| | | Post: 604 | Registrato il: 03/08/2009 | Città: AVIANO | Età: 30 | Sesso: Femminile | Invincible Fan | | OFFLINE |
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Mi scuso per l'erorme ritardo, vi chiedo scusa Inoltre, perdonatemi per qualche errore... io non ho per nulla ricontrollato, ma mi auguro che sia comunque accettabile...
Buona lettura
CAPITOLO DUE
Il colloquio
L’ansia è sempre un vuoto che si genera tra il modo in cui le cose sono,
e il modo in cui pensiamo che dovrebbero andare;
è qualcosa che si colloca tra il reale e l’irreale.
( Charlotte Joko Beck )
Che grande figura del cazzo.
Scusate la volgarità, ma quel che è vero è vero. Mi ero preparata giorni e giorni per fare tutto quel discorso per evitare di fare figuracce, e alla prima occasione sbagliavo a causa di un maledettissimo dettaglio: il mio capo – mettiamo anche ex, visto la ridicola figura fatta – era Michael Jackson. Voi direte che fortunata che ero, che gioia sarebbe stata per voi scoprire che il vostro datore di lavoro era famoso in tutto il mondo o il vostro idolo (anche se per me non lo era affatto)... be’, io allora desideravo solo scomparire dalla faccia della Terra, sfuggire via e lasciarmi al passato quella grande cazzata che solo io avrei potuto mai compiere.
E se nel frattempo mi sentivo una grande deficiente e avevo il forte desiderio di sotterrarmi sono un grande mucchio di sabbia, il mio interlocutore era scoppiato a ridere come un pazzo. Mi aveva guardato in modo molto serio – forse aveva anche pensato che gli stessi mentendo, o che avessi qualche grosso problema mentale –, le mie guancie erano esplose in vampate color rosso scarlatto e lui si era messo a sghignazzare rumorosamente alla mia espressione rincretinita. Aveva unito le sue mani e se le era posate al petto, molleggiando la schiena avanti e indietro con lentezza, e mi guardava come se avesse appena visto la cosa più buffa della sua vita.
Lasciando perdere la mia vulnerabile permalosità per un momento, sono sincera se dico che avrei voluto girare i tacchi e con tutte le intenzioni scappare senza dire una parola. Era probabile che la mia espressione fosse lo specchio dello shock, visto che sentivo il mio volto intrappolato in una maschera di cemento, bloccato in un’espressione inebetita. Ma la permalosità non era la cosa più importante, non lì: un fiume di calore aveva reso il mio viso simile a un palloncino rosso, i miei occhi erano spalancati al massimo e la voce non aveva intenzione di uscire fuori dalla mia gola se non per pronunciare qualcosa di insensato. Insomma, non ero affatto messa bene. E in più non sapevo cosa fare per sdrammatizzare la situazione.
Però c’era una cosa che mi colpì, oltre l’imbarazzo di quel evento: aveva davvero una bella risata. Strana, è vero, e anche piuttosto acuta, e se non fosse stato per l’infermità mentale avrei riso anche io. E, per dirla con tutta la sincerità possibile, sembrava molto a quella della mia nonna, quella defunta. Non sto facendo la sarcastica, quella di mia nonna Luisa era davvero una risata contagiosa. Sentire quella di Michael Jackson mi avrebbe fatto morire dal ridere, se la condizione del momento sarebbe stata più tranquilla e meno professionale.
«Oh Dio», esclamò di nuovo, cominciando a calmare la risata e ad assumere un tono di nuovo serio e competente. Emise uno o due colpetti di tosse, nel frattempo che sentii da lontano i suoi due bambini parlottare fra loro, molto incuriositi dalla situazione. «E’ davvero strano che tu non sappia chi sono io... davvero...» - e il suo sguardo si fece ancora più serio di prima, quasi assente. Un attimo di pausa e poi continuò - «comunque, prego... seguimi!», e così mi fece cenno di avanzare verso il divano di quell’immenso salotto elegante.
Usava un tono molto confidenziale, quasi fossi una vecchia amica che si fa risentire dopo anni e anni di lontananza. Forse si era più sciolto a causa della mia figuraccia, o forse era così per natura: sta di fatto che mi sentivo nervosa comunque. Quando camminavo mi sentivo un robot, e in ogni passo che compivo mi sentivo un burattino di legno scricchiolante. Comunque sia, un clima più amichevole era la cosa migliore: mi avrebbe di certo fatto bene, il colloquio non sarebbe stato teso e l’aria non se ne sarebbe stata immobile nel silenzio fluttuante della tensione.
Con gli occhi rivolti verso il basso avanzai, aumentando il passo, e mi sedetti su un grande divano in tessuto color crema. Il signor Jackson si sedette di fronte a me, su un altro divano dello stesso colore, fra i sue due bambini; fu così che li potei osservar meglio e con maggiore attenzione (mi sono dimenticata di dirvi che ero un po’ cieca, e perciò avevo il necessario bisogno degli occhiali da vista). Un bimbo, maschio, se ne stava seduto alla destra del padre; aveva i capelli biondi, occhi scuri quasi come quelli del padre, nasetto un po’ all’insù e aria scrutatrice e intensa, seria addirittura. Alla sinistra invece ci stava una bambina; aveva grandissimi occhi azzurro/verde, anch’essi molto profondi e osservatori, labbra sottili e nasetto perfetto: pensai subito che fosse una bambina bellissima, intelligente e dal carattere furbetto. Lo capivo dalla luce che aveva negli occhi.
Sorrisi a entrambi timidamente, e loro ricambiarono con altrettanta discrezione ma gentilezza. Dedussi non fossero molto grandi, più o meno sui sei o sette anni; la più piccola forse era più piccola del maschio di qualche annetto. Tuttavia avrei fatto da loro insegnante con piacere, visto il loro modo di atteggiarsi molto educato e disponibile. Inoltre sembravano molto incuriositi dalla mia persona, soprattutto la piccola. Il bambino invece era più tranquillo e calmo. O magari erano così pacati ed educati in presenza del loro papà, e quando lui non c’era erano delle vere pesti... era ancora troppo presto per giudicare!
«Ti presento i miei figli», disse il signor Jackson sorridendomi con grazia. «Questo è Prince, ha sei anni, e ha da poco iniziato i corsi per la seconda elementare. Lei invece è Paris, ha cinque anni, e frequenta il primo anno. Salutate la signorina Morris, bambini...», lì invitò delicatamente.
«Salve signorina Morris», esclamarono entrambi non in sincrono perfetto. La bimba di nome Paris mi guardò allargando il suo sorriso in modo più aperto, e io allora mi permisi di guardarla con più amichevolezza. Sembrava non vedesse l’ora di parlare e fare amicizia. Prince, invece, dondolava in avanti e indietro e mi guardava sereno. Sentivo gli occhi di tutti e tre addosso a me.
«Papà», chiese la piccola Paris tirando lievemente per la manica suo padre. «possiamo fare qualche domanda alla signorina Morris?»
Dovevano essere stati educati molto bene, visto la cortesia che traspariva dal loro raffinato modo di atteggiarsi. La cosa mi lasciò stupita, perché pochi erano i bambini che chiedevano ai loro genitori di far qualcosa in quel modo così ben dolce e gentile. Paris si era comportata da bimba perfettamente cosciente della situazione, come se sapesse già che ci fosse un colloquio importante in esecuzione, e aveva chiesto al suo papà se poteva rivolgermi la parola. Non glielo aveva chiesto perché aveva paura di parlare, no, perché il signor Jackson la guardò stupefatto anch’egli.
«Se la signorina Morris lo vuole, certo che puoi», e mi guardò interessato. Ricambiai lo sguardo, come se fossi appena caduta dalle nuvole, e velocemente riposi gli occhi sulla bimba che mi studiava con espressivo entusiasmo. Le sorrisi allegramente.
«Sicuramente, puoi farmene quante ne vuoi!», risposi, ben preparata a quello che immaginato sarebbe poi avvenuto. I bambini avevano una cosa molto particolare e stupenda: erano capaci di farti domande schiette e sincere, richieste capaci di stupire ogni persona che si ritrova a rispondere; i bambini non formulavano le loro frasi valutando i pro e i contro della domanda con furbizia: loro chiedevano, ignari e innocenti, e si aspettavano solo che tu dessi loro una risposta sincera.
Paris sorrise, si sistemò più comodamente sul divano, sporgendosi più in avanti verso la mia direzione. Intuii che quella bambina non vedeva l’ora di rivolgermi la parola, quasi fossi per lei una coetanea della sua stessa età: tutto ad un tratto la sua serietà era diventata esaltazione.
«Come ti chiami, signorina Morris?», chiese come prima cosa.
Sorrisi con maggior ardore. «Puoi chiamarmi Sarah, Paris» risposi con la sua stessa schiettezza.
«Grazie», rispose educatamente sorridendo un po’ imbarazzata. «e quanti anni hai?»
Risi leggermente all’espressione del padre, che la guardò con titubanza. Poi si volse a guardare me con intensità, e solo allora riposi di nuovo la mia attenzione di nuovo verso la piccola bambina. «Ne ho 28». Ignorai la faccia del signor Jackson, ma mi sembrò che qualche dettaglio del suo viso avesse assunto una nuova espressione.
«Davvero?» disse incredula Paris, alzando un po’ le sopracciglia. «E quando compi gli anni?»
«Il 25 gennaio, e tu?», le chiesi incuriosita, per mostrarmi più disponibile a quella conversazione. Ero abbastanza consapevole della psicologia infantile, e non di certo grazie alla scuola. Io stessa comprendevo molto bene le sensazioni dei bambini.
«Il 3 aprile» rispose con allegria. Poi guardò il fratello e successivamente il papà. «Prince invece li fa il 13 febbraio, e papà il 29 agosto...»
«Davvero?», risposi alzando le sopracciglia mostrandomi entusiasta per quella curiosità. Nel mio atteggiarmi confidenzialmente, notai che Prince, l’altro bambino, non aveva un carattere piuttosto aperto con gli estranei; gli piacevo, questo sì, e lo notavo dal fatto che mi guardasse con adorazione, ma non voleva emettere parola. Probabilmente il suo era un carattere riflessivo e piuttosto chiuso; col tempo avrei tentato di capire se era per il fatto che fossi un’estranea o meno.
«E da dove vieni?», richiese la piccola.
«Be’, abitavo tempo fa a Las Vegas, nelle vicinanze della casa dove c’erano i bambini ai quali facevo da insegnante...», dissi, ma lei mi interruppe.
«Quindi se vieni a farci da nostra maestra verrai a vivere a Neverland con noi?»
Non capii inizialmente il riferimento a Neverland – l’Isola che non c’è – ma poi capii che il posto in cui mi trovavo era stato evidentemente chiamato così; i conti tornavano, visto la mezza scritta che avevo potuto leggere una mezz’ora prima, all’entrata di quel maestoso ranch. Non seppi che risponderle all’inizio, visto che non era ancora niente deciso, perciò optai a riferirle tutta la verità senza giri di parole.
«In realtà devo ancora decidere col vostro papà» - e mi riferii al plurale cercando di coinvolgere Prince, a cui lanciai un’occhiata e lui si fece molto più interessato di prima - «ma non penso che resterò qui. Troverò di sicuro un appartamento, qui vicino, così potrò raggiungervi senza troppa difficoltà...»
Paris stette in silenzio, e fissò il signor Jackson con fare molto eloquente. Lui la guardò di rimando e, accorgendosi del mio sguardo fisso su di lui, si affrettò a rispondere ai suoi figli.
«Paris, Prince, io credo sia meglio che ora vi assentiate...» disse loro gentilmente, posando le sue mani sulle loro spalle, «io e la signorina Morris dovremo discutere di tante cose, e fra queste decideremo anche dove andrà ad abitare, se gli accordi verranno fatti... più tardi, casomai, le farete tutte le domande che vorrete, ok?», chiese.
I bimbi annuirono e si alzarono in piedi dal divano; mi si avvicinarono uno alla volta, mi salutarono con le loro manine e se ne andarono, accompagnati dalla guardia del corpo che poco fa mi aveva guidato verso l’interno del villino. Osservai la popstar seguire con gli occhi i suoi figli fino a che entrambi non scomparvero dalla sua vista: il suo sguardo era pieno di adorazione e tenerezza nei confronti di quella piccole creature, tanto che sembrò illuminarsi perfino la più minuscola oscurità che poteva mai possedere il suo cuore umano.
Quando scomparvero alla sua vista egli mi osservò di nuovo; mi studiò per circa tre o quattro secondi, prima che spiccicasse parola. Ciò nonostante, questa volta non distolsi lo sguardo; capii che più mi stava lontano e più riuscivo a guardarlo in viso. Strano, vero? Eppure mi metteva nervosismo la sua vicinanza. Non per timore o ribrezzo, ma per imbarazzo e timidezza.
«Sono felice che tu abbia accettato venir qui per discutere del posto che ti vorrei offrire...», disse umettandosi il labbro inferiore e lanciando fulminee occhiate alle sue mani posate in grembo e al mio viso. Osservai con vigile attenzione ogni sua mossa.
Annuii e basta, e lui continuò, stavolta accennando di nuovo lo scoppiare di una risata. «In effetti, ehm... mi stupisce che tu non sappia chi sono...», e mi guardò ammiccando spiegazioni.
«Eh...», esclamai accennando una lieve risata intimidita e soffocata. Abbassai lo sguardo un secondo, successivamente lo fissai con maggior imbarazzo. «Liza Burton, la mia datrice di lavoro, non mi aveva accennato veramente alla sua vera identità... insomma, mi aveva detto che la proposta era arrivata da un certo ‘Michael Jackson’, ma non credevo fosse lei...», emisi nel frattempo che mi annodavo le dita delle mani innervosita.
«Ma non mi ha nemmeno riconosciuto quando le ho detto che ero Michael Jackson...», continuò alzando di poco un sopracciglio. Io lo guardai e pensai che mi stesse facendo parlare per capire se la mia reazione di poco prima era stata sincera o recitata. E io non amavo non essere creduta.
«Io sono una persona un po’ fuori dal mondo», dissi con tono serioso. «e non so niente del mondo dello spettacolo. Non uso la tv – se non per guardare film o serie tv o programmi che potrebbero arricchire la mia cultura – e non compro giornali scandalistici o altro; la mia vita si concentra solo sulla letteratura, sulla scrittura, sul cinema, sulla musica e su tante altre cose. Non so quanto si parli di lei in questo mondo, perché non mi è mai interessato nulla sulla sua personalità... al massimo avrò sentito qualche sua canzone, ogni tanto, in qualche negozio di Cd, ma sinceramente non ho ricordi di questo... riconosco solo il suo viso dell’album Bad, e dopo quell’aspetto non l’ho mai visto... che io ricordi...»
Il mio tono era stato così serio e determinato che ebbi paura, a fine discorso, di esser stata fin troppo dura; il fatto che mi irrigidissi non appena una persona mi credeva una bugiarda era un mio difetto, e col mio atteggiamento poteva sembrare che mi fossi comportata così per via della mia permalosità un po’ sconsiderata. Non ero tipa da mentire, anche perché non ero affatto brava a farlo. Le poche volte che lo avevo fatto, comunque, erano bugie piccole per, scusate il termine, salvarmi un po’ il culo; ma chi non le dice?
«E comunque, mentirle non sarebbe un gesto saggio... non conoscendo la fama e i mezzi di cui è a disposizione, chi mi dice che non potrebbe scoprirmi se mento? E tuttavia, comprendo il perché di quel suo sguardo così indagatore; teme che le stia mentendo, e fa bene a farmi quesiti e guardarmi in quel modo. Comprendo...»
Ok, probabilmente stavo andando un po’ fuori di testa, ma me la sentivo di dirglielo. Non per fare la buona samaritana o la saggia predicatrice, ma qualcosa – guardandolo negli occhi a calamita – mi aveva impedito di starmene zitta e cucirmi la bocca. Nonostante mi mostrassi sicura nella tonalità della mia voce, non nascosi il mio evidente nervosismo nella mia gestualità; incrociai le braccia al petto, e con la mano destra mi arricciai i capelli molto irrequieto. Parlare e dire tutto ciò che riguardasse quello che io ero nel profondo mi faceva sempre molto effetto, tanto che ero perfino capace di scoppiare a piangere per un nonnulla; scrivere ciò che pensavo non era difficile, ma quando dovevo dirlo a parole sentivo i sudori freddi salirmi dalla spina dorsale e in pieno viso.
Michael Jackson non distolse nemmeno un secondo dai miei occhi e io feci lo stesso con lui. Per quello forse mi sentivo così accaldata. Mi osservò perplesso – intensamente - preso da ogni dettaglio della mia espressività... più avevo continuato col discorso, più lui spalancava gli occhi meravigliato. Alla fine me lo ritrovai a fissarmi sorpreso, ma non meno attento di prima. Sembrava che lo avessi sbalordito, ma in fondo stava riflettendo alle mie parole. La mia energica determinazione non sembrò venir meno ad ogni modo; più qualcuno dubitava di me, e più io diventavo insistente.
Sorrise e alzò un sopracciglio. «Sei un po’ permalosa, vero?»
Avvampai. Sentii le mie guance farsi rosse e caldissime, e per un momento non fui capace di dire niente a mia discolpa. Mi sentivo colpita nel profondo, tant’è che per ripicca aggrottai un po’ la fronte. Lui scoppiò a ridere di nuovo e io mi feci ancora più piccola e intimidita.
«Non è per quello...», sussurrai. «Mi da fastidio quando qualcuno non mi crede... non lo accetto...»
Lui smise di ridere, e mi scrutò socchiudendo gli occhi, mantenendo un sorriso molto sottile. «Stai tranquilla, ti credo... era... per metterti alla prova, sai... devo stare bene attento a chi mi affido... a chi affido i miei bambini...»
Questa volta fu serio, e io lo guardavo con comprensione. Non sapevo quanto potesse essere famoso, ma di sicuro voleva essere molto prudente per garantire la privacy dei suoi bambini. Doveva essere un padre molto previdente, e sicuramente doveva aver ricevuto parecchie batoste per assumere un’espressione così triste. O voleva solo che alle sue meravigliose creature non si avvicinassero persone cattive, cosa che senza dubbio condividevo.
«Non credere che io non mi sia informata sul tuo conto... Liza è una mia amica, è la figlia di una delle vere e poche persone che mi sono state vicino. Sua madre è stata sempre pronta a starmi vicino, a consolarmi quando la stampa mi attaccava, a farmi da compagnia di giochi, a testimoniare la mia innocenza...», non capii molto quell’ultima frase, e infatti si fermò a osservare la mia espressione in dubbio. Rise senza divertimento, e mi lanciò un’occhiata sconsolata e triste. «Scommetto che non sa delle accuse sul mio conto, vero?»
Dissentii, sentendo un senso di angoscia nelle mie viscere non appena si rivolse a me con espressività tanto malinconica. Ero curiosa di sapere, visto che non ne sapevo una mazza di quello che lo riguardava.
«Be’, io per la stampa sono un pedofilo», disse.
Restai senza parole. Nella mia mente c’era il silenzio, e regnava il grave istinto di scoprire di più oltre quella misera frase. Se il mio capo era considerato un pedofilo non importava; l’importante era sapere se il mio capo era un pedofilo. Aspettai che continuasse prima di pensare a qualcosa di veramente tangibile.
Mi guardò, abbassò lo sguardo, e riprese, sofferente di ciò che stava dicendomi. «Tanti anni fa sono stato accusato di essere un molestatore di bambini, e ora, dopo dieci anni, un altro bambino si presenta alla stampa dicendo che io sono un pedofilo. Ora chiedimi... chiedimi se sono un... una persona così...», mi chiese con dolore, fissandomi negli occhi.
Senza aver capito in che situazione mi ero ritrovata ad affrontare, glielo chiesi. La mia voce era titubante, ma volenterosa della sua risposta. Non avevo paura di lui, ma più che altro ero intenta nel comprendere se lui stava mentendo o no. Temevo che la risposta sarebbe stata affermativa.
«No, certo che non lo sono!», esclamò con un certo tono disperato della voce. Si stava cercando di contenere, ma attraverso il volto e la tonalità di voce sembrava che parlare di quel fatto lo nuoceva più di quanto cercasse di nascondere. «Le persone si divertono a distruggermi... vogliono i miei soldi... vogliono rendermi un mostro, di fronte a tutti, senza alcuna pietà... mi hanno torturato per tanti anni, e fra un po’ è probabile che mi ritroverò ad andar contro a un processo penale che mi metterà in seria difficoltà... se non verrà fuori la verità, finirò in prigione, non rivedrò i miei bambini per tanto tempo...»
Sentii il mio cuore farsi piccolo, piccolo... non ero mai stata insensibile al dolore degli altri, anzi, e la sua voce era lo specchio di una sofferenza atroce. Un senso di pesantezza mi soffocava il respiro, e niente era così sensato nella mia mente che ogni parola che avrei potuto dire perdeva il suo significato. Ne soffriva sul serio, non stava mentendo... ovviamente il dubbio c’era ancora, ma in quel momento volevo provare a credergli. E la cosa non era poi difficile.
«Sono diffidente perché non voglio che le persone possano procurarmi ancora dolore, e soprattutto: non voglio che facciano del male ai miei bambini. Che mi uccidano, che mi impicchino o mi picchino fino alla morte... piuttosto che tocchino i miei bimbi, sono disposto a morire.», disse socchiudendo gli occhi e premendosi il palmo della mano destra sul cuore, guardandomi con intensità sbalordente. Io ero impotente in quel senso di forte sofferenza, tanto che per un momento me ne sentii così parte anche io che i miei occhi divennero lucidi.
«Perciò perdonami» esclamò dopo qualche secondo di silenzio, nel frattempo che io avevo abbassato gli occhi sulle mie ginocchia e la mia mente si svuotava da ogni ragionamento sensato. «Mi dispiace se ti ho offeso, ma capiscimi se ho dovuto metterti alla prova per capire quale sarebbe stata la tua reazione... non è facile per te, ma neanche per te dev’essere fidarti di me...»
Non lo guardai, ma dissi: «In realtà... in questo momento non so a cosa pensare...» - tornai a fissarlo - «non credo che sia così falso da mentire su un reato come questo, sebbene di persone brave e bugiarde ce ne sono parecchie... e non mi aspetto che lei si fidi subito di me, come lo stesso potrà valere per me. Ad ogni modo non mi sento di giudicarla, non ora, e nel mio caso la fiducia la si acquisisce vivendo. Perciò, nel caso decidessi di accettare questo lavoro e nel tempo cambiassi idea su di lei, come lei su di me, le nostre strade si divideranno così come si sono incrociate. Non sono persona che usa la stampa per diffamare, anche perché non saprei comunque a chi rivolgermi, visto la mia scarsa attenzione verso di loro...»
«Ha ragione...». Sorrise, lasciando per un attimo il dolore alle spalle. Feci lo stesso, e solo dopo che mi ebbe scrutato ancora un po’ batté entrambi i palmi delle mani sulle sue ginocchia, ed esclamò: «Il curriculum! Me ne stavo dimenticando...»
«Oh, non si preoccupi!», esclamai, prima che lui si alzasse in piedi. «Ne ho una copia nella mia borsa, aspetti...», e con agilità rovistai nel casino della mia borsa nera.
Lui si accomodò meglio sul divano e attese. Non sto nemmeno a dire quanto mi sentissi in soggezione in sua presenza, perché è scontato. Presi quel dannato insieme di fogli e glieli diedi in mano ferma e convinta. Lui lo guardò, e successivamente mi fissò con serietà.
«Questo non è un curriculum...», disse.
Subito mi sentii male. Cominciai a farmi un sacco di congetture mentali, della serie: “Oh mio Dio, che cacchio di foglio è?”, “Che diavolo ha letto?”, “Oh cazzo!”, e aspettai che me lo ridesse in mano. Ero agitata e arrossita peggio di quanto avessi mai immaginato. Non appena lo avrei avuto sotto i miei occhi, lo avrei squadrato e... si mise a ridere. Michael Jackson sghignazzò sotto il mio sguardo attonito e confuso.
«Scherzo, non ti preoccupare...» esclamò riguardando il curriculum e ignorandomi. Non tornò serio, ma lo lesse con un sorriso soddisfatto. Io, nel frattempo, mi sentii sollevata e allo stesso tempo desiderosa di mandarlo a quel paese. Mi aveva fatto prendere un infarto, e per cosa? Perché per la seconda volta – anzi no, per la prima – mi aveva giocato. Evviva!
Mi sembrò che il tempo non passasse mai; stetti a guardarlo leggere con attenzione, finché non lo vidi tornare a me e passarmi un’occhiata esaminatrice per l’ennesima volta. Il colloquio vero e proprio era iniziato.
Si fece serio, si umettò il labbro inferiore abbassando lo sguardo, dicendomi: «Perciò... dispone di un “diploma, laurea in lettere con il massimo dei voti e varie specializzazioni in fatto di letteratura e lingua inglese, francese, spagnolo e italiano”. È americana?»
«No, sono italiana di madre lingua. Be’, immagino lo stupore, visto che di italiano nel mio nome c’è solo Sarah...» - e, al seguito di un mio sorrisino, ridacchio piano - «ma sono qui da quasi undici anni. Ho frequentato la Harvard, nel corso per diventare insegnante, e da lì – ottenuto la laurea – ho eseguito corsi per le lingue.»
«Mmh-mmh...» annuì guardando il curriculum, «non mi meraviglio perché Liza ti abbia scelto... hai ottenuto il massimo dei voti in tutte le materie? Comprese quelle in cui non sei specializzata?»
«Sì», risposi.
«Perfetto. Oltre all’esperienza in casa Burton, ha avuto altri lavori?»
E così gli spiegai per filo e per segno la situazione. Non sto qua a riportarvi tutta la nostra discussione, perché sarebbe solo noiosa da leggere. Ma di certo non era noioso il modo in cui mi guardava. Non riuscivo a fissarlo per più di un minuto senza perdere la concentrazione. Era terribile, sentirsi sempre sotto osservazione e non avere libero controllo delle tue azioni. Io che di solito mi imbarazzavo se qualcuno mi fissava costantemente sapevo bene la tensione che provavo.
Una volta che quel discorso sulla mia condizione istruttiva finì, non mi sentii affatto più libera. Lo vidi per l’ennesima e ultima volta guardare il curriculum, si umettò il labbro inferiore, e con gentilezza me lo porse di nuovo. A dire il vero, avevo paura su cosa mi avrebbe detto. Avrei lavorato lì oppure no? Era soddisfatto dalla mia istruzione? O necessitava di qualcun altro con più esperienza nel campo?
«Pensi di riuscire, uhm... nello scopo di aiutare i miei figli?», chiese pensoso, osservandomi.
Un attimo di silenzio. Abbassai lo sguardo sul mio curriculum, aggrottai le sopracciglia, e presi un forte respiro. Lui attese con pazienza la mia risposta, cosa che avvenne solo cinque secondi più tardi, mentre io cercavo le parole adatte da dire a una domanda così particolare e inaspettata.
Di certo non si poteva dire che fosse una persona priva di sorprese.
«Non posso essere sicura di niente» dissi alzando lo sguardo verso di lui «posso solo provare a fare del mio meglio. Non mi considero un’eccellenza in quello che sono, e se un giorno lei o i suoi bambini vi stuferete dei miei metodi di insegnamento e di, uhm... o non ci saranno progressi nell’istruzione dei suoi figli, allora mi riterrò incapace di riuscire ad aiutarli. Fino ad allora non do nulla per scontato, ecco...»
La mia voce era quasi un sussurro, ma non era indecisa o titubante. Mi toccavo i capelli come era mio solito fare quando ero nervosa e, senza badarci, mi resi conto di cominciare ad avvampare ad ogni parola che pronunciavo.
Quando finii quel mio lungo teorema sulla domanda fatta, cadde il silenzio. Lo guardai studiarmi con interesse, umettarsi il labbro inferiore e socchiudere gli occhi. Dopodiché sorrise. Sembrava soddisfatto di ciò che avevo detto, e la cosa riuscii per un attimo a farmi sentire meno tesa.
«Allora ci vediamo domani, che ne dici?», chiese con un risolino derivato alla mia espressione stupefatta. «Non ti dispiace iniziare il mercoledì, vero? I miei bambini sono estasiati all’idea della scuola, tanto che difficilmente accettano l’idea di perdere le lezioni...»
Wow, io ne avrei fatto volentieri a meno, tanto tempo fa..., mi dissi.
«No, no, per me non c’è nessun problema!», esclamai con fare più energico.
Entrambi ci alzammo in piedi, si avvicinò al divano nella quale ero seduta e mi strinse la mano. «Ti dispiace se le faccio firmare il contratto domani? Ero così impegnato che mi sono dimenticato tutte le carte, oltre che il tuo curriculum...», chiese in tono più leggero e soffice.
«Non si preoccupi, nessun problema...» - e si sciolse la stretta di mano. - «grazie di cuore...»
Sorrise. «No, grazie a te...»
Rimase a fissarmi per qualche secondo ancora di più, ma non espresse parola. Io presi la borsa che ancora stava poggiata sul divano e lo scorsi ancora intento nello scrutarmi. Quanto avrei dato per sapere il perché di quelle attenzioni così strane e allo stesso tempo così... fastidiose?
«Vieni», si scosse, discostando il viso verso l’uscita del salotto. «Ti accompagno...»
«Non serve, non si preoccupi... mi ricordo la strada», dissi senza esitare. «Non c’è bisogno che si disturbi troppo, davvero...»
Mi guardò sbigottito, quasi confuso, ma sorrise. Annuì e si umettò di nuovo le labbra. Si dondolò per qualche secondo sulle punte dei piedi come un bimbo, mi osservò, e di seguito guardò i suoi piedi. Tutte quelle pause mi mettevano un po’ di timore... non sapere che cosa pensava mi faceva paura. Ed era strano, perché solo con lui succedeva... da tanto tempo avevo dimenticato l’opinione degli altri su di me, e risentire quella sensazione sulla mia pelle non era per niente piacevole.
«Allora, a domani...», dissi per interrompere il silenzio. Lui m’osservò di nuovo e annuì, senza emettere risposta. Arrossii senza motivo. «Grazie ancora...»
Mi diressi verso la porta d’uscita e, nel mezzo di aprirla, mi sembrò sentirlo parlare. Mi voltai, spaesata, e lui sembrò risvegliarsi dalle nuvole. Fece un espressione del tipo: «Che c’è?», e imbarazzata non seppi che dire. Sorrise nuovamente, così accennai a un sorriso intimidito e questa volta – lo giuro – lo sentii chiaramente dire:
«Arrivederci... Sarah».
Mi bloccai con la maniglia impugnata nella mano, nell’atto di aprirla, e voltai il capo per la seconda volta: «Arrivederci...», dissi, e dopodiché me ne uscii senza avergli dato un’ultima e profonda occhiata.
Sinceramente, ero troppo irrigidita per potermi voltare indietro - troppo persa nel vuoto della mia mente che si liberava velocemente di ogni pensiero ansioso di dosso -, per dare un’ultima guardata a quella grande casa di favole e fiabe.
[Modificato da tati-a4ever 29/06/2011 19:33]
È difficile dir loro ciò che sento per te. Non ti hanno mai conosciuta, e non sanno come sei fatta. Come fanno a sapere il tuo mistero? Diamo loro un indizio.
Due uccelli sono su un albero. Uno mangia le ciliegie, mentre l’altro sta a guardare. Due uccelli volano nel cielo. Il canto di uno scende giù dal cielo come cristallo, mentre l’altro resta in silenzio. Due uccelli roteano al sole. Uno riflette la luce sulle sue piume argentate, mentre l’altro distende le sue ali invisibili.
Non è difficile capire quale dei due uccelli sia io, ma non riusciranno a capire chi sei tu. A meno che…
A meno che non sappiano cos’è un amore che non interferisce mai, che guarda da dietro, che respira libero nell’aria invisibile. Dolce uccellino, anima mia, il tuo silenzio è così prezioso. Quanto passerà prima che il mondo possa udire il tuo canto col mio?
Oh, come bramo quel giorno!
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