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Ultimo Aggiornamento: 06/11/2011 07:22
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16/09/2011 16:33
 
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CAPITOLO TRE
I bambini sperduti


Se non riesci a immaginare di essere Peter Pan, non sarai mai Peter Pan.
( Tinkerbell, "Hook - Capitano Uncino" )



Questa era la famiglia. Il concetto ideale di famiglia; genitori e figli legati assieme da uno dei più fantastici doni che la vita può donare ad ogni essere umano: l’amore. E non un semplice “amore”, no, ma quello di una inestimabile purezza e innocenza... l’amore incondizionato, quel semplice sguardo o abbraccio che può valere ben oltre ogni discorso o parola emanata da bocca umana. Un sentimento indissolubile di semplicità, candore ed energia puramente cristallina... il rapporto che ogni figlio vorrebbe avere col proprio padre o con la propria madre... ciò che un padre e una madre dovrebbero desiderare di possedere con la propria creatura... quell’amore che non tutti sono fortunati di avere.

E questo mi poneva delle domande.

Lui – Michael Jackson – era un pedofilo? Michael Jackson, il padre che ora vedevo abbracciare i suoi figli in quel modo così tenero e sentito, la star che lui era e che non avevo mai avuto la possibilità di conoscere e che io avevo la possibilità di vedere in tale intimo momento... lui era un molestatore di bambini? Lui, che accarezzava con dolcezza infinita le teste dei suoi bimbi e il suo respiro si emozionava al solo bacio di quelle creature divine, era uno dei più temuti e silenziosi criminali che il mondo possa mai possedere?

Improbabile.

Qualcosa mi diceva che chi pensava che fosse un molestatore, in realtà, non aveva mai minimamente provato a cercare di conoscerlo veramente. Non lo aveva visto come lo stavo vedendo io e studiando con tanto interesse. O forse coloro che dicevano che era un pedofilo volevano solo buttarlo sotto i riflettori con una delle accuse più gravi che si potessero dare, e solo per motivi d’invidia e gelosia (cosa di cui sinceramente non mi sarei stupita). Se lui possedeva anche quel minimo di tenerezza con cui trattava i suoi bambini quando si atteggiava con gli altri, allora il mondo si era rovesciato sul serio. Se quella sua bontà era reale e sincera, allora Michael Jackson era stato giudicato in modo troppo crudele da una popolazione che non era più normale e non sapeva più cos’era il buono e il cattivo.

«Ora è meglio che continuate la lezione, che ne dite?», sussurrò ai propri piccoli dopo averli baciati uno alla volta sulle loro tempie. Mi osservò, scusandosi con un solo sguardo, nel frattempo che anche i suoi bambini volsero i loro occhi verso di me implorandomi di finire la lezione in quello stesso istante. E io non volli di certo deludere le loro speranze.

«Oh, non si preoccupi», dissi con espressione eloquente, «io e i suoi bambini abbiamo finito per oggi... sono stati molto attenti e si sono comportati come dei bimbi veramente educati.»

Feci loro l’occhiolino, storcendo le labbra in un furbesco sorrisino, talché anche loro ricambiarono con gioioso e rigoroso entusiasmo. Il signor Jackson ridacchiò alle loro continue preghiere per andare a giocare nella stanza dei bambini, e alla fine lui permise – fingendo di far tante storie – di poter andare. Prima che si volatilizzassero, si voltarono verso me, mi salutarono con educata cortesia e se ne andarono, dando un altro bacino veloce al loro papà. Sia io che Jackson li guardammo scomparire oltre la porta aperta della stanza con lo sguardo.

Michael Jackson, che dapprima era inginocchiato, si alzò in posizione eretta. Scorsi in lui una lieve difficoltà in quell’atto, ma nascose il dolore socchiudendo gli occhi e stringendo le labbra e i muscoli per non emettere un sospiro affaticato.

Lo guardai con apprensione, chiedendomi cosa gli provocasse tutta quella fatica. Non era un uomo anziano, no... anzi, dal fisico sembrava in forma per avere... ehm... di sicuro non più di quarant’anni... o quarantacinque, al massimo...

«Uhm... mi dispiace non essere potuto essere qui ad accoglierla in anticipo, avevo un’importante impegno da fare...» disse osservandomi con le sue grandi iridi scure.

Accorgendosi della mia occhiata indagatrice fissa su di lui, sviò gli occhi e si mise una mano sulla spalla. Ttuttavia si avvicinò verso di me lentamente, un passettino alla volta.

«Non si preoccupi, anzi...», ed era meglio che fosse arrivato in ritardo, mi dissi, così almeno avevo evitato direttamente di fronteggiare il mio stesso ritardo direttamente con lui. Anche se, comunque, qualcuno glielo avrebbe detto lo stesso prima o poi.

Lui mi studiò, concentrato, ma capii subito che quel giorno aveva la mente altrove: il suo sguardo vacillava fra me e varie parti della stanza ambiguamente, e manteneva la schiena irrigidita. Intuii che il punto in cui teneva la mano fosse un posto in cui provasse molto dolore quel giorno, ma non volli parlare per evitare indiscrezioni o brutte figure. Mi dispiaceva per lui, ma non potevo impicciarmi dei suoi affari: avrebbe pensato che fossi una maleducata invadente. E io non lo ero.

«Oh», disse ad un certo punto, interrompendo il silenzio che stava diventando sempre più palpabile. «mi sono dimenticato il contratto... anche oggi... mi dispiace...», si scusò guardando velocemente verso me.

All’inizio non risposi, troppo persa nell’osservazione del volto. Aveva qualcosa di speciale... che nemmeno io sapevo definire... e allo stesso tempo era triste. Aveva un viso particolare – c’era qualcosa in lui che mi creava uno strano effetto all’interno del mio corpo, forse calore, forse gioia – eppure captavo che delle cose in lui non andavano. Sembrava depresso, malinconico... i suoi occhi erano attenti – non come il giorno prima, ovviamente – ma emanavo un senso di vuoto molto strano... sembrava che, quando non fosse distratto da emozioni più forti come l’amore o la contentezza, la luce che possedeva si spegnesse in un istante. Era espressivo, di questo ne ero certa, e io ero così attratta dalle emozioni che si scaturivano dai suoi occhi che cercavo insistentemente di capire che cosa provasse. Non ero convinta al cento per cento di aver ragione, ma credevo che in fondo era turbato.

«Non importa» risposi accennando ad un sorriso e sollevando le sopracciglia. «davvero, per questi giorni posso anche insegnare senza aver firmato contratto... sì, insomma... così potrà decidere se vado bene per questo ruolo con più calma, ecco...»

Lo ammetto, da una parte credevo sarebbe stato meglio firmare quel documento; sarei rimasta più sicura del mio posto e non mi sarei scervellata tanto sui costi che avrei dovuto effettuare o meno per risparmiare quel po’ di soldi che mi servivano per andare avanti... mentre dall’altra non ne avevo nessuna necessità... anche senza contratto avrei insegnato volentieri a quei due bambini... peccato che, se fosse stato così, avrei dovuto trovarmi un altro lavoro, e non sapevo come fare visto che loro due mi richiedevano quasi tutta la giornata. Come all’università, probabilmente mi sarei dovuta trovare un lavoro da cameriera nei locali serali o come suonatrice di pianoforte nei pianobar.

«No, no, io ho già scelto!» rispose lui in fretta e furia. «E tu sei perfetta per questo lavoro...!»

Sorrisi imbarazzata, abbassando lo sguardo. Non osai guardare l’espressione del signor Jackson, poiché l’unica cosa che mi venne da fare fu pronunciare un «Grazie» così sottovoce che temetti non lo avesse udito.

«Uhm...» disse lui, abbassando gli occhi umettandosi il labbro inferiore. Sembrava avesse il desiderio di voler continuare a parlare con me, benché all’inizio pensai stesse solo cercando un pretesto per parlare per poi farmi sloggiare rapidamente. «Come le sembrano i miei bambini?»

«Molto teneri», risposi senza indugio, sorridendo. Lui mi guardò fortemente curioso. «Li trovo molto attenti, e di sicuro non manca loro la voglia di imparare. Per quel che ho potuto scorgere di Paris, in questo piccolo colloquio e nella discussione di ieri, è molto tenace; sa quello che vuole ed è testarda... quando vuole imparare una cosa, mi sa tanto che non la ferma più nessuno... però è affettuosa...»

Michael Jackson annuì, sorridente, e toccandosi con il pollice e l’indice il mento disse: «Oh sì, Paris è molto determinata... ama molto ciò che riguarda la natura, soprattutto... le piace curiosare, non esita a qualche nuovo insegnamento... è molto aperta con chi decide di aprirsi, sì...»

«Prince invece tende più a essere pacato e silenzioso... dev’essere anche lui birichino, sotto, sotto, ma a vederlo – almeno in questi due giorni – non parla molto ma ascolta... è più... mmh... insicuro rispetto alla sorella, ma non per questo manca di volontà... ed è anche piuttosto acuto e osservatore...», continuai fissando il quaderno del piccolo che tenevo fra le mani.

Il signor Jackson per qualche istante non disse nulla, ma percepii che mi stava osservando.

Poi, poco dopo, parlò: «Sì, è vero... Prince è più introverso... ma anche lui è molto giocherellone, quando si mette... ha solo bisogno di aprirsi di più, tende a chiudersi... però è anche molto bravo ad ascoltare, come ha detto lei...» - improvvisamente si accigliò, corrugò la fronte e mi puntò dritto negli occhi - «Senti, uhm... posso chiamarti Sarah senza formalizzazioni?»

A quella frase mi sentii cadere dalle nuvole.

Cosa aveva detto?

Be’, per me non sarebbe stato proprio un problema... anzi, sì, lo sarebbe stato. E, facendoci caso, mi accorsi che alternava momenti di serietà a momenti in cui sembrava rivolgersi a me con amichevolezza e spensieratezza. Credevo che non amasse i rapporti troppo rigidi, ed invece preferiva qualcosa di più sereno e tranquillo, senza troppa inflessibilità e autorevolezza. Mi stupii molto, tanto che la mia espressione era così colpita che mi sembrava di avere gli occhi tre volte più enormi di quanto ce li avessi già grandi naturalmente.

«Sì, sì, non c’è problema...» esclamai annuendo velocemente.

Lui sorrise, osservandomi socchiudendo gli occhi colmi di una luce estremamente furbesca e divertita. Per un attimo lo trovai molto affascinante. «E tu, Sarah, » sottolineò con rigore, inebetendomi, «mi chiami Michael?»

Un attimo di confusione – il mio cervello divenne improvvisamente vuoto e i pensieri mi si svuotarono dalla testa. Ebbi un momento in cui le mie riflessioni andarono a farsi benedire, tanto che non capii più nemmeno dove fossi.

Ridacchiai imbarazzata, e dissi: «Eh... non sarà molto facile, in effetti...»

Alzò un sopracciglio, aspettando che continuassi. Voleva una conferma, e non un rifiuto.

Sospirai e abbassai lo sguardo. «Ci posso provare... anche se non approvo molto tutto questo...»

«Uhm... perché no?», chiese corrugando la fronte di nuovo. Si mise le braccia intorno alla schiena e continuò inesorabilmente a scrutarmi. Con un istantaneo aumento di lucidità, risposi che chiamare il mio capo con il suo nome di battesimo mi sembrava di prenderlo quasi sottogamba. «Non è una mancanza di rispetto se mi chiami Michael... almeno, a me non importa se può sembrare così... “signor Jackson” mi fa sentire anziano... e non mi piace sentirmi vecchio...»

«Preferisce rimanere sempre giovane?», domandai con gli occhi illuminati da un intimo divertimento.

Lui mi squadrò e, a labbra serrate in un sorrisino sottile, scoppiò in una delle più delicate risate che avessi mai udito. Con le orecchie ben tese mi godetti quel risolino fino a quando non scomparve, sorridendo insieme a lui senza capire il perché; abbassò lo sguardo, ma quando smise di ridere mi osservò a testa alta con un’occhiata di segreta e innocente felicità.

«Io sarò sempre giovane... io sono Peter Pan... e Peter Pan non invecchia mai.»

Lo fissai incredula, la bocca lievemente socchiusa e un mezzo sorriso ad incorniciare il mio volto sbalordito. Era davvero stupefacente.

Non conoscevo il perché, ma quella frase mi piacque parecchio: continuò a risuonare nella mia mente e nel mio cuore per tutto il resto della giornata, come ancora fa oggi, nel più profondo e intimo dei miei ricordi passati.

Michael Jackson, una star che diceva di essere Peter Pan, l’eterno bambino che vive nella sua Neverland assieme a “i bambini sperduti”.

Un bagliore di nitidezza, e solo allora trovai il collegamento a tutto ciò che prima mi sembrava senza un chiaro senso... “The lost children”, la canzone... Neverland Ranch, il posto in cui abitava... e ora il riferimento a Peter Pan.

«E’ una bellissima cosa...» sussurrai ancora stupita da quella frase. Sbattei gli occhi confusa, alzai le sopracciglia e mi sbilanciai in un sorriso emozionato. «Le auguro davvero di non perdere mai la fantasia e la capacità di sognare... senza di quella Peter Pan non esiste... e così tutti i bambini sperduti e Neverland...»

La mia voce scomparve. Abbassai gli occhi, intontita, e cercai di capire come mai fossi così sconvolta e percossa dalle sue parole... cominciai a chiedermi che cosa fossero per lui la fantasia e il sogno, che cosa fosse per lui essere “eterni bambini”. C’erano tante persone che soffrivano della “sindrome di Peter Pan”, eppure lui non sembrava soffrirne. No, lui ci credeva... credeva di essere Peter Pan, e di certo credevo che la sua non fosse una sindrome... non era malato, era semplicemente... stupefacente.

E io, a una limpida certezza come la sua, non potevo far altro che rimanerne piacevolmente catturata. Che lui forse sapesse cosa significasse rimanere bambini e non crescere mai? Perché è crudele il mondo se decidi di rimanere bambino... non ti capiscono... ma se avrebbe saputo che anche lui, come la sottoscritta, provava quelle emozioni? Non è facile rimaner illeso quando vieni giudicato per i tuoi comportamenti bambineschi. Perciò mi domandavo: che mi assomigliasse almeno un poco?

«Non è facile» disse lui, risvegliandomi completamente dai miei pensieri, «con tutte le persone che cercano di distruggere l’innocenza che c’è in te...», proferì leggendomi nel pensiero.

Non finì la frase, ma rimase con il respiro bloccato nella gola e lo sguardo perso verso il basso... gli occhi di nuovo svuotati da una sensazione che ora non sapevo a cosa si riferisse, ma che avevo ben intuito nel profondo del mio cuore... la pedofilia era una delle tante motivazioni.

«...però è l’unica salvezza.», conclusi. M’osservò con curiosità e io non abbassai gli occhi. «La fantasia salva... ripararsi nei sogni può sollevare il cuore, puoi cercare di mantenere la purezza... ciò che resta della tua anima... non è così? », chiesi a voce tremante, non aspettandomi comunque una risposta.

E la risposta infatti non arrivò. Restò a guardarmi, con le labbra di poco schiuse, ma con gli occhi sempre sorprendentemente puntati su di me. Non trovava risposta come poteva darsi anche che non riuscisse a darmela. Potevo leggere il disorientamento attraverso i tratti marcati e raffinati del suo viso.

Il silenzio piombò sulla stanza, e non ebbi più coraggio di enunciare altro. Nemmeno lui sembrava nelle piene facoltà mentali per decidere di continuare l’argomento.

Perciò, con il corpo disfatto come i vecchi meccanismi di un robot arrugginito, mi voltai verso il tavolo, controllai di aver preso ogni cosa con lo sguardo, e mi voltai di nuovo verso Jackson... cioè, verso Michael. (Nel profondo non avrei mai avuto il coraggio di chiamarlo solo Michael, non così velocemente per lo meno).

Lo fissai e, con un mezzo sorriso, mi feci coraggio e dissi: «E’ meglio che vada, ora... va bene se mi presento verso le nove di mattina o è troppo tardi?»

«Oh, ehm...», rispose riprendendosi dal fitto scorrere delle sue riflessioni. Abbassò lo sguardo, si pose un indice e un pollice al mento, toccandosi lievemente la fossetta. «In realtà... nel contratto avevo espresso chiaramente l’orario... ma ora non ricordo... penso che quell’orario vada bene...»

Mi fissò, di nuovo, ma cercai di ignorarlo. Risposi con un «Ok, grazie...», e mi diressi verso la porta mezza spalancata della camera, in direzione dell’uscita. «La... ti ringrazio, arrivede...»

«No, aspetta, ti accompagno...» disse prima che io potessi uscire dalla stanza e finire la frase.

Neanche avevo detto arrivederci che lui mi era già accanto. Era arrossito un po’ in volto. Io, da ottima codarda qual ero, preferii osservare la sua grande mano che apriva la porta e mi invitava ad uscire. Chiuse la porta dietro di sé, si posizionò al mio fianco e aspettò che lo seguissi.

Nel frattempo che proseguivamo lungo il corridoio verso le scale che portavano al piano terra osservai ancor più attentamente la casa e l’arredamento. Ero rapita da quell’ambiente magico e elegante, tanto che i miei occhi provavano piacere solo a guardarlo. Era una villa davvero spettacolare, e se quella era solo parte della casa, non volevo immaginare le ulteriori sorprese che poteva celare.

«Ti piace questa casa?», chiese Jackson, il quale evidentemente aveva notato il mio sguardo puntato sul luogo circostante. Sembrava davvero leggere la mia mente.

Lo guardai, e notai l’espressione incuriosita puntata su ogni dettaglio del mio viso.

«Oh, sì, è davvero bella...» risposi cercando di placare il mio entusiasmo. «è arredata in modo molto elegante ma allo stesso tempo... ehm, fiabesco, se così si può dire...»

«E ti piacerebbe vivere qui?».

Lo fissai. Il suo viso era neutrale, me lo aveva chiesto con nonchalance, eppure i suoi occhi erano illuminati dalla curiosità. Ebbi paura in quel momento perché - detto in quel modo - sembrava volesse provarci già da subito con una come me. Un flirt così su due piedi mi riusciva un po’ strano, soprattutto nei miei confronti, visto che non ero mai stata una conquistatrice di uomini.

Mi bloccai a metà della rampa della scala che serviva per raggiungere il pian terreno, e quando lui mi sorpassò di qualche gradino e capì che mi ero bloccata, mi guardò.

Si accigliò, spalancò gli occhi, e stette zitto per qualche secondo; successivamente arrossì, rimase con la bocca aperta e sussurrò: «Oh... oh...».

Sembrava che si fosse accorto del doppio senso che avevo inteso io. Con molta probabilità il mio viso era lo specchio dei miei sentimenti: delle volte ero un po’ troppo espressiva...

«Oh, non pensare che l’abbia detto in quel senso, no...!», esclamò arrossendo portandosi una mano sulla guancia, che stava quasi per bollire dall’imbarazzo. «No, no... il fatto è che la scorsa istruttrice viveva qua, stava coi bambini quasi tutto il giorno, e... pensavo volessi anche tu...»

«No, no, io ho già cercato una casa qua nelle vicinanze... non c’è nessun problema, in realtà!», esclamai ridacchiando. Lui stette ad ascoltarmi, di nuovo in sé e silenzioso. «Ho già chiesto in affitto una casa qua nelle vicinanze. L’ho letto su un annuncio datomi dalla mia ex datrice di lavoro, i quali proprietari di quella casa ora abitano in Florida, e quindi lasciavano questa loro seconda casa a disposizione per chi ne avesse bisogno... perciò non ho bisogno di vivere qua, davvero...»

«E dove abita?» chiese, nel frattempo che riprendemmo a scendere le scale.

«Los Olivos, ossia non molto distante da qui... perciò da lì a qui ci terrò... venti minuti al massimo.»

«Mmh-mmh...», annuì, pensoso. Ci stavamo avvicinando alla porta d’entrata, e sia lui e sia io stavamo rallentando il passo. «Per fortuna non abiterà molto lontano...»

«Grazie a Dio! Non ci tenevo proprio a fare una lunga strada e svegliarmi alle sei del mattino...», esclamai ridacchiando, mentre il ricordo della sveglia al tempo della scuola, tanti anni fa, si rifaceva vivo. Il modo in cui lo dissi fece ridere anche lui.

Presi la mia giacchetta che la tata aveva appoggiato agli appendiabiti poche ore prima e me la misi su; in California in inverno non c’era molto freddo, anzi, non pioveva quasi mai, perciò le temperature erano così piacevolmente miti che si poteva andare in giro anche solo con una felpa pesante. Quel giorno però, vestita con solo una maglia a mezze maniche, non era consigliabile per me uscire fuori senza il giubbotto: ero piuttosto cagionevole di salute, ci stavo pochissimo ad ammalarmi...

«Arrivederci, allora...» dichiarai sorridendo.

Lui ricambiò, lanciandomi un’occhiata penetrante diritta nelle iridi, e annuì salutandomi con le mie stesse parole. Stavo per aprire la porta d’uscita, oramai voltata di spalle, quando la sua voce mi spinse a girarmi di nuovo verso di lui. Non mi ero mai sentita tanto osservata in vita mia...

«Ti chiamo stasera per dirti l’orario di domani, ok?», pronunciò lievemente.

Lo guardai e annuii, incapace di dire ulteriori parole. Strinsi le labbra in un piccolo sorriso intimidito. Non ebbi nemmeno il tempo, lì per lì, di ragionare sulla sua frase e sul suo modo di parlarmi. Lui mi salutò con la mano, e aspettò che me ne andassi da dietro la porta della sua casa fatata prima di lasciare la posizione in cui era... immobile, con quegli occhi scuri puntati su ogni mio minimo movimento.


*


Sono in ansia, quello era il pensiero del momento.

Voi vi chiederete perché mai dovrei essere stata in agitazione. In effetti, non ne avrei motivo... me ne stavo a casa, sola soletta, nella mia indipendente intimità e privacy, con indosso un pigiama di chissà quale marca color bianco e lilla – bellissimo, il mio preferito per giunta –, con le gambe incrociate a farfalla, seduta sul divano del piccolo salottino di quel nuovo posticino in affitto, con in mano... un Cd di Michael Jackson.

Qualcosa non torna, eh? Avete ragione. Non ho molte scuse al riguardo e meno che meno le avrei avute in tal attimo, ma vi posso dire che lottai molto contro me stessa e i miei istinti per non comperarlo.

Finito il lavoro, quel pomeriggio - ancora con la mente nell’Isola che non c’è - mi stavo per dirigere a casa quando ebbi l’istinto irrefrenabile di andare a visitare un negozio di Cd. Ma a chi voglio darla a bere... no, in realtà dovevo andare in biblioteca.

Siccome sono una divoratrice di libri, avevo programmato di farci un salto per vedere cosa avrei potuto noleggiare. Mi ero informata bene sul posto grazie a una cartina comprata il giorno prima e avevo deciso di farci un salto. Alla fine non avevo resistito alla tentazione di prendere qualche libro, e avevo scelto “Uccelli di rovo”, un libro che non avevo mai letto prima, e un libro dei miei autori preferiti, Nicholas Sparks, “I passi dell’amore”. Quest’ultimo lo adoravo con tutta me stessa, e non era paragonabile nemmeno un po’ al film uscito due anni prima.

Comunque, non penso sia questo che vi interessi particolarmente... be’, dopo quel salto in biblioteca durato solamente mezz’ora – e dico “solamente”, visto che io di solito lì ci stavo un’ora e mezza abbondante –, tornando a casa, ebbi la fantastica idea di passare davanti a un negozio di Cd.

Credetemi se ho dovuto competere duramente contro la volontà di entrarci e il desiderio di tornare a casa.

Sì, sono una ragazza molto orgogliosa in certi casi... però alla fine sono entrata.

Non era un negozietto enorme – Los Olivos era un centro mediamente popolato, paragonabile a una cittadella qualunque italiana, poiché la maggior parte della popolazione se ne stava nei grandi centri urbanizzati come Santa Barbara, Beverly Hills e Hollywood.

C’erano però molti scaffali di Cd, e anche là io ero capace di spendere molto del mio tempo.

Come devo avere già spiegato, o forse no, non ricordo, i luoghi dove maggiormente amavo stare erano la biblioteca, i cinema e i negozi di dischi... tralasciando gli ambienti naturali, erano posti di cui non potevo proprio fare a meno di andare e perdermi.

Non appena entrai, un uomo di statura medio/alta, di mezza età, con folti baffetti e capelli cortissimi castano scuro, m’osservò oltre il bancone. Salutò con un «Salve» poco allegro e tornò subito alla lettura del suo giornale, che teneva appoggiato sul banco di legno chiarissimo. Non sembrava eccitarsi alla presenza di un nuovo cliente, probabilmente perché era uno dei negozi di Cd che vendevano di più nella cittadina. Ad ogni modo non mi interessai minimamente al suo stato emotivo.

Ero tentata dal chiedere subito se avesse Cd di Michael Jackson – dovevo anche andare a fare la spesa e controllare il quaderno di Prince e Paris per mettermi in pari con i programmi da far loro svolgere – ma la voce mi si bloccò in gola. Ero così imbarazzata di pronunciare il suo nome ad alta voce che ebbi perfino voglia di tornarmene a casa di filato.

Non pensate che avessi paura di far sapere agli altri che volevo ascoltare un suo Cd, piuttosto ero io con il mio stupido orgoglio a non avere il coraggio di dire a me stessa che quel Jackson mi cominciava ad interessarmi parecchio.

Tuttavia cercai nei primi scaffali di sinistra, ma subito mi arresi. Dovevo farmi coraggio e dire le cose ad voce alta senza aver paura di scalfire il mio orgoglio. E poi non avevo neanche il tempo per starmene come una rincoglionita lì e cercare in lungo e in largo i Cd di Jackson. Perciò chiesi.

«Mi scusi» esclamai attirando l’attenzione del cassiere. «avete qualche Cd di Michael Jackson qui?»

Lui aggrottò le sopracciglia, chiuse il giornale e rispose dopo averci pensato su: «Sì, purtroppo, e sarebbe anche meglio che un giorno di questi mi decidessi a bruciarli tutti...»

Rimasi sbalordita da quelle parole, ma non dissi nulla: non capii immediatamente come mai tutto quell’odio per Michael Jackson. Il signore mi squadrò, sbuffò al mio completo silenzio e si diresse verso uno degli scaffali più nascosti del locale. Lo seguii.

«Eccoli qua, tutti per lei...», disse suonando quasi sarcastico, tornando al bancone senza nemmeno degnarmi di uno sguardo. «Li prenda pure tutti... nessuno prenderà mai più un Cd di quel pedofilo...»

Lo guardai sedersi al bancone, freddamente. Quando si accorse che lo fissavo, mi osservò con uno sguardo che sembrava dirmi «Che c’è?». Lo guardai con impassibilità, pensierosa e un po’ delusa per quelle brutte parole dette, e lui discostò gli occhi da me facendo finta di niente. Era così crudele ciò che aveva detto, che sebbene non fossi affezionata in alcun modo a Michael Jackson ebbi l’istinto di dirgli di farsi gli affari suoi e di cercare di conoscere la verità prima di giudicare iniquamente.

Di certo quell’uomo credeva che lui fosse un pedofilo, ma sicuramente io non avrei fatto a meno di prendere un Cd di Michael Jackson per rimediare alla opinione che aveva su di me e sul mio datore di lavoro.

Mi voltai verso gli scaffali, cercando di ignorare le parole del tizio che rimbombavano sonoramente nella mia mente, e osservai le varie copertine dei Cd sperando di riconoscere la figura di Jackson. Lo riconobbi soltanto per il nome che si evidenziava in ogni copertina, in realtà, e per gli occhi. In uno c’era un Michael Jackson piuttosto giovane vestito in smoking bianco con sotto una vellutata camicia nera, disteso su un fianco, con il colorito sicuramente più scuro di quello che ora aveva: il Cd era “Thriller”. In un altro, invece, c’era un Michael Jackson più maturo, con la pelle chiara, vestito di nero e di borchie con vicino la scritta in vernice rossa che diceva “Bad”. Ed infine ce ne era un altro, dalla copertina grigia metallizzata dalla quale potevo ben distinguere i tratti del viso del signor Jackson, con un occhio digitalizzato in pixel: il titolo era “Invincible”.

Rimasi in dubbio. Non sapevo sinceramente quale scegliere. Ce ne erano parecchi – ogni Cd aveva più o meno sei o sette copie non vendute – e mi dispiaceva lasciarli là, quando sembravano addirittura abbandonati e isolati dai dischi degli altri cantanti. Non potevo comperarli tutti e tre, dovevo stare attenta ai soldi che spendevo, e tuttavia avevo una gran voglia di far dispetto a quel commesso spregiudicato. Decisi a istinto quello che mi ispirava di più al momento: l’originalità di “Invincible” mi costrinse a sceglier quel disco. Poi, però, mentre stavo per dirigermi alla cassa, sentii una strana forza magnetica attirarmi verso lo stesso scompartimento.

Alla fine, tra battibecchi mentali fra me e me, presi una copia di ognuno dei tre Cd presenti. Ma sì, mi dissi, che cazzo se ne frega! Non controllai nemmeno le tracce che c’erano: li presi e basta.

Perciò ora ero a casa, con il Cd “Invincible” in mano che non avevo il coraggio di inserire sul lettore Cd, e osservavo la copertina molto concentrata. Sembravo addirittura contemplarlo, tanto che in un momento riuscii a farmi paura da sola. Osservai gli altri Cd che avevo lasciato sul tavolino davanti di me. Quando li avevo presi tutti e tre, il cassiere del negozio aveva guardato quei dischi con odio... e io, intanto, ero soddisfatta di avergli fatto quel dispetto. Alla faccia sua!

Forse avevo sbagliato... forse con il tempo avrei scoperto che Michael Jackson era davvero una persona inaffidabile e orripilante... ma in fondo, detta tutta, non mi importava.

Ero sicura di ciò che avevo visto coi miei occhi quel pomeriggio, e nel caso avrei speso soldi e tempo per niente almeno potevo dire di aver provato a fidarmi della sua persona e di essermi affidata alla sua innocenza ingenuamente. Non mi piaceva giudicare prima di conoscere... non amavo i pregiudizi, sebbene talvolta ci cadessi anch’io in essi. Un sentimento dentro di me mi diceva che Michael non era poi tanto male, e che non era cattivo...

Ero arresa alla consapevolezza che li avevo comperati tutti e tre e non potevo tornare indietro. Il gioco era fatto. Ero stata così attratta dall’idea insensata di conoscere Jackson che mi ero lasciata abbindolare dalla proposta di comperare i suoi dischi senza esitare. O ero fusa davvero, o era una cosa che capitava a tutti coloro che nella vita conoscevano Michael Jackson.

Di sicuro, desideravo che lui non sarebbe mai venuto a scoprire che possedevo i suoi album... sarebbe stato davvero imbarazzante, e stavolta l’orgoglio non c’entrava nulla: ero timida. Straordinariamente timida. Non avrei voluto che lui trovasse quei Cd, anche se l’opportunità che venisse a loro conoscenza era assai improbabile. Non solo mi sarei sotterrata la testa sotto una montagna di sabbia come gli struzzi, mi sarei annegata nell'oceano Pacifico, altrochè! E non sarei stata più in grado di guardare Jackson in faccia con naturalezza alcuna.

No, no... non doveva venirlo a sapere.

Mi decisi a mettere il Cd sul lettore. Mi alzai sbuffando dal divano, ma alla fine lo inserii. Cliccai “play”, e aspettai che la musica risuonasse per la stanza inondandola con note nuove che non avevo mai udito in vita mia. Un rumore strano di marchingegni: strane tecnologie facevano il sound della prima canzone dell’album che scoprii si chiamasse “Unbreakable”; mentre questa melodia iniziava, mi sedetti sul divano, estrassi il libretto con le canzoni dal Cd e seguii le parole del testo man mano che la musica avanzava. Riconobbi la voce di Jackson subito, e ammisi che sentirla dal vivo era cento volte più eccitante che attraverso il disco. Non era neanche da paragonare.

Ascoltai con le orecchie ben aperte le canzoni che sentivo. Erano originali, e anche molto orecchiabili, e raggiungevano un sound nuovo e completamente inesplorato da alcun’altro artista. Mi piacevano a primo impatto - sebbene non impazzissi dall’eccitazione - e soprattutto apprezzavo le parole che ci metteva; io guardavo molto le parole delle canzoni, delle volte molto più approfonditamente della musica stessa, ancor più in quel caso se il soggetto principale da valutare era proprio Michael Jackson.

Udii solo le prime tre canzoni, purtroppo. A inizio della quarta canzone, “Break of dawn”, il telefono squillò.

Cazzo, esclamai ad alta voce, mentre nella mente riuscii a solo a dirmi che dovevo immediatamente chiudere quel maledetto stereo prima che finisse di squillare il telefono.

Che fosse Jackson o mia madre non lo sapevo – quest’ultima mi telefonava sempre dopo cena, quindi era anche pensabile che fosse lei -, l’importante era spegnere ed evitare che Michael Jackson – nel caso fosse stato lui l’interlocutore – venisse a scoprire ciò che io non volevo fosse scoperto.

Prima che potessi prendere un respiro profondo tirai su la cornetta. Avevo corso così velocemente verso lo stereo che addirittura sarei potuta andare a sbattere contro il tavolino. Perché, la sottoscritta sbadata, non sapevo nemmeno dove metteva i piedi spesso e mal volentieri...

«Pronto?», dissi con il fiato corto sia dall’emozione sia dalle gincane appena fatte.

Rimasi in attesa. Sembrò passare un secolo quando la voce di Michael Jackson raggiunse le mie orecchie, penetrandomi con il basso e delicato suono della sua voce.

«Sarah? Sono Michael...»

E io sentii sciogliermi inconsciamente, rischiando di far cadere la cornetta del telefono dalla mano.




[Modificato da tati-a4ever 16/09/2011 16:34]

È difficile dir loro ciò che sento per te. Non ti hanno mai conosciuta, e non sanno come sei fatta. Come fanno a sapere il tuo mistero? Diamo loro un indizio.
Due uccelli sono su un albero. Uno mangia le ciliegie, mentre l’altro sta a guardare. Due uccelli volano nel cielo. Il canto di uno scende giù dal cielo come cristallo, mentre l’altro resta in silenzio. Due uccelli roteano al sole. Uno riflette la luce sulle sue piume argentate, mentre l’altro distende le sue ali invisibili.
Non è difficile capire quale dei due uccelli sia io, ma non riusciranno a capire chi sei tu. A meno che…
A meno che non sappiano cos’è un amore che non interferisce mai, che guarda da dietro, che respira libero nell’aria invisibile. Dolce uccellino, anima mia, il tuo silenzio è così prezioso. Quanto passerà prima che il mondo possa udire il tuo canto col mio?
Oh, come bramo quel giorno!


06/11/2011 07:22
 
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Ciao tati! [SM=g27823]
«Io sarò sempre giovane... io sono Peter Pan... e Peter Pan non invecchia mai.» Questa frase mi ha commosso parecchio ,pensavo alla intervista fatta da lui ad Encino nel 83; era così dolce e felice lì [SM=g27822]
«Non è facile» disse lui, risvegliandomi completamente dai miei pensieri, «con tutte le persone che cercano di distruggere l’innocenza che c’è in te...»Oddio qui mi sono uscite le lacrime [SM=x47964] Quanto a dovuto soffrire il nostro Michael.
Continua a postare perchè voglio davvero scoprire cosa succederà adesso [SM=g27828] Scusa se non ho commentato prima . [SM=g27838]



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