L'ex manager svela in un libro i segreti del re del pop. «Nel 1984 contattò la Casa Bianca perché voleva i complimenti di Regan»
LOS ANGELES - Bob Jones mi passa una busta e torna ad accomodarsi sulla sedia. «Questo dimostra fino a dove sarebbe capace di arrivare», dice ridendo. «È come quando ha messo in moto una campagna in grande stile per cercare di farsi nominare cavaliere da Elisabetta. È proprio il genere di idee che gli saltano in mente». Jones deve pur saperne qualcosa. Per 17 anni questo veterano della Motown Records si è occupato delle pubbliche relazioni di Michael Jackson, prima di essere congedato senza tante cerimonie nel giugno dello scorso anno. Ora, in sintonia coi tempi, ha scritto un libro, Michael Jackson: l’Uomo dietro la Maschera.
Ma il foglio che mi ha dato riguarda qualcosa che in quelle pagine non c’è. Nel 1984 un giovane consigliere della Casa Bianca, quel John Roberts che oggi George W. Bush ha scelto come presidente della Corte suprema, scrive una nota in risposta a una richiesta di Jackson. Il cantante avrebbe voluto che Ronald Reagan gli inviasse una lettera di apprezzamento. «L’ufficio corrispondenza del Presidente non è ancora un distaccamento dell’agenzia di pr di Michael Jackson - si legge -. Trovo che l’atteggiamento ossequioso di alcuni membri dello staff della Casa Bianca verso gli assistenti del signor Jackson, e la posizione adulatoria che avrebbero voluto fare adottare al presidente degli Stati Uniti, sia ben più che un po’ imbarazzante». Richiesta respinta.
Sono io che l’ho chiamato re del pop, del rock e del soul. Lui si è tenuto soltanto re del pop». La sua vicinanza al Re è ciò che rende straordinario questo libro. Jones è con lui quando canta in playback in più d’un tour mondiale; è lì quando chiama splaboo (un termine spregiativo inventato da lui, ndt ) i neri poveri; è lì quando si finge malato per evitare di esibirsi, perché non si è preso la briga di provare o perché è imbottito di farmaci. Jones racconta di una performance al Soul Train Music Awards: millantando una caviglia rotta, canta da seduto, per poi liberarsi delle stampelle non appena arrivato a casa con l’amico dodicenne. Secondo il suo addetto stampa,Jackson era tutt’altro che una vittima. Avrebbe orchestrato lui la fuga di notizie sullo scimpanzé Bubbles, sulla camera da letto iperbarica, su qualsiasi eccentricità lo rendesse più misterioso.
«In lui vedevo un genio pazzo che giocava con le persone e amava solo se stesso. Un maestro dell’autopromozione, un multimilionario autodistruttivo che spendeva milioni per cercare di comprarsi amicizie e favori». Dopo 24 anni al servizio di Jackson, il benservito a Jones - che non aveva mai sottoscritto un vincolo di segretezza - è arrivato tramite un appunto con la firma di Michael fotocopiata: «I tuoi servizi sono stati apprezzati. Non abbiamo più bisogno di te, buona fortuna». Adesso il suo libro ha sollevato una silenziosa condanna dai cancelli chiusi di Neverland; in giugno Jermaine, fratello di Michael, gli ha inviato una email promettendo azioni legali. Finora senza seguito. Nel mondo esterno, ha venduto bene, promosso dal processo e dalla testimonianza di Jones in aula.
A quanto scrive Jones, la richiesta del cavalierato risale al 1993, all’apice delle accuse di molestie sui minori mosse a Jackson da Jordan Chandler. «Da un lato le accuse, dall’altro Sua maestà che decide di farlo cavaliere: era la dimostrazione che lui era più grande di tutti loro». Si rivolge persino a Elizabeth Taylor: «Aveva legami molto stretti con la regina, ma non ha mosso un dito». L’istanza finisce in un nulla di fatto, e Jackson si accorda con Chandler per una cifra che si dice attorno ai 23 milioni di dollari.
Jones aveva conosciuto Jackson nel 1969, quando stava per essere presentato al mondo come prima voce dei Jackson Five. «La prima volta che l’ho incontrato è stato a un party a Beverly Hills. Tutta Hollywood era lì. E ne fu affascinata. Lanciammo l’album dicendo che Michael aveva 9 anni, in realtà ne aveva 12. Era tutto un gioco di pr». Nel 1987 Jackson gli chiede di occuparsi delle pubbliche relazioni. Solo nell’89, nel tour europeo di Bad, Jones si rende conto che in lui c’è qualcosa di spiacevole. «Eravamo a Parigi e stavamo andando al Louvre con i paparazzi in moto che ci seguivano. Arriviamo, e lui scende dal bus tenendo per mano uno di quei bambini». Allarmato per le implicazioni d’immagine, Jones cerca un chiarimento con Michael, solo per sentirsi dire che non gliene importa niente.
Jones sembra un po’ imbarazzato nel promuovere un libro che demolisce l’uomo difeso per la maggior parte della sua vita lavorativa. Nonostante il rancore, in lui c’è ancora una forte lealtà verso Jackson, o perlomeno verso l’idea di ciò che Jackson avrebbe potuto essere. «Michael è più grande di Elvis Presley. È il più grande fenomeno nero che il mondo abbia mai conosciuto. Venivamo ricevuti da re e regine come capi di Stato. Poi, d’un tratto, le accuse». Malgrado tutti i suoi sforzi per creare il mito del Peter Pan re del pop, la gente, dice Jones, ricorderà Michael Jackson per una cosa sola. «Ha compromesso tutto. Adesso, quando la gente pensa a lui, pensa alle molestie».
Dan Glaister
(traduzione di Monica Levy)
© Guardian Newspapers limited 2005
10 settembre 2005
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secondo me alla fine in questo libro potrebbe uscirne qualcosa di interessante
Mi ha colpito in queste dichiarazioni il fatto che il contratto di licenziamento abbia la firma fotocopiata