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The Wish (in corso). Rating: verde

Ultimo Aggiornamento: 06/11/2011 07:22
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18/06/2011 21:40
 
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Eccomi qua a tutti (:
So di avere una fan fiction in sospeso da spostare, anzi, due in realtà, ( una la sposterò presto, visto che è già completa ;) ), però ero entusiasta di spostare questa: questa è un connubbio dei caratteri delle protagoniste femminili di ogni mia storia su Michael (ognuna possedente parte del mio carattere e aspetto) e definisco questa storia come la mia opera più matura - fino ad ora - e completa, se così si può dire.
Spero sia di vostro gradimento, grazie per l'attenzione. (:



CAPITOLO UNO
L'inizio


Il mio interesse è nel futuro,
perché è lì che ho intenzione di spendere il resto della mia vita.
( Charles F. Kettering )



E' veramente strano come la vita prenda il suo corso, come ella sia strada delle nostre esperienze umane, e di come ella sia per noi la carta in cui ognuno di noi butta giù la nostra storia, parola per parola, secondo per secondo. Vivi nel tuo corpo umano, all’interno di quello scudo che può proteggere la tua anima di tenue e soffice luce e, molto probabilmente, non ti rendi conto nemmeno di tutto ciò che stai passando, importante o scontato che tu pensi che sia.

Ti accorgi di ciò che si ha vissuto solo dopo parecchio tempo. In genere alcuni riconoscono il valore della vita quando sono sull’orlo della morte o quando non si può più tornare indietro o quando – ahimè - è troppo tardi per poterli rivivere come se fosse la prima volta. Ci sono i più saggi, con il loro spiccato senso della puntualità, i quali si accorgono del valore della vita sempre ben in tempo; realizzano quanto i momenti della nostra esistenza siano importanti prima che la morte terrena ne tolga la possibilità di amarli incondizionatamente; questi saggi hanno avuto il particolare dono di godere della gioia migliore anche solo essendo felici di essere nati, anche soltanto di essere su Madre Terra a godere dei suoi regali. Per fortuna, mi ritengo sospesa fra questi due tipi di personalità. C’è sempre una via di mezzo.

E io credo che, dopotutto, tutti siamo stati uno di questi famigerati saggi, una volta nella nostra vita... e lo siamo, soprattutto quando siamo innamorati. Be’, allora sì che ci rendiamo conto di quanto la vita è bella! Allora crediamo che tutti intorno a noi risplenda, che noi stessi - pur non vedendoci - risplendiamo; tutto ci sembra incantevole, perfino l’oscurità che risiede ancora nei cuori pieni di paure. In quel momento, crediamo di essere vivi. Ci diciamo “Sì, la vita è bella!”, e viviamo ogni singolo momento in pace, col cuore sereno e scoppiettante nel petto, gli occhi illuminati di amore e vita. Tutti, ognuno a modo proprio, hanno vissuto; tutti sono stati innamorati e si sono considerati grati alla vita e fortunati ad esistere; hanno dimenticato i brutti momenti lasciando spazio alla felicità nel loro cuore, hanno donato amore incondizionato e hanno dimenticato quell’egoismo che porta, il più delle volte e il più delle persone, a voler ricevere obbligatoriamente quando si da, quasi fosse una forma di riscatto per un pezzo di sé stessi che si dona... o si crede di aver donato.

Lettori, la vita è bella quando si ama, quando l’amore è parte di ognuno di noi e della nostra quotidianità. Non importa il resto, tutto gira intorno all’amore. La vita si vive con l’amore, perché senza amore quella che noi viviamo non è vita. Ma non sto a chiarire ancora di più questo discorso, sebbene potrei dire molte cose su questo argomento; potrei dire che si vive la vita non solo con l’amore per gli altri, ma anche al grande amore per noi stessi, così difficile da trovare in ognuno dei nostri cuori e altrettanto complicato da voler realizzare. E potrei dire molte altre cose riguardo questo infinito e stupendo discorso sul legame vita-amore, ma non è di questo che voglio parlare con voi che state leggendo ciò che io ho scritto.

No, non voglio parlare di tutto ciò. Certo, aprirò qualche parentesi nel corso degli eventi di cui verrete a conoscenza, ma non mi fermerò solo su queste ‘pillole’ di saggezza spirituali e importanti per la esistenza di ogni essere vivente. No, perché io vi voglio raccontare una storia. Voglio narrare a voi - voi che con così ardore siete immersi nel racconto - la mia storia. Forse vi stuferete di ciò che leggerete e abbandonerete ogni curiosità emozione a questo racconto, e non posso né biasimare né arrabbiarmi per questa vostra scelta. Posso iniziare a narrare questo racconto solo iniziando a presentare chi è colei che ha scritto ciò che ora seguite con occhi, mente e cuore aperti.

Mi chiamo Sarah Anne Elinor Morris, ma in questa storia mi conoscerete e sentirete parlare di te semplicemente come Sarah Morris, o ancora meglio come Sarah e basta. Prima di passare alla mia piccola descrizione, vi premetto già da subito parecchie cose che dovete sapere sul mio conto. Non sono affatto una di quelle modelle dal fisico provocante e tonico delle riviste, né una di quelle grandi ‘fiche’ tutta sorrisini e moine; non ho uno sguardo o un viso che eccita l’altro sesso in alcun modo, né ovviamente l’aspetto fisico che, come ho detto, non è scolpito come Venere; non sono una principessa che attende di essere salvata dal suo principe azzurro – sebbene da bimba un po’ abbia sempre sognato di essere una principessa, con atteggiamenti e tutto il resto – o forse credo di non essere adatta per quel ruolo nella mia vita; non ho nobili origini e ancor meno talenti eccezionali o particolari che mi rendono speciali e diversa; non sono vergine, non sono un’alcolizzata, né faccio uso di droga o sigarette; non ho aspirazione a diventare né una diva né una star, ma solo a vivere la mia esistenza nel modo più pacifico possibile.

Non ho un fisico mingherlino e sottile – anzi, in realtà è un po’ robusto. Non ho gambe perfette, ma solo un po’ più grosse del normale; non ho la pancia piatta e inesistente, ma anzi possiedo tre/quattro centimetri in più sul giro vita; ho le braccia leggermente più grosse del normale e ho un viso leggermente tondeggiante. Diciamo in poche parole che sono il contrario della donna in perfetta forma fisica e patita dello sport. È anche vero che rispetto a molti anni fa sono molto più asciutta, ma neanche adesso sono nel peso forma, ecco... se non mi sarei cominciata ad amare di più, probabilmente nel corso degli anni sarei diventata il doppio di quanto ero prima. Ma non è solo colpa mia – dico davvero! – ma del mio metabolismo ritardato... non prendetela come una scusa, perché è la verità: mi sono curata per molti anni in ospedale per ristabilirmi fisicamente a causa di una tiroide rincoglionita e ghiandole surrenali sfasate. Anche vero che il mio peso era peggiorato non solo da disfunzioni fisiche, ma morali... perché ricordate, non stare bene dentro può portare a grandi problemi fisici, o peggiorare ancor di più la vostra attuale situazione! L’ho provato sulla mia propria pelle... so quel che dico!

Ad ogni modo, nonostante il fisico cicciottello, ci sono anche dei bei lati fisici: possiedo degli occhi parecchio strani, particolari se così si possono definire! Non hanno un colore ben definito, sebbene a primo impatto possano sembrare verdi. In realtà, se guardati da vicino con attenzione - soprattutto sotto la luce del sole - si possono notare parecchi particolari: il contorno dell’occhio è grigio, attorno alla pupilla color nocciola, verso l’interno color verde e, in ultimo, verso l’esterno ci sono lievi sfumature azzurre. Io stessa mi accorsi di questi dettagli solo pochi anni fa... evidentemente temevo troppo di guardarmi con attenzione allo specchio. Comunque oltre agli occhi - parte di me che preferisco e preferivo sopra ogni altra - il resto del viso è abbastanza piacevole. Anche i miei capelli, che una volta consideravo orribili, ora mi piacciono. Sono di un color rosso, castano quasi, ma al sole appare il vero colore dei miei capelli: un bel modesto rosso ramato. In realtà non mi piacevano per il fatto che non avevano mai una piega precisa – dei giorni erano ricci, dei giorni lisci – ma, dopo tanti anni, ho cominciato ad apprezzarli abbastanza. E li apprezzo soprattutto perché sono riusciti a crescere, arrivando a sorpassare il livello del seno. Che grande soddisfazione!

Nacqui il 25 gennaio 1975, in Italia, in una cittadina sperduta del Veneto. Nata da madre italiana e padre americano, vissi lì fino a quando non ebbi il diploma; dal giorno in cui finii i cinque anni di liceo classico, non persi l’occasione per partire in America, anche se di certo in Italia non mancavano di certo le università per continuare gli studi. In realtà avevo sempre desiderato fuggire via da quel luogo. La mia aspirazione era viaggiare, arricchirmi delle altre culture e fare volontariato ai bambini in Africa; realizzai di voler cambiare il mondo aiutando gli altri solo al terzo anno di liceo, quando era oramai troppo tardi per scegliere un’altra scuola da frequentare. Una volta negli Stati Uniti continuai le mie specializzazioni e ottenni una capacità di parlare inglese davvero perfetta – grazie comunque al fatto che papà era americano ed io ero già più avvantaggiata. Riuscii ad ottenere prestigio e in poco tempo, a venticinque anni – già parecchio avanti coi corsi – trovai lavoro come insegnante di letteratura inglese in una scuola pubblica non molto distante dalla mia università, la Harvard, più precisamente la Harvard Graduate School of Education.

Ma nemmeno un anno nella scuola pubblica cambiai subito lavoro; venni a sapere che una donna di mezza età, che segretamente era stata informata della mia bravura ed eccellenza, chiese il mio contributo nell’educazione privata dei suoi figli adolescenti; quella signora si chiamava Liza Todd Burton, figlia non poco di meno di Elizabeth Taylor. Oh sì, avevo sentito moltissimo parlare di lei – mia mamma era fissata con lei, il mito dei suoi magnifici occhi pervinca e il suo eccezionale talento per la recitazione –, ma solo qualche mese più avanti avrei capito quanto sarebbe stata importante per il mio futuro. Non incontrai mai Liz Taylor personalmente, se è questo che vi state chiedendo: io ero solo l’istruttrice dei nipoti Quinn e Rhys Tivey, e perciò venivo a casa Burton solo nei momenti in cui era necessario insegnare. Il mio rapporto con quella famiglia era di rispetto, discrezione e privacy: e la cosa mi andava assolutamente bene così, non chiedevo di meglio.

Ma non durò molto il periodo di insegnante in quella casa, uno o due anni pressoché, perché ricevetti la proposta di insegnamento per un certo signor Jackson. La mia stessa datrice di lavoro, la signora Liza, mi chiese personalmente se mi sarebbe piaciuto andare a lavorare per un amico della madre – anch’ella star di fama mondiale –, amico suo e persona di buon cuore. Forse dava per scontato che io avessi già intuito di chi parlasse, ma si sbagliava; in realtà all’inizio credevo si riferisse a uno di quei VIP oramai sconosciuti, uomini di mezza età abbandonati dai fan dopo il periodo di successo fin troppo poco duraturo, con a carico degli adolescenti da tirar su. Lo so, è una cosa che farà ridere perfino i polli, ma ahimè non avrei mai pensato quale persona sarei mai andata a trovare! Quando la signora Burton mi offrì quella proposta, accettai voler conoscere maggior dettagli e che avrei preso in considerazione quell’opportunità. Sembrava ci tenesse molto a farmi accettare quel lavoro, perché cercò in tutti i modi di farmi acconsentire all’offerta! Addirittura pensai che volesse sbarazzarsi di me, ma in verità non conoscevo a fondo il legame che aveva con questa persona, in particolar modo quello che sua madre aveva con codesto ‘signor Jackson’. Come avrei potuto capire che si stava parlando proprio del signor Michael Jackson, quando conoscevo così poco di lui e ancor meno della profonda amicizia fra lui e Liz Taylor? Diciamo che ero sempre stata una con la testa fra le nuvole... la mia ignoranza era scusata, per così dire.

E avendo accettato di prendere in considerazione la proposta - l’aver deciso di voler incontrare quell’uomo in faccia per discutere di ogni dettaglio del contratto di lavoro - mi ritrovai in troppo poco tempo in una lussuosa limousine - vestita senza troppo sfarzosità - in viaggio per la casa di questo famigerato signor Jackson, in una mite e soleggiata giornata di novembre della città di Santa Barbara, Los Angeles. Ero troppo ingenua per capire allora a chi e che cosa andassi incontro; non avevo considerato i pro e i contro, non avevo ben ragionato e riflettuto, non avevo ben indagato su questo misterioso signore, ma in tal attimo non mi preoccupavo affatto. Era il 26 novembre 2003, e presto avrei incontrato il mio forse-nuovo datore di lavoro e avrei discusso con lui dei miei forse-futuri compiti: questo era l’importante.

Me ne stavo seduta in una limousine nera – a Los Angeles ce ne erano tantissime, per quello forse nessuno ci faceva davvero caso ogni volta che ne passava una –, con le mani congiunte e adagiate sulle mie gambe accavallate, guardando al di fuori del finestrino oscurato il sole che risplendeva in alto in cielo. Era pomeriggio, e nonostante fosse autunno inoltrato il calore dei raggi solari scaldavano tanto quanto in primavera in Italia nelle regioni più a nord. Assaporai il calore che ricevevo sulle mie guance e sui miei strampalati capelli rossastri, nel frattempo che un’eccitante e nevrotica emozione mi dava l’impressione di avere un mattone nella pancia.

Ero sempre nervosa a qualsiasi appuntamento di lavoro o qualsiasi altro incontro che potessi mai avere con una persona; non sapere a che cosa andavo incontro mi dava fastidio, mi provocava un forte stato di ansia e lieve agonia che, nelle situazioni più gravi, mi facevano diventare ancora più irritabile di quanto già ero nella vita di tutti i giorni. Riflettevo sul come mi sarei dovuta comportare, sulle domande e risposte che avrei dovuto dare, e come al mio solito la mia innata fantasia mi portò a creare i miei soliti e pazzoidi dialoghi che sarebbero potuti realmente avvenire durante il colloquio. Già vedevo cosa sarebbe accaduto, le cose che mi sarei sentita dire e le cose che avrei risposto con tono professionale e – sperai – tenace e sicuro.

Cercavo di distrarmi guardando le figure delle macchine che passavano veloci... il tragitto che stavo percorrendo per non dimenticarlo se mai sarei dovuta tornare nel luogo dove stavo andando... era un’autostrada che mano a mano si faceva più deserta, un panorama che pian piano si spogliava della sua ricca vegetazione... un posto in cui la lieve aridità del suolo dava l’idea di attraversare le immense autostrade desolate già viste più volte nei film. E per quanto l’ansia potesse distrarmi dalla beltà innaturale di quel posto, alla fine non ostentai a dedicarmi a quella magnifica distrazione, né a fantasticare sul posto nel quale mi sarei presto ritrovata. Chissà, magari il signor Jackson abitava in un luogo di campagna piuttosto deserto... forse amava la tranquillità e, per dedicarsi alla pace, aveva scelto un posto piuttosto distante dalla vita movimentata di LA. Era una scelta davvero geniale, se le mie deduzioni erano l’effettiva verità dei fatti.

Ed ecco che la desolazione dava di nuovo spazio ad un verde più vivace; cominciarono a farsi sempre più vivi gli alberi, i campi ora non erano più desolati ma riempiti da questi esseri dalle chiome verdi e rigogliose. Pian piano la mia attenzione lasciò completamente perdere le preoccupazioni del colloquio per dar posto alla bellezza di quel posto così pacifico e tranquillo. Forse le cose non sarebbero andate tanto male, pensai fra me e me, non in un angolo di Paradiso così. Anche a me sarebbe piaciuto vivere là, in pace, senza nessuno, nella mia solitudine e nella cura del mio equilibrio interiore...
Improvvisamente però la mia pace si trasformò di nuovo in agitazione. Avevo perso il controllo del tempo, e la grande automobile si fermò. Cercai di espormi in ogni modo più possibile e immaginabile al finestrino, per scoprire in che posto ora mi fossi fermata. Ero già arrivata? No, era impossibile... non c’era nessuna abitazione ancora, se non per una grande ‘recinzione’ in mattoni rossi.

Mi sporsi verso il finestrino opposto a quello dove ero io vicina in quel momento per scorgere qualche indizio della residenza. Vidi una statua di bronzo di una bambina con le treccine, della stessa altezza che avrebbe una bimba di sei o sette anni, la gamba sinistra alzata in un salto e le braccia spalancate verso l’alto. Una strana statua, in effetti, ma non ci diedi tanto conto. Cercai di poter vedere attraverso la visuale del guidatore, ma siccome quella era una limousine c’era un vetro divisorio fra me e chi dirigeva l’automobile. Un po’ delusa, mi arresi.

E, invece che essere in ansia per quello che avrei dovuto dire, ero smaniosa di scoprire in che luogo sarei mai potuta venire in contatto. Quella bimba in bronzo mi aveva messo uno strano punto interrogativo nella mente: non era la prima volta che l’avevo vista. Ero addirittura tentata di abbassare il finestrino senza il consenso del guidatore... dopotutto, se avessi fatto piano, nessuno se ne sarebbe accorto... era solo una sbirciatina veloce, non c’era niente di male..! Perciò, come una bambina piccola, con le orecchie ben alzate come due antenne e lo sguardo attento, provai ad abbassare il finestrino con uno dei tasti in parte alla maniglia della portiera, ma d’improvviso mi bloccai paralizzata.

Ad un certo punto si avvicinò un uomo alto e con la divisa nera. Sentii che il mio piano di abbassare il finestrino di soppiatto era andato in frantumi, soprattutto dopo che di sicuro mi aveva scoperto!, ma un’ulteriore idea mi fece compiere una successiva pazzia. Vidi l’uomo scrutare verso di me, e anche se tuttavia non poteva vedermi mi sentii bollire le guance dall’imbarazzo e la vergogna. Dopodiché si rivolse al guidatore della limousine. Con tutta la capacità uditiva che avevo, mi avvicinai piano al finestrino e ascoltai le loro parole con fremente interesse.

«E’ la signorina Morris?», chiese l’uomo che si ero sporto verso il guidatore, appoggiandosi con la mano sinistra sul cofano della limousine. Lanciò di nuovo uno sguardo veloce verso il sedile posteriore dove stavo io, e per un momento temetti che mi potesse vedere davvero.

«Sì, è lei», confermò l’autista con tono serio.
Evidentemente gli ospiti non erano ben accetti, perché lo sconosciuto fuori dalla macchina aveva uno sguardo piuttosto diffidente. Probabilmente questo signor Jackson non amava la compagnia e i visitatori di alcun genere. Questa cosa mi dava ancor più trepidazione.

«Bene» disse l’uomo alto, «portatela presso la casa del signor Jackson, la sta attendendo... ci penseranno poi gli inservienti a guidarla da lui. Grazie per l’ottimo lavoro, puoi andare!», diede un colpo al cofano e l’autista si rimise in moto.

Sentii un rumore meccanico far muovere un enorme cancello, e quando l’uomo sparì dalla visuale il guidatore mise mano all’acceleratore e ripartì di nuovo con più calma. Io non persi l’occasione e abbassai di più il finestrino, proprio nel momento in cui stavamo per passar sotto il cancello. Solo allora riuscì a scrutare l’insegna in alto, anche se non nel miglior dei modi. Quel che riuscii a leggere fu “Never –", una scritta in lettere a carattere cubitali color oro. Con uno sguardo arreso, ritirai il volto dal finestrino aperto e lo alzai di nuovo, lasciando però una piccola fessura che mi avrebbe fatto sentire il vento nella fronte.

Non sapevo né che luogo era né chi fosse il proprietario; Liza mi aveva dato tempo per ricercar più notizie su questo personaggio – tre giorni, più o meno –, ma io pensavo fosse una persona tutt’altro che da prima pagina. Per quanto impossibile possa essere, io la televisione non la guardavo mai. Non compravo giornali, non amavo uscire per il cuore di Los Angeles... amavo leggere e scrivere, insegnare e occuparmi dei miei impegni di insegnante, guardare al massimo film al cinema o a casa, prenotandoli da un videonoleggio non troppo distante dalla dimora abituale. La mia vita era piuttosto tranquilla e isolata dal furore di LA; insomma, una vera straniera in una città piena di caos e vivacità. Però l’amavo... soprattutto la notte.

L’auto passò per un lungo immenso viale alberato, lasciando il sole e le ombre delle chiome verdi giocare con effetti di luce semplicemente stupendi. Riabbassai di nuovo il finestrino, quel poco che mi avrebbe permesso di lasciar scoperto almeno tutto il viso. Era un’emozione molto pacifica... guardare in alto le foglie muoversi dal vento, cullate dal suo delicato soffio, e percepire talvolta il sole in pieno viso... i miei capelli, che con la luce assumevano le loro tipiche sfumature rosso ramato acceso, selvaggiamente si posavano su ogni parte del mio volto... era una sensazione stupenda, davvero liberatoria.

Sebbene avessi idea che il signor Jackson non amasse molto gli ospiti, lo dovetti ammirare per la maestosa residenza nella quale aveva deciso abitare. Sarebbe stato il mio sogno vivere in un posto così verde, così pieno di alberi... un vero sogno che si avvera.
Dopo una decina di minuti abbondante – non so precisamente quanto fosse passato, persa com’ero in quell’ambiente irreale – l’autista si fermò nelle vicinanze di un grande ponte. Con velocità alzai del tutto il finestrino, appena in tempo prima che ci raggiungesse un altro uomo – piuttosto alto anche costui e vestito in nero. Senza aspettare di essere servita, aprii la portiera con rapido gesto, e allora il tizio accelerò il passo verso di me. Scesi dall’auto, chiusi la portiera e rivolsi un sottile ‘grazie’ all’autista, il quale annuì soltanto con grande cortesia.

L’uomo in nero era ormai a due metri da me, ma potei farne subito un lieve ritratto, nonostante i miei occhi fossero accecati dal sole. Era ovviamente alto e piuttosto robusto, scuro di pelle e con i capelli cortissimi, quasi del tutto rasato. Quando mi fu vicino abbastanza parlò, nel frattempo che strinse la mia mano con una notevole decisione (anche se neanche la mia stretta non era male).

«Benvenuta signorina Morris, il mio nome è Bill Whitfield, e sono una guardia del signor Michael. Prego, mi segua... la sta attendendo dentro in casa, assieme ai suoi bambini». Mi guardava con uno strano sguardo, serio e rigido ma tuttavia sereno, contrariamente al tizio che all’entrata di questa enorme ‘vallata’ mi aveva guardato attraverso il vetro oscurato della macchina.

«Grazie...», esclamai molto delicatamente, annuendo convinta. Notai – guardandolo attentamente negli occhi – che il suo viso era abbastanza paffuto; possedeva un taglio d’occhi fine, iridi molto piccole e scure. Lui fece retromarcia e io lo seguii di filato, cercando di star attenta a guardare dove andavo e allo stesso tempo di osservare l’ambiente tutto intorno a me.

A primo impatto mi sembrava di stare in un luogo fatato. Alla mia sinistra vedevo perfettamente il lago, immenso, che con la luce del sole acquistava uno stupendo colore verde smeraldo, e al centro di esso due grandi specie di fontane che sputavano l’acqua verso l’alto e il cielo azzurro. Alla mia destra avevo un’enorme prato, costeggiato da tantissimi alberi che mi privavano di vedere oltre e curiosare sulle tante meraviglie di quello strano posto. Con uno strano senso di tranquillità continuai il percorso in pietra, seguendo con scatto veloce colui che mi indicava la strada da seguire; dovevo essere agile, perché difficilmente lo avrei raggiunto se avessi camminato seguendo i miei ritmi.

Oltrepassammo due grandi alberi, e poco dopo mi ritrovai su una strada liscia e dinanzi agli occhi una casetta molto carina. Era costeggiata da giardinetti verdi con aiuole con tantissimi fiori rossi e lillà; era un villino molto grande, fatto di mattoni e di legno scuro, e mi dava tanto la sensazione che fosse una di quelle belle casette che puoi trovare solo nelle fiabe. Attorno alla casa c’erano grandi alberi, e con le loro chiome folte davano al sentiero un misto di luci e ombre che donava uno spettacolo sensazionale agli occhi di chi si trovava in tal luogo. Posso solo dirvi che quella casa era piena di maestosità, e nella sua semplicità altrettanto imponente e incredibile.

Avrei voluto fermarmi un momento per poter scrutare ancora più attentamente la bellezza innata di quel posto, ma l’uomo davanti a me – che si era presentato con il nome di Bill Whitfield – non ostentò nemmeno un secondo a fermarsi, neanche per controllare che io lo stessi seguendo. Egli mi portò davanti alla porta principale della casa – grande, creata in legno scurissimo – e come se niente fosse entrò in casa; si scostò dall’entrata, tenendo la porta per la maniglia e guardandomi passare fino all’interno dell’abitazione. Dopo che fui entrata emettendo dalle labbra la parola “grazie”, egli la chiuse e mi disse di seguirlo velocemente.

La prima cosa che colpirono i miei sensi furono il profumo dell’interno e l’arredamento semplice ma di classe. Il modo in cui già vedevo arredata la casa mi dava un senso di entusiasmo ed eccitazione innaturale, e con piacere immenso osservavo con accuratezza ogni cosa di quello stupendo nuovo ambiente. Il profumo che sentivo era fresco, pulito – uno strano odore di sandalo che si diffondeva leggero nell’aria mischiandosi con la freschezza di tale area – e tutto questo, con il sapore che suscitavano quei mobili alla mia vista, procurava un contrastato effetto: antico assieme al nuovo, pulito assieme alla vecchia raffinatezza di un ambiente quasi secolare.

Più i secondi passavano, e più credevo di essere dentro una fiaba. Dubitai del fatto di esser stata l’unica a rimanere meravigliata a questa incantevole visione; se il signor Jackson avesse fatto mai venire qualcuno in casa, oltre al gran personale che doveva possedere, di sicuro sarebbe rimasto sbigottito quanto me.

Seguii la guardia del corpo oltre un corridoio dal pavimento in legno scuro, dal colore così intenso quanto quello della porta d’entrata, e mi ritrovai presto in un salotto stupendo. Non feci tempo a dare un’occhiata all’arredamento principesco che fui attratta da tre persone, due delle quali erano seduta comodamente sul divano: erano un uomo, vestito molto elegantemente, e due bambini, un maschietto e una femminuccia. Evidentemente erano loro, il padrone di casa e i suoi figli... il signor Jackson e i bambini alla quale probabilmente sarei dovuta essere istitutrice.

«Signor Jackson, eccoci qua», disse Bill Whitfield, fermandosi sul posto a un metro da me. Mi fermai d’impatto anche io, incapace di muovere un altro solo passo in avanti. Il mio sguardo era catturato dall’uomo che se ne stava in piedi, con la schiena voltata verso di noi e la testa abbassata verso i suoi figli. I piccoli, che da prima parlavano con fare eccitato al padre, mi guardarono interessati, in silenzio. Successivamente anche il signor Jackson si voltò.

Era abbastanza alto, di corporatura giusta, con i capelli lisci e neri e un abito davvero raffinato, degno di un appuntamento di lavoro importante (e io che indossavo solo pantaloni di velluto nero e una camicia bianca da quattro soldi!). Ad ogni modo, da lontano, lo vidi scrutarmi con intensità. Io non ero da meno, perché non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso. Gli diedi un rapido check-up, fino a bloccarmi sul viso. Lui sorrise e mi stupì molto: credevo fosse un uomo più anziano, più serio, e soprattutto più severo. Invece la sua espressione era tranquilla, forse un po’ troppo esaminatrice, ma non cattiva o seriosa. E il sorriso che dopo mi rivolse era gentile e molto aperto. Non era come me lo ero immaginato. No, affatto...

Mi avvicinai di qualche passo, ma fu lui che mi venne più vicino. A grandi passi si diresse verso di me, e così potei scrutarlo ancora meglio in viso. Aveva un volto piuttosto pallido, rosato ma non abbronzato, con delle labbra molto belle – scommisi che, con un sorriso aperto un po’ più aperto, sarebbero state ancora più grandi; il naso era piuttosto fine, e aveva una evidente fossetta nel mento molto marcata. La pelle era perfettamente liscia, segno che si era da poco fatto la barba. I suoi occhi – che fin da prima li avevo visti nascosti da un paio di occhiali scuri – rimasero ignoti a me fino a quando non se li tolse, durante il tragitto dal divano all’entrata del salotto. Se li mise nella tasca della giacca e, con un’espressione tranquilla ma interessata, mi si avvicinò di pochi centimetri. Solo allora li potei osservare. Erano grandi, profondi e scuri... possedevano una strana luce, e non erano affatto iridi dall’espressione vacua.

Li sentivo scavare dentro le profondità del mio corpo, quasi fossero in grado di spogliarmi senza che non avessi i vestiti addosso. Forse fu il contatto diretto coi suoi occhi, forse la vicinanza, o forse quello stupido senso di nudità, ma mi sentii improvvisamente irrigidita e nervosa; nel sangue avevo l’adrenalina: mi sentivo così in ansia per quella vicinanza che sentivo il flusso sanguigno fermarsi in corpo. Mi creava un certo nervosismo quell’occhiata, ma resistetti comunque allo sguardo. Cercai di essere il più naturale possibile, anche quando mi porse la mano per stringerla.

«Piacere di conoscerla, il mio nome è Michael Jackson», disse in modo molto vellutato ma decisamente intenso; non smise mia di fissarmi nelle iridi verdi nemmeno un secondo, nemmeno quando io abbassai gli occhi sulla sua mano. Solo più tardi avrei notato quanto le nostre mani avessero una temperatura piuttosto simile, dato che improvvisamente la mia mente scattò a ragionamenti che prima non avevo immaginato fare, e il momento di offuscamento totale diede spazio a un’unica certezza: se lui era Michael Jackson, io ero Lady Diana.

Sorrisi, ed evitai di scoppiare a ridere a quella sua battuta. Era anche divertente, ma non originale... cioè, non che io conoscessi chi fosse Michael Jackson, ecco. Come ho già detto, io non aprivo molto la televisione, era quasi un optional per me, e di quella star sapevo solo la carriera musicale (all’incirca). L’ultima volta che lo avevo visto in viso era nella copertina dell’album Bad, di parecchi anni prima, ma non mi ricordavo più neanche com’era il suo volto oramai. Forse qualche canzone l’avevo anche sentita più volte, non lo sapevo... Poi da lì non avevo più saputo niente di lui. Sarà strano crederlo, ma io a Los Angeles non sapevo perché ci vivevo; la città delle star, Hollywood, Beverly Hills... io non ero tipo per quella città!

«Che c’è..?», chiese lui aprendo le labbra in un sorriso ancora più grande.

Soddisfatta della mia previsione, avevo constatato che non solo aveva dei bellissimi occhi, ma un sorriso così grande che sembrava andare da un orecchio all’altro. Non era affatto male, in effetti, sebbene non fosse il mio tipo. Aveva il tipico fascino maschile da vero uomo maturo che mi piaceva tanto a me, ma non lo vedevo come uomo dei miei sogni. Tuttavia non era così sveglio da capire che io avevo inteso il suo scherzo ironico... era evidente che stesse dicendo che era Michael Jackson per via del cognome uguale a quello della star, non ero così scema.

O almeno così credevo.

Risi leggermente. «Lei è Michael Jackson?», e alzai di poco le sopracciglia verso l’alto.

Lui divenne serio, aggrottò la fronte e strinse le labbra in un’espressione confusa. Il mio sorriso pian piano divenne meno ogni secondo in cui la sua serietà diventava maggiore. Mi chiesi se si stesse offendendo per la mia risatina sarcastica o se perché ero io che avevo detto o pensato qualcosa di sbagliato.

Poi mi guardò di nuovo, con maggiore profondità, e un attimo dopo scoppiò a ridere come un matto. «Be’, ...», disse toccandosi con l’indice e il pollice la fossetta che aveva sul mento. Era quasi imbarazzato, ma non riuscivo a capire perché... «Io sono Michael Jackson, e non sto scherzando...»

Se dapprima sorridevo pensando che il ‘signor Jackson’ possedesse un grande senso dell’umorismo – e anche un po’ di ingenuità – in quel momento mi sentii di essere io la vera cretina di turno. Chissà come mai, tutt’un tratto, non dubitai delle sue parole.

C’era una frase che volteggiava ad alta voce nella mia mente e non la smetteva di prendermi in giro. E quella frase era: ‘Brava, Sarah, complimenti per la tua prima meravigliosa figura di merda’.




È difficile dir loro ciò che sento per te. Non ti hanno mai conosciuta, e non sanno come sei fatta. Come fanno a sapere il tuo mistero? Diamo loro un indizio.
Due uccelli sono su un albero. Uno mangia le ciliegie, mentre l’altro sta a guardare. Due uccelli volano nel cielo. Il canto di uno scende giù dal cielo come cristallo, mentre l’altro resta in silenzio. Due uccelli roteano al sole. Uno riflette la luce sulle sue piume argentate, mentre l’altro distende le sue ali invisibili.
Non è difficile capire quale dei due uccelli sia io, ma non riusciranno a capire chi sei tu. A meno che…
A meno che non sappiano cos’è un amore che non interferisce mai, che guarda da dietro, che respira libero nell’aria invisibile. Dolce uccellino, anima mia, il tuo silenzio è così prezioso. Quanto passerà prima che il mondo possa udire il tuo canto col mio?
Oh, come bramo quel giorno!


19/06/2011 16:31
 
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Ciao tati-a4ever!![SM=g27822]
La tua storia mi piace tanto,la trovo molto interessante,davvero.Ho trovato divertente la parte finale dove Sarah chiede«Lei è Michael Jackson?»e lui«Be’,sì...»,disse toccandosi con l’indice e il pollice la fossetta che aveva sul mento.Era quasi imbarazzato,ma non riuscivo a capire perché...«Io sono Michael Jackson,e non sto scherzando...» [SM=x47979]Sono curiosa di leggere il seguito di questa storia. Complimenti [SM=x47932] [SM=x47932]
[Modificato da Dayna87 19/06/2011 16:33]



19/06/2011 17:10
 
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Re:
Dayna87, 19/06/2011 16.31:

Ciao tati-a4ever!![SM=g27822]
La tua storia mi piace tanto,la trovo molto interessante,davvero.Ho trovato divertente la parte finale dove Sarah chiede«Lei è Michael Jackson?»e lui«Be’,sì...»,disse toccandosi con l’indice e il pollice la fossetta che aveva sul mento.Era quasi imbarazzato,ma non riuscivo a capire perché...«Io sono Michael Jackson,e non sto scherzando...» [SM=x47979]Sono curiosa di leggere il seguito di questa storia. Complimenti [SM=x47932] [SM=x47932]




Grazie Dayna87, sono felice che ti piaccia [SM=g27819]
Sì, anche io ho trovato quella parte molto carina... è nel carattere di Sarah fare figure così. [SM=x47979]
Sposterò presto, e cercherò di non deluderti [SM=x47938]
Grazie ancora, e piacere di conoscerti! [SM=g27838]

È difficile dir loro ciò che sento per te. Non ti hanno mai conosciuta, e non sanno come sei fatta. Come fanno a sapere il tuo mistero? Diamo loro un indizio.
Due uccelli sono su un albero. Uno mangia le ciliegie, mentre l’altro sta a guardare. Due uccelli volano nel cielo. Il canto di uno scende giù dal cielo come cristallo, mentre l’altro resta in silenzio. Due uccelli roteano al sole. Uno riflette la luce sulle sue piume argentate, mentre l’altro distende le sue ali invisibili.
Non è difficile capire quale dei due uccelli sia io, ma non riusciranno a capire chi sei tu. A meno che…
A meno che non sappiano cos’è un amore che non interferisce mai, che guarda da dietro, che respira libero nell’aria invisibile. Dolce uccellino, anima mia, il tuo silenzio è così prezioso. Quanto passerà prima che il mondo possa udire il tuo canto col mio?
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19/06/2011 17:23
 
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ahahah il finale è stato fantastico!!! Sei bravissima a scrivere la storia mi piace! Ti prego continuaaa!!
p.s.:Continua anche l'altra FF Mi manca!!
[Modificato da maria0881 19/06/2011 17:23]
19/06/2011 17:44
 
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Re:
maria0881, 19/06/2011 17.23:

ahahah il finale è stato fantastico!!! Sei bravissima a scrivere la storia mi piace! Ti prego continuaaa!!
p.s.:Continua anche l'altra FF Mi manca!!



Grazie Maria [SM=g27819] Non so come ringraziarti per il tuo appoggio... [SM=g27821] Non ti preoccupare, non vi farò attendere molto per il continuo (almeno spero)!! Grazie di cuore [SM=x47938]

P.S. Dici Any Dream Can Become True o The Joy Of Love? La prima la finirò di pubblicare stasera, con gli ultimi capitoli [SM=g27823] , e la seconda purtroppo al momento è stata sospesa... [SM=g27813]

È difficile dir loro ciò che sento per te. Non ti hanno mai conosciuta, e non sanno come sei fatta. Come fanno a sapere il tuo mistero? Diamo loro un indizio.
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Non è difficile capire quale dei due uccelli sia io, ma non riusciranno a capire chi sei tu. A meno che…
A meno che non sappiano cos’è un amore che non interferisce mai, che guarda da dietro, che respira libero nell’aria invisibile. Dolce uccellino, anima mia, il tuo silenzio è così prezioso. Quanto passerà prima che il mondo possa udire il tuo canto col mio?
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19/06/2011 18:30
 
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Mi piace "Any Dream Can Become True" [SM=g27817] ,non vedo l'ora che posti tutti i capitoli che mancano ,è non credo ci deluderai perchè, scrivi molto bene [SM=g27811] [SM=x47938]
P.S: mi chiamo Dayna ed e un piacere anche per me conoscerti [SM=g27828]



19/06/2011 19:55
 
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Intendevo Any Dream Can Become true :D
Non vedo l'ora di vedere gli altri capitoli!!!
P.S.:Mi chiamo maria teresa ma chiamami Mary :D
20/06/2011 00:59
 
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Piacere Dayna e Mary, è un vero onore conoscervi! [SM=x47938] Vi ringrazio per il vostro appoggio, mi auguro fino alla fine di non deludervi! Grazie per tutto, dal profondo del cuore [SM=g27838] [SM=g27821]

È difficile dir loro ciò che sento per te. Non ti hanno mai conosciuta, e non sanno come sei fatta. Come fanno a sapere il tuo mistero? Diamo loro un indizio.
Due uccelli sono su un albero. Uno mangia le ciliegie, mentre l’altro sta a guardare. Due uccelli volano nel cielo. Il canto di uno scende giù dal cielo come cristallo, mentre l’altro resta in silenzio. Due uccelli roteano al sole. Uno riflette la luce sulle sue piume argentate, mentre l’altro distende le sue ali invisibili.
Non è difficile capire quale dei due uccelli sia io, ma non riusciranno a capire chi sei tu. A meno che…
A meno che non sappiano cos’è un amore che non interferisce mai, che guarda da dietro, che respira libero nell’aria invisibile. Dolce uccellino, anima mia, il tuo silenzio è così prezioso. Quanto passerà prima che il mondo possa udire il tuo canto col mio?
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20/06/2011 13:56
 
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Non ci deluderai,sei bravissima!
Attendo con ansia il prossimo capitolo :D
29/06/2011 19:31
 
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Mi scuso per l'erorme ritardo, vi chiedo scusa [SM=g27813] Inoltre, perdonatemi per qualche errore... io non ho per nulla ricontrollato, ma mi auguro che sia comunque accettabile...
Buona lettura [SM=g27821]


CAPITOLO DUE
Il colloquio


L’ansia è sempre un vuoto che si genera tra il modo in cui le cose sono,
e il modo in cui pensiamo che dovrebbero andare;
è qualcosa che si colloca tra il reale e l’irreale.
( Charlotte Joko Beck )



Che grande figura del cazzo.

Scusate la volgarità, ma quel che è vero è vero. Mi ero preparata giorni e giorni per fare tutto quel discorso per evitare di fare figuracce, e alla prima occasione sbagliavo a causa di un maledettissimo dettaglio: il mio capo – mettiamo anche ex, visto la ridicola figura fatta – era Michael Jackson. Voi direte che fortunata che ero, che gioia sarebbe stata per voi scoprire che il vostro datore di lavoro era famoso in tutto il mondo o il vostro idolo (anche se per me non lo era affatto)... be’, io allora desideravo solo scomparire dalla faccia della Terra, sfuggire via e lasciarmi al passato quella grande cazzata che solo io avrei potuto mai compiere.

E se nel frattempo mi sentivo una grande deficiente e avevo il forte desiderio di sotterrarmi sono un grande mucchio di sabbia, il mio interlocutore era scoppiato a ridere come un pazzo. Mi aveva guardato in modo molto serio – forse aveva anche pensato che gli stessi mentendo, o che avessi qualche grosso problema mentale –, le mie guancie erano esplose in vampate color rosso scarlatto e lui si era messo a sghignazzare rumorosamente alla mia espressione rincretinita. Aveva unito le sue mani e se le era posate al petto, molleggiando la schiena avanti e indietro con lentezza, e mi guardava come se avesse appena visto la cosa più buffa della sua vita.

Lasciando perdere la mia vulnerabile permalosità per un momento, sono sincera se dico che avrei voluto girare i tacchi e con tutte le intenzioni scappare senza dire una parola. Era probabile che la mia espressione fosse lo specchio dello shock, visto che sentivo il mio volto intrappolato in una maschera di cemento, bloccato in un’espressione inebetita. Ma la permalosità non era la cosa più importante, non lì: un fiume di calore aveva reso il mio viso simile a un palloncino rosso, i miei occhi erano spalancati al massimo e la voce non aveva intenzione di uscire fuori dalla mia gola se non per pronunciare qualcosa di insensato. Insomma, non ero affatto messa bene. E in più non sapevo cosa fare per sdrammatizzare la situazione.
Però c’era una cosa che mi colpì, oltre l’imbarazzo di quel evento: aveva davvero una bella risata. Strana, è vero, e anche piuttosto acuta, e se non fosse stato per l’infermità mentale avrei riso anche io. E, per dirla con tutta la sincerità possibile, sembrava molto a quella della mia nonna, quella defunta. Non sto facendo la sarcastica, quella di mia nonna Luisa era davvero una risata contagiosa. Sentire quella di Michael Jackson mi avrebbe fatto morire dal ridere, se la condizione del momento sarebbe stata più tranquilla e meno professionale.

«Oh Dio», esclamò di nuovo, cominciando a calmare la risata e ad assumere un tono di nuovo serio e competente. Emise uno o due colpetti di tosse, nel frattempo che sentii da lontano i suoi due bambini parlottare fra loro, molto incuriositi dalla situazione. «E’ davvero strano che tu non sappia chi sono io... davvero...» - e il suo sguardo si fece ancora più serio di prima, quasi assente. Un attimo di pausa e poi continuò - «comunque, prego... seguimi!», e così mi fece cenno di avanzare verso il divano di quell’immenso salotto elegante.

Usava un tono molto confidenziale, quasi fossi una vecchia amica che si fa risentire dopo anni e anni di lontananza. Forse si era più sciolto a causa della mia figuraccia, o forse era così per natura: sta di fatto che mi sentivo nervosa comunque. Quando camminavo mi sentivo un robot, e in ogni passo che compivo mi sentivo un burattino di legno scricchiolante. Comunque sia, un clima più amichevole era la cosa migliore: mi avrebbe di certo fatto bene, il colloquio non sarebbe stato teso e l’aria non se ne sarebbe stata immobile nel silenzio fluttuante della tensione.

Con gli occhi rivolti verso il basso avanzai, aumentando il passo, e mi sedetti su un grande divano in tessuto color crema. Il signor Jackson si sedette di fronte a me, su un altro divano dello stesso colore, fra i sue due bambini; fu così che li potei osservar meglio e con maggiore attenzione (mi sono dimenticata di dirvi che ero un po’ cieca, e perciò avevo il necessario bisogno degli occhiali da vista). Un bimbo, maschio, se ne stava seduto alla destra del padre; aveva i capelli biondi, occhi scuri quasi come quelli del padre, nasetto un po’ all’insù e aria scrutatrice e intensa, seria addirittura. Alla sinistra invece ci stava una bambina; aveva grandissimi occhi azzurro/verde, anch’essi molto profondi e osservatori, labbra sottili e nasetto perfetto: pensai subito che fosse una bambina bellissima, intelligente e dal carattere furbetto. Lo capivo dalla luce che aveva negli occhi.

Sorrisi a entrambi timidamente, e loro ricambiarono con altrettanta discrezione ma gentilezza. Dedussi non fossero molto grandi, più o meno sui sei o sette anni; la più piccola forse era più piccola del maschio di qualche annetto. Tuttavia avrei fatto da loro insegnante con piacere, visto il loro modo di atteggiarsi molto educato e disponibile. Inoltre sembravano molto incuriositi dalla mia persona, soprattutto la piccola. Il bambino invece era più tranquillo e calmo. O magari erano così pacati ed educati in presenza del loro papà, e quando lui non c’era erano delle vere pesti... era ancora troppo presto per giudicare!

«Ti presento i miei figli», disse il signor Jackson sorridendomi con grazia. «Questo è Prince, ha sei anni, e ha da poco iniziato i corsi per la seconda elementare. Lei invece è Paris, ha cinque anni, e frequenta il primo anno. Salutate la signorina Morris, bambini...», lì invitò delicatamente.

«Salve signorina Morris», esclamarono entrambi non in sincrono perfetto. La bimba di nome Paris mi guardò allargando il suo sorriso in modo più aperto, e io allora mi permisi di guardarla con più amichevolezza. Sembrava non vedesse l’ora di parlare e fare amicizia. Prince, invece, dondolava in avanti e indietro e mi guardava sereno. Sentivo gli occhi di tutti e tre addosso a me.

«Papà», chiese la piccola Paris tirando lievemente per la manica suo padre. «possiamo fare qualche domanda alla signorina Morris?»

Dovevano essere stati educati molto bene, visto la cortesia che traspariva dal loro raffinato modo di atteggiarsi. La cosa mi lasciò stupita, perché pochi erano i bambini che chiedevano ai loro genitori di far qualcosa in quel modo così ben dolce e gentile. Paris si era comportata da bimba perfettamente cosciente della situazione, come se sapesse già che ci fosse un colloquio importante in esecuzione, e aveva chiesto al suo papà se poteva rivolgermi la parola. Non glielo aveva chiesto perché aveva paura di parlare, no, perché il signor Jackson la guardò stupefatto anch’egli.

«Se la signorina Morris lo vuole, certo che puoi», e mi guardò interessato. Ricambiai lo sguardo, come se fossi appena caduta dalle nuvole, e velocemente riposi gli occhi sulla bimba che mi studiava con espressivo entusiasmo. Le sorrisi allegramente.

«Sicuramente, puoi farmene quante ne vuoi!», risposi, ben preparata a quello che immaginato sarebbe poi avvenuto. I bambini avevano una cosa molto particolare e stupenda: erano capaci di farti domande schiette e sincere, richieste capaci di stupire ogni persona che si ritrova a rispondere; i bambini non formulavano le loro frasi valutando i pro e i contro della domanda con furbizia: loro chiedevano, ignari e innocenti, e si aspettavano solo che tu dessi loro una risposta sincera.

Paris sorrise, si sistemò più comodamente sul divano, sporgendosi più in avanti verso la mia direzione. Intuii che quella bambina non vedeva l’ora di rivolgermi la parola, quasi fossi per lei una coetanea della sua stessa età: tutto ad un tratto la sua serietà era diventata esaltazione.

«Come ti chiami, signorina Morris?», chiese come prima cosa.
Sorrisi con maggior ardore. «Puoi chiamarmi Sarah, Paris» risposi con la sua stessa schiettezza.

«Grazie», rispose educatamente sorridendo un po’ imbarazzata. «e quanti anni hai?»

Risi leggermente all’espressione del padre, che la guardò con titubanza. Poi si volse a guardare me con intensità, e solo allora riposi di nuovo la mia attenzione di nuovo verso la piccola bambina. «Ne ho 28». Ignorai la faccia del signor Jackson, ma mi sembrò che qualche dettaglio del suo viso avesse assunto una nuova espressione.

«Davvero?» disse incredula Paris, alzando un po’ le sopracciglia. «E quando compi gli anni?»

«Il 25 gennaio, e tu?», le chiesi incuriosita, per mostrarmi più disponibile a quella conversazione. Ero abbastanza consapevole della psicologia infantile, e non di certo grazie alla scuola. Io stessa comprendevo molto bene le sensazioni dei bambini.

«Il 3 aprile» rispose con allegria. Poi guardò il fratello e successivamente il papà. «Prince invece li fa il 13 febbraio, e papà il 29 agosto...»

«Davvero?», risposi alzando le sopracciglia mostrandomi entusiasta per quella curiosità. Nel mio atteggiarmi confidenzialmente, notai che Prince, l’altro bambino, non aveva un carattere piuttosto aperto con gli estranei; gli piacevo, questo sì, e lo notavo dal fatto che mi guardasse con adorazione, ma non voleva emettere parola. Probabilmente il suo era un carattere riflessivo e piuttosto chiuso; col tempo avrei tentato di capire se era per il fatto che fossi un’estranea o meno.

«E da dove vieni?», richiese la piccola.

«Be’, abitavo tempo fa a Las Vegas, nelle vicinanze della casa dove c’erano i bambini ai quali facevo da insegnante...», dissi, ma lei mi interruppe.

«Quindi se vieni a farci da nostra maestra verrai a vivere a Neverland con noi?»

Non capii inizialmente il riferimento a Neverland – l’Isola che non c’è – ma poi capii che il posto in cui mi trovavo era stato evidentemente chiamato così; i conti tornavano, visto la mezza scritta che avevo potuto leggere una mezz’ora prima, all’entrata di quel maestoso ranch. Non seppi che risponderle all’inizio, visto che non era ancora niente deciso, perciò optai a riferirle tutta la verità senza giri di parole.

«In realtà devo ancora decidere col vostro papà» - e mi riferii al plurale cercando di coinvolgere Prince, a cui lanciai un’occhiata e lui si fece molto più interessato di prima - «ma non penso che resterò qui. Troverò di sicuro un appartamento, qui vicino, così potrò raggiungervi senza troppa difficoltà...»

Paris stette in silenzio, e fissò il signor Jackson con fare molto eloquente. Lui la guardò di rimando e, accorgendosi del mio sguardo fisso su di lui, si affrettò a rispondere ai suoi figli.

«Paris, Prince, io credo sia meglio che ora vi assentiate...» disse loro gentilmente, posando le sue mani sulle loro spalle, «io e la signorina Morris dovremo discutere di tante cose, e fra queste decideremo anche dove andrà ad abitare, se gli accordi verranno fatti... più tardi, casomai, le farete tutte le domande che vorrete, ok?», chiese.

I bimbi annuirono e si alzarono in piedi dal divano; mi si avvicinarono uno alla volta, mi salutarono con le loro manine e se ne andarono, accompagnati dalla guardia del corpo che poco fa mi aveva guidato verso l’interno del villino. Osservai la popstar seguire con gli occhi i suoi figli fino a che entrambi non scomparvero dalla sua vista: il suo sguardo era pieno di adorazione e tenerezza nei confronti di quella piccole creature, tanto che sembrò illuminarsi perfino la più minuscola oscurità che poteva mai possedere il suo cuore umano.

Quando scomparvero alla sua vista egli mi osservò di nuovo; mi studiò per circa tre o quattro secondi, prima che spiccicasse parola. Ciò nonostante, questa volta non distolsi lo sguardo; capii che più mi stava lontano e più riuscivo a guardarlo in viso. Strano, vero? Eppure mi metteva nervosismo la sua vicinanza. Non per timore o ribrezzo, ma per imbarazzo e timidezza.

«Sono felice che tu abbia accettato venir qui per discutere del posto che ti vorrei offrire...», disse umettandosi il labbro inferiore e lanciando fulminee occhiate alle sue mani posate in grembo e al mio viso. Osservai con vigile attenzione ogni sua mossa.

Annuii e basta, e lui continuò, stavolta accennando di nuovo lo scoppiare di una risata. «In effetti, ehm... mi stupisce che tu non sappia chi sono...», e mi guardò ammiccando spiegazioni.

«Eh...», esclamai accennando una lieve risata intimidita e soffocata. Abbassai lo sguardo un secondo, successivamente lo fissai con maggior imbarazzo. «Liza Burton, la mia datrice di lavoro, non mi aveva accennato veramente alla sua vera identità... insomma, mi aveva detto che la proposta era arrivata da un certo ‘Michael Jackson’, ma non credevo fosse lei...», emisi nel frattempo che mi annodavo le dita delle mani innervosita.

«Ma non mi ha nemmeno riconosciuto quando le ho detto che ero Michael Jackson...», continuò alzando di poco un sopracciglio. Io lo guardai e pensai che mi stesse facendo parlare per capire se la mia reazione di poco prima era stata sincera o recitata. E io non amavo non essere creduta.

«Io sono una persona un po’ fuori dal mondo», dissi con tono serioso. «e non so niente del mondo dello spettacolo. Non uso la tv – se non per guardare film o serie tv o programmi che potrebbero arricchire la mia cultura – e non compro giornali scandalistici o altro; la mia vita si concentra solo sulla letteratura, sulla scrittura, sul cinema, sulla musica e su tante altre cose. Non so quanto si parli di lei in questo mondo, perché non mi è mai interessato nulla sulla sua personalità... al massimo avrò sentito qualche sua canzone, ogni tanto, in qualche negozio di Cd, ma sinceramente non ho ricordi di questo... riconosco solo il suo viso dell’album Bad, e dopo quell’aspetto non l’ho mai visto... che io ricordi...»

Il mio tono era stato così serio e determinato che ebbi paura, a fine discorso, di esser stata fin troppo dura; il fatto che mi irrigidissi non appena una persona mi credeva una bugiarda era un mio difetto, e col mio atteggiamento poteva sembrare che mi fossi comportata così per via della mia permalosità un po’ sconsiderata. Non ero tipa da mentire, anche perché non ero affatto brava a farlo. Le poche volte che lo avevo fatto, comunque, erano bugie piccole per, scusate il termine, salvarmi un po’ il culo; ma chi non le dice?

«E comunque, mentirle non sarebbe un gesto saggio... non conoscendo la fama e i mezzi di cui è a disposizione, chi mi dice che non potrebbe scoprirmi se mento? E tuttavia, comprendo il perché di quel suo sguardo così indagatore; teme che le stia mentendo, e fa bene a farmi quesiti e guardarmi in quel modo. Comprendo...»

Ok, probabilmente stavo andando un po’ fuori di testa, ma me la sentivo di dirglielo. Non per fare la buona samaritana o la saggia predicatrice, ma qualcosa – guardandolo negli occhi a calamita – mi aveva impedito di starmene zitta e cucirmi la bocca. Nonostante mi mostrassi sicura nella tonalità della mia voce, non nascosi il mio evidente nervosismo nella mia gestualità; incrociai le braccia al petto, e con la mano destra mi arricciai i capelli molto irrequieto. Parlare e dire tutto ciò che riguardasse quello che io ero nel profondo mi faceva sempre molto effetto, tanto che ero perfino capace di scoppiare a piangere per un nonnulla; scrivere ciò che pensavo non era difficile, ma quando dovevo dirlo a parole sentivo i sudori freddi salirmi dalla spina dorsale e in pieno viso.

Michael Jackson non distolse nemmeno un secondo dai miei occhi e io feci lo stesso con lui. Per quello forse mi sentivo così accaldata. Mi osservò perplesso – intensamente - preso da ogni dettaglio della mia espressività... più avevo continuato col discorso, più lui spalancava gli occhi meravigliato. Alla fine me lo ritrovai a fissarmi sorpreso, ma non meno attento di prima. Sembrava che lo avessi sbalordito, ma in fondo stava riflettendo alle mie parole. La mia energica determinazione non sembrò venir meno ad ogni modo; più qualcuno dubitava di me, e più io diventavo insistente.

Sorrise e alzò un sopracciglio. «Sei un po’ permalosa, vero?»

Avvampai. Sentii le mie guance farsi rosse e caldissime, e per un momento non fui capace di dire niente a mia discolpa. Mi sentivo colpita nel profondo, tant’è che per ripicca aggrottai un po’ la fronte. Lui scoppiò a ridere di nuovo e io mi feci ancora più piccola e intimidita.

«Non è per quello...», sussurrai. «Mi da fastidio quando qualcuno non mi crede... non lo accetto...»

Lui smise di ridere, e mi scrutò socchiudendo gli occhi, mantenendo un sorriso molto sottile. «Stai tranquilla, ti credo... era... per metterti alla prova, sai... devo stare bene attento a chi mi affido... a chi affido i miei bambini...»

Questa volta fu serio, e io lo guardavo con comprensione. Non sapevo quanto potesse essere famoso, ma di sicuro voleva essere molto prudente per garantire la privacy dei suoi bambini. Doveva essere un padre molto previdente, e sicuramente doveva aver ricevuto parecchie batoste per assumere un’espressione così triste. O voleva solo che alle sue meravigliose creature non si avvicinassero persone cattive, cosa che senza dubbio condividevo.

«Non credere che io non mi sia informata sul tuo conto... Liza è una mia amica, è la figlia di una delle vere e poche persone che mi sono state vicino. Sua madre è stata sempre pronta a starmi vicino, a consolarmi quando la stampa mi attaccava, a farmi da compagnia di giochi, a testimoniare la mia innocenza...», non capii molto quell’ultima frase, e infatti si fermò a osservare la mia espressione in dubbio. Rise senza divertimento, e mi lanciò un’occhiata sconsolata e triste. «Scommetto che non sa delle accuse sul mio conto, vero?»

Dissentii, sentendo un senso di angoscia nelle mie viscere non appena si rivolse a me con espressività tanto malinconica. Ero curiosa di sapere, visto che non ne sapevo una mazza di quello che lo riguardava.

«Be’, io per la stampa sono un pedofilo», disse.

Restai senza parole. Nella mia mente c’era il silenzio, e regnava il grave istinto di scoprire di più oltre quella misera frase. Se il mio capo era considerato un pedofilo non importava; l’importante era sapere se il mio capo era un pedofilo. Aspettai che continuasse prima di pensare a qualcosa di veramente tangibile.

Mi guardò, abbassò lo sguardo, e riprese, sofferente di ciò che stava dicendomi. «Tanti anni fa sono stato accusato di essere un molestatore di bambini, e ora, dopo dieci anni, un altro bambino si presenta alla stampa dicendo che io sono un pedofilo. Ora chiedimi... chiedimi se sono un... una persona così...», mi chiese con dolore, fissandomi negli occhi.

Senza aver capito in che situazione mi ero ritrovata ad affrontare, glielo chiesi. La mia voce era titubante, ma volenterosa della sua risposta. Non avevo paura di lui, ma più che altro ero intenta nel comprendere se lui stava mentendo o no. Temevo che la risposta sarebbe stata affermativa.

«No, certo che non lo sono!», esclamò con un certo tono disperato della voce. Si stava cercando di contenere, ma attraverso il volto e la tonalità di voce sembrava che parlare di quel fatto lo nuoceva più di quanto cercasse di nascondere. «Le persone si divertono a distruggermi... vogliono i miei soldi... vogliono rendermi un mostro, di fronte a tutti, senza alcuna pietà... mi hanno torturato per tanti anni, e fra un po’ è probabile che mi ritroverò ad andar contro a un processo penale che mi metterà in seria difficoltà... se non verrà fuori la verità, finirò in prigione, non rivedrò i miei bambini per tanto tempo...»

Sentii il mio cuore farsi piccolo, piccolo... non ero mai stata insensibile al dolore degli altri, anzi, e la sua voce era lo specchio di una sofferenza atroce. Un senso di pesantezza mi soffocava il respiro, e niente era così sensato nella mia mente che ogni parola che avrei potuto dire perdeva il suo significato. Ne soffriva sul serio, non stava mentendo... ovviamente il dubbio c’era ancora, ma in quel momento volevo provare a credergli. E la cosa non era poi difficile.

«Sono diffidente perché non voglio che le persone possano procurarmi ancora dolore, e soprattutto: non voglio che facciano del male ai miei bambini. Che mi uccidano, che mi impicchino o mi picchino fino alla morte... piuttosto che tocchino i miei bimbi, sono disposto a morire.», disse socchiudendo gli occhi e premendosi il palmo della mano destra sul cuore, guardandomi con intensità sbalordente. Io ero impotente in quel senso di forte sofferenza, tanto che per un momento me ne sentii così parte anche io che i miei occhi divennero lucidi.

«Perciò perdonami» esclamò dopo qualche secondo di silenzio, nel frattempo che io avevo abbassato gli occhi sulle mie ginocchia e la mia mente si svuotava da ogni ragionamento sensato. «Mi dispiace se ti ho offeso, ma capiscimi se ho dovuto metterti alla prova per capire quale sarebbe stata la tua reazione... non è facile per te, ma neanche per te dev’essere fidarti di me...»

Non lo guardai, ma dissi: «In realtà... in questo momento non so a cosa pensare...» - tornai a fissarlo - «non credo che sia così falso da mentire su un reato come questo, sebbene di persone brave e bugiarde ce ne sono parecchie... e non mi aspetto che lei si fidi subito di me, come lo stesso potrà valere per me. Ad ogni modo non mi sento di giudicarla, non ora, e nel mio caso la fiducia la si acquisisce vivendo. Perciò, nel caso decidessi di accettare questo lavoro e nel tempo cambiassi idea su di lei, come lei su di me, le nostre strade si divideranno così come si sono incrociate. Non sono persona che usa la stampa per diffamare, anche perché non saprei comunque a chi rivolgermi, visto la mia scarsa attenzione verso di loro...»

«Ha ragione...». Sorrise, lasciando per un attimo il dolore alle spalle. Feci lo stesso, e solo dopo che mi ebbe scrutato ancora un po’ batté entrambi i palmi delle mani sulle sue ginocchia, ed esclamò: «Il curriculum! Me ne stavo dimenticando...»

«Oh, non si preoccupi!», esclamai, prima che lui si alzasse in piedi. «Ne ho una copia nella mia borsa, aspetti...», e con agilità rovistai nel casino della mia borsa nera.

Lui si accomodò meglio sul divano e attese. Non sto nemmeno a dire quanto mi sentissi in soggezione in sua presenza, perché è scontato. Presi quel dannato insieme di fogli e glieli diedi in mano ferma e convinta. Lui lo guardò, e successivamente mi fissò con serietà.

«Questo non è un curriculum...», disse.

Subito mi sentii male. Cominciai a farmi un sacco di congetture mentali, della serie: “Oh mio Dio, che cacchio di foglio è?”, “Che diavolo ha letto?”, “Oh cazzo!”, e aspettai che me lo ridesse in mano. Ero agitata e arrossita peggio di quanto avessi mai immaginato. Non appena lo avrei avuto sotto i miei occhi, lo avrei squadrato e... si mise a ridere. Michael Jackson sghignazzò sotto il mio sguardo attonito e confuso.

«Scherzo, non ti preoccupare...» esclamò riguardando il curriculum e ignorandomi. Non tornò serio, ma lo lesse con un sorriso soddisfatto. Io, nel frattempo, mi sentii sollevata e allo stesso tempo desiderosa di mandarlo a quel paese. Mi aveva fatto prendere un infarto, e per cosa? Perché per la seconda volta – anzi no, per la prima – mi aveva giocato. Evviva!

Mi sembrò che il tempo non passasse mai; stetti a guardarlo leggere con attenzione, finché non lo vidi tornare a me e passarmi un’occhiata esaminatrice per l’ennesima volta. Il colloquio vero e proprio era iniziato.

Si fece serio, si umettò il labbro inferiore abbassando lo sguardo, dicendomi: «Perciò... dispone di un “diploma, laurea in lettere con il massimo dei voti e varie specializzazioni in fatto di letteratura e lingua inglese, francese, spagnolo e italiano”. È americana?»

«No, sono italiana di madre lingua. Be’, immagino lo stupore, visto che di italiano nel mio nome c’è solo Sarah...» - e, al seguito di un mio sorrisino, ridacchio piano - «ma sono qui da quasi undici anni. Ho frequentato la Harvard, nel corso per diventare insegnante, e da lì – ottenuto la laurea – ho eseguito corsi per le lingue.»

«Mmh-mmh...» annuì guardando il curriculum, «non mi meraviglio perché Liza ti abbia scelto... hai ottenuto il massimo dei voti in tutte le materie? Comprese quelle in cui non sei specializzata?»

«Sì», risposi.

«Perfetto. Oltre all’esperienza in casa Burton, ha avuto altri lavori?»

E così gli spiegai per filo e per segno la situazione. Non sto qua a riportarvi tutta la nostra discussione, perché sarebbe solo noiosa da leggere. Ma di certo non era noioso il modo in cui mi guardava. Non riuscivo a fissarlo per più di un minuto senza perdere la concentrazione. Era terribile, sentirsi sempre sotto osservazione e non avere libero controllo delle tue azioni. Io che di solito mi imbarazzavo se qualcuno mi fissava costantemente sapevo bene la tensione che provavo.

Una volta che quel discorso sulla mia condizione istruttiva finì, non mi sentii affatto più libera. Lo vidi per l’ennesima e ultima volta guardare il curriculum, si umettò il labbro inferiore, e con gentilezza me lo porse di nuovo. A dire il vero, avevo paura su cosa mi avrebbe detto. Avrei lavorato lì oppure no? Era soddisfatto dalla mia istruzione? O necessitava di qualcun altro con più esperienza nel campo?

«Pensi di riuscire, uhm... nello scopo di aiutare i miei figli?», chiese pensoso, osservandomi.

Un attimo di silenzio. Abbassai lo sguardo sul mio curriculum, aggrottai le sopracciglia, e presi un forte respiro. Lui attese con pazienza la mia risposta, cosa che avvenne solo cinque secondi più tardi, mentre io cercavo le parole adatte da dire a una domanda così particolare e inaspettata.

Di certo non si poteva dire che fosse una persona priva di sorprese.

«Non posso essere sicura di niente» dissi alzando lo sguardo verso di lui «posso solo provare a fare del mio meglio. Non mi considero un’eccellenza in quello che sono, e se un giorno lei o i suoi bambini vi stuferete dei miei metodi di insegnamento e di, uhm... o non ci saranno progressi nell’istruzione dei suoi figli, allora mi riterrò incapace di riuscire ad aiutarli. Fino ad allora non do nulla per scontato, ecco...»

La mia voce era quasi un sussurro, ma non era indecisa o titubante. Mi toccavo i capelli come era mio solito fare quando ero nervosa e, senza badarci, mi resi conto di cominciare ad avvampare ad ogni parola che pronunciavo.

Quando finii quel mio lungo teorema sulla domanda fatta, cadde il silenzio. Lo guardai studiarmi con interesse, umettarsi il labbro inferiore e socchiudere gli occhi. Dopodiché sorrise. Sembrava soddisfatto di ciò che avevo detto, e la cosa riuscii per un attimo a farmi sentire meno tesa.

«Allora ci vediamo domani, che ne dici?», chiese con un risolino derivato alla mia espressione stupefatta. «Non ti dispiace iniziare il mercoledì, vero? I miei bambini sono estasiati all’idea della scuola, tanto che difficilmente accettano l’idea di perdere le lezioni...»

Wow, io ne avrei fatto volentieri a meno, tanto tempo fa..., mi dissi.

«No, no, per me non c’è nessun problema!», esclamai con fare più energico.

Entrambi ci alzammo in piedi, si avvicinò al divano nella quale ero seduta e mi strinse la mano. «Ti dispiace se le faccio firmare il contratto domani? Ero così impegnato che mi sono dimenticato tutte le carte, oltre che il tuo curriculum...», chiese in tono più leggero e soffice.

«Non si preoccupi, nessun problema...» - e si sciolse la stretta di mano. - «grazie di cuore...»

Sorrise. «No, grazie a te...»

Rimase a fissarmi per qualche secondo ancora di più, ma non espresse parola. Io presi la borsa che ancora stava poggiata sul divano e lo scorsi ancora intento nello scrutarmi. Quanto avrei dato per sapere il perché di quelle attenzioni così strane e allo stesso tempo così... fastidiose?

«Vieni», si scosse, discostando il viso verso l’uscita del salotto. «Ti accompagno...»

«Non serve, non si preoccupi... mi ricordo la strada», dissi senza esitare. «Non c’è bisogno che si disturbi troppo, davvero...»

Mi guardò sbigottito, quasi confuso, ma sorrise. Annuì e si umettò di nuovo le labbra. Si dondolò per qualche secondo sulle punte dei piedi come un bimbo, mi osservò, e di seguito guardò i suoi piedi. Tutte quelle pause mi mettevano un po’ di timore... non sapere che cosa pensava mi faceva paura. Ed era strano, perché solo con lui succedeva... da tanto tempo avevo dimenticato l’opinione degli altri su di me, e risentire quella sensazione sulla mia pelle non era per niente piacevole.

«Allora, a domani...», dissi per interrompere il silenzio. Lui m’osservò di nuovo e annuì, senza emettere risposta. Arrossii senza motivo. «Grazie ancora...»

Mi diressi verso la porta d’uscita e, nel mezzo di aprirla, mi sembrò sentirlo parlare. Mi voltai, spaesata, e lui sembrò risvegliarsi dalle nuvole. Fece un espressione del tipo: «Che c’è?», e imbarazzata non seppi che dire. Sorrise nuovamente, così accennai a un sorriso intimidito e questa volta – lo giuro – lo sentii chiaramente dire:

«Arrivederci... Sarah».

Mi bloccai con la maniglia impugnata nella mano, nell’atto di aprirla, e voltai il capo per la seconda volta: «Arrivederci...», dissi, e dopodiché me ne uscii senza avergli dato un’ultima e profonda occhiata.

Sinceramente, ero troppo irrigidita per potermi voltare indietro - troppo persa nel vuoto della mia mente che si liberava velocemente di ogni pensiero ansioso di dosso -, per dare un’ultima guardata a quella grande casa di favole e fiabe.










[Modificato da tati-a4ever 29/06/2011 19:33]

È difficile dir loro ciò che sento per te. Non ti hanno mai conosciuta, e non sanno come sei fatta. Come fanno a sapere il tuo mistero? Diamo loro un indizio.
Due uccelli sono su un albero. Uno mangia le ciliegie, mentre l’altro sta a guardare. Due uccelli volano nel cielo. Il canto di uno scende giù dal cielo come cristallo, mentre l’altro resta in silenzio. Due uccelli roteano al sole. Uno riflette la luce sulle sue piume argentate, mentre l’altro distende le sue ali invisibili.
Non è difficile capire quale dei due uccelli sia io, ma non riusciranno a capire chi sei tu. A meno che…
A meno che non sappiano cos’è un amore che non interferisce mai, che guarda da dietro, che respira libero nell’aria invisibile. Dolce uccellino, anima mia, il tuo silenzio è così prezioso. Quanto passerà prima che il mondo possa udire il tuo canto col mio?
Oh, come bramo quel giorno!


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