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Don't call my name (in corso). Rating: arancione

Ultimo Aggiornamento: 29/12/2010 12:54
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27/12/2010 20:31
 
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Buonasera e buon Natale in ritardo a tutte/i!!!
Manco da un pò, e vedo che qui il topic delle ff è sempre più rigoglioso e ben organizzato (grazie alla nostra Anto [SM=g27836] ).. La cosa ovviamente non può che rendermi felice e...spronarmi a sottoporvi un nuovo delirio ad occhi aperti..Eccolo! (spero di aver fatto tutto giusto con il regolamento, se ho sbagliato qualcosa frustatemi pure.. [SM=x47958] )
un mega [SM=x47938]



[IMG]http://i26.tinypic.com/6xw0ll.jpg[/IMG]
(Aha oe feii? (Come, sei gelosa?) Paul Gauguin, 1892)



CAPITOLO PRIMO


1992

-n-non riesco a fare i-il carlino..
-ma quale carlino… si dice “gradino”!
-Michael… mi devi a..
-si, questo lo vedo, ci impiegheremo tutta la notte a salire queste maledette scale altrimenti! Dammi la mano.

La sostenne facendole scivolare il braccio dietro alla schiena ed ancorando la mano aperta all’altra estremità del fianco. Guidandola lungo la scalinata granitica per forma e colore che li innalzava sull’immenso parco illuminato dalla luna, non potè fare a meno di voltarsi per ammirare un istante la sua immensa proprietà.
–a domani, disse fra sé e l’entità semi-astratta che si era immaginato.

-Michael..
-dimmi
-come spieghi ad un cieco cosa sono i colori?
-ma..che domanda è?..
-dimmelo
-non lo so Nat, che domanda mi fai ora..
-sei arrabbiato?
-no
-quando dici no vuol dire si
-pensiamo ad entrare in casa Natalie, ti prego, sono distrutto

Una farfalla meccanica sovrastava l’aiuola che incorniciava l’orologio bianco; i numeri romani, le lancette lunghe, segnavano il tempo lente e gravi, come quelle di una cattedrale.
Il fresco della sera portava un odore di gelsomino così intenso che penetrava i mattoni ed il vetro, fin dentro all’abitazione. Il legno profumava di legno ed i fiori sul tavolo della sala sembravano appena recisi, meravigliosi in un ultimo sussulto di vita.
Il canto del cigno.

-riesci a stare in piedi un attimo? Chiudo la porta..

Le sfilò il braccio da dietro la schiena e lei perse l’unico riferimento per rimanere ancorata al terreno e con esso l’equilibrio. Chiuse la porta e quando si girò la vide obbedire alla gravità con una velocità quasi innaturale, e fare un bel tuffo sul parquet reso ancora più scuro dall’assenza di illuminazione.
Un sussulto, un brivido sgradevole lungo la schiena. Paura.

-Natalie! Ti sei fatta male? Mioddio..
Si chinò su di lei e fece per sollevarla.
-no, Michael, non muovermi, i-io non sto bene, non riesco a muovermi..
-dio mio..che è successo? Dove hai sbattuto??

L’allarme nella voce non faceva che da pallida cornice al pallore sul volto tirato, teso.

-Natalie, reggiti a me, ora ti aiuto..

Pensava al peggio, forse aveva sbattuto la testa, forse doveva chiamare immediatamente in 911, dopo tutto aveva anche bevuto. Un momento di esitazione, sentì il diaframma alzarsi ed abbassarsi con ritmo sincopato, erano singhiozzi forse?
No, stava semplicemente ridendo, divincolandosi dalla sua presa.

-Michael.. è troooppo bello, devi venire anche tu! Devi seguirmi in questo mare di… frassino.. ahah..

Rideva e rideva agitando le gambe. Per le scarpe non c’era più speranza, erano andate perse alla festa. Non aveva bevuto molto, ma non reggeva. Lui lo sapeva e le aveva raccomandato più volte di bere solo aranciata –fai come me- le aveva detto, -non ci sono effetti collaterali e ci si diverte di più! –ma che noia che sei, sembri mio nonno quando fai il bravo ragazzo! Gli aveva risposto.

Ora la guardava cercando il più possibile di apparire arrabbiato, e lo era in fondo, perché sebbene non amasse particolarmente quel genere di serate mondane, aveva dovuto lasciare senza preavviso l’immenso giardino della villa di Brooke, la sua Brooke. Aveva riunito gli amici più cari, voleva una festa a sorpresa, voleva un cigno intagliato nel ghiaccio, voleva i fuochi d’artificio in occasione del suo compleanno. Aveva organizzato tutto per lui. Michael. Il suo re.

–un giorno speciale per festeggiare una persona speciale- gli aveva detto con occhi lucidi e labbra rosse, profumate del suo preferito, Moët et Chandon riserva, un aroma ed un sapore che non avevano tardato a diventare più nitidi nel bacio viscoso che di lì ad un soffio lo aveva inondato, con la stessa veemenza del Nilo in piena sulle pianure aride dell’Africa. E lì le sue labbra avevano trovato il giusto salubre ristoro dopo tanta siccità.

-Nat ma che fai? Ti rendi conto che mi hai fatto prendere un accidente?! Credevo ti fossi fatta male!
-non è colpa mia, non è colpa mia, non è colpa mia se sei un creduloneee..

Sembrava una cantilena, spezzata soltanto dalle risate di lei, che non riusciva assolutamente a trattenersi. Lo guardava sdraiata sul pavimento, e da quella prospettiva era ancora più ridicolo: se ne stava in piedi davanti a lei stizzito, con le mani sui fianchi, l’espressione severa, la camicia blu notte ormai aperta e completamente fuoriuscita dai pantaloni scuri che lasciava scoperta una maglietta bianca con lo scollo a v.
I riccioli indomati e liberi gli cadevano sulle spalle, le labbra semidischiuse lasciavano uscire qualche ansito di fatica per averla dovuta trasportare quasi di peso lungo quella scalinata che non finiva mai. Sulla fronte qualche perla incolore ed una ruga di espressione che gli usciva solo quando era fortemente infastidito. O in collera, anche se lei quel sentimento non lo aveva mai visto sul volto di Michael. Fino a quel momento.
Bellissimo.

-ora andiamo di sopra, non vorrai dormire qui sul pavimento

Sospirò con rassegnazione e tono secco e piatto

-mmmmmm può darsi, perché no..dai vieni vicino a me..

Cercò di afferrargli una caviglia ma lui fu più veloce, ed in un balzo fu fuori dalla sua portata.

-su forza, poche storie..
-che palle che sei.. perché non andiamo a farci una passeggiata nel parco.. daiiiiiiiiii
-nelle tue condizioni? Non credo proprio.. la miglior cosa che possiamo fare ora è andare a letto, anche perché prevedo che per arrivarci ci impiegheremo altri dieci minuti..
-che palle di uomo! Non si può mai fare niente, niente bere, niente fumare, niente divertirsi.. hai 34 anni e ne dimostri 80!
-e tu chi saresti per dirmi queste cose? Una ragazzina viziata che non ha la minima idea di cosa voglia dire lavorare! Io lavoro da mattina a sera, ecco perché non ho tempo per divertirmi.
-ora non iniziare con la menata dell’infanzia perché la so a memoria eh..
-farò finta di non aver sentito, in fondo non hai il controllo di te stessa in questo momento e..
-Michael
-si?
-ora la testa mi gira più forte di prima, credo di dover vomitare
-si certo, come prima, guarda che non mi freghi
-stavolta è vero, ti prego, aiutami

Vinto da quell’espressione sofferente e contratta si chinò di nuovo verso il basso ad aiutarla, in qualche modo, a sollevarsi dal pavimento scuro che incorniciava quella figura snella, perfettamente avvolta dall’abitino bianco corto che metteva in rilievo ogni piccola curva del corpo liscio e tonico dalla pelle caffelatte.

Un istante di esitazione, poi colse il momento opportuno per attirarlo a sé, per allacciare le gambe attorno ai suoi polpacci e, una volta percepita l’assenza di bilanciamento del peso, afferrarlo per le spalle, facendolo letteralmente planare su di sé.

-Natalie! Ma..ma che fai! Ahio!

L’espressione indignata alla vista di lei che non riusciva a respirare dal ridere, si contorceva come un serpente arpionato da una fiocina, incapace di darsi pace, di articolare verbo o di fare qualunque altra azione.

-due volte, non ci posso credere Mike, ti sei fatto fregare due volte consecutivamente da una mocciosa… da non credere...

Quelle parole risuonarono fastidiose come lame calde nei padiglioni. Era insopportabile in effetti, che uno come lui si fosse fatto fregare in agilità da qualcun altro, per di più da quella insolente, che stasera non aveva fatto che infastidirlo in maniera così..
Non terminò il pensiero che le fu addosso.

-ah si? Ora lo vedremo se mi sono fatto fregare, lo vedremo!

Disse così e le immobilizzò entrambe le braccia sopra alla testa trattenendole per i polsi, mentre con l’altra mano iniziò a prodigarsi in una delle cose che a suo giudizio gli riuscivano meglio: il solletico. Natalie urlava e rideva come un’ossessa e lui non accennava a smettere, non ci pensava proprio, anzi, ad ogni lamento ulteriore lui rincarava la dose, in una lenta tortura fatta di mute suppliche negli occhi appannati dal ridere.

-ora basta, mi sono vendicato abbastanza per stasera

Mollò la presa e si mise a sedere sul pavimento, felice di essersi sfogato, almeno così.

-hai ragione, hai proprio vinto, con il solletico non ti batte nessuno… tranne meeeeeeeeeeeeeeee

E, lanciato l’ultimo tonante urlo di battaglia, gli si scagliò alle spalle come un puma a caccia di una preda dopo giorni di digiuno, con la stessa forza.

-è sleale, è sleale, non..

Cercava di liberarsi di quel peso che gli impediva di muoversi, a cavalcioni su di lui, che non poteva trovare appigli in una posizione diversa da quella supina, completamente sottomesso da quella piccola dea vestita di bianco che rispondeva al solletico subìto poco prima con la stessa incredibile perizia e decisione del suo aggressore.

-basta, per favore, Nat..
-domanda perdono ed ammetti la mia supremazia assoluta
-mai, maaaai
-e allora..
-ok, basta, ti prego, mi fa male la schiena, ti prego Natalie
-supplica la mia pietà se vuoi salva la vita
-pietà. Ora basta però, ti prego
-ok, per stavolta ti libero

Sollevò lo sguardo e si rese conto che avevano percorso quasi tutta l’area del salone rotolandosi e giocando negli ultimi dieci minuti, tanto da trovarsi all’imbocco delle scale anziché all’ingresso.
Ma non fu l’unica cosa di cui si rese conto. Era ancora sopra di lui, a cavalcioni, il vestito sollevato sulle cosce lucide e tornite, una spallina abbassata, ansiti di fatica e tentativi di ripristinare un ritmo sinusale accettabile, i capelli prima ordinati e raccolti in una coda alta ora piovevano liberi oltre le spalle, come fili di petrolio appena cristallizzati, ricoprendo anche parte delle braccia sul lato destro, mentre il petto si alzava e si abbassava seguendo un ritmo imposto. Imbarazzo, ecco cos’era. Imbarazzo. Non era mai successo, non l’aveva mai guardata così, lei era solo una ragazzina e l’aveva vista crescere e… tutto ciò non stava costituendo un grosso problema tuttavia, finchè non vide la sua mano eludere ogni tentativo di controllo da parte del cervello e andarsi a posare sulla linea della vita, fasciata dal raso del vestito, ormai tutto stropicciato. Natalie non potè non notare la finezza inaspettata di quel gesto, così impercettibile e profondo nel contempo. Un istante in cui gli occhi penetrarono gli uni negli altri in un incontro elettrostatico e denso.

-ora basta, alziamoci dai

Con un movimento delicato la fece scendere. Si voltò a guardarla. Gli occhi nei suoi, con un’intensità quasi pretenziosa nelle iridi, inquisizione, o innocente curiosità forse, tanto bastò per provocargli un fremito generalizzato per la paura che avesse potuto captare anche solo una parte dei suoi pensieri.

-ora potrai dire di esserti divertito almeno un po’ stasera, e non certo per merito tuo!

Fu come se gli fosse andata in soccorso, spezzando quel momento di imbarazzo per quello sprazzo di violenta intimità, imbarazzo che si leggeva furente nei suoi occhi volti al pavimento, imbarazzo che invece era totalmente assente in quelli di lei, più scuri della notte e puliti come il cielo sopra le nuvole.

-mi sarei divertito lo stesso se non avessi dovuto abbandonare la festa per il mio compleanno per colpa di Qualcuno…
-io non ho costretto proprio nessuno, se tu che sei voluto venire via!
-si certo, volevo evitare che dessi spettacolo!
-mi stavo solo divertendo Mike, e dovresti farlo anche tu ogni tanto, invece di startene sempre impalato con la tua Brooke, sembrate due mummie! Tutankamon e Nefertari direttamente dal 4000 a.c.!
-Brooke è una donna di classe, e non ha bisogno di strafare, né di mettersi in evidenza, lei è, è..
-una noia?
-no Natalie, lei è perfetta così

Preferì mettere fine a quello strano battibecco con il tono più astioso e l’espressione più piccata di cui fosse capace. Nemmeno lui sapeva perché, e senza dubbio si era reso conto di quell’esagerazione nei modi, che stonava fortemente con quel momento di pace e spensieratezza fuori programma. E, cosa ancora più evidente, stonava con gli enormi occhi di lei, che nonostante tutto lo guardavano ancora sorridenti, poiché per nulla al mondo gli avrebbe dato un assaggio di quello che in realtà provava. Per nulla al mondo.
Lo guardò imbronciata, poi gli sguardi si incastrarono per un piccolo istante in cui il tempo si fermò. Voleva essere arrabbiato, doveva esserlo, per tutto, per come erano andate le cose quella sera, per se stesso e per i pensieri fuori da ogni ragionevole logica di poco prima e…

E, inaspettatamente, la fila dei suoi denti perfetti fece capolino dalle labbra ambrate, in un guizzo a tradimento del suo stesso corpo che non sapeva resistere a quegli immensi occhi scuri di bambina, così innocenti e disincantati allo stesso tempo. Così veri.

Aveva dovuto salutare i presenti di malavoglia ed in gran fretta perché quella piccola peste completamente alticcia aveva iniziato a dare lo spettacolo più imbarazzante (e divertente) che avesse visto: in piedi al centro di un’aiuola colma di tulipani si era improvvisata la Cindy Lauper degli anni 90 in un’improbabile “girls just wanna have fun” cantata di petto e –secondo le sue stime- con tutto il fiato che aveva in corpo.
Tutti sorridevano guardandola, alcuni si univano all’improbabile cornice abbozzando qualche maldestro passo di danza, altri cantando a loro volta in preda ai fumi dell’alcool. Era solo una bella ragazza che si divertiva, -che c’è di male?- gli aveva chiesto lei con il solo movimento delle labbra mentre lui la fulminava con lo sguardo, da lontano, con una Brooke inviperita a braccetto.

–dovevi proprio portare quella ragazzina anche stasera? Non sa controllarsi non vedi? Di questo passo rovinerà la festa!
–piccola, calmati, si sta solo divertendo un po’ dai….- aveva cercato di sdrammatizzare lui.
–OHHHHHH GIRLS JUST WANNA HAVE FUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUN!!

Scatenata e libera come forse non aveva mai visto qualcuno.

–ok, ora è meglio che andiamo, il concerto mono-canzone per stasera è terminato- le si era avvicinato e l’aveva attirata sé con una leggera trazione del braccio e, fra le proteste del “pubblico”, l’aveva condotta verso la limo parcheggiata vicino al cancello ovest dell’immensa abitazione della sua ragazza delusa.

-ogni tanto è bello perdere il controllo, sai? Senza pensieri. La libertà è un bene prezioso, e tu che hai avuto il privilegio di averla gratis la butti così.

Cercò di darsi un tono e soprattutto di farsi scivolare addosso quell’apprezzamento a Brooke, forse fin troppo zelante.

-l’unico privilegio che ho è quello di andarmene a dormire fra poco evitando di ascoltare i tuoi deliri notturni. Vieni.

La aiutò per l’ennesima volta a sollevarsi quella sera, e l’accompagnò nella sua camera. La fece sdraiare sulle morbide lenzuola di lino, accompagnandone la testa con la mano fino al cuscino, in un gesto amorevole e paterno; lei non protestò stavolta, ma si lasciò cullare da quelle note di sandalo che emanava il collo di lui, lievemente umido per lo sforzo appena compiuto.
Si sedette accanto a lei, sul bordo del letto e con un dito le tracciò il profilo del volto, in un impercettibile cammino senza inizio e senza forma. Natalie ora non poteva più percepire la sua finezza, ormai prigioniera di un dolce Morfeo che l’aveva portata molto lontana da lì.

Tutto era assurdo con Natalie, lei era assurda e di conseguenza tutto quello che poteva anche solo lontanamente riguardarla, compresa quell’amicizia che avevano, così difficile da classificare, da definire.

Si grattò il capo pensieroso e si diresse verso la porta in mogano, l’avrebbe accompagnata piano verso lo stipite, facendo attenzione a non fare rumore, per non svegliarla.

-non me lo vuoi proprio dire?

Lo fece sussultare, disintegrando definitivamente la convinzione rassicurante che stesse dormendo. Si voltò nel buio e la vide immobile nel letto, con un solo occhio aperto ed il viso da bambina. Lo guardava cercando di sconfiggere quel fastidioso senso di stanchezza che la stava avvolgendo, solo una risposta, voleva solo una risposta e non ci avrebbe mai rinunciato.

-che cosa non voglio dirti?
-come si fa a spiegare ad un cieco cos’è un colore.
-non si può spiegare che cos’è il colore, lo si può solo percepire

Si riavvicinò lentamente a quel letto a baldacchino cercando di comprendere il motivo di certe domande. Natalie era davvero la diciassettenne più strana che avesse conosciuto.

-quindi un cieco non saprà mai di che colore è l’erba, o il tramonto, o un girasole?

Il viso oscurato da un alone di tristezza fece rabbuiare anche lui, anche per l’amara verità che le aveva dovuto confessare. Pensò a quanto brutto dovesse essere il non poter vedere il modo in cui la luce riflette sulle tante cose che compongono la realtà, pensò al buio totale ed alla tristezza che da ciò potesse derivare.

-no, un cieco dalla nascita non saprà mai cos’è un colore Natalie, ma nemmeno ne soffrirà, poiché non avrà mai visto altro che un’ombra oscura.
Come si fa a desiderare qualcosa di cui si ignora l’esistenza?
-non si può
-esatto, non si può. Ora dormi che è tardissimo
-Michael
-si?
-grazie..
-di cosa?
-grazie e basta, non rompere con le tue solite domande riflessive!
-ma veramente se tu che… ok, lasciamo stare..

Si diresse alla porta nuovamente, scuotendo il capo e senza riuscire a ricacciare in gola un’espressione di profonda frustrazione, per come si era fatto aggirare ancora una volta da quell’insolente, invadente, sfacciata ragaz..

-e scusa se ti ho rovinato la festa

Si voltò a guardarla per la terza volta nella penombra, letteralmente allibito per come quelle poche parole lo avessero totalmente destabilizzato, di nuovo. Non riusciva a formulare un pensiero, una considerazione, non arrivava alla fine che, inaspettatamente ed improvvisamente arrivava lei a spazzare via tutto.

-no.. era una noia in fin dei conti..

Non riusciva ad essere arrabbiato, non ci riusciva. E non riusciva a credere di aver pronunciato quelle sillabe per davvero, ma la sua bocca lo aveva fatto, senza minimamente attraversare la dogana di cosa è bene soltanto pensare. Se Brooke lo avesse sentito parlare così non gli avrebbe rivolto la parola per mesi, di sicuro. Cercò di sentirsi in colpa per questo ma la sua bocca le sorrise, e la sua mente pensò a quanto fosse irrimediabilmente piccola, in fondo.

Si era addormentata per davvero, ora, lo capì dal respiro rallentato, dato che nel buio della stanza ben poco si poteva vedere. –domani devo dirglielo, domani mattina appena si sveglia glielo dico, ora dorme, non la sveglio. Non sapeva se stava cercando una scusa per non dirglielo o se stesse semplicemente temporeggiando, non lo sapeva e non lo voleva sapere. Un altro sospiro di frustrazione lo fece voltare e dirigersi all’uscita, finalmente.
Uscì dalla stanza buttandosi insieme alla porta quella giornata alle spalle.

***

[IMG]http://i27.tinypic.com/2v3r9ko.jpg[/IMG]
(El Fuerte de San Cristobal, San Juan, Puerto Rico)


1975

Le onde dell’oceano si infrangevano sulla scogliera e gli uccelli del mattino avevano già iniziato il loro canto, il vento soffiava piano creando un delicato connubio dei due suoni, uniti a formare l’immagine della ciudadela de San Juan, nel suo ritratto più affascinante, di mattina presto.
Il vociare indistinto degli abitanti già sulla buona strada verso le loro occupazioni si sollevava nel mentre dalla zona abitata; piedi nudi in movimento, zampe di capra, di asino, ruote di legno marcito trainanti carri debordanti di spezie, di grano, di juta, di acqua, solcavano l’acciotolato malmesso a ridosso del marciapiede, scricchiolando come i noccioli delle olive al frantoio.
La moltitudine delle persone e la vitalità cittadina sembravano concentrate nella ciudadela antica comunque, circondata e confinante più ad est con i quartieri dormitorio di Calle San Augustin, e con gli alberghi di extra lusso che sembravano costituire realtà parallele, protette da alte palizzate in bambù e palme da cocco.
Il Fortino di San Cristobal, a picco sull’oceano, offriva la vista più nitida dell’intero complesso; dalla torretta centrale si poteva vedere il mercato del pesce in Plazoleta San Juan, che costituiva una minuta penisola affacciata sulla baia antistante. Qui i gabbiani sembravano letteralmente impazziti, li si vedeva sfrecciare da un punto all’altro, talvolta in picchiata, nella speranza di racimolare qualcosa dalle cassette in legno grezzo buttate a terra, e non era raro scorgere la collisione con qualche passante, che cadeva a terra imprecando.
Si potevano cogliere gli imponenti palazzi signorili di un bianco accecante in Calle Fortaleza, e si poteva notare l’immancabile contrasto con le pareti delle povere case colorate di cui erano famosi soltanto i tetti dai mille diversi colori, ritratti dai fotografi di National geographic, famosi ed inconsapevoli in un muto accordo consumistico. Ma i raggi del sole filtravano timidi dall’intersecarsi di quelle costruzioni argillose, tanto, troppo vicine, che non potevano sopportare le intemperie, che non proteggevano ma custodivano, che avevano pareti bucherellate dal tempo.
Tuttavia, se da una parte un tale insieme poliedrico di realtà lasciava sgomenti, dall’altra sembrava essere messo lì a ricordare il brulicare della vita di un sottobosco segreto, nascosto dalle foglie cadute dai rami degli alberi bagnati di rugiada, in un sodalizio di contrasti sacro e profano, ma nella sua interezza, vivo.
Quella mattina si poteva udire il rumore delle gocce di condensa che si riversavano in una pozza d’acqua stagnante, statica al centro della stradina in terra battuta, priva di scoli o di condutture di qualunque tipo. Odore di terra, di grano essiccato al sole e di sterco, tutto mescolato insieme in un connubio campestre, in grado di riportare alla mente scene d’altri tempi, di altri anni, ma sempre appartenenti al presente.
Tutto deve cambiare perché nulla cambi.
Tomasi di Lampedusa aveva avuto un guizzo di genio senza immaginare quanto vere avrebbero potuto essere le sue parole applicate a questa terra secca, che sembrava non subire cambiamenti con il passare degli anni, immutevole e vergine, terra americana solo sulla cartina, terra di storie disperate, terra di luce e di ombra, terra povera come altre terre, terra di mezzo: Porto Rico.
-mamaaaaaaaaa, mamaaaaaa
Da una finestra che sembrava ritagliata su di una parete azzurro acceso in Calle Pelayo, proveniva un richiamo che sembrava un lamento corredato da un acceso allarme nella voce sottile.
-mama, mamaaaa dove sei?!
-qui, sono qui! Chi è che mi chiama?!
-paulina
-que pasa rosa mia? Perché urli così?
-mama, ho sentito piangere giù dalla scala, ho provato a scendere ma non vedo!
-piangere?! Io non ho sentito nulla!
-mama c’è qualcosa che sta piangendo giù dalla scala ti dico!
-e io non lo sento! Ed ho le orecchie ben più pulite delle tue credo, eh! Mi pequeña, sarà un gatto che..
-ma mama, sono sicura..
-ora mama deve lavorare, vai a giocare con gli altri. Carolina! Francisco! Venite aquì, andate a giocare con Paulina, andate!
Un vestito leggero dai toni caldi e cangianti avvolgeva quella donna giunonica dalla carnagione eburnea, liscia e calda come una pietra calcarea. I lunghi capelli corvini erano avvolti da un velo intrecciato su se stesso a formare un turbante di un arancione così acceso che sembrava illuminare la stanza senza l’ausilio della nostra stella.
Grossi pendenti bronzei ai lobi, occhi profondi e caviglie gonfie erano il risultato di quarant’anni di pulizie alla casa del padrone, all’angolo tra Calle San Francisco e Plaza Colòn, nel quartiere residenziale della città.
Mama non era il suo vero nome, ma l’appellativo familiare ed affettuoso che le avevano dato i suoi bambini, gli ospiti de “El Nido De Los Pettirrojos”, una casa piccola e piena di buchi come le altre, che faceva da riparo ai meno fortunati, a coloro che non sapevano dove andare, ai senza famiglia, ai senza niente in mezzo al niente.
Non aveva figli Mama, aveva sedici pettirossi da sfamare e da accudire come suoi, come se quella notte del ’64 non avesse perso la possibilità di averne a causa di un vecchio ubriaco, che insieme alle sue sventure aveva annegato nell’ultimo goccio di Tequila anche i sogni e le possibilità di quella donna dal sorriso grande e dagli occhi a mandorla.
Era a questo che pensava, mentre assorta fissava il mare dalla finestra della piccola sala, in attesa dell’orario per andare a lavorare.
C’erano molte, moltissime cose da fare a casa del padrone e ce n’erano altrettante che avrebbe dovuto sistemare al rifugio; era esausta ma non vinta da quella realtà che le era sembrata davvero troppo crudele a volte.
Molti erano stati trovati per la strada. Li avevano portati lì in attesa che venissero a riprenderli, ma gli anni passavano e loro crescevano fra quelle mura segnate dal tempo, crescevano insieme e venivano aiutati dai più grandi che aiutavano Mama, unico riferimento quando la consapevolezza che non sarebbe più arrivato nessuno a reclamare un piccolo mulatto si faceva strada, ed infieriva il suo colpo senza pietà. Altri i genitori li avevano conosciuti, e forse era anche peggio, perché il ricordo pesava di più dell’inconsapevolezza, alle volte.
Come si può desiderare qualcosa di cui si ignora l’esistenza?
Cosa facesse più o meno male Mama non lo sapeva, ma non lo reputava importante comunque, perché voleva e doveva pensare a loro, perché era la loro unica certezza, questo solo le interessava.
Pensava anche a questo Mama mentre ormai l’orario era arrivato, e si apprestava ad uscire, con un cesto di canapa sottobraccio per passare al mercato lungo il tragitto, per fare scorte di radici, e di vento se c’era.
-mamaaaaaaaaaaaaaa, mamaaaaaaaaaaaaa
Ancora più squillante e nitida la voce di Paulina echeggiava dall’altro lato della casa, facendo persino destare un paio di cani che avevano preso ad abbaiare come forsennati.
-paulina! Que pasa santo cielo! Perché urli così?
-mama, corri a vedere! Mamaaaaaaaaaaa
-ma cosa…
27/12/2010 20:39
 
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Veronica [SM=g27836] [SM=g27836] [SM=g27836] [SM=g27836]
Bene bene,hai deciso di postare anche qui!!
Ne approfitto per rileggermi per l'ennesima volta i capitoli che finora conosco già [SM=g27822]

P.S:Buone feste [SM=g27817]
27/12/2010 20:46
 
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Veronica! seguo la tua fantastica storia sul Darling e sono sempre in attesa di un tuo nuovo capitolo! scrivi divinamente, non ci sono altre parole! Ti rileggerò anche qui molto volentieri! :)

Buon Natale anche a te!
27/12/2010 21:44
 
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Grande Veronica hai postato anche qui !!!!!! Troppo bella questa Ff, al seguo già sul Darling e nn vedo l'ora del capitolo nuovo!! Baci

It's all for Love...L-O-V-E - Michael Jackson




The Dancer on the Moon - our Michael Jackson Blog.

28/12/2010 05:59
 
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Ciao Veronica.Che piacere ritrovarti qui!Sono Cinzia 62 sul Darling.
28/12/2010 12:44
 
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ciao veronica!! ben tornata =)
a diferenza delle altre, non ho letto la storia sul Darling, ma mi piace molto=) spero posterai al più presto, perchè mi hai molto incuriosita!

28/12/2010 13:28
 
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Speravo che avresti avuto l'ispirazione per una nuova ff, bene, mi fa piacere!!
28/12/2010 14:52
 
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Tesorooooooooo ma è stupendaaaaaa [SM=g27836] [SM=g27836] e tu volevi negarci questa fantastica ff? Ma tu sei un genio, scrivi divinamente!!!! Posta al più presto!!!!
Ps: cos'è il Darling? Allora era stata già postata altrove questa ff?
28/12/2010 21:03
 
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Grazie ragazze, sono contenta di ritrovarvi anche qui!! [SM=g27836]
Anto il ForeverDarling è un forum dedicato principalmente alle ff di cui sono amministratore insieme ad altre ragazze. Non so se posso lasciare il link qui, non vorrei fare dello spam non consentito..fammi sapere nel caso.

Per chi invece non ha mai letto si prepari ad una raffica di capitoli in arrivo, fin dove sono arrivata a scrivere. Baciiiii

Capitolo secondo


1975

[IMG]http://i37.tinypic.com/16llb9f.jpg[/IMG]



With a child’s heart
Go face the worries of the day
With a child’s heart
Turn each problem into play
No need to worry
No need to fear
Just being alive
Makes it all so very clear
mjj


Era un cestino molto simile a quello che aveva deciso di portare con sé per andare al mercato. Solo che all’interno non c’erano frutti, radici o vento. All’interno c’era una cosa viva, lo si poteva sentire perché respirava, nel buio di quel sottoscala alla periferia estrema della ciudadela di San Juan, nell’isola di Puerto Rico, all’estremo sud dell’ultima costa americana. La Florida.
Ebbene, all’interno di tale agglomerato ai margini, era pur possibile essere ancora più reietti ed esclusi, era possibile essere ulteriormente scartati, era possibile trovarsi in un cestino di vimini, in un sottoscala di Calle Pelayo.
Tuttavia un tale ritrovamento non destò lo stupore che ci si potrebbe aspettare, nemmeno la metà del nostro almeno, perché Mama era una donna del mondo, del suo mondo, e sapeva benissimo a cosa andava incontro ogni mattina quando si svegliava, quando si preparava per il nuovo giorno. Era come un tacito patto fra lei e il destino –lei ci credeva molto nel destino- non lo aveva e non lo avrebbe mai sfidato, per nulla al mondo; avrebbe accettato ogni incombenza, ogni fardello, avrebbe imparato da ogni errore, si sarebbe rialzata senza lamentarsi dei lividi.
In cambio lui le avrebbe regalato la certezza di vincere contro il male oscuro di quella solitudine contenuta nella foschia umida che avvolgeva ogni mattino del suo cuore.
Lui, signore indomato e beffardo, destino, fato, comunque lo si voglia chiamare, ogni tanto sapeva essere riconoscente ai devoti, e li graziava di un semplice gesto, concedendo una briciola che sarebbe dovuta bastare per un’intera vita, ma così saporita e totalizzante per coloro che non avevano in bocca alcun sapore.
Così era. Ogni pettirosso smarrito, non desiderato, dimenticato arrivava a lei. Solo di questo voleva gioire Mama, che arrivassero alla sua casa, che potesse accoglierli, che potesse essere la loro Mama, e che quella costruzione pericolante potesse essere il loro nido.
-Paulina, rosa mia, corri a chiamare Glauco di sopra, vai!
-hai visto mama, non mi credevi tu!
-ora corri bonita, corri su!
La sollevò da quel cestino che, seppur di dimensioni contenute, era troppo ampio per un esserino così piccolo. La sollevò da quel punto scuro e la portò alla luce. Era piccola, molto piccola, era una bambina, e Mama non ebbe bisogno di conferme, quegli abissi più neri del colore che riveste il nostro universo erano di una bambina.


1992

[IMG]http://i38.tinypic.com/2147bz4.jpg[/IMG]

Let’s meet in heaven, Won’t you?


Il sole che filtrava dalle vetrate smerigliate creando fasci geometrici a decorare la monotonia del parquet scuro si posò anche sul letto, creando una piacevole interferenza con il buio del dormiveglia. Nel tepore creato dalle coperte leggere si riusciva a sognare anche da appena svegli, in un tentativo di prolungare quel dolce riposo appena svanito, pensando al nuovo giorno, alle cose da fare, nell’attesa della risoluzione necessaria per uscire dal bozzolo e passare all’azione.
Appoggiata al guanciale la chioma corvina schivava di poco il fascio luminoso, e pareva ancora spenta, cornice di una mente ancora quiescente, che invece, contro ogni ragionevole sospetto era già laboriosa fra il frusciare della stoffa.

mmmmm..Come mi sono divertita ieri sera, tutta quella gente, ma quanto ho ballato?! E quelli che ballavano peggio di me..ma chi erano alla fine?? Mah..chissenefrega, erano fuori quanto me ed in certi casi è l’unica cosa che conta. E meno male che ho mandato giù un po’ di nettare degli dei, altrimenti che noia mortale.. e anche Michael si stava rompendo, non mi venga a dire cazzate! E’ strano in questo periodo, lo vedo da come mi guarda, c’è qualcosa che mi deve dire ma non ci riesce. Il solito tacchino, quando succede qualcosa entra in paranoia cazzo. Ormai lo conosco. Ci vorrà del tempo prima di sapere cosa c’è, lo so..e allora come dicono i cinesi: siediti sulla riva del fiume e aspetta, vedrai passare il cadavere del tuo nemico, presto o tardi. Bè, non è un mio nemico ovviamente, quindi non so quanto possa essere azzeccato ‘sto termine, e se è per questo non è nemmeno cinese.. ahahahaha oddio Michael con gli occhi a mandorla..oddio! Ma ho spento la sveglia nel sonno?!? E’ tardissimo mi devo alzare cazzoooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo!

In tutti questi pensieri era immersa Natalie, che si era svegliata prima della sveglia –lei non l’aveva ancora realizzato- in quella mattina di inizio estate. Una lieve emicrania era il fastidioso strascico della serata precedente, i capelli arruffati, il vestitino bianco di raso ancora addosso. Ora ricordava: l’aveva portata Michael di sopra, e non si era permesso di sfilarle l’abito per aiutarla a mettere il pigiama con il quale avrebbe dormito sicuramente più comoda. –mah, che ragazzo strano, mi avrà vista in mutande mille volte, chissà perché ieri sera non mi poteva infilare un pigiama..vallo a capire!
Non prestò molta attenzione a questo dettaglio comunque, pensando che fosse brillo anche il suo amico a cui piaceva fare il santerellino, e che quindi non fosse stato in grado.
Scese dal letto e, ancora barcollante, si diresse verso la porta del bagno. Ne uscì quindici minuti più tardi, seguita da una densa nube di vapore profumato del sapone per il corpo che era solita usare. Infilò il solito paio di jeans strappati, una t-shirt bianca da yuppie di qualche taglia più grande della sua con la scritta “love is the answer” ed un arcobaleno sullo sfondo, un paio di scarpe da ginnastica tutte rovinate, un velo di mascara ed uscì dalla stanza sbuffando –si ricomincia- disse a se stessa ed inforcò le scale per il piano inferiore. La scuola era finita, ma questo non significava vacanza per Natalie, era più libera ora, e poteva aiutare a tempo pieno sua madre con gli innumerevoli lavori di ogni giorno.

Rumore di passi sulle scale ricoperte dalla moquette cobalto, che tuttavia non riusciva ad attutire del tutto lo spostarsi delle persone che scendevano o salivano. Ma quel passo svelto era inconfondibile alle sue orecchie, era Natalie che andava al lavoro, ne era sicuro. Lei era l’unica in tutta la casa a non avere il minimo riguardo per gli orari e per le persone che eventualmente dormissero più a lungo di lei, ogni mattina era la stessa storia: si alzava alle sei e per le sei e trenta percorreva il corridoio centrale a passo pesante e strascicato, per poi acquisire improvviso entusiasmo proprio all’imbocco della rampa, nella quale si catapultava subito dopo saltellando e scaricando tutto il suo peso molleggiando da un gradino ad un altro.
Le camere degli ospiti comunque erano abbastanza lontane da quella padronale da non farlo considerare un vero e proprio atto di disturbo, a quell’ora inoltre Michael era già sveglio nella maggior parte dei casi. Si trattava piuttosto di una questione di principio, di educazione. Più volte glielo aveva fatto notare, ma non c’era nulla da fare con lei, era più testarda di un mulo quella ragazzina; infatti, dopo averlo liquidato con un “se sei già sveglio perché rompi?”, la mattina seguente riprendeva a fare lo stesso.

Se ne stava appoggiato al vetro che apriva un varco sull’immensa vallata bagnata dalla rugiada del mattino. La camicia rossa in mano, il torace nudo che si lasciava accarezzare dai primi deboli raggi del giorno, gli unici forse che non lo ferivano con la potenza e l’intensità che avrebbero acquisito solo dopo poche ore.
Gli piaceva stare nella luce, quel senso di calore lo completava e lo nutriva, lo curava e lo guariva da quel freddo dentro, da quella foschia umida e densa che avvolgeva ogni mattino del suo cuore.
La pelle liscia aveva toni variabili in base alla zona, anche se ormai una marea lattea aveva inghiottito quasi del tutto il bel colore ambrato di pochi anni prima, delle sue origini che svanivano sempre più.
Una mano grande e nodosa percorreva lunghi tratti giungendo a tale amara constatazione in una carezza angosciata, alla ricerca dell’ennesimo inaspettato mutamento, dell’ennesimo difetto, dell’ennesimo dispetto di quel destino fortunato e crudele di cui subiva l’aura ogni giorno.

Questa è una di quelle giornate in cui non uscirei nemmeno dalla mia stanza. È tutto un caos, la mia vita, il lavoro, la mia testa. A fine mese inizia il tour e sembra non essere pronto nulla, oggi ennesima giornata estenuante di prove, fra un’ora parto per Los Angeles. Se Elliot non si riprende entro una settimana dovrò assumere una nuova assistente. Sempre tutto insieme, sempre tutto nel momento meno opportuno, come se non avessi abbastanza problemi. Sono un fantasma. Sto diventando un fantasma. Stasera devo andare da lei, glielo chiederò. Ho il cuore in gola al solo pensiero, ma lo devo fare, ormai ho deciso. Questa è la mia occasione di essere felice, di non essere più solo, non posso lasciarla sfuggire.
Ma senti quell’elefante di Nat che diavolo di casino sta facendo! Io…non ho parole!

***

Le ore passavano lente mentre il vento aveva spazzato via tutte le nubi rendendo quella macchia azzurra fra una foglia e l’altra ancora più nitida e luminosa. L’aria secca solcava le superfici esterne ed interne dell’immensa abitazione e faceva venire sete, se vi si rimaneva a lungo esposti.
Dopo aver aiutato sua madre a sistemare gli interni ora si trovava in giardino per prendere una rapida quanto salubre boccata d’aria dopo l’intenso lavoro della mattinata, trascorsa ad aspettare la pausa pranzo con impazienza. Non conosceva nemmeno lei il motivo di tanta irrequietezza, solitamente era responsabile e ligia, lavorava senza sosta senza mai pensare ad altro fino alla fine del turno, ma quel giorno tutto era strano, uno strano tarlo nel cervello rendeva tutto motivo di un’impalpabile quanto fastidiosa preoccupazione.
Camminava nel parco e annusava i profumi che arrivavano insieme al vento, apprezzava i colori come se non li avesse mai visti, memore di quella conversazione con Michael della notte appena trascorsa.
Già, Michael. Anche se non riusciva a definirlo con precisione sapeva che quel senso di inquietudine era dovuto a lui, che in quel momento si trovava a chissà quante miglia da lì, che provava le sue canzoni e le coreografie per quello che sarebbe stato il suo secondo tour da solista, ormai imminente. Sarebbero rimasti lontani per chissà quanti mesi, con fusi orari completamente opposti visto che sarebbe stato in Europa, persone diverse avrebbero intersecato i loro percorsi e non ci sarebbero più stati i loro momenti, quelli che li portavano via da tutto il resto, quelli che la facevano sentire viva. Forse era per questo, forse si. –ma che razza di pensieri da rammollita sto facendo?!- chiuse gli occhi e si mise ad ascoltare la danza delle foglie finché, giunta in prossimità delle finestre delle camere, non si trovò a scrutare in direzione di quell’apertura al secondo piano, un po’ più piccola delle altre, un po’ più nascosta. La finestra della camera di Michael.
Rendendosi conto di quanto quel gesto ordinario quanto irrazionale le venne da ridere al pensiero di lui, Aveva scelto di non pensarci troppo per il momento comunque, in attesa di una soluzione divina che ponesse fine all’angoscia che l’attanagliava al solo pensiero, ogni volta. –ma che mi sta succedendo? Io starò benissimo, ho le mie cose, i miei amici, il mio mondo..


-mi regali qualche biglietto? Ti prego..
-non se ne parla! Sei troppo piccola per venire in mezzo a quella bolgia infernale!
-starai scherzando vero?! Dimmi che non l’hai detto sul serio, dimmi che non sei davvero così jurassico!
-non scherzo affatto, tu non hai la minima idea di quello che succede lì dentro. L’aria irrespirabile, la gente ammassata, il caldo..è proprio fuori discussione che tu venga!
-allora fammi venire nella zona vip, dove si siedono le persone importanti, dopotutto io sono importantissima, se non ci fossi sai che noia!?! No anzi: verrò dietro alle quinte e mi godrò il concerto dal palco eh? Che dici? Così magari do una mano, non so i tecnici, il trucco, che ne so..ci sarà bisogno di due mani in più no?!
Aveva guardato in aria scuotendo la testa, quella ragazza era veramente un bussolotto di dinamite pronto a detonare in ogni momento, con la caratteristica di autorigenerarsi, quindi una volta esplosa con le sue mille idee pazze e senza capo né coda era pronta a farlo di nuovo e ancora e ancora, fino allo stremo delle forze del suo malcapitato interlocutore, che in questo caso era lui.
-Natalia! Non infastidire il Sig. Jackson con le tue chiacchiere! Mi scusi Signore, mia figlia non sa tenere a freno la lingua, la perdoni..
Una donna sulla cinquantina abbondante si era affacciata alla finestra attirata dal vociare nell’atrio. Era la sua governante, una delle persone più fidate di tutto lo staff, professionale ed onesta, non aveva mai chiesto nulla al suo datore di lavoro, nemmeno un giorno di permesso oltre a quelli previsti dal contratto. Aveva lavorato ad Encino prima di seguirlo a Neverland, e nutriva per lei un certo affetto, era diversa dagli altri. Era confortevole, emanava il calore delle mamme.
-no Miranda, non scusarti, è un po’ dispettosa, ma.. devo dire che è davvero divertente averla intorno...

Con il tono gentile di sempre l’aveva rassicurata, elargendo un sorriso sincero e leggermente divertito anche per la sua espressione apprensiva, che tamburellava fra gli occhi del padrone e quelli della figlia, in cerca di un rimprovero che non era arrivato.
Voltandosi per continuare la sua passeggiata le aveva riservato uno sguardo di intesa molto eloquente, poi nel passarle accanto l’aveva sfiorata con un delicato tocco della mano sulla guancia, e le aveva bisbigliato all’orecchio -adesso mi devi un favore, ragazzina- per poi eclissarsi dietro al suo albero preferito con il sorriso della vittoria sul viso.
Il ricordo affiorato dai meandri di quella mente troppo sovraccarica per quel giorno l’aveva tenuta imbambolata -per non dire prigioniera- un lasso di tempo troppo lungo, seduta su una di quelle panchine di bronzo di fronte alla grande fontana. Il sole non brillava più dietro alle fronde, piuttosto formava un disegno astratto sulla linea dell’orizzonte, come se vi fosse stato incollato con una pressa, e poi immortalato nel suo ultimo meraviglioso sussulto di luce, prima di andare a scomparire dietro alle colline.
***

-allora signorina, la cena è stata di suo gradimento?
-si, passabile diciamo..
-passabile?!? Mioddio ho creato un mostro!!
Rise alla battuta di lui e bagnò di nuovo le labbra in quel calice di cristallo che, nonostante tutto, sembrava opaco di fronte al bagliore dei suoi occhi. Si sentiva osservata, scrutata, studiata, e la cosa non le dava alcun dispiacere, visto che indossava uno degli ultimi abiti di Valentino, non di alta moda ma comunque un bel prÊt-à-porter rosso fuoco, dall’ampio spacco sulla coscia e di un tessuto morbido come il cachemire ma leggero come la seta che sarà valsa quanto un’automobile, e nemmeno fra le più comuni forse. Orecchini brillanti si intravedevano attraverso la folta chioma mossa e fluente, labbra rosse come ciliegie appena colte, decolletè abbinate, chanel n°5. Era perfetta e amava mostrarsi agli altri nella sua mise più sgargiante, ma soprattutto, amava mostrarsi a lui.
-che ne dici di fare due passi? Potremmo andare da me, sai, hanno appena finito il laghetto dei cigni, manca solo una piccola cascata e poi sarà finito..- pensava che così sarebbe stato più facile, il buio, il chiaro di luna, così avrebbe potuto dirle quello che ormai sentiva da tempo, protetto dall’oscurità e da qualsiasi disturbo esterno.
-si, non mi dispiacerebbe, anche se- si avvicinò lentamente al suo orecchio abbassando notevolmente la voce in un tono più suadente che gli procurò come prevedeva un intenso brivido lungo la schiena –non sarebbe male nemmeno andare da me e saltare tutta la parte dei convenevoli, le passeggiate e quant’altro. Michael, ho voglia di te stasera..
Quello che lei aveva definito “convenevole” per lui era un punto focale dell’incontro, una parte essenziale ed insostituibile, la parte dell’attesa, in cui cresce la tensione, la parte in cui si rimane sospesi su uno spicchio di luna nell’inconsapevolezza e nella paura mista ad eccitazione, la miccia che garantiva la riuscita dell’esplosione perfetta. Arrossì violentemente dinnanzi a tale palesata impazienza, ma la reazione che questo suscitò in lui fu del tutto inaspettata perchè la sferzata di desiderio che quelle poche parole gli avevano iniettato nelle vene si irradiò con velocità allarmante ad ogni fibra del suo corpo, fino ad esplodere nel cervello. Mentre ascoltava il liquefarsi di ogni fibra di materia grigia la prese per mano, la fece alzare delicatamente dalla sedia di fronte a lui e la avvicinò alla sua bocca. Si sfiorarono appena e gli parve di morire come dopo essere stati morsi da un serpente che non lascia tregua, e per il cui veleno non esiste antidoto. La violenta vampata di calore che lo aveva sorpreso alle guance dopo la dichiarazione tanto, troppo esplicita di Brooke, ora lasciava spazio ad una forza innata che gli partiva da dentro e che lo spingeva in territori ignoti, dove forse non si era mai spinto con l’immaginazione.
-allora andiamo.
Le sussurrò all’orecchio piano, nello stesso sensualissimo modo usato da lei poco prima. Senza guardarla negli occhi si voltò e tenendola per mano si incamminò allontanandosi dalla terrazza del “the palm” a West Hollywood, con una fretta innaturale per Michael Jackson, guidato soltanto da un istinto irrazionale e selvaggio che stentava a riconoscere lui stesso.
***

Minuti, ore, non sapeva esattamente quanto tempo era passato da quando si era seduta lì quello stesso pomeriggio in preda all’agitazione. Ora riusciva a distinguere il paesaggio circostante solo a tratti, aiutata dal debole luccichio dei lumini ai lati del vialetto. La casa era un’ombra oscura che si innalzava quasi minacciosa nell’oscurità, con i mille occhi giallognoli delle tante finestre con le luci accese.
Si alzò dalla panca massaggiandosi la schiena dai muscoli leggermente atrofizzati, si stiracchiò e prese il cammino del ritorno, quando, sollevando di poco lo sguardo, lo vide affacciato alla piccola finestra, circondato dalla luce della tenue lampada che teneva di solito sul davanzale, utile in tutti quei momenti in cui non riusciva a dormire e voleva perdersi nei sogni ad occhi aperti.
Il cuore iniziò a tamburellarle nel petto per motivi che le risultavano ignoti, ed istantaneamente sollevò un braccio per salutarlo, convinta di essere vista nel buio. Ma dopo alcuni istanti si dovette rendere conto che Michael non poteva vederla, oppure, ancora peggio, l’aveva vista ma aveva deliberatamente deciso di ignorarla, troppo stanco forse per sostenere la sua solita esuberanza. Era rientrato in camera chiudendo la tenda in velluto blu.
Percorse il vialetto quasi di corsa, il freddo della sera e l’inquietudine l’avevano costretta a considerare i pericoli di quel luogo che di giorno le era parso tanto ameno, -un animale potrebbe uscire dalle gabbie dello zoo, oppure un intruso malintenzionato potrebbe aggirarsi nella proprietà- così, a cavallo fra realtà ed irrazionalità, si ritrovò nello spiazzo della grande fontana, ormai fuori pericolo e considerevolmente più vicina alla casa. Persa nei suoi pensieri si diresse all’ingresso laterale con passo veloce, quando, all’improvviso, avvertì la pressione di una mano posarsi sulla spalla facendola trasalire di colpo, ormai certa che le paure di prima si fossero avverate tutte insieme.
Un urlo acuto e stridulo fece capolino da quelle labbra che erano rimaste serrate per quasi tutto il giorno.
-ehi! sono io, che ti prende?
-ma..ma sei SCEMO?!?! Per poco non mi viene un colpo apoplettico!
-scusami io non pensavo che..insomma non pensavo di spaventarti, ti ho vista dalla finestra e sono sceso a salutarti..
Cercava di trattenere la risata cristallina che dopo meno di un secondo gli scivolò dalle labbra, facendola arrossire dalla rabbia per l’affronto subito.
-ma che ti ridi voglio sapere! Vorrei vedere te se uno ti arriva alle spalle mentre stai pensando agli affari tuoi!
-ah si? E a che pensavi?!
Glielo chiese parlando a fatica, la voce strozzata dalle risate incalzanti, non riusciva a trattenersi, era troppo buffa quando si arrabbiava.
-agli affari miei, appunto!
Paonazza in volto, non era riuscita a mascherare lo spavento e si era fatta cogliere impreparata da lui che magari aveva anche capito a cosa stava pensando. Il solo pensiero le mise i brividi e decise per una prudente ma efficace ritirata, cambiando argomento.
-bè allora come stai? Come è andata oggi?
Si ravviò i capelli dietro alle orecchie cercando di apparire quanto più disinvolta possibile, anche se le chiazze rosse permanevano impietose alla base delle guance, irradiando il fuoco anche alle orecchie che ebbe la non accortezza di scoprire.
-bene, abbastanza bene, è stata una giornata faticosa ma.. è finita. E tu? Che hai fatto?
-ho aiutato mia madre al lavoro, sai c’erano molte cose da sistemare per il ricevimento di dopodomani..
-il ricevimento di dopodomani?! Quale ricevim.. ommioddio! Ommioddio! Non è QUEL ricevimento vero?!? non mi sono dimenticato della giornata di Joe, vero?!
La fissava con gli occhi sgranati mentre un rivolo di sudore scendeva lungo la basetta appena davanti all’orecchio. Non poteva crederci. Con tutto quello che aveva da fare si era dimenticato che da lì a 48 ore scarse il ranch si sarebbe riempito di gente. Ma nemmeno così tanto, in fondo, era stato più colmo altre volte, per esempio al matrimonio di Liz, ma in quel caso era diverso. Si sarebbe riempito della sua famiglia. E non era una cosa facile quella. Impallidì.
-Michael, che succede?! Sei bianco come un cadavere..
-no è che io- si sedette su uno degli scalini in pietra bianca e si fasciò la testa con le mani chiuse a coppa –io me ne ero dimenticato.
-e allora, che problema c’è? Te l’ho appena ricordato con ben due giorni di anticipo, che vuoi di più?
Gli sorrise. La guardò. Era così semplice e spontanea in ogni sua sfumatura, così meravigliosamente rassicurante per questo.
-Nat, io dopodomani ho un impegno improrogabile, ecco qual è il problema. E non posso rimandare con la mia famiglia, perché la giornata di Joe viene solo una volta all’anno, la prenderanno male, diranno che mi faccio negare, che mi atteggio da super star e..
-allora dovrai rimandare l’impegno
Glielo disse piano, cercando di addolcire la pillola con un tono pacato e sedendosi accanto a lui sullo scalino.
-non posso!
Si contorceva le dita facendole arrossare per l’agitazione, era in un vicolo cieco e non sapeva come uscirne. La voce sembrava un lamento.
-si può sapere che devi fare di così IMPROROGABILE?!
-devo..anzi..voglio. cioè, ho deciso di chiedere a Brooke di sposarmi, visto che stasera non ci sono riuscito.
Lo disse tutto d’un fiato, con lo sguardo incollato a terra, come se avesse confessato un peccato capitale al boia. Si sentiva in colpa perché non gliel’aveva ancora detto, e loro due non avevano segreti. La loro amicizia era nata così, spontaneamente, non c’era bisogno di girare intorno alle cose con Natalie, non c’era bisogno di esitazioni, non c’era vergogna, non c’era mistero. Era così da quando era arrivata ad Encino nell’83, ancora bambina, con la signora Miranda. Lui aveva 25 anni, lei soltanto 9, ma era stata una scintilla potentissima a colpirli. Aveva guardato il mondo reale attraverso quegli occhi di bambina che gli raccontavano cosa vedeva fuori dai cancelli, com’era andare a scuola, cosa facevano i bambini al parco, com’era fare la spesa. E trovavano il tempo di correre sulla collina, di salire sul carosello, di rincorrersi e di saltare sulle molle, abbattendo le barriere e le distanze numeriche delle loro età anagrafiche. Ogni volta che partiva sapeva che al ritorno ci sarebbe stata lei, un po’ più grande, ad aspettarlo e a raccontargli di tutto quello che si era perso. Ma non le aveva più detto molto di sé da quando stava con Brooke. Sentiva che qualcosa non andava e la conferma era arrivata proprio l’altra sera, quando gli fu chiaro che era impossibile presenziare tutti e tre ad una stessa festa. Forse era per questo che aveva deciso di andarsene, non riusciva a reggere tutta quella pressione. Ma si sentiva in colpa ora, e il modo in cui lei lo stava guardando non migliorava certo le cose.
-non mi sopporta eh?
Glielo chiese ma non era una domanda. La disarmante retorica di chi ci conosce profondamente incalza sempre nei momenti peggiori. Lo sguardo disteso, le labbra rosa sembravano sorridergli mentre abbatteva ogni sua certezza, mentre lo spiazzava per l’ennesima volta. Comprensione. Una cosa che non avrebbe mai immaginato accanto alla naturale irruenza di quella ragazza.
-non è questo Nat, è che siete diverse, forse troppo. Non pensare che sia solo colpa tua, è che.. non si piò andare d’accordo con tutti!
Cercò in tutti i modi di essere convincente, mantenendo lo sguardo saldo su di lei, che ormai aveva compreso ogni cosa.
-perché non gliel’hai chiesto stasera?
-io.. non lo so.
-siete finiti a letto e la cosa ha perso la vena romantica che piace a te, vero?
-Natalie!
-che c’è?
-certe cose sono private! Che domande fai?!
-non ti ho chiesto i particolari, ti ho chiesto se le cose sono andate così.
Non riuscì a non sorridere guardandolo arrossire a dismisura per quella domanda diretta. Se lo era immaginato più volte, non doveva essere imbranato in certe cose, ma non riusciva a parlarne. Lo vide abbassare lo sguardo, totalmente perso nel vuoto del suo imbarazzo. Lo trovò irresistibile mentre scuoteva il capo cercando qualcosa da dire e non si trattenne dal passare il dorso della sua mano su quella guancia liscia e chiara, come quella di una bambola di porcellana.
-quante cose mi sono persa Mike? Quante?
Per un momento credette di non riuscire a sostenere quegli occhi nei suoi, ugualmente intensi. Per una volta quello sguardo tanto amato dalle folle, che lui stesso aveva deciso di inserire a fronte del suo nuovo album, veniva ricambiato di un’energia uguale ed opposta.
-Natalie, io non voglio che ora..
-no, non dire niente. Andiamo a vedere le stelle?
Questa volta si rifiutò di cercare uno sprazzo di logica in quella conversazione fatta di nulla e di tutto. Si limitò a prenderla per mano conducendola verso l’altura che portava il nome di sua madre, Katherine Mountain, a vedere le stelle –il resto domani- pensò, sentendosi leggero come non mai.
***



1983
-mi fornisca il passaporto, prego
-eccolo
-nome e cognome, prego
-Miranda Josephina Goméz
-provenienza
-San Juan, señor, Puerto Rico
-è qui in vacanza?
-no señor, per lavorare
-il permesso di soggiorno, prego
-eccolo
-le bambine come si chiamano
-Paula Esther Goméz e Natalia Goméz
-ha i certificati di nascita?
-no señor, sono trovatelle, ho solo questo documento, non mi hanno ancora rilasciato il certif..
-signora Goméz, i documenti sono a posto. Il visto scade tra tre mesi, si ricordi di rispettare i tempi. Faccia completare la documentazione per le bambine e si ricordi che nel nostro paese le leggi sull’immigrazione sono così come le trova scritte, non si fanno sconti. Buona permanenza e benvenuta negli Stati Uniti d’America.


28/12/2010 21:29
 
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CAPITOLO TERZO


1992

[IMG]http://i53.tinypic.com/5nrjol.jpg[/IMG]


One dream one soul one prize one goal
One golden glance of what should be
One shaft of light that shows the way
No mortal man can win this day
The bell that rings inside your mind
Is challenging the doors of time
It’s a kind of magic.
By roger taylor.


-sai cosa ti dico?
Camminava davanti a lui percorrendo quella salita con passo svelto, senza voltarsi e senza difficoltà ad orientarsi nel buio. Quella ormai era la sua casa più di qualunque altro luogo.
-cosa mi dici?
Mantenne il tono di sfida con il quale gli si era parata davanti con la solita domanda estemporanea.
-che chi arriva ultimo alla quercia è un tacchino!
Nat aveva pronunciato quella frase già correndo, sperando di avere un bel po’ di vantaggio sullo scatto felino di Michael, che, sapeva bene, non perdonava.
Ma lui aveva intuito tutto solo dal tono, e si era messo a correre dietro di lei molto prima di quanto immaginasse. Corse allo sfinimento ma non poté evitare il suo sguardo beffardo mentre la superava in quella corsa verso il cielo stellato, senza freni e senza motivo.
-così non vale!
Fu l’urlo di lui mentre avvertiva un peso aggiungersi repentino alla sua schiena, arrampicarsi e stringersi fortissimo fino a raggiungere le spalle, mentre due gambe gli stringevano i fianchi da dietro, in una morsa che non aveva alcuna intenzione di allentarsi. La allacciò a sé affrancando con le mani le ginocchia ai fianchi e, munito della nuova zavorra, prese a correre ancora più veloce verso la grande quercia, all’estremo apice della collina.
-yuhuuuuuuuuuuuuuuuuuuuu
Natalie urlava a squarciagola, mentre una corda immaginaria sventolava sopra alle loro teste, accessorio di un’improbabile cow boy dall’aria insolitamente felice.
Risero, caddero a terra e risero ancora.
Era così semplice ora, era tutto così dannatamente semplice.
***
Il panorama dalla finestra della camera da letto era più bello che mai.
Le colline sotto di loro sfoggiavano miliardi di perle di luce che, vestite di tremante intermittenza, rendevano la città sottostante molto più affascinante e romantica, impreziosita da quell’oscurità surreale e magica il cui mistero iniziava a svanire ad est, quando le prime luci del giorno si posavano a delineare timidamente la celebre scritta.
Nessun rumore, solo quello della porta della stanza adiacente che si era aperta offrendogli un disegno se possibile ancora più meraviglioso di quello concesso dalla trasparenza della finestra a pochi centimetri.
Lei, avvolta da una vestaglia in pura seta nera, appoggiata allo stipite della porta del bagno lo scrutava con espressione indecifrabile ed una luce nello sguardo in grado di sciogliere l’ inibizione in un soffio. Aveva fatto un paio di passi verso di lui mentre la mano slacciava lentamente quel nastro che teneva uniti i due lembi di tessuto.
La guardava preda di un imbarazzatissimo istinto animale che tratteneva appena, desideroso soltanto che fosse lei a decidere i modi ed i tempi di ogni cosa.
-che ne pensi
Era stata la retorica spiccia di Brooke, che avvicinandosi aveva disteso i palmi sulla camicia scura che lui indossava, percorrendo sentieri immaginari fra il collo e l’addome.
Poi aveva sganciato da ogni asola i bottoni mentre lui, non riuscendo più a controllare il desiderio selvaggio, le aveva fatto scivolare dalle braccia la vestaglia, lasciandola completamente ed irreparabilmente nuda davanti ai suoi occhi.
Sussurrando parole irripetibili vicino al lobo che si era impegnata ad inumidire poco prima, si era inginocchiata sul suo bacino mettendo in seria difficoltà il suo equilibrio, fisico e mentale, mentre una canzone di Sinatra si insinuava attraverso le pareti, proveniente da quel mondo privo di colore appena fuori di lì.
Prigioniero di un limbo assordante e privo di vie di uscita, combatteva con il contrasto delle emozioni brucianti che quelle labbra gli stavano regalando con spietata cadenza. La mente in completa balia di quel fiume in piena alternava momenti di lucidità, in cui si assillava con domande di ogni tipo, a momenti di totale annegamento, avvolta da una nebbia di piacere troppo intensa, ma che tuttavia non era sufficiente a far cessare quella domanda, quella frase che ormai nasceva spontanea e senza permesso, ad ogni ora del giorno e della notte –dove ci porterà tutto questo-
No, non era il sesso, quello non era più un mistero per lui. Erano passati alcuni anni da quella notte del’89, quando aveva deciso di liberarsi dalle catene dei principi morali e di uscire dalle salde barricate che si era creato lui stesso; troppo pochi forse rispetto alla media maschile, ma non gli importava, ora che viveva prigioniero di quel ricordo dolce e amaro che bussava ogni tanto nelle serate d’estate, quando si fermava ad osservare la ruota panoramica nel ranch incapace di raggiungere fisicamente quella del luna park di Santa Monica.
Ora che il tempo aveva tamponato lacrime e sangue con Brooke era diverso.
Il sentimento che lo univa a lei non aveva più nulla a che vedere con quel senso di completezza assoluta, con quella forza sovrannaturale che lo aveva reso pazzo, con quella virulenza totalizzante che gli era entrata nelle fibre e che ancora oggi lo scuoteva.
No, non si sarebbe mai più lasciato trasportare con la stessa accondiscendenza dal fiume in piena, non avrebbe più permesso a se stesso una simile resa di fronte a quel calore che si era trasformato in ghiaccio istantaneamente ed aveva paralizzato il suo cuore, ora grande e vuoto, come una conchiglia abbandonata sul bagnasciuga, il cui abitante è finito chissà dove.
Il suo oggi era terrore. Terrore della solitudine.
E desiderio. Desiderio fulminante.
L’aveva presa con forza su quel copriletto di seta viola chiaro che non erano nemmeno riusciti a sollevare, ancora vestito per metà, in un impeto di frustrata voluttà, mentre la città continuava a vivere sotto ai loro piedi, al di fuori di quella stanza, ignara di aver perso di importanza, sovrastata dai loro gemiti.
Respiri strozzati nel petto e parole graffianti erano la cornice di quel ritmo che sincopato li trascinava fino in fondo, fino all’apice del piacere, fino a quando, insieme al fluire della tensione fuori di sé aveva avvertito ancora quella voce, ultimo sussulto della lucidità, che di lì a poco si era sciolta nel vapore dei loro respiri.
Dove ci porterà tutto questo.
***
Ora, era tutto diverso.
Come due colori sulla tavolozza vicini ma distanti, troppo diversi per unirsi in qualcosa di omogeneo ma ugualmente indispensabili al dipinto, c’erano due Michael, uguali ed opposti, in grado di vivere le emozioni in un modo assurdamente discontinuo.
Il dualismo si faceva a tratti talmente evidente da essere insopportabile proprio quella stessa notte, che nel giro di poche ore aveva del tutto smarrito i toni accesi della lussuria e del piacere intenso, colorandosi ora di blu, di mistero negli occhi di Natalie, di necessità della sua compagnia, così visceralmente indispensabile per l’unica cosa che desiderava veramente: non pensare.
Due colori così belli e preziosi. Due colori che non si sarebbero mai potuti fondere. Lui lo sapeva.
La guardò mentre si accomodava accanto a lui, appoggiando la testa sul suo addome per ammirare meglio lo spettacolo del cielo che sembrava così vicino. Lo aveva sempre utilizzato come cuscino, in tutti quei momenti che erano diventati rari, da un po’ di tempo. Ora sembrava completamente immersa nel suo elemento, in un mondo di silenzio, in cui le dita univano le stelle formando disegni immaginari che prendevano vita all’arrivo del vento, e raccontavano storie, e cantavano canzoni.
-Mike guarda! Ho trovato la stella più brillante dell’universo!
Sollevò lo sguardo dalle sue mani all’immensa oscurità vestita di lucciole che li sovrastava non potendo fare a meno di sorridere dinnanzi a quell’ingenuità che compariva inaspettata, in contrasto con le altre mille caratteristiche, che ora la faceva assomigliare davvero a qualcosa di piccolo e indifeso, una bambina.
-bè..non è esattamente la più brillante, ma di sicuro sarà fra le dieci stelle più brillanti della nostra galassia..
-ah si?! E tu che ne sai? Solo perché l’ho trovata io non è la più brillante?
Tu hai già la luna, lasciami le stelle no?
Non riuscì a risponderle, avvolto da un’intensa sensazione di tenerezza verso quegli occhi inviperiti che lo scrutavano dal basso. Ogni tanto, ne era convinto, era forse l’amica migliore che avesse mai avuto.
-Lo so perché quella è Vega, la quinta stella del cielo per grandezza
-Davvero?
Gli occhi di Natalie si erano ingranditi, se questo era possibile, dallo stupore.
-Si, fa parte della Lira, una costellazione abbastanza piccola ma molto appariscente, proprio grazie alla grandezza di Vega. Guarda-
Si alzò dal terreno mettendosi seduto, indicando il cielo ed unendo i puntini con le dita, come aveva fatto lei a casaccio poco prima. Anche Natalie fu costretta a sedersi dandogli le spalle, anzi appoggiandosi completamente a lui, totalmente rapita da quelle labbra che conoscevano le stelle. Avvicinandosi al suo orecchio la sua voce divenne un sussurro in grado di addomesticare la più feroce delle fiere ed iniziò il racconto che non era stato richiesto verbalmente, ma che sapeva, lei stava aspettando con paziente desiderio.
-Fu la prima lira ad essere costruita, ideata da Ermes, figlio di Zeus e di Maia, una delle Pleiadi, che inventò anche il plettro con cui suonarla.
Grazie a quella lira Ermes si tirò fuori dal guaio in cui s'era cacciato da ragazzo, quando aveva deliberatamente sottratto del bestiame di proprietà di Apollo. Infuriato Apollo si era presentato a reclamare la sua restituzione, ma quando sentì la bella musica che proveniva dalla lira lasciò che Ermes si tenesse le bestie e in cambio si prese la lira. Apollo diede poi la lira ad Orfeo, il più grande musicista del suo tempo, colui che era in grado di incantare le pietre ed i corsi d'acqua con la magia che emanava dai suoi canti, per accompagnare con essa le sue canzoni. Con il suono armonioso della sua lira Orfeo, unitosi alla spedizione di Giasone e degli Argonauti alla ricerca del vello d'oro, aveva perfino coperto le voci tentatrici delle sirene, ninfe marine che avevano adescato ed eliminato diverse generazioni di marinai. Così in molte altre imprese il magico suono della lira aveva accompagnato la vita di Orfeo portandogli buoni auspici e guidandolo come un prezioso talismano, e nel contempo allietando cuore e mente con le sue note irriproducibili, fino al giorno in cui sposò la ninfa Euridice.
L’amore che li univa non si può raccontare, lo profaneremmo. Possiamo solo dire che è impossibile immaginarlo.
Orfeo non viveva senza lei ed Euridice non viveva senza lui, si nutrivano soltanto dell’aria, poiché in essa era contenuto tutto ciò di cui il cuore innamorato necessita: Amore. Ma la bellezza di Euridice era il desiderio anche di altri, così Aristeo, un figlio di Apollo, un giorno in preda ad un raptus di passione l'assalì, e mentre tentava di sfuggirgli la donna inciampò in un serpente che la uccise all’istante con il suo morso velenoso.
Ad Orfeo si spezzò il cuore. Pazzo di dolore ed incapace di vivere senza la sua giovane sposa discese nell'oltretomba a chiedere che gliela restituissero. Questa era una richiesta senza precedenti. Ma il suono della sua musica affascinò persino Ade, il dio di quel mondo sotterraneo, che alla fine consentì che Euridice ritornasse con Orfeo nel mondo dei vivi, ad una condizione: Orfeo non doveva girarsi a guardare indietro fin quando i due non fossero di nuovo sani e salvi all'aperto.
Orfeo accettò prontamente e fece strada ad Euridice lungo l'oscuro passaggio che portava al mondo soprastante, strimpellando la lira per guidarla. Ma quella di essere seguito da un fantasma era per lui una sensazione snervante che nemmeno la sua lira fu in grado di acquietare. Non poteva essere perfettamente sicuro che la sua amata fosse dietro a lui, ma non osava voltarsi per accertarsene. Alla fine, quando erano quasi in superficie, i suoi nervi cedettero. Si girò per assicurarsi che Euridice fosse lì, e proprio in quell'istante lei scivolò nelle profondità del Regno dell'Oltretomba, perduta per sempre. Orfeo fu inconsolabile. Vagò per la campagna suonando musiche malinconiche sulla sua lira. Molte donne si offrirono di sposarlo, ma lui rimase per sempre solo, evocando il ricordo di Euridice con il dolce lamento del suo canto.
-e poi?
-e poi cosa?
-come va a finire?
Glielo chiese con impazienza, ma senza staccare gli occhi dal cielo, che si era trasformato in un teatro vero e proprio, in cui avevano preso forma le voci e le persone, in cui poteva vedere il racconto di Michael diventare realtà.
La sua guancia era ormai completamente adesa a quella fresca di lei che, totalmente sopraffatta dalla curiosità, non si era accorta di nulla in quella posizione con il naso all’insù. Un brivido lungo la schiena lo attraversò senza che potesse anche soltanto interrogarsi sul perché, mentre una forza strana non gli consentì di muovere un solo muscolo.
-ma è finita!
-non è possibile, non hai detto come ci va a finire la lira lassù, fra le stelle
-ah si, è vero. Non si sa molto su come morì Orfeo, si pensa che avesse provocato le ire del dio Dioniso per non averlo onorato abbastanza. Orfeo infatti reputava Apollo, dio del Sole, la divinità massima e se ne stava spesso seduto sulla sommità del Monte Pangeo in attesa dell'alba per essere il primo a salutare il Sole con le sue melodie. Per ripagarlo di quest'affronto, Dioniso mandò i maniaci suoi seguaci ad ucciderlo. Comunque siano andate le cose, alla fine Orfeo raggiunse la sua adorata Euridice nel Mondo dell'Oltretomba e le Muse posero la lira fra le stelle con l'approvazione di Zeus, loro padre.
-così alla fine hanno potuto stare insieme
-già, alla fine
-anche se lui è stato scemo forte eh!
-ma..Nat, come scemo, è mitologia, non..
-ho capito ma se il signor Ade gli aveva detto di non girarsi lui perché l’ha fatto? Perché non siamo mai contenti di quello che abbiamo, perché non vogliamo mai aspettare, vogliamo tutto e subito, e quando la felicità arriva davvero..Bam! non ce ne accorgiamo, la lasciamo ripartire senza averne presa un po’, totalmente incapaci di viverla.
La guardò intensamente in quegli occhi neri come la pece. Il cuore era andato a battere chissà dove mentre aveva udito le sue parole, mentre si era sentito nudo di fronte alla verità uscita da una bocca troppo giovane per conoscerla così. Ma era evidentemente soltanto una sua errata considerazione a questo punto.
Si allungò di poco per afferrarle quel polso sottile e tirarla a sé, non sapeva assolutamente perché ma doveva farlo, era qualcosa di più forte della volontà, della logica e perfino del buon senso, doveva farlo. E lo fece.
Pur essendo girata di spalle lo avvertiva su di sé come un velo leggero, ma presente, palpabile. Non conosceva il motivo di quello sguardo, non sapeva nulla al di fuori di quello che lui voleva concederle con le parole, intuiva. Intuiva e basta, solo vedendolo da lontano, solo dal modo in cui camminava o si voltava quando qualcuno lo chiamava, intuiva la sua stanchezza alla sera, la sua reticenza a parlare, la sua voglia di averla vicino, la sua rabbia, la sua esuberanza, il suo dolore. Non avrebbe mai udito certi pensieri esplicitarsi in parole. Si sarebbe sempre e solo accontentata di udirli sussurrati dalla sua stessa voce interiore, che tutto capiva, ed alla quale poco sfuggiva.
Una lieve tensione al polso, la sua mano la fece voltare verso di sé, lentamente. Non ebbe il coraggio di affrontarlo guardandolo negli occhi come sempre, ma non oppose alcuna resistenza lasciando che dirigesse quel movimento senza un senso.
Non voleva incrociare il suo sguardo, lo avrebbe spogliato definitivamente di quel briciolo di coraggio che gli era rimasto, e che ancora gli serviva per allacciare le mani dietro alla sua schiena ed affondare il viso fra i suoi capelli.
-stringimi
Glielo disse ma a lei parve di aver sognato. Forse per un attimo smise anche di respirare, ma gli concesse quello che desiderava, anche se non lo aveva mai chiesto così intensamente, così disperatamente, così intimamente. Era sempre stata per lui una compagna di giochi, di battute, di guerre con i palloncini d’acqua, di battibecchi e scorpacciate, di ricordi e discorsi che non si potevano annoverare esattamente nella categoria “serietà”. Non era mai capitato questo.
Preferiva farlo ridere o arrabbiare, a seconda dei casi, era così che amava stargli accanto, spesso per pochissimi minuti al giorno, più di rado per alcune ore, alcune volte per un lasso indefinito in cui perdeva completamente la concezione del tempo e dello spazio. In ogni caso i sentimenti erano troppo difficili da definire per lei, e risultavano sempre scomodi una volta palesati. Cambiavano le carte in tavola, costruivano sensi del dovere e sensi di colpa su alte palizzate che era poi troppo difficile riverniciare, una volta rovinate.
-forse sto sbagliando tutto
Un altro sussurro fra i capelli, un altro brivido.
-forse. Ma non lo saprai mai se non provi
Un alito di vento.
-stringimi ancora
Ora la testa le girava vorticosamente, ma non sapeva stabilire assolutamente cosa fosse o non fosse reale, quindi non prestò molta attenzione a quest’ultima sensazione arrivata, mentre lui aveva già aumentato quella pressione delle braccia attorno a lei con abbandono disarmante. Lo strinse ancora, passando i palmi sulla schiena coperta da una camicia bianca di seta che le lasciò una sensazione di fresca sfuggevolezza per diversi minuti. Quel profumo percepito solo a tratti ora era più intenso che mai, -non dimenticarlo, non dimenticarlo- continuava a ripetersi mentre riempiva i polmoni per afferrarne anche la più remota molecola. –non dimenticarlo, fallo durare, fissa questo momento strappato a non so chi, conservalo, imprimilo, incollalo, stampalo nella testa, perché non tornerà. Rendilo immortale dentro di te-
Poi avvertì il naso insinuarsi fra le sue folte ciocche corvine e le labbra posarsi infine sulla linea del collo. Un attimo di esitazione, poi il respiro di Michael le solleticò la pelle in un moto involontario. Farfalle volavano ora in ogni parte, dentro di lei, fuori, intorno. Le vedeva con la coda dell’occhio, poi a tutto campo, poi non le vedeva più, -tanto sto solo sognando- si ripeteva per non soccombere al silenzio che li custodiva sospesi a metà.
-NATALIA!
Una voce da lontano a squarciare l’atmosfera onirica. Si separarono intorpiditi, cercarono pieghe nei vestiti da lisciare o da scrollare dall’erba, si schiarirono la voce guardando il terreno.
-E’ mia madre, devo andare
-si…ora..
-no, tu resta qui..
-ti accompagno
-NATALIA!
-no, non e’ necessario
-ma..
-ciao testone
Un sorriso.
Si era già voltata alla ricerca delle bianche pietre piatte che formavano il sentiero del ritorno.
-quando ci vediamo?
Si era alzato in piedi a chiederlo, con un’urgenza che da subito gli era sembrata esagerata, ma che non era riuscito a contenere, tuttavia.
-mah..chi può dirlo..
-ah si?
-domani scemo. Ciao!
Un freddo familiare si impossessò dei suoi polmoni mentre la guardava andare via. Si distese sul tappeto erboso della collina che lo catapultò istantaneamente e di nuovo verso quel cielo che era stato teatro di un incontro d’anime che non aveva e non avrebbe mai previsto, così potente e sfacciato da essere divenuto clandestino, alla fine, senza alcun motivo apparente. Ed era lì quasi boccheggiante per l’emozione, spaesato ma gratificato da una sensazione che nemmeno lui era riuscito a focalizzare. Non aveva risposte per ora, e forse era questo a rendere unico quel momento appena vissuto, appena sfuggito, segreto prezioso e da dimenticare, che sarebbe rimasto per sempre custodito dalla muta e remota luce di Vega.
***


1983

[IMG]http://i53.tinypic.com/17y7p5.jpg[/IMG]

(Condado Beach, San Juan- Puerto Rico)


-Quando il cielo diventa viola è l’ora della malinconia, lo dice sempre Mama.
Non mi sembra vero, non mi sembra possibile tutto questo, ma tutto porta a pensare che mi sto sbagliando. Ancora poche ore e ce ne andremo. Ancora poche ore e tutto questo sarà soltanto un ricordo, doloroso ed opaco, poi sempre più sfocato, finchè scomparirà senza nemmeno aver ricevuto commiato.
Sono magra, ho la pelle secca e scura. Al posto di quelle che dovrebbero assomigliare a floride noci di cocco ho due datterini raggrinziti, lo so.
-sei meravigliosa così come sei
-Non bevo molta acqua. Mama dice che sono una bambina e tutti mi assegnano un’età inferiore alla mia. Nessuno sa che ti amo. Nessuno sa che si può amare anche a quattordici anni. Pensano che sia pazza quando mi strappo i capelli ed inghiottisco litri di sangue dalla lingua che mi mordo per il nervoso. Credono che sia pazza. E lo sono. Le notti in bianco si seguono fra loro tutte uguali ed hanno formato una scia così lunga che non ne ricordo più l’inizio.
-Paula, mi amor..
-non parlare
-non mi lasciare, non te ne andare
-ormai è tutto deciso. Domani mattina presto partiremo. Mama ha trovato un lavoro in America. Dice che staremo meglio, dice che lì le persone stanno bene e c’è tanto lavoro. Natalia ha solo otto anni, mama dice che vuole per noi una vita più bella. Nessuno sa che anche se non vado a scuola ho imparato a leggere. Amo la letteratura. Neruda, le sue poesie. Marquez, il premio Nobel l’anno scorso. Ho divorato tutti i libri che potevo. Luìs, non voglio lasciarti.
-non piangere, ti prego non piangere, io ti seguirò, non ti lascerò mai andare, mai
-non dire assurdità. Siamo insieme solo in quell’effimero alito di tempo che è relativo, sembra così veloce ora che siamo vicini e sarà così lento da domani, quando l’infinito ci separerà. Viviamolo tutto
-come sei saggia mio amor, anche se non capisco tutto quello che dici. Morirei felice solo ascoltando il suono della tua voce, anche non capendo nulla
-Luìs, il destino è stato crudele con noi. Ci ha fatto assaggiare questo dolce tormento per toglierlo e riprenderselo subito. Ma io voglio prenderne finchè non ci separerà con i suoi artigli. Vieni, entriamo in acqua, lasciamoci cullare, voglio essere tua per la prima volta e per sempre.
Si guardarono intensamente, poi senza aggiungere una sola parola si presero per mano, lui le baciò il palmo tenendo serrati gli occhi per alcuni secondi inspirando il suo profumo. Poi si diressero piano verso la prima onda che andava a morire sulla sabbia rosata dal sole, entrarono nell’acqua che non aveva ancora smaltito il calore dei raggi brucianti che avevano dominato il cielo per tutto il giorno, ed ora, anche ora che erano morti volevano lasciare la loro firma.
Si amarono in silenzio alla luce di quel tramonto che sembrava irripetibile per il colore viola, quello che invitava alla malinconia. Si amarono nell’acqua quei poco più che bambini, troppo piccoli per il dolore, troppo piccoli per quell’amore. Si amarono nella bruciante consapevolezza del mai e del più uniti insieme a sancire una condanna, verdetto impietoso per un fiore così bello e fragile. Si amarono registi di una passione mai sperimentata, vincitori per un attimo e vinti per sempre dal tempo che passava e lasciava solo lacrime.
Si amarono nella muta promessa di vivere per sempre felici nei meandri dei loro ricordi.


1992

[IMG]http://i54.tinypic.com/29uzo3.jpg[/IMG]

I'm falling into you
This dream could come true
And it feels so good falling into you
Falling like a leaf, falling like a star
Finding a belief, falling where you are
Catch me, don't let me drop,
Love me, don't ever stop.
So close your eyes and let me kiss you
And while you sleep I will miss you.
By Celine Dion


Quarantadue gradi, non meno. Il cielo terso, non un alito di vento, non una nuvola e nemmeno il canto di qualcuno dei numerosi Ara Giacinto, i preziosi pappagalli dalle piume blu cobalto che riposavano spossati anche loro, appoggiati ai telai delle ampie uccelliere. Vociare indistinto vicino alla casa, rumore di gioco.
Stavano per scoccare le 16:00 e non era ancora sceso, vittima di un sonno insistente e difficile da debellare. Dopo gli intensi crampi alla schiena della sera prima aveva dovuto prendere qualche sedativo, glielo aveva prescritto il medico. Intorpidito, poco lucido e già stanco ancor prima di affrontare la giornata, gli ospiti ed il mondo, si chiedeva come avrebbe fatto a sopportare tutto. Uscire da quella porta gli costava quanto scalare un monte, ma lo fece, conscio di non avere scelta.
Arrivato all’imbocco della scalinata che conduceva direttamente alla sala principale si dovette però ricredere: le cose non erano andate così male finora, rispetto allo spettacolo che gli si stava presentando davanti agli occhi.
-che succede
Il tono urgente tradiva l’impazienza di avere una risposta. Ma era troppo, risuonava stridulo ed innaturalmente concitato.
-buongiorno Mr Jackson..
-Miranda, che succede
Non l’aveva mai guardata con un’espressione così seria. Un senso di fastidio alla base dello stomaco, disagio.
-mi scusi Mr Jack..
-non scusarti e dimmi che diavolo sono queste valigie!
Gli occhi erano fuoco come le guance, e se ne stavano spalancati a fissarla con una pretenziosità che non gli era mai appartenuta. Non era solito rivolgersi in quel modo alle persone e lei aveva già sentito odore di guai.
-s-sono di mia figlia, Mr Jackson..le stavo preparando perché è in partenza, mi dispiace, non immaginavo di doverla avvertire, io..
-in partenza per dove
Sembrava non interessargli nulla del resto. Era concentrato su quei bordi marroncini che rivestivano la tela dei quattro ampi borsoni. Natalia Gomèz. Si intravedeva scritto con un pennarello nero sulla targhetta che pendeva da uno dei quattro lacci che richiudevano una delle sacche. Il sangue gli affluiva e defluiva al cervello con disarmante velocità, alternando forti giramenti di testa a pulsazioni così violente da fargli credere che gli sarebbero esplose le orecchie da un momento all’altro.
-per Harvard signore. E’ stata presa.
Per un attimo gli parve che tutti e cinque i sensi si fossero azzerati lasciandolo solo sul fondo di un pozzo profondissimo. Nemmeno il mezzo sorriso di Miranda fece in modo che il buonsenso trasformasse quell’espressione basita in qualcosa che si avvicinasse alla sincera contentezza per un’amica che ha raggiunto il suo obiettivo. Nel silenzio imbarazzato che si creò ebbe appena l’accortezza di mormorare un –mi scusi Miranda- prima di catapultarsi giù dalle scale.





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