarei aspettata di sentire da lui.
-Vuoi davvero sapere che ci faccio con Michael? – chiesi, con un filo d’ironia nella voce. Alla mia domanda retorica seguì un silenzio carico di sottintesi e di tensione.
Javier riattaccò, indignato, ma non prima di aggiungere un “Va’ a farti fottere!” rabbioso.
In quel momento lo detestai più di quanto fosse lecito.





















Capitolo 17

-Papà? Mi passi il pane? – chiese Prince, impaziente, saltellando sulla sedia di fianco alla mia, come a sottolineare l’urgenza.
Sorrisi divertita.
Michael alzò un dito, rimproverandolo bonariamente ma con fermezza:
-Hai dimenticato la parola magica. Lo sai che voglio che siate gentili. –
Prince si batté il palmo della piccola mano sulla fronte, molto teatralmente. Era così buffo.
-Scusa! Mi passi il pane, per favore? – si corresse allora, accompagnando la timida richiesta con un’occhiata irresistibile e molto eloquente.
Mike afferrò il cestino alla sua destra e glielo porse, compiaciuto.
Aveva molto a cuore l’educazione dei suoi figli ed era così orgoglioso di loro – specie quando si comportavano in modo tanto garbato – che sprizzava soddisfazione da tutti i pori.
Paris osservò attentamente Prince mentre allungava la manina paffuta per afferrare una pagnotta dall’aria soffice e deliziosa dal cesto di giunchi intrecciati fra loro, poi reclamò anche lei la sua parte.
-Papà! Papà! Papà! – lo chiamò più volte, per attirare la sua attenzione.
Michael si voltò immediatamente verso di lei, come se temesse che si fosse fatta male in qualche modo o che si sentisse poco bene.
La sua apprensione era quasi commovente.
Mike era il padre migliore dell’universo, altroché.
-Pane! Per favore! – esclamò Paris, tendendo le mani verso l’alto.
Michael ne offrì prontamente anche a lei.
-Ho telefonato ad Javier. – annunciai, dopo qualche minuto di silenzio, osservando con la coda dell’occhio i bambini.
Ma loro continuarono a mangiare, assorti, senza prestarmi troppa attenzione.
-E? – m’incalzò Mike, incuriosito dalla mia espressione sconsolata.
-Abbiamo litigato. – mormorai.
Tagliai e addentai un piccolo pezzo di petto di tacchino, masticandolo pensosa.
Michael allungò una mano verso di me e mi sfiorò il braccio.
-Mi dispiace. – sussurrò, con gli occhi che ardevano di sincerità.
Non riuscii a sostenere quello sguardo.
-Ehm … non è tutto. – aggiunsi, poco convinta, mentre con le dita percorrevo leggera i ricami della tovaglia.
Mike ridacchiò.
-C’è altro? – chiese, incapace di comprendere quell’emozione che mi strisciava nello stomaco, dandomi la nausea. Non avrei saputo catalogarla nemmeno io. Vergogna,forse?
-Sì … gli ho detto, ehm … di noi. – confessai, abbassando ulteriormente la voce per assicurarmi che i bambini non sentissero una parola di quelle che stavo pronunciando.
Michael s’irrigidì.
-Non ha reagito bene. – dedusse, contraendo la mascella.
Feci cenno di no.
-Bhè, è normale. E’ tuo fratello, Susie: si sente responsabile nei tuoi confronti. – cercò di spiegare.
-Perché cerchi di giustificarlo ad ogni costo? – chiesi, incredula.
Non riuscivo a capire come potesse scusare il suo atteggiamento.
Javier aveva sbagliato, era evidente: rifiutava la mia felicità soltanto perché riguardava Michael e dipendeva da lui.
I fratelli non dovrebbero comportarsi così.
-Perché lui ti vuole bene. – mi fece notare, in un soffio, come se fosse qualcosa di lampante.
Un tempo non avevo mai dubitato dell’affetto che Javier provava nei miei confronti, perché era pienamente ricambiato.
L’avevo sempre considerato il mio migliore amico, una sorta di guida, quasi fosse un fratello maggiore, e non un mio gemello.
Fin da piccoli eravamo stati così legati che ai nostri genitori risultò impossibile separarci: anche a scuola le maestre erano state costrette a sistemarci in due banchi vicini.
Ma poi era subentrato Michael, al quale mi ero aggrappata sin dal primo istante, perché da lui dipendeva la mia vita.
Il mio amore per Javier era rimasto immutato, solo era stato sovrastato da qualcosa di più grande e incontrastabile.
In un primo momento avevo pensato che mio fratello fosse geloso ma poi mi ero dovuta ricredere: nemmeno la gelosia e l’invidia avrebbero potuto giustificare le sue parole.
Mi aveva ferita e io avevo risposto con la stessa moneta.
Quando sarebbe finito tutto ciò? Ero stanca dei litigi. Desideravo soltanto vivere in pace con Michael, nutrirmi di tutto quell’amore che mi offriva per poi restituirglielo in dose maggiore.
La serenità che Neverland aveva apportato alla mia anima veniva però continuamente offuscata da diverbi, preoccupazioni, timori.
Tra Javier e Liam, in quel momento, non avrei saputo decidere per chi angustiarmi maggiormente: sembrava facessero a gara per distruggere la mia quiete, squarciandola e sostituendola con l’angoscia.
-Non lo so. Non avrebbe dovuto reagire così. – osservai.
Michael annuì veementemente.
-Certo, hai perfettamente ragione. Nulla può giustificare il suo comportamento. Nulla … se non l’amore. Sai che è molto legato a te, e non ci vorrà molto tempo prima che richiami. Susie, non voglio obbligarti a metterti contro la tua famiglia per me, lo capisci questo, vero? Io non sono nessuno. Voglio che tu abbia una vita all’infuori di questa. Non puoi isolarti dal mondo, perché tutto ciò – ed evidenziò le parole con un ampio gesto delle mani - non durerà per sempre. –
Sussultai.
Avrei voluto piangere. Ma non potevo crollare di fronte agli occhi ingenui ed innocenti di Paris e Prince. Se l’avessi fatto, si sarebbero chiesti il motivo di quell’improvvisa disperazione. Come potevo spiegar loro che il colpevole era loro padre, che si era servito di poche parole come di un coltello per uccidere e sgonfiare tutti i sogni che la mia mente aveva finalmente liberato?
-Non … non durerà per sempre. –
Ripetei le sue parole, sforzandomi di non far apparire la mia fragilità in quel momento.
Michael capì. Senza badare ai suoi figli, mi abbracciò stretta a sé, sussurrandomi all’orecchio:
-Non voglio che tutto finisca, Susan. Ma voglio essere previdente. Desidero che, se qualcosa dovesse andare storto, tu abbia una seconda opportunità. Un piano B, insomma. –
Si allontanò da me lentamente, ridacchiando. Era così ilare quella sera!
-Non angosciarti! Io ti amo più della mia stessa vita. Ma non ho null’altro da offrirti se non me stesso e il mio cuore, che già ti appartiene. E non posso sapere se questo, per te, sarà abbastanza, per sempre. – mi spiegò.
Prince alzò gli occhi dal piatto che ormai aveva già ripulito.
-Anche io ti amo! – esclamò, sorridendo.
Paris gli lanciò un’occhiataccia, poi si rivolse a me:
-Io di più. –
E batté le mani eccitata.
Scossi il capo impercettibilmente e sorrisi, in risposta a quelle parole che si erano conficcate direttamente nel mio cuore. Poi mi voltai verso Michael.
-E tu, ricordati che sei tutto per me. La mia vita non ha alcun senso senza di te, tienilo bene a mente,sciocchino! – mormorai.
E gli stampai un bel bacio sulla guancia.
(StreetWalker )
00lunedì 16 gennaio 2012 16:16
Javier non deve essere arrabbiato perchè Susie gli ha detto che sta con Michael. Io,WalkerDady e Keepthefaith attenderemo il prossimo
Lily96jackson
00venerdì 20 gennaio 2012 17:49
La storia prosegue ...
Capitolo 18

-Vorrei restare così per sempre. – mormorai, con aria trasognata.
Appoggiai delicatamente la testa sul petto nudo di Michael, segnato da macchie color caffelatte che si mescolavano a chiazze più chiare, bianche, presenti ormai in netta maggioranza sulla sua pelle rispetto alle loro sorelle più scure.
Erano le tracce inconfondibili della vitiligine, di cui Mike soffrì per tutta la vita. Lo dichiarò per la prima volta al pubblico durante un’intervista con Oprah, ma i media continuarono a preferire l’altra versione, quella che avevano formulato e consolidato da soli nel corso degli anni, secondo cui il Re del Pop aveva schiarito gradatamente, per mezzo d’interventi chirurgici, il colore della propria pelle per diventare bianco.
Ciò che forse ignoravano era che Michael era molto più che orgoglioso di essere nero. Ebbi l’occasione di constatarlo più volte e, fortunatamente, seppi dare ascolto alla mia mente e al mio cuore, invece che ai giornali, spesso capaci d’infangare il buon nome di una brava persona come Michael diffondendo notizie prive di qualsiasi fondamento.
-Per sempre è davvero tanto, tantissimo tempo. – osservò lui, ridacchiando.
Il suo volto era illuminato dalla luce fioca della luna, che si stagliava pallida sul cielo nero ed uniforme ed emetteva, attraverso la finestra aperta della camera di Mike, insoliti bagliori argentei che bastavano a rischiarare l’intera stanza.
-Sembra che l’idea di trascorrere l’eternità con me ti rattristi. – notai, delusa, abbassando lo sguardo sul mio indice che sfiorava leggero la sua pelle, tracciando il profilo fantasioso e incostante di svolazzi e ghiribizzi immaginari.
Michael mi strinse forte tra le sue braccia e mi baciò i capelli.
-No. Io ti amo, Susie. Più di quanto abbia mai amato qualcun altro. Più di quanto io ami fare musica. Solo che … non credo più nel “per sempre”. La vita mi ha insegnato che raramente esiste qualcosa d’immutato e d’immutabile. – mi spiegò, paziente.
Mi lasciai cullare per qualche istante dalla sua voce vellutata, sebbene in quel momento accompagnasse parole e ragionamenti che non condividevo affatto.
-L’amore non è immutabile. L’amore si trasforma. – gli concessi.
-Ma cambiamento non è sinonimo di “fine”. – aggiunsi, pensosa.
Con la coda dell’occhio vidi Michael sorridere.
Mi appoggiai sul gomito per osservarlo meglio.
-Ascoltami bene, signor Jackson. – cominciai, scherzando. – Io con te non voglio una storia a lieto fine, d’accordo? –
Aggrottai le sopracciglia, imitando l’espressione burbera che talvolta assumeva mio fratello Javier con me, quando eravamo più piccoli, per impartirmi una qualche lezione. Peccato che gli risultasse impossibile non apparire alquanto buffo.
Michael non rise. Sembrava concentrato a capire quali pensieri mi passassero per la testa, prima ancora che li trasformassi in parole.
Sbuffai.
-Io con te voglio una favola senza fine. – conclusi, in un sussurro.
Nell’aria, per qualche secondo, rimase l’eco dell’aura di infinita dolcezza in cui era stata avvolta quella frase, sgorgata come un fiume di sincerità, amore e speranza dalle mie labbra.
Poi Michael parlò.
-Io ti prometto, Susan, che farò tutto ciò che si rivelerà necessario per assecondare ogni tuo desiderio e renderti una donna felice. È la tua felicità, la tua vita che mi sta a cuore. La mia non vale nulla: prendila, è tutto ciò che ho da darti. Ma la tua è così preziosa per me, che non potrei mai in nessun modo abusarne, o distruggerla. Desidero solo proteggerla e custodirla. E sono così immensamente onorato che tu me l’abbia affidata in questo modo che non saprei come ringraziarti. – mormorò.
Lacrime di gioia mi rigarono le guance.
Le asciugai con il dorso della mano, senza staccare gli occhi da Michael.
-Perché piangi? – mi chiese, sorpreso, accarezzandomi la schiena.
Scossi la testa impercettibilmente.
-Non lo sai? – domandai, in un soffio.
Lui tacque. E annuì, serio.
Poi le sue labbra sfiorarono le mie e riprendemmo da dove ci eravamo interrotti poco prima.
Lily96jackson
00giovedì 2 febbraio 2012 11:55
La storia prosegue ...
Capitolo 19

-Buon compleanno! – esclamammo all’unisono io e Michael, con lo sguardo acceso dalla gioia e dall’eccitazione.
Prince si stropicciò gli occhietti e sbadigliò, sorpreso da tanta allegria e leggermente infastidito da quella che poteva sembrare,ai suoi occhi, un’interruzione inopportuna di un sonno pacifico e riposante, ma in realtà ci mise ben poco ad adeguarsi a quell’atmosfera di festa.
Mi abbracciò all’istante,affondando la sua testolina bionda nella mia spalla.
-Grazie! – sussurrò, pieno di riconoscenza. Gli baciai una tempia con delicatezza, meravigliata di quanto il suo profumo fosse buono: non ci avevo mai fatto caso.
-Scusa se ti abbiamo svegliato. Ma tuo padre voleva farti una sorpresa. – gli spiegai, sottovoce, cercando di dissimulare il mio disappunto nei confronti di quella decisione. Avevo sinceramente provato a persuaderlo affinché rimandasse quel momento a quando suo figlio si fosse alzato da solo, ma non aveva voluto sentire storie.
Prince si scostò un poco, facendo spallucce.
-Mi piacciono le sorprese. – eclissò, poi sorridendo balzò in braccio a Michael, che lo coccolò finché Grace, bussando timidamente alla porta e socchiudendola appena, venne a ricordarci che Paris ci aspettava in cucina.
Scendemmo tutti insieme, mentre Prince si dimenava come un forsennato tra le braccia di Michael, protestando perché sosteneva di essere “abbastanza grande da camminare da solo,ormai”.
-Dài,papà, mettimi giù! Ho già tanti anni così!- si lamentò, mentre faceva il numero tre con le dita.
-Oh, allora sei proprio grande. È davvero vergognoso che il tuo papà debba portarti ancora in braccio. – scherzava Michael, senza accennare a posarlo per terra.
Eppure Prince si divertiva un mondo.
-Auguri! – gridò Paris, con voce squillante,quando varcammo la soglia della cucina e la trovammo seduta compostamente a tavola. Le andai incontro e mi stampò un bel bacio sulla guancia.
-Ciao, Sue! – mi salutò.
Di solito non mi chiamava con il mio nome per intero: ormai ci avevo fatto l’abitudine.
Non mi aveva mai dato davvero fastidio quella confidenza, anzi: era una dimostrazione della sua approvazione e del fatto che ormai ai loro occhi fossi entrata a far parte – speravo definitivamente- della famiglia.
Prince fremeva dalla voglia di scartare i regali e pregò suo padre affinché gli permettesse di aprirli immediatamente.
Inutile dire che Michael non oppose resistenza e cedette quasi subito a quelle tenere suppliche.
Paris si offrì di aiutarlo a trasportare i pacchetti dal salone in cui si trovavano fino in cucina, dove avremmo potuto assistere tutti insieme alla scena più toccante di quella giornata.
Alcune scatole erano troppo grandi e pesanti, quindi dovetti intervenire per evitare che i piccoli le rovesciassero rischiando di mandarne inconsapevolmente in frantumi il contenuto, ma tutto sommato furono abbastanza diligenti ed efficienti da terminare il lavoro in breve tempo.
Ci radunammo dunque tutti intorno a Prince, che afferrò subito il primo regalo – ricoperto da un involucro rosso con fantasie dorate – e cominciò a scartarlo, impaziente.
Trattenne a stento un urlo di gioia quando capì di cosa si trattava.
-Un trenino! Mi hai regalato un trenino! – esclamò, al settimo cielo.
Lo avvicinò agli occhi per esaminarlo meglio.
Grace osservava lo spettacolo da lontano, sorridendo compiaciuta.
Immaginai che, visto che raramente Michael poteva uscire a far compere senza essere notato, gran parte delle commissioni fossero toccate a lei.
Mike si fidava ciecamente di quella donna: non poteva essere altrimenti, visto che le aveva affidato i due tesori più preziosi che possedeva.
Non avevo mai avuto l’occasione di parlarci, e non dubitavo del fatto che sapesse svolgere il suo mestiere alla perfezione.
Tuttavia, talvolta, sentivo il suo sguardo critico su di me.
Non ne avevo fatto parola con Michael, perché temevo si sarebbe preso gioco di queste mie fissazioni, e in parte perché sapevo che mi avrebbe rimproverata per esser diventata così paranoica nei confronti di una brava persona che non conoscevo affatto.
-Signor Jackson? – lo chiamò una voce grave e profonda, interrompendo le mie riflessioni.
Michael divenne improvvisamente serio e s’incamminò immediatamente verso la porta. Il sorriso di Prince svanì.
Maledissi quell’uomo tra me e me per aver rovinato un momento così magico.
Poi mi spostai anch’io verso l’ingresso, facendo un cenno a Grace affinché si occupasse dei bambini.
-Michael, si può sapere che diamine è successo? – domandai, irritata, appena gli fui accanto.
Stava parlando con un uomo alto e nerboruto, dalle spalle grosse e possenti: solo a guardarlo incuteva timore. Era vestito abbastanza elegantemente, specie se si teneva conto che erano solo le nove di mattina.
Mi chiesi da dove fosse saltato fuori: certo non apparteneva a Neverland, con quell’aria seria e perennemente guardinga, come se temesse che qualcosa di brutto potesse celarsi dietro ogni arbusto e in ogni angolo, persino il più luminoso, della casa.
Mike mi fece cenno di tacere. Indispettita, incrociai le braccia sul petto, mordicchiandomi il labbro inferiore,nervosa, rischiando persino di farlo sanguinare.
L’uomo grosso stava bisbigliando qualcosa al suo orecchio, qualcosa che sfortunatamente non fui in grado di decifrare.
-Fatelo entrare.- ordinò dunque Michael, alla fine.
L’uomo rispose con un cenno obbediente e sottomesso e uscì con la stessa velocità con cui era entrato.
-E’ il terzo compleanno di tuo figlio. – feci notare a Mike, sgridandolo .
Il mio tono di voce era un po’ troppo severo. Cercai di moderarlo: non volevo litigare con lui.
-Lo so. Mi dispiace. – si scusò, abbassando lo sguardo.
Sospirai, pentita di averlo rimproverato a quel modo.
-Dai,andiamo. – sussurrai, sorridendo e sfiorandogli una spalla, come a chiedergli perdono della mia durezza.
Michael esitò.
-Ehm … forse è meglio se tu resti qua. – osservò, incerto su come proseguire.
-E perché mai? – domandai, incredula. Aveva deciso improvvisamente di escludermi da quella scena di vita famigliare? Forse aveva ragione. Non avevo alcun diritto di prendervi parte.
Che ingenua! Mi ero illusa che i cancelli di Neverland, dopo settimane, finalmente si fossero aperti per me; invece ero sempre rimasta all’esterno, una spettatrice curiosa e troppo invadente.
Desiderai piangere, ma non riuscivo a trovare la forza per versare una sola lacrima.
-Non fraintendermi … - disse subito Mike, come se avesse capito cosa mi frullasse per la testa. –Ma … - aggiunse – C’è qui tuo fratello.-
Capitolo 20

-Che cosa ci fai qui? – domandai, scontrosa ma sottovoce, per non farmi sentire da Prince e da Paris che, proprio nella stanza accanto, stavano testando i loro nuovi giocattoli.
-Sono venuto a salvarti. – dichiarò, con una fierezza nello sguardo che mi parve totalmente estranea e lontana.
Era incredibile quanto fosse diventato alto nel giro di un anno: ormai era più vicino ai due metri che al metro e ottanta.
Anche i tratti del suo viso si erano fatti più marcati, come induriti dal dolore e dalle delusioni che aveva dovuto sopportare. Non mi somigliava più come un tempo; nei suoi lineamenti non riuscivo a scorgere i miei, come senz’altro avrei potuto fare fino a poco tempo prima. In quell’uomo che stava ritto di fronte a me non riconobbi nessuno; era un semplice estraneo, che provava una piacere perverso ad intromettersi nella mia vita per guastarne la felicità.
-Da chi?!?! – chiesi, incredula e sempre più infastidita, man mano che il tempo passava. Desideravo solo concludere quella conversazione il più presto possibile.
-Da te stessa! – sbraitò, allora.
Abbassai lo sguardo, terrorizzata da quella reazione. Il fratello che ricordavo e che popolava la mia memoria era un ragazzo mite, affettuoso e incredibilmente gentile: che fine aveva fatto?
-Non ho bisogno di te. Io qui sto bene. –
Scandii le parole una ad una, nella speranza che gli entrassero in testa. Ma non voleva sentire ragioni.
-Oh, sì, certo. Quello lì potrebbe essere tuo padre! – gridò, esasperato. Capii bene a chi si riferiva, e sentii il sangue ribollirmi nelle vene. Cercai comunque di mantenere la calma: sarebbe stato meglio per tutti se avessimo risolto la questione civilmente.
-Almeno lui mi ama. – gli feci notare, riducendo gli occhi a due fessure.
-Hai anche un marito che ti ama. Se vi siete sposati ci sarà un motivo. – mi ricordò, sarcastico.
Sfortunatamente, lui non conosceva il resto della storia. Bhè, tanto valeva raccontargliela.
“Ora o mai più” pensai, e feci un respiro profondo.
-Javier, forse ti sfugge un piccolo dettaglio. – cominciai, forse con un po’ troppa enfasi.
-Un piccolo dettaglio? – fece eco lui, improvvisamente incuriosito.
Fui lieta di aver catturato la sua attenzione. Finalmente.
-Michael non mi ha mai violentata. – osservai, a bassa voce.
Non capì.
-Certo che no! Ci mancherebbe anche! Gli avrei spaccato quel brutto muso che si ritrova,altrimenti! – esclamò, confuso.
Cercai di non prestare troppa attenzione a ciò che era appena uscito dalla sua bocca, altrimenti avrei rischiato di prenderlo a pugni.
-Liam invece … - sussurrai, interrompendo la frase a metà, incapace di continuare.
-Chi è Liam? – s’informò serio, Javier.
-Mio marito. –
Divenne livido.
Fu come se tutta la rabbia accumulata fosse svanita con quella terribile scoperta, lasciandolo vuoto per qualche secondo. I suoi occhi si fecero vacui, le sue mani presero a tremare.
-Dov’è ora. –
Non sembrava affatto una domanda,quindi non risposi. Quel suo tono di voce, da automa, mi aveva turbata.
-Susan, pretendo di sapere dove si trova ora quel cane. – sibilò.
Mi misi a sedere e crollai il capo tra le mani. Tutta quella tensione non mi stava facendo affatto bene.
-Non lo so. – confessai infine. –Quando sono scappata, mi ha chiamata un paio di volte. Sa che sto con un altro uomo ma … non sa che si tratta di Michael, per fortuna. Non voglio immaginare che cosa potrebbe fare se solo scoprisse dove sono adesso. Javier,ascoltami: voglio solo dimenticare tutto,okay? Io amo Michael, lo amo con tutto il cuore,davvero. E lui, per qualche assurda ragione che va oltre la mia comprensione … mi ricambia pienamente. Voglio solo essere felice, Javier. E … Liam è un uomo troppo potente per essere contrastato. Ti prego, ti prego … Lascialo perdere. Possiamo solo aspettare che si dimentichi di tutto ciò e che smetta presto di cercarmi. –
Lui ascoltò attentamente le mie parole, profondamente toccato ma poco convinto. Non riuscivo a persuaderlo a lasciarmi vivere accanto a Michael, nonostante tutti i miei tentativi disperati di spiegargli quanto fosse buono, disinteressato e affettuoso.
-Susan, io … capisco che tu ti sia innamorata di lui. È il tuo mito da sempre. Ma lui … lui è sbagliato per te, fidati. Torna a casa,Susie. – mi pregò, inginocchiandosi di fronte a me e tornando all’improvviso il ragazzo che avevo conosciuto durante la mia infanzia e nel corso della mia adolescenza.
Mi commossi.
-Non posso,Javier. Può sembrarti strano ma … ci amiamo davvero. – gli ripetei.
Perché gli risultava così impossibile credermi?
-No. Tu sei innamorata del Re del Pop. – sussurrò, fissandomi gelido.
Lo guardai dritto negli occhi.
-Io amo Michael Jackson. Non il Re del Pop. Io amo lui, la sua famiglia … amo Neverland. Amo questa vita. Javier, non posso abbandonare tutto per seguirti. Laggiù non c’è niente per cui valga la pena vivere. Qui, invece, qui c’è il mio cuore. Non voglio separarmi dall’uomo accanto al quale desidero trascorrere il resto della mia vita. – gli spiegai, seria.
Javier cominciò a piangere. Mi afferrò all’altezza delle spalle, scuotendomi con forza.
-Ma non capisci? Susan, noi siamo la tua famiglia! Non lui! Non è questa casa tua. Vieni con me … mi manchi. Tutte le mattine mi svegliavo con la speranza di vederti varcare la soglia di casa con un sorriso. Ho desiderato con tutto il cuore che tu tornassi. Susie, ti prego … Non voglio perderti di nuovo. – mi supplicò, in un soffio.
Osservai quel viso, adesso di nuovo familiare nella sua infinita fragilità, che mi era sempre stato caro.
Sangue del mio sangue, carne della mia carne. Ci eravamo appartenuti fin dalla nascita. I nostri fili erano sempre stati intrecciati, tanto che si era rivelato impossibile dividerci davvero.
A chi avrei dato retta questa volta? Sarei ritornata nella mia terra, della quale avevo una terribile nostalgia ma che sentivo ormai lontana a distante? O sarei rimasta a fianco dell’uomo che più amavo, e senza il quale non ritenevo fosse possibile vivere?
















Capitolo 21

-Non preoccuparti per me. – mi rassicurò Michael, sfiorandomi la fronte con le labbra fredde.
Eravamo accoccolati sul divano del salone, abbracciati, come a farci forza l’un l’altro. Quella separazione avrebbe sgretolato il nostro amore, ne ero certa.
Non volevo abbandonarlo così, rinchiudere tutte le emozioni e sensazioni provate in quell’ultimo periodo in un cantuccio della mia mente, come se fossero solo labili e fragili ricordi.
Non volevo andarmene Neverland e lasciarmi così alle spalle il senso di magia che si poteva respirare al suo interno. Mai più di allora mi sentii legata ad un luogo come a quel regno incantato.
Se ancora oggi mi chiedeste di scegliere una città o un posto in cui tornare, anche solo per un giorno, sceglierei senz’altro quello sconfinato ranch della California. Era più casa mia di quanto non lo fossero le Filippine, o la Spagna, terra da cui provenivano i miei nonni e i miei genitori.
Inoltre, non volevo separarmi da Prince e da Paris, ai quali ormai volevo troppo bene per allontanarmi da loro senza soffrirne.
Erano riusciti fin da subito a suscitare in me un senso di simpatia, che ben presto si trasformò in vero e proprio affetto, nei loro confronti.
-Non è per te che mi preoccupo. – ribattei. – E’ per me. Non so vivere se non posso starti accanto. –
Sebbene non avessi ancora preso nessuna decisione definitiva, mi sentivo già lontana. Javier aveva bisogno di me, gli ero mancata troppo in quei lunghissimi mesi di distanza. L’avevo visto logorato e consumato. Era ciò che mi aveva persuasa a prendere in considerazione l’idea di tornare nella mia terra, idea che altrimenti avrei senz’altro scartato immediatamente, visto il numero di addii e la sofferenza che avrebbe sicuramente comportato.
-Hanno diritto a riaverti con loro. – osservò Michael, riferendosi alla mia famiglia. Scossi il capo. Era vero? Avevano il diritto di negarmi la felicità?
Avrei preferito che mi avessero strappato il cuore dal petto: sarebbe stato meno doloroso di avere un fantasma al suo posto, un pallido riflesso di ciò che in realtà sarebbe appartenuto per sempre all’uomo che amavo.
Affondai il viso nella sua camicia rossa, inzuppandola di lacrime.
-Ma non voglio, Michael, non voglio perderti! – singhiozzai, come una bambina. Dio solo sapeva quanto quelle parole fossero vere. Eppure, sembrava fossi destinata ad essere portata via con la forza dalla dolce prigione delle braccia di Michael. Ero obbligata a dimenticare il suo profumo, il sapore delle sue labbra … Ne valeva la pena? La risposta era ovviamente negativa.
Lo abbracciai più forte: nessuno avrebbe potuto strapparmi dal suo fianco.
Mike mi sollevò il mento con un dito, per potermi guardare negli occhi arrossati dal pianto.
-Non voglio che tu te ne vada. Voglio che tu resti qua con me. Ma i miei desideri sono insignificanti di fronte a ciò che è meglio per te. Devi fare ciò che reputi giusto. E opportuno. – mormorò, serio.
Le sue parole erano sagge, quasi fredde. Ma il suo sguardo rivelava una fragilità che sbriciolò tutta la determinazione che mi ero sforzata di raccogliere per partire. Lui, sebbene cercasse di non darlo a vedere, aveva bisogno di me. Avrebbe sofferto se l’avessi lasciato. Perché dunque farci del male? Non sarebbe stato più semplice restare, rimandando mio fratello a casa?
Se la sarebbe presa, ma perlomeno io sarei stata felice.
Era ciò di cui cercavo di convincermi. Purtroppo, però, il mio cuore sapeva meglio di me che quella non era la chiave per la serenità. Non potevo lasciare Michael, perché sarebbe equivalso a morire, ma non potevo nemmeno abbandonare Javier a se stesso: non solo avevo dei doveri verso di lui, in quanto mio fratello, ma gli volevo bene. Saperlo lontano, ora che avevamo chiarito e messo da parte ogni diverbio, mi sarebbe comunque costato tante sofferenze.
-Ma che cosa è giusto? – domandai, retorica. Ormai non lo sapevo più nemmeno io. –E’ giusto rinunciare al proprio amore, rinnegare i propri sogni e i propri desideri pur di regalare un po’ di gioia e sollievo ai propri genitori? Mi è stata concessa una seconda possibilità, Michael. Una seconda vita. La voglio vivere con te. – sussurrai,sincera.
Ma davvero contava qualcosa il mio volere? Sembrava che Javier, venendo laggiù, avesse già deciso per me: non mi lasciava vie di scampo.
-E che cosa farai? Li abbandonerai per me? Non valgo tutto questo sacrificio, Susie, davvero. – mi fece notare.
Avrei voluto dirgli che si sbagliava: che lui valeva questo e molto altro, ma non lo feci. Avrei solo peggiorato la situazione e mi ero preposta di tentare di rendere quell’ultimo saluto il meno doloroso possibile.
Sopirai e posai un orecchio sul suo petto, per ascoltare un’ultima volta i battiti frenetici del suo grande e nobile cuore, quando qualcosa di umido mi bagnò la guancia. Sollevai lo sguardo, sorpresa e spaesata, e vidi i suoi occhi versare lacrime amare e silenziose. Lacrime d’addio.
Tracciai con due dita il profilo del suo viso e poi lo baciai teneramente, addolorata. Fu come se qualcosa avesse scavato nel mio petto una voragine profondissima e, soprattutto,inguaribile.
Non sarei mai riuscita a riempirla, a rimediare a quel vuoto.
Infine, mi alzai e mi allontanai, lasciando su quel divano l’unica cosa veramente preziosa che possedevo.

Capitolo 22

-Susie, hai sentito che cosa ti ho detto? – mi domandò Javier con irritazione, leggermente infastidito dalla mia disattenzione.
Non risposi.
Ero troppo concentrata a ripetere i conti mentalmente un’ultima volta, e poi un’altra ancora, quasi certa di essermi sbagliata in qualche modo.
Non riuscivo a capacitarmi del fatto che tutto ciò stesse succedendo proprio a me.
-Susan? – mi chiamò nuovamente mio fratello, sfiorandomi una spalla. –Ehi? Stai bene? – chiese, ormai preoccupato dall’espressione scioccata sul mio viso. –Sembri un po’ pallida. – aggiunse, ansioso.
-No … no, sto … bene. – mormorai, balbettando. –E’ solo che … devo … parlare con Michael. Non so se … Credo di essermi dimenticata una cosa. – conclusi infine, dopo qualche incertezza.
Javier mi squadrò stranito, chiedendosi probabilmente che cosa mi stesse passando per la testa. Gli lasciai il beneficio del dubbio.
Mollai di scatto per terra le due valigie che stavo portando all’esterno dei cancelli di Neverland, diretta all’aeroporto, e poi mi voltai in direzione della casa.
-Susan! – esclamò mio fratello, confuso.
Ma non lo ascoltai e cominciai a correre senza nemmeno girarmi indietro. Non potevo perdere un minuto di più.
Scansai abilmente due giardinieri dall’espressione allibita ma, qualche metro più avanti, quasi inciampai nei miei stessi piedi per cercare di evitare una carriola colma di terriccio fresco.
Imprecai tra me e me.
Non riuscivo ad interrompere il flusso di pensieri che mi attraversò la mente all’idea di ciò che stavo per fare. Sarebbe stato un atto azzardato. E incosciente, forse. Ma da quel mio gesto sarebbe dipesa tutta la mia vita.
Quella certezza mi diede energia e così allungai ulteriormente la falcata.
Davanti ai miei occhi comparve presto la casa, che si ergeva maestosa ed imponente. La sua superba bellezza mi costrinse a rallentare quasi inconsapevolmente.
Un uomo vestito elegantemente e dall’aria piuttosto insignificante cercò di bloccarmi afferrandomi per un braccio, ma me lo scrollai di dosso irritata. Nessuno mi avrebbe fermato.
Mi precipitai direttamente dentro la villa, ansimando un poco per lo sforzo, e presi a chiamare Michael a squarciagola.
Il suo nome rimbombò per qualche secondo attraverso le stanze vuote, che me ne restituivano una debole eco. Ma dove si era cacciato?
Grace era sopraggiunta insieme a quelle che pensai essere delle domestiche e m’implorò di abbassare la voce e di calmarmi, ma la ignorai senza degnarla nemmeno di un’occhiata.
Mike scese le scale di corsa dopo pochi istanti, perplesso e turbato.
-Che cosa sta succedendo? – mormorò, confuso, quando scorse il mio viso. Mi fu accanto quasi immediatamente, probabilmente temendo che fossi impazzita.
Aprii la bocca, come per parlare, ma la richiusi subito con uno scatto sonoro. Avrei voluto spiegargli tutto e confessargli le mie supposizioni, per convincerlo della mia salute mentale.
Ma non trovavo le parole. Pensai che non ne avessero ancora inventate per esprimere quella gioia incontenibile che mi gonfiava il cuore, rischiando di farmelo scoppiare.
Così lo baciai, gettandogli le braccia al collo e avvinghiandomi a lui. Non era puro e semplice desiderio, ma una vera necessità. Avevo un disperato bisogno delle sue labbra sulle mie, di sentirne il sapore sulla lingua, di poter respirare di nuovo il suo profumo inebriante. Volevo riaprire gli occhi e ritrovare i suoi a guardarmi, dolci e profondi, un mare nero nel quale potermi immergere. Volevo aggrapparmi così forte a lui in modo tale che più nessuno avrebbe potuto dividerci.
Grace, di fianco a me, ridacchiò tra sé e sé di fronte alla mia impetuosità, ma quasi subito, con molto buon senso, fece in modo di lasciarci soli. Pensai che, in seguito, avrei dovuto scusarmi con lei per il modo a dir poco sgarbato in cui l’avevo trattata pochi secondi prima, ma in quel mentre non riuscii a percepire null’altro che non fosse Mike, come se i confini del suo corpo si fossero dissolti e lui fosse diventato l’infinito e mi avvolgesse completamente.
Quando le nostre bocche si staccarono per riprendere fiato, anche Michael ansimava. E non certo per la corsa giù per le scale.
-Wow. – commentò, meravigliato, con un sorrisetto malizioso.
Il suo viso era una tentazione alla quale era impossibile resistere, ancora così vicino al mio da farmi sentire le farfalle nello stomaco. Cercai ancora le sue labbra, incapace di farne a meno.
Dannazione! Provai a concentrarmi, ma non ci riuscii. Avevo la testa piena della dolcezza del suo respiro.
Mi obbligai ad mantenermi a distanza di sicurezza dal suo volto: se fosse andato avanti così presto avrei dimenticato il motivo per cui ero lì. Scrollai il capo e gli posai le mani sulle spalle, mordicchiandomi il labbro inferiore, come facevo solo quando ero nervosa.
-Mi sono dimenticata una cosa. – mormorai, infine.
Michael mi abbracciò, cullandomi lentamente per qualche secondo.
-Che cosa? – domandò, dolcemente, mentre le sue labbra seguivano leggere la linea del mento. Avevo il fiato grosso.
-Che cosa? – ripetè, di nuovo, mordicchiandomi il lobo dell’orecchio. Sussultai.
-Ehm … scusa, ho … bisogno di … lucidità. – balbettai, con la voce che mi tremava, con mio grande imbarazzo.
Michael rise e obbedì.
-Adesso sei nel pieno delle tue facoltà mentali? – chiese, scherzoso. –Che cosa devi dirmi? -
-Che sono incinta. – annunciai, squittendo e baciando ancora una volta le sue labbra dure e sorprese.
Lily96jackson
00giovedì 2 febbraio 2012 12:55
La storia prosegue ...
Capitolo 23

-In … incinta? – balbettò Michael, incredulo, con gli occhi sgranati.
Ridacchiai, di fronte alla sua espressione allibita.
-Ho un … ehm … ritardo di dieci giorni. – mormorai.
Ne ero certa. Avevo ormai ripetuto i calcoli a mente almeno cinque volte.
Ovviamente avrebbe potuto anche trattarsi di una semplice coincidenza, ma ne dubitavo fortemente: il mio ciclo mestruale era sempre stato puntuale come un orologio svizzero.
Le labbra di Michael si schiusero lentamente sui denti bianchissimi, dipingendo un sorriso angelico.
-Mi … mi stai dicendo che … aspettiamo un bambino? – domandò, al colmo dell’euforia. Il suo viso s’illuminò quando pronunciò la parola “bambino”.
Annuii, con fare teatrale.
-Oh, Susie! – esclamò, stringendomi forte tra le sue braccia e cullandomi per qualche minuto.
Eravamo entrambi avvolti da un’aura di dolcezza quasi palpabile, che saturava l’aria, mescolandosi con la magia di quel momento unico.
-Ti amo, ti amo, ti amo … Avrei dovuto dirtelo più spesso. Ma sai che è così. – bisbigliò, con le labbra ad un centimetro dal mio orecchio.
Annuii. Non m’importava più nulla di tutto quello che tra noi era stato taciuto: con Mike ero felice, completa.
A volte non era semplice stargli accanto, a causa della sua testardaggine, ma lo amavo con tutto il cuore. La mia anima gli apparteneva completamente.
Lui era il mio centro, lui insieme a quell’esserino che cresceva dentro di me e al quale avevo deciso di aggrapparmi per dare un senso, un nuovo ordine alla mia vita.
-Non ti lascerò mai più, Michael Jackson. – gli promisi, in un soffio.
In quel mentre,varcò la soglia di casa Javier, trafelato.
Probabilmente si era preoccupato per il mio insolito comportamento e mi era corso dietro, dopo qualche istante d’incertezza che era equivalso a preziosi secondi di vantaggio per me; altrimenti dubitavo che sarei riuscita a sfuggirgli così facilmente.
Michael squadrò mio fratello, esitando. Sembrava fosse sul punto di dargli spiegazioni ma non osasse farlo per non sconvolgerlo.
Per quanto possa risultare assurdo, Mike si dimostrò non solo gentile ed estremamente cordiale nei confronti di Javier – anche quando non se lo meritava affatto, in effetti – ma anche affabile e comprensivo,quasi fosse un amico fidato. E l’astio di Javier nei suoi confronti era per lui solo un dettaglio trascurabile, che non parve mai scalfire minimamente il suo interesse e il suo affetto nei confronti di mio fratello.
-Che cos’è successo? – riuscì a domandare Javier dopo qualche minuto, ansimando per lo sforzo.
Il suo volto era segnato da un leggero velo di sudore dovuto sicuramente alla corsa sfrenata dai cancelli di quell’immensa proprietà fino alla casa.
Mike aprì la bocca come per dire qualcosa, ma si bloccò all’improvviso, lanciandomi un’occhiata interrogativa: forse si aspettava che desiderassi fornire io qualche chiarimento.
Ma non credevo di essere capace di formulare una frase di senso compiuto: temevo terribilmente la reazione di mio fratello.
Michael sospirò, comprensivo.
-Susie non è nelle condizioni di partire.- annunciò, in un sussurro quasi incomprensibile, tanto che persino io,che ero al suo fianco, dovetti concentrarmi per sentirlo.
Javier corrugò le sopracciglia folte e nere.
-Perché? Che cos’hai? Stai male? – chiese, lievemente in ansia ma anche irritato.
Detestava quando Mike gli rivolgeva la parola e cercava sempre di non rispondergli direttamente se poteva.
-No. – soffiai, intimorita.
In un primo momento, non compresi da cosa potesse derivare quella folle paura che mi attanagliava lo stomaco. Poi capii: non ero solo terrorizzata all’idea di una possibile (e quasi certa) sfuriata di Javier. Più che altro, temevo di perderlo.
Ero quasi sicura che sarebbe andata a finire così, e desiderai con tutto il cuore che si potesse giungere ad un’altra soluzione.
Non volevo scegliere tra Michael e Javier: perché avrei scelto, sempre e comunque, Mike. Ma la separazione definitiva da quello che per anni era stato l’unico amico che possedevo sarebbe stata ugualmente dolorosissima.
Avrei spezzato ogni legame con quella che ero stata fino a quel momento; avrei reciso ogni filo che ancora mi teneva saldamente ancorata alla mia vita precedente.
Mi ero fatta forza, mi ero decisa a scegliere qualcosa. E quel “qualcosa” era un’esistenza intera da passare al fianco dell’uomo che amavo, con il quale – speravo- sarei riuscita a costruire una famiglia solida, unita.
In effetti, quella che io consideravo la mia massima aspirazione sarebbe potuta anche sembrare non troppo originale: in fondo ogni donna desidera sicurezze e serenità dalla vita.
Ma il mio sogno non si limitava a questo: nel mio caso si trattava decisamente di qualcosa in più.
Perché l’uomo che avevo scelto come compagno era anche il mio unico salvatore, la spalla su cui piangere; era un padre, un amico, un fratello, un amante.
Era una persona diversa, più buona,gentile,pura ed innocente di qualsiasi cosa in cui mi fossi mai imbattuta nella mia vita: era il mio sole, i cui raggi mi scaldavano il cuore.
Era la mia stessa vita. Ed era anche quel bambino che stava crescendo dentro di me, in silenzio, giorno per giorno.
Dubito che –nonostante i litigi e i momenti di silenzio frequenti tra noi- sia mai esistito un rapporto più intenso e profondo del nostro.
Non solo perchè ci amavamo teneramente, ma perché Mike è stato,in un modo o nell’altro, un aspetto fondamentale della mia esistenza. Mai e poi mai avrei pensato di rimuoverlo per sempre dalla mia vita, nemmeno quando, più avanti, lo minacciai di andarmene. Il motivo era semplice: era per me inconcepibile una realtà che non comprendesse anche Michael.
Arrossii un poco, mentre questi pensieri mi affollavano la mente, e chinai la testa,per non farmi notare da Javier.
-Non sta male. – mi fece eco Mike. Sembrava che cercasse di ritardare il più possibile il momento in cui avrebbe dovuto dare la notizia a mio fratello che di lì a nove mesi sarebbe diventato zio.
-E allora che cos’ha? – sibilò Javier, muovendo qualche passo verso di noi, e puntando gli occhi in quelli di Michael che era più basso di almeno una spanna.
L’atteggiamento aggressivo di mio fratello non mi piacque affatto, e di sicuro irritava anche Mike, che non sopportava le persone prepotenti e spavalde; ma,anche se si fosse sentito in qualche modo infastidito, di sicuro lo nascose molto bene, perché quando rispose lo fece in modo assolutamente pacato e sereno:
-Aspetta un bambino. E quel bambino è mio figlio. –


Capitolo 24

C’era da aspettarselo: Javier partì con il primo volo diretto a Tokyo. Da lì avrebbe preso un altro aereo per Manila.
Purtroppo, come da previsioni, non aveva accolto molto bene la notizia della mia gravidanza: aveva cominciato ad inveire contro Michael e a scagliare oggetti (fortunatamente di poco valore) sul parquet, mentre io mi ritraevo in un angolo,sperando di sfuggire alla sua folle furia.
Per un attimo avevo temuto che colpisse Mike: sembrava sul punto di sferrargli un pugno micidiale, a giudicare da come gli tremavano le mani.
Per quanto Michael potesse dimostrarsi coraggioso e per quanto mi ripetesse, per tranquillizzarmi, che da piccolo spesso Joseph lo incitava insegnandogli, insieme ai suoi fratelli, nel giardino di casa, qualche fondamentale di autodifesa, sapevo perfettamente che Javier gli avrebbe fatto male, molto male, se l’avesse attaccato, e che quasi sicuramente mio fratello sarebbe uscito vincitore da una rissa, specie se questa coinvolgeva lui e un uomo che si era da sempre schierato contro la violenza.
Subito dopo che era uscito dalla villa, sbattendo la porta, furibondo, avevo supplicato Michael affinché lo facesse seguire da guardie del corpo o persone fidate che si assicurassero che stesse bene.
Non volevo che guidasse in quello stato, ma non potei far nulla per impedirglielo, così fui costretta a farlo sorvegliare per tutto il tragitto, da Neverland all’aeroporto di Los Angeles.
Michael, senza opporsi, anzi, dimostrandosi totalmente d’accordo con me, ordinò ad un paio di uomini – uno basso e calvo, l’altro alto, più magro, ma ugualmente nerboruto e inquietante – di tenerlo d’occhio mantenendosi a distanza per non farsi notare.
Le due guardie obbedirono e scortarono il mio inconsapevole e furioso fratello per diversi chilometri.
Ero davvero molto in ansia e Mike, saggiamente, non proferì parola in quel momento: sapeva che desideravo solo saper Javier al sicuro, sano e salvo.
Quando i due uomini incaricati da Michael tornarono, mi rassicurarono e affermarono che non c’era più nulla da temere: avevano visto Javier salire sul suo aereo a capo chino e con le spalle curve, come stremato, ma comunque fuori pericolo.
Sorrisi a quella lieta notizia e ringraziai le due guardie del corpo che si congedarono poco dopo con poche,cordiali parole.
-Stai bene? – domandò allora Michael, quando fummo finalmente soli.
Ero seduta sul divano e mi abbracciavo le ginocchia con le braccia magre e scure, dondolandomi lentamente avanti e indietro, come se, rannicchiandomi su me stessa, potessi far fronte alle difficoltà del mondo e scansare gli ostacoli che la vista mi aveva posto innanzi.
Annuii, in risposta alla sua domanda, ma senza capire esattamente cosa provassi in quell’istante. Ero ancora un po’ sotto shock.
Michael si sdraiò di fianco a me, che mi spostai un poco per fargli posto, e appoggiò la testa sulle mie gambe incrociate. Sembrava un bambino in quella posizione, così ingenua …
Gli passai istintivamente una mano tra i capelli. Ogni volta che lo avevo vicino sentivo nascere in me un impellente bisogno di toccarlo per assicurarmi che fosse vero.
-Mi dispiace davvero che Javier l’abbia presa così. Avrei voluto renderlo in qualche modo partecipe della nostra felicità. – mormorai, pensierosa.
Michael sbuffò,esasperato.
-Non sei tu la causa di tutto questo. – mi rammentò, severo.
Dannazione. Anche quando non li esprimevo ad alta voce, Mike conosceva sempre alla perfezioni i miei pensieri.
-Non l’ho mai detto,infatti. – cercai di tergiversare, con aria fintamente innocente.
-Ma lo pensi. – concluse lui, con un tono che non ammetteva repliche. E in effetti, non ebbi il coraggio di ribattere,perché sapevo che aveva perfettamente ragione: sempre e comunque, mi ritenevo responsabile di tutto e di tutti.
Per qualche assurda ragione, avevo una malsana tendenza ad assumermi colpe che, a quanto diceva Mike, non avevo e che non dipendevano affatto da me, e poi la tensione e lo stress accumulati mi uccidevano, logorandomi lentamente, schiacciandomi e rendendomi intrattabile.
-Scusami. E’ che davvero mi sento tormentata dai rimorsi. – confessai, malinconica.
Mike sorrise, bonario ma serio.
-Ti sei pentita? Se vuoi partire e raggiungere la tua famiglia, nulla e nessuno te lo impedirà. Non ti obbligherò a rimanere al mio fianco, anche se ovviamente, da parte mia, farò di tutto per non perderti e ti ronzerei attorno per un po’. – mormorò.
Rimasi di sasso. Mi affrettai a correggermi, già divorata dal panico e dal senso di abbandono che mi assalivano quando Michael parlava di separazione.
-No. Io voglio restare qui. Il mio posto è accanto a te. I miei rimorsi non riguardano la mia scelta … Ma il modo in cui ho trattato Javier. Avrei potuto cercare di dimostrarmi più comprensiva e disponibile nei suoi confronti … Forse non avrebbe reagito così … Forse … - balbettai, cercando di sciogliere il nodo che avevo in gola: l’ultima cosa che desideravo era mettermi a piangere come una bambina.
Dovevo essere forte. Michael ne aveva bisogno, il bambino ne aveva bisogno.
Io stessa ne sentivo la necessità.
Era giunto il momento di dare un senso alla mia vita, di riordinare le tessere del puzzle: non potevo farmi sorprendere dallo sconforto.
Non potevo continuare a raggomitolarmi su me stessa e lasciarmi andare all’autocommiserazione: dovevo assumere il controllo.
Michael interruppe il flusso dei miei pensieri.
-Stavo pensando … - mormorò, con tono misterioso, incuriosendomi, - … stavo pensando a ciò che comporterà fare di nuovo il papà. Prince e Paris sono la cosa più bella che mi sia mai capitata: li amo alla follia. Ma questa volta … sarà diverso. –
Non riuscivo a seguirlo.
-Diverso? – gli feci eco, un poco confusa.
-Sì, bhè … questo bambino – e sottolineò le sue parole appoggiando delicatamente una mano sulla mia pancia –sarà frutto del mio amore per te. –
Non ci avevo ancora pensato, in realtà: Prince e Paris erano per me come dei figli veri, mai mi ero sentita gelosa né li avevo respinti in quanto risultato di un matrimonio precedente di Michael. Con loro era stato amore a prima vista, in effetti.
Era strano che proprio lui avesse colto questa sottile differenza: Prince e Paris erano figli suoi, ma il bambino che stavo aspettando sarebbe stato figlio nostro.
Subito mi si gonfiò il cuore a quel pensiero e sorrisi, trasognata.
-Susie? – sussurrò allora Michael, serio.
Mi prese il viso tra le mani, richiamando la mia attenzione. Era incredibile come il suo tocco potesse ancora scatenare certe emozioni dentro di me: avrei dovuto farci l’abitudine. Eppure …
-Susan, desidero dirti una cosa, se me lo permetti. Ci sto pensando su già da un po’, in realtà, ed è un’idea costante, che mi tormenta ormai. – incominciò, con gli occhi che brillavano.
-Bhè, sentiamo. – lo incitai, troppo curiosa per tentare di celare la mia impazienza.
Michael ridacchiò, emozionato.
-Io … ti amo più della mia stessa vita, Susie. Tutto ciò che ho, la musica, la mia famiglia, non ha alcun valore di fronte ad un tuo sorriso o ad un tuo sguardo. Io … voglio averti per l’eternità, Susan. – confessò, con voce flebile e un poco imbarazzata.
Non l’avevo mai visto così in difficoltà con le parole.
Increspai leggermente le labbra.
-Tu mi hai già. Il mio cuore ti appartiene, sempre. – osservai, senza capire dove volesse andare a parare con il suo discorso ingarbugliato.
Pensai che forse io non ero l’unica ad aver bisogno di maggiore sicurezza: magari anche Michael necessitava di qualche certezza, ma mi sembrava comunque assurdo che potesse dubitare del mio amore sconfinato nei suoi confronti.
-Sì, ma … non è esattamente ciò che desidero. – ribatté, mordicchiandosi il labbro, nervoso.
Era evidentemente a disagio. Volevo solo rendere più breve il suo tormento, quindi lo esortai a continuare.
Allora fece un respiro profondo, ad occhi chiusi, dopodiché mi domandò, tutto d’un fiato:
-Vuoi concedermi l’onore di diventare mia moglie,Susie?-










Capitolo 25


Rimasi di sasso. Michael mi aveva appena proposto di diventare sua moglie, di occupare il mio posto nella sua vita. Per sempre.
Avrei voluto rispondere di sì. In fondo, era ciò che volevo: rimanere al suo fianco, condividere con lui ogni gioia o dolore, aiutarlo durante ogni sorta di difficoltà, portare qualsiasi suo fardello.
Eppure, mille pensieri mi affollavano la mente, annebbiandomi e confondendomi.
Mi ero persa dentro il mio stesso corpo, e non riuscivo a trovare le labbra, sulle quali sarebbe dovuto affiorare quel monosillabo da cui sarebbe dipesa tutta la mia vita.
Perché mi risultava così difficile trovare la forza per prendermi ciò che ormai mi apparteneva? Era assurdo.
Mike attendeva una mia risposta: i suoi occhi celavano malamente una leggera impazienza, un’irrequietezza un poco buffa, in realtà, mescolata all’emozione del momento.
Immaginai come sarebbe stato svegliarsi ogni mattina accanto all’uomo che amavo con la consapevolezza che quel gesto si sarebbe ripetuto per l’eternità, e sorrisi all’idea. Sarei stata felice, serena. Avevo rinunciato a tutto ciò che ero per ottenere quella vita. Ora mi si presentava davanti agli occhi in tutto il suo splendore, con una promessa di quiete e calore davvero irresistibile.
Ciononostante, le mie labbra rimanevano rigorosamente sigillate, senza lasciar trapelare nulla, un suono, un sussurro, un grido di gioia. Niente.
Un poco turbato, Michael mi strinse lievemente la mano, come per richiamare la mia attenzione.
Si schiarì la voce, a disagio.
-Ehm … allora? – m’incalzò, nervoso.
Aprii la bocca, decisa quantomeno a prender tempo, ma non ne uscì alcun suono: avevo la gola completamente secca.
Allora mi alzai dal divano e presi a passeggiare, muta, su e giù per la stanza, sebbene le gambe mi tremassero e la testa mi girasse. Ero ad un passo dalla mia massima aspirazione e mi sentivo totalmente debole e disarmata. Nel corso della mia esistenza tante, troppe persone avevano scelto per me, consapevolmente o meno: ora che toccava a me prendere una decisione, mi sentivo spaesata, come se avessi il vuoto attorno e mi fosse venuto a mancare un prezioso sostegno, che poteva essere quello dei miei genitori, delle mie amiche, di mio fratello, o di Mrs. Sullivan.
Michael non proferì parola. Mi osservò a lungo, per qualche minuto: il suo sorriso era svanito, lasciando spazio ad una smorfia di delusione. Avrei dato la vita per cancellarla da quel suo viso dai lineamenti serafici.
Cercai di spezzare il silenzio, ormai troppo pesante persino per me, con un’ unica parola, che mi preoccupava più di mille altre.
Un nome, una persona, una presenza sfortunatamente sempre costante. Una sorta di fantasma il cui tenebroso ricordo riaffiorava di tanto in tanto.
-Liam. –
Non avrei saputo dire se la mia si trattasse di una domanda, o di una risposta.
Sicuramente, era un problema.
Mike scosse il capo, con fare disinvolto, come per rassicurarmi.
-I miei avvocati si occuperanno di tutto. – mi spiegò, pacato.
A quelle parole mi fermai al centro della sala e lo fissai terrorizzata.
-No! – esclamai, in preda al panico.
Michael non capì. Continuò a squadrarmi spaesato.
-Liam è una persona alla quale non importano le vie legali. Appena conoscerà il tuo nome, appena saprà chi sei, ti darà la caccia. Sfonderà i cancelli di Neverland, se necessario. Non lo permetterò. Non posso lasciare che rovini la vita a te e alla tua famiglia. – osservai, figurandomi la scena e rabbrividendo solo al pensiero. Liam era ricco, potente ed influente. Ma, soprattutto, sapeva essere dannatamente testardo e sfrontato: per lui non c’era assolutamente alcuna differenza tra il Re del Pop e un passante che incrociava per caso per strada e che involontariamente andava a sbattergli contro. Avrebbe disintegrato entrambi, anche solo per capriccio.
Michael fece una risatina nervosa.
-Ho una falange di guardie del corpo in stile presidenziale. Credi che non riusciranno a difendermi adeguatamente? A questo punto, allora, dovrei licenziarli. – ironizzò, ma il suo sguardo rimaneva serio e freddo.
Non ne compresi subito il motivo, ma poi intuii che forse il mio comportamento e le mie risposte evasive potevano avergli dato l’impressione sbagliata. Credeva dunque che cercassi di cambiare discorso ad ogni costo, pur di non sposarlo?
Badai subito a scacciare dalla sua testa quest’idea assurda.
-Mike, io ti amo. – sussurrai, sincera, e sicuramente non poteva dubitarne.
-Allora sposami. – mi pregò, alzandosi anche lui dal divano e muovendo lentamente qualche passo verso di me.
Riuscii ad avvertire la tensione e la speranza nella sua voce.
E allora tutto riacquistò un ordine.
Io amavo quell’uomo. E lui voleva una vita con me. Questo bastava.
In un secondo momento, ci saremmo occupati anche del resto del mondo. Ma per ora esistevamo solo noi due.
(StreetWalker )
00giovedì 2 febbraio 2012 13:21
Felice che è incinta e anche Michael le ha chiesto di sposarlo. Posta i prossimi per sapere la risposta e per vedere cosa farà Liam
Lily96jackson
00sabato 4 febbraio 2012 18:48
La storia prosegue ...
Capitolo 26

-Pronto? – domandò quella voce che tanto mi terrorizzava all’altro capo della cornetta. Probabilmente lui, in quel momento, si trovava a centinaia di chilometri da me.
Ma nemmeno la distanza tra noi poteva rassicurarmi. Avrebbe potuto annullarla in qualsiasi momento, ne ero più che certa. Eppure, finora non l’aveva ancora fatto. Forse non ero così importante per lui da indurlo a scomodarsi per venire a cercarmi.
-Sono io. – sussurrai, impaurita.
Anche se ci fossero voluti mesi prima che venissero risolte tutte le questioni legali, io e Michael ci saremmo sposati. In gran segreto, lontano da sguardi indiscreti, magari in qualche municipio di un qualche sperduto paesino fuori dal mondo, senza invitati, né fiori, né grandi cerimonie, ma saremmo diventati marito e moglie.
-Oh, che piacere risentirti dopo così tanto tempo,mogliettina mia!- esclamò ironico Liam, con la sua voce roca e ruvida.
Rabbrividii. Nonostante Mike si fosse opposto fermamente all’idea sin dal principio, avevo deciso di occuparmi io del mio divorzio, ovviamente circondata da uno stuolo di avvocati che probabilmente costavano, alle tasche del mio futuro marito, più di quanto avrebbe richiesto la manutenzione di Neverland per due anni o forse più.
Ma era una causa importante, da vincere anche in breve tempo,se possibile: Michael la pensava così e non avrebbe badato a spese, se ciò fosse servito a liberarmi per sempre dall’uomo che avevo sposato in preda alla confusione e alla disperazione tempo prima.
-Ho bisogno di parlarti. – annunciai, al telefono.
Non potevo comunicargli subito le mie intenzioni, altrimenti sarebbero stati guai seri. Secondo gli avvocati, spettava a me cercare di renderlo un poco più disponibile a trattare.
Inutile dire che non ci sarei mai riuscita, ma perlomeno ci avrei provato.
-Dimmi, tesoro. – mormorò, ghignando ma leggermente nervoso.
Capii che aveva fretta e che non era esattamente un buon momento per discutere, ma non avevo altra scelta.
-Vorrei venire a patti con te. Pacificamente. –
Misi un po’ d’enfasi nell’ultima parola, per sottolinearla.
-Benissimo. Allora, quando torni? Sai … mi sei mancata. – confessò, pieno di odioso sarcasmo.
Sentii un brivido corrermi lungo la schiena.
-Io non torno, Liam. – sibilai, poi mi ricomposi. Non dovevo perdere la pazienza.
-Susan … calmati, okay? Altrimenti rischi di farmi arrabbiare. – mi avvertì, con voce pacata e per questo ancora più spaventosa.
-Voglio il divorzio, Liam. – annunciai.
Il silenzio che durò qualche secondo all’altro capo della cornetta mi chiuse la bocca dello stomaco e tutto il coraggio che avevo raccolto sembrò scemare all’improvviso quando Liam abbaiò:
-No! Tu sei mia! –
Fui costretta a sedermi sulla poltrona poco distante per non crollare a terra. Dovevo essere forte, ferma, irremovibile.
-Senti,Liam, conto poco più di niente per te, giusto? Che senso ha continuare così? – domandai, retorica, cercando di appellarmi alla sua ragione.
Desideravo indurlo a riflettere: ero sicura che se l’avesse fatto sarebbe stato d’accordo con me. Non era affatto stupido: crudele,spietato, odioso … tutto, meno che un sempliciotto: sapeva bene distinguere ciò che gli conveniva da ciò che invece lo avrebbe trascinato a fondo.
Per questo si era arricchito così tanto e i suoi affari andavano sempre a gonfie vele: aveva intuito e un’intelligenza sottile.
Che poi non usasse queste sue doti a fin di bene, quello era un altro discorso.
-Non ha senso, effettivamente. – concordò, pacificamente.
Sospirai, rassicurata. Forse l’obiettivo che mi ero preposta non era così irraggiungibile.
-Concedimi il divorzio. Gioverà sia a te, che a me. – gli feci notare, con tono un poco malizioso. Dovevo giocare tutte le carte a mia disposizione.
-No,cara. Gioverà a te. A me non ne viene in tasca assolutamente nulla. Anzi … Ci perdo una moglie. – osservò, serio. Educato. Inflessibile.
Il respiro mi si bloccò in gola. La speranza di poco prima sfumò, lasciandomi intravedere la realtà dei fatti.
Povera sciocca! Mi ero illusa che sarei riuscita a convincerlo in qualche modo ad uscire per sempre dalla mia vita: e invece ero ancora nelle sue mani. Poteva decidere di disintegrarmi con un solo gesto e io non avrei opposto resistenza, perché non ne ero capace e perché sarebbe stato inutile.
Avrebbe vinto lui, sempre.
Nessuno poteva convincerlo a fare nulla che lui non volesse, tantomeno io.
-Una moglie non ti serve a niente quando vive a chilometri di distanza. – sibilai, irritata.
Mi sentivo in trappola e tentavo di difendermi come potevo, a parole.
Liam non rispose alla mia provocazione. Rideva, spensierato. Sapeva di avere in pugno la situazione.
-Allora? Ti diverti a fare la sua puttana, non è così? – chiese dunque, sempre ghignando.
Resistetti all’impulso di chiudere la comunicazione.
-Ti farò arrivare i moduli. – comunicai, seccata.
-Non li firmerò. – ribattè.
Stavo per perdere la pazienza. Respirai a fondo.
“Ora basta” pensai, tra me e me. Dovevo chiudere definitivamente quella faccenda.
-Non importa. Se non lo farai, ti denuncerò. Sai, sei furbo, ma hai un difetto: non badi a ciò che è legale o meno. Per te non fa alcuna differenza, sei convinto che il mondo sia tuo. Ti dimostrerò il contrario. Ti farò passare le pene dell’inferno, Liam. Firma quel maledetto documento e chiuderò un occhio. – contrattai.
Avevo sperato di ammansirlo o,perlomeno, di far sì che mettesse da parte, per una volta, la sua arrogante spavalderia e la sua spietata crudeltà invece, sfortunatamente, ottenni l’effetto contrario.
-D’accordo, Susie. Sfodera tutte le tue forze, invia il tuo esercito di avvocati fin qui. Ma ti avverto: se mi denunci, io lo ammazzo. Lo uccido con le mie stesse mani. Poco importa che si tratti del Re del Pop. E’ umano e mortale come lo erano tutti quelli che ho mandato all’altro mondo. Sai, hai ragione: la legalità e l’illegalità per me non contano, sono solo concetti astratti. In realtà, ciò che conta per me è ciò che voglio: perché lo ottengo, sempre. Quindi, se desiderassi sgattaiolare nella reggia in cui vi rinchiudete, codardi e patetici, lo posso fare. Se per capriccio progettassi bruciare vivi quei suoi due angioletti che tanto si ostina a portare in giro coperti da un velo, come se questo bastasse a proteggerli, lo posso fare. E se volessi piantarvi una pallottola in testa, mentre dormite abbracciati, io lo posso fare. E lo farò, credimi. –
Il mio cuore smise di battere per un momento interminabile, pochi secondi che mi bastarono per prendere una decisione.
Avrei voluto urlare, ma avevo la gola secca per il terrore.
Liam sapeva tutto, probabilmente ci stava osservando già da tempo, senza intervenire, aspettando l’occasione giusta. E adesso che questa si era presentata, sul piatto della bilancia c’era tutto ciò che amavo e che non avrei mai immaginato di poter perdere.
La mia vita, contro quella di Michael e dei suoi figli.
Mi sembrava impossibile che proprio io avrei potuto essere la causa di immensi dolori e sofferenze per quei bambini, che tanto avevo amato, sin dal principio. E dipendeva da me scegliere la loro sorte. Tutto ciò che desideravo era stare con l’uomo che amavo e con la sua famiglia, che ormai era diventata anche la mia. Ma il mio egoismo avrebbe sicuramente portato ad un disastro, un dramma familiare, una tragedia che avrebbe turbato l’infanzia dei piccoli, stroncandola. Solo il pensiero di quel mostro di Liam vicino a Prince e a Paris in lacrime mi faceva rabbrividire.
No, non potevo accettarlo. Non valevo un prezzo così alto.
-D’accordo. Dove ci vediamo? – domandai, in un soffio, con voce da automa, ormai determinata a farla finita una volta per tutte.

















Capitolo 27

Il cielo si chiudeva scuro e minaccioso sulla città addormentata, immersa in un silenzio spezzato solo di tanto in tanto dai passi frettolosi di una signora di passaggio, da un’automobile che rallentava, da un magnaccia che picchiava una sua prostituta in lacrime.
Mi guardai attorno spaurita, incrociando le braccia sul petto, come per proteggermi, per creare una sorta di barriera tra me e quel mondo sconosciuto e terrificante. Da un vicolo dall’aria decisamente poco attraente provenivano un tanfo terribile e le risate sguaiate di una combriccola di uomini la cui lucidità era ormai offuscata dall’alcool.
I condomini e i palazzi che si affacciavano su quel tratto di strada erano probabilmente quasi completamente disabitati, giganti grigi abbandonati a se stessi, che proiettavano ombre lunghe e scure sull’asfalto.
Tenevo gli occhi incollati al marciapiede, per evitare di incrociare qualche sguardo sconosciuto o qualche sorriso di apprezzamento inopportuno ed inquietante.
Dopo la telefonata di Liam, ero stata costretta a fare una doccia per rilassarmi: ma nemmeno il getto d’acqua bollente era riuscito a calmarmi del tutto.
Ciò che più mi turbava non era la decisione che avevo preso, ma come avrei potuto tenerla nascosta a Michael, per non farlo soffrire e per preservare lui e la sua famiglia, la mia famiglia dal pericolo.
Questo era quello che contava: la serenità e la quiete di Neverland non dovevano essere spezzate o sconvolte a causa mia. Non valevo così tanto.
Liam era riuscito a toccare il tasto giusto: sapeva quanto tenevo a Michael e ai suoi bambini. Era stato meschino, in realtà, da parte sua, ma molto furbo. Avrei dovuto prevederlo, forse.
Se solo non fossi stata così ingenua …
Ma ormai era troppo tardi per guardare indietro e farmi assalire dalla nostalgia: ciò che avevo perso per sempre non sarebbe mai tornato. Io stessa ero fuggita da quella promessa di amore, calore e felicità che Mike rappresentava.
In fondo, non avevo avuto altra scelta. O l’annientamento o il rimpianto: e io avevo scelto quest’ultimo. Perché se fosse successo qualcosa all’uomo che amavo o ai suoi figli, sarei morta. Ne ero certa. Non avrei potuto sopportare una sofferenza così grande. Meglio allora farsi tormentare dal dolore del ricordo, sapendo però la mia famiglia al sicuro.
L’unica vittima così sarei stata io, insieme a mio figlio, quel bambino che mi portavo dentro, frutto di un amore più grande e più forte di qualsiasi cosa, al quale però non ero riuscita ad aggrapparmi: perché, se l’avessi fatto, sarebbe intervenuto qualcun altro ad ucciderlo, a distruggerlo, a sgretolarlo.
Mi morsi il labbro, trattenendo le lacrime.
Ciò che più mi aveva lasciata perplessa era stato il possibile futuro del bambino: non volevo che gli accadesse nulla di male, ma sembrava quasi inevitabile. Ma l’alternativa era l’aborto e non avevo nemmeno preso in considerazione quest’opzione, mai: ora che Mike era lontano, quel bambino era l’unica cosa in grado di tenermi in vita, una medicina il cui solo pensiero leniva anche il dolore più intenso e insopportabile.
Spostai una mano, accarezzandomi quasi inconsciamente il ventre. Fui sorpresa di sentire, sotto le dita, la pancia piatta e sorrisi mesta tra me e me. Con la mente mi ero proiettata più volte avanti nel tempo, immaginandomi con il pancione, con il braccio sicuro di Michael a cingere i miei fianchi, protettivo come sempre: quelle fantasie erano l’unico rifugio per scappare dalla realtà. Quelle immagini felici mi perseguitavano ed era difficile non credere nella loro concretezza.
La gravidanza in quel momento non era evidente, ovviamente, ma presto la pancia avrebbe cominciato ad aumentare di volume. A quel punto avrei dovuto trovare un modo per allontanarmi, dare alla luce mio figlio e affidarlo in seguito a suo padre.
Era l’unico modo per assicurargli un futuro sereno e pieno di gioia.
-Buonasera, principessa. – sussurrò all’improvviso una voce roca e familiare. Sussultai e alzai lo sguardo.
Quando i miei occhi incontrarono quelli verdi e famelici di Liam, sentii la mia determinazione vacillare.
Davvero ero disposta a vivere accanto a lui il resto della mia esistenza?
Cercai di convincermi che era l’unica soluzione per non veder crollare il mio mondo, ma la morsa della paura mi attanagliava e le schegge di ghiaccio che avevo nello stomaco presero ad agitarsi disordinatamente.
-Oh, non ci starai mica ripensando vero? In fondo, questa è la scelta più indolore. – mi fece notare, sorridendo.
In quei tratti non riconobbi nulla di caro, nulla di amato.
-Hai ragione. – sospirai, sconfitta e sconsolata.
Gli occhi di Liam si accesero. Ma quel guizzo, quella scintilla, non risvegliarono nessuna emozione in me.
Provai a guardarmi dentro, come attraverso un tunnel, alla ricerca del mio cuore. E lo trovai.
Ma era completamente, ineluttabilmente e assurdamente muto.






Capitolo 28

-Allora … che cosa hai raccontato al tuo Michael? Come sei riuscita a convincerlo a lasciarti andare? – domandò Liam, quasi divertito mentre immaginava la scena.
Scossi il capo impercettibilmente: per una volta, l’ingenuo mi parve lui.
Non avevo rivelato a Mike le mie intenzioni, ovviamente, altrimenti non mi avrebbe permesso di andare incontro al pericolo. Liam avrebbe dovuto intuirlo, no?
-Fammi indovinare: addii struggenti, baci appassionati, fiumi di lacrime …? – s’informò mio marito, allontanando con un gesto secco della mano due persone che si stavano avvicinando e che evidentemente conosceva. Forse erano un paio dei suoi scagnozzi. Ma era troppo buio, non riuscivo a distinguere nulla: il tenue bagliore emanato dalla luna non bastava ad illuminare quei due visi. Così sparirono dietro l’angolo prima ancora che potessi identificarli. Li seguii con lo sguardo per un breve momento.
-No. – mormorai poi, in risposta a Liam, che mi fissava incuriosito e lievemente irritato dal mio silenzio prolungato.
-No? – fece eco lui. Vedendo che non proseguivo, mi si avvicinò ulteriormente, percorrendo con due dita il profilo delle mie labbra. –Bhè, meglio così … - continuò, -cominciava a darmi sui nervi l’idea che qualcun altro potesse godere di così tanta bellezza. Tu sei mia. Solo mia. Capito? –
Feci un passo indietro, allontanandomi tremante dalla sua mano, che rimase sospesa ad afferrare l’aria.
Gli leggevo negli occhi quello che sarebbe successo di lì a qualche minuto, ma cercai di ritardare il più possibile quel momento.
-Senti, Liam … - sussurrai, impaurita. –Sono tornata. Ma … questo non cambia nulla. Tu hai le tue prostitute, io il ricordo costante del mio cuore assente. Non voglio … che tu fraintenda, ecco. Io … vedi, tra me e te, oltre la vicinanza, non c’è assolutamente nulla … -
Mentre cercavo di spiegarmi, balbettando, lui fece qualche passo avanti.
Ormai avevo il suo viso a pochi centimetri dal mio.
-Bhè, allora dovremmo rimediare. – osservò, calmo.
Appoggiai entrambe le mani sul suo petto, cercando di spingerlo indietro, per creare una sorta di distanza di sicurezza tra me e quel mostro: ma non ero abbastanza forte e riuscii solo a peggiorare la situazione.
-No, Liam … ti prego. Perché, perché io? – domandai, retorica, scoppiando in lacrime. La tensione accumulata era decisamente troppa: i miei nervi non avrebbero potuto reggere un attimo di più.
Lui ghignò, ironico. Odioso.
-In realtà, forse hai ragione. Sei un esserino piuttosto insignificante. Ma il fatto che io non possa averti, ti rende decisamente più intrigante ed eccitante. – confessò, alitandomi in faccia.
Non fui in grado di rispondere, o di affannarmi alla ricerca di altre scuse che mi permettessero di salvarmi in qualche modo.
Mi sentivo indifesa, smarrita …
Così chiusi gli occhi, aspettando che sopraggiungesse la fine.
Ma questa non arrivò.
Ci fu dapprima uno spostamento d’aria, un tonfo, e poi un grido gutturale e terrificante, che mi fece rabbrividire.
Qualcosa – una mano, forse – mi trascinò per qualche metro, poi mi spinse a terra, dove rimasi, rannicchiata su me stessa, per qualche interminabile minuto, mentre alcune voci, in lontananza, si confondevano, sovrapponendosi e squarciando il silenzio della notte.
Mi tappai le orecchie con le mani, spaventata, appoggiando una guancia sull’asfalto freddo e ruvido.
(StreetWalker )
00sabato 4 febbraio 2012 22:52
Liam va assulutamente denunciato. Attenderò il prossimo per vedere cosa accadrà
Lily96jackson
00sabato 11 febbraio 2012 17:51
La storia prosegue ...
Capitolo 29

-Susie? Susie, mi senti? Stai bene? – domandò, affannata, una voce d’angelo, simile ad uno scampanellio celestiale.
Avrei voluto rispondere, ma non riuscivo a trovare le labbra: mi ero persa all’interno del mio stesso corpo.
Correvo, alla ricerca di una via d’uscita, lungo i corridoi del labirinto della mia mente, immersa nell’oscurità. Ogni volta che imboccavo una strada, subito, dopo averla percorsa, avevo la terribile e schiacciante sensazione di aver preso la direzione sbagliata, e la tentazione di tornare indietro era quasi pari a quella di raggomitolarmi su me stessa e chiudere gli occhi.
-Oh, ti prego, Susan, torna da me! – gemette l’angelo, addolorato.
Le lacrime che avrei desiderato versare in quel momento scivolarono dentro di me, depositandosi sul fondo del mio cuore.
Dovevo fare uno sforzo, combattere ed uscire, riaffiorare in superficie ed aprire gli occhi: non potevo permettere che l’angelo piangesse. Il suo tormento quasi stuzzicava anche il mio.
Ma mi sentivo pesantissima: con le braccia e le gambe intorpidite, come potevo affrettarmi verso l’uscita?
All’improvviso, un dolore lancinante e diffuso, proveniente da qualche parte dentro di me, mi scosse e mi riportò quasi alla realtà. Cercai una qualche sporgenza a cui aggrapparmi, per evitare che le tenebre m’inghiottissero nuovamente.
Così, all’improvviso, vidi una luce abbagliante di fronte a me che mi costrinse a strizzare gli occhi.
Quando li riaprii, qualcuno mi stava puntando addosso una torcia.
-Accecante … - mormorai, infastidita, mentre riprendevo il controllo del mio corpo.
Mi riparai il volto con le mani.
-Spegnila.- ordinò sollevato Michael, il cui viso stava sospeso a poca distanza dal mio.
Che cosa lì l’uomo che tanto amavo e che avevo cercato disperatamente di salvare?
-Scusa … - mormorai, quando mi resi conto di ciò che era successo. In qualche modo, doveva aver capito dove mi ero diretta e mi aveva seguita, intervenendo e salvandomi.
Lo accarezzai con lo sguardo, grata del suo tempismo, ma lui ricambiò con uno sguardo duro e pieno di disappunto per la mia azione da incosciente.
Avrei voluto dirgli che non avevo avuto scelta, ma non ne ebbi il tempo: una fitta straziante al ventre mi troncò il respiro.
Spalancai gli occhi, più sorpresa che preoccupata.
-Ahi! – esclamai, piegandomi in due e stringendo i denti.
Mike mi fissò, in apprensione, tastandomi il polso e la fronte madida di sudore.
-Che succede? – domandò, in un soffio, confuso.
“Vi prego, uccidetemi!” implorai,nella mia testa. Ma non riuscii a trasformare quella preghiera, solo pensata, in parole: il dolore me lo impediva.
-Erms, ti prego! Aiutami a capire! – supplicò Michael, rivolto ad una figura scura accanto a lui.
Mi chiesi se questo Erms fosse un medico. Sperai di sì.
-Che cos’hai,Susan? Cosa succede? – mi domandò l’uomo, chinandosi su di me.
Le fitte s’interruppero, concedendomi di respirare e di guardare negli occhi la persona a cui Mike aveva chiesto aiuto.
Non aveva affatto un’aria professionale, anzi: era confuso e spaventato almeno quanto l’uomo che affiancava. Quindi scartai la mia ipotesi: era chiaro che non si trattava affatto di un dottore.
Sbuffai, spazientita.
-Mi fa male … la pancia … mi fa male! – mi lamentai, ma la mia voce si spense a poco a poco quando mi resi conto di ciò che poteva voler dire. La pancia …
-Il bambino! Michael, ti prego! Il bambino! – gridai allora, all’improvviso, con quanto fiato avevo in corpo.
Con gesti ansiosi e frettolosi, cercai di sollevare la maglia, come se potessi così assicurarmi della salute di mio figlio.
Mike sgranò gli occhi.
-Oh, no … - balbettò, quasi senza muovere le labbra, fissando qualcosa fuori dal mio campo visivo.
Quello che si chiamava Erms non capì.
-Spiegami! – sibilò, rivolto a Michael. Ma lui non rispose. Abbaiò, piuttosto, un ordine: -Tienila calma mentre chiamo il 911!-
Mi bloccai, turbata.
Quindi seguii inorridita lo sguardo di Mike, fino a notare, sull’asfalto, una macchia scura: una macchia rosso sangue.
















Capitolo 30

Il tragitto verso l’ospedale fu il viaggio più traumatico e terribile di sempre.
Nonostante i calmanti e gli antidolorifici, riuscivo a percepire tutto: lo sguardo spaurito di Michael, le sue dita fra i miei capelli, un paramedico che si affannava attorno alla mia barella alla ricerca di chissà quali strumenti, il volto serio e pensoso di quell’uomo che Mike aveva chiamato “Erms” e nel quale riponeva la massima fiducia, come si poteva facilmente dedurre dal tono di voce con cui gli si era rivolto.
Riuscivo persino a sentire il mormorio sommesso degli infermieri e dei dottori che spinsero il lettino su cui ero sdraiata attraverso un corridoio che mi parve prolungarsi all’infinito, e poi svoltare, portandomi all’interno di una sala luminosa e bianca.
Fu a quel punto che qualcuno mi accarezzò la fronte, sussurrando al mio orecchio, con voce rassicurante:
-Rilassati, adesso ti diamo qualcosa per dormire. Devi solo stare calma. Così, brava … chiudi gli occhi … -
Non volevo stare calma: perché non lo capivano? Perché non facevano nulla? Mio figlio stava morendo dentro di me, prima ancora di cominciare a vivere.
Mi sarei strappata il cuore con le mie stesse mani per donarglielo, per sostituire il suo che probabilmente ormai non batteva più.
In quel momento di panico, cominciai a pregare, non come mi avevano insegnato i miei genitori, ferventi credenti, ma come mi suggeriva il cuore, stretto dalla morsa della disperazione.
“Ti prego, Signore, fa’ che viva. Non portarmelo via così presto, permettimi di guardarlo negli occhi, di vederlo ridere, piangere, innamorarsi … Ti prego,ti prego! Ho amato questo bambino sin dal primo istante: lascialo a me.”
La mia supplica era densa di sconforto e di speranza.
“Per favore … non riprenderti il magico dono che mi hai fatto. E’ il mio piccolo principe … Soffia nei suoi polmoni un respiro di vita, fai battere il suo cuore! Ti prego, Signore, per favore …”
I miei pensieri si fecero sempre più confusi, fino a quando la mia mente venne avvolta da una sottile nebbia che mi donò un po’ di pace e di torpore.
Mi svegliai in una stanza anonima, dall’aria scialba e comune.
-Finalmente! – mormorò sollevato Michael, seduto su una poltroncina bianca al mio fianco.
Sembrava infinitamente stanco: gli occhi erano cerchiati da pesanti occhiaie violacee simili a lividi, mentre il sorriso, sebbene fosse dettato da un sincero conforto, era tirato e tradiva la sua spossatezza.
-Quanto ho dormito? – m’informai, con la voce ancora impastata. Mi risultava tremendamente difficile parlare, forse a causa degli anestetici che mi avevano somministrato.
-Non molto. Un giorno, più o meno. – rispose Mike, stringendomi la mano e baciandomi la fronte.
Lo trattenni per qualche secondo, inspirando forte il suo profumo fresco e inebriante, l’unica cosa che potesse darmi la forza necessaria a porre la domanda fatale e inevitabile:
-E il bambino? –
Michael chiuse gli occhi e prese a massaggiarsi le tempie, poi raccontò, meccanicamente:
-Quando sono arrivato, ho colpito Liam allontanandolo. Ma c’erano delle persone con lui, di cui una armata. Non potevo immaginare … che … avrei soltanto peggiorato la situazione.-
S’interruppe, colto da un fremito al ricordo di quei terribili istanti che per me erano durati un’eternità.
-A chi hanno sparato? – chiesi, preoccupata.
A quel tizio di nome Erms? Eppure mi era sembrato che stesse bene … A una guardia del corpo di Mike? Probabile.
Lui mi fissò stranito:
-A te. –
Non mi lasciò il tempo di assimilare tale informazione e proseguì, imperterrito:
-Ho visto che quell’uomo ti puntava la pistola contro, così ho cercato di trascinarti il più lontano possibile, ma era troppo tardi. Forse l’adrenalina ha giocato la sua parte, perché non hai mostrato alcun segno di sofferenza, forse non ti sei nemmeno accorta che ti avevano colpito. Assurdo. Ad ogni modo, sono riusciti a scappare. Tutti. Anche se li avrei volentieri uccisi con le mie stesse mani. Solo allora mi sono accorto che eri svenuta. Dio solo sa che cosa ho provato in questo momento. Temevo fossi morta. Mio fratello Jermaine, che aveva acconsentito ad accompagnarmi (gli sarò debitore per il resto della mia vita), mi ha rassicurato, ha detto che la ferita non era grave e che eri solo svenuta. Ma poi … quando ti sei svegliata … -
A quel punto s’interruppe, nascondendo il viso tra le mani.
-Tutto quel sangue … ho avuto paura … - confessò, tra un singhiozzo e l’altro.
Tesi un braccio verso di lui, sino ad accarezzargli i capelli, lentamente.
Quasi non mi accorsi delle lacrime che rigavano anche le mie guance.
-Ho perso il bambino? – domandai allora, con la voce che si spezzava in punti strani.
Mi sentii come se mille lame affilate mi attraversassero tutte contemporaneamente, sgonfiando all’improvviso ogni mia fantasia di una vita quieta, piena e felice.
A Michael ci volle qualche secondo per rispondere, in un soffio:
-No. Hai perso molto sangue e persino i medici non riescono a spiegarsi questo miracolo, ma il bambino sta bene. O, perlomeno, è vivo. Bisognerà aspettare, però, per sapere se ci sono state ripercussioni sul feto, anche a causa degli anestetici. I dottori hanno fatto tutto ciò che era in loro potere: ora dobbiamo aver pazienza e tenere sotto stretto monitoraggio la situazione. –
Inspiegabilmente, incominciai a ridere.
E’ strano come le reazioni possano essere molteplici, di fronte ad un pericolo scampato.
Mike mi osservò, incuriosito, poi sorrise, finalmente alleggerito.
-Ti amo ... – sussurrai, quando i singulti di riso me lo permisero.
-Ti amo anche io. Ma se ti azzardi un’altra volta a fare una cosa del genere, giuro che ti strangolo. – rispose, sempre sogghignando, e mi baciò.
Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 11:05.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com