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Michael Jackson's This is it: commenti dei vip e recensioni

Ultimo Aggiornamento: 18/06/2011 22:06
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29/10/2009 11:13
 
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Il fenomeno -
Il grande show di Jackson
con lo stile di un reality
«This Is It» in tutto il mondo, entusiasmo dei fan

MILANO — Michael Jackson balla sulle note di «Beat It», di «Billie Jean», di «Wanna Be Startin’ Somethin’», dei grandi successi di una carriera straordi­naria e — anche se la giacca è troppo grande per le spalle sma­grite e la camicia è aperta su uno torace ossuto da adolescen­te e le anche scarne sbucano dai pantaloni — per qualche at­timo esistono solo quei piedi ve­locissimi da Fred Astaire del pop, quei calzini di paillettes luccicanti sotto i riflettori. Per un momento c’è solo la musica, la musica di quando Michael Jackson era ancora il Re, il più bravo e il più ricco di tutti, la magia del successo globale, pri­ma dei cento interventi chirurgi­ci, dei debiti folli, degli scanda­li, del processo per pedofilia. Prima della morte accidentale per mano di un medico che usa­va l’anestetico da sala operato­ria come la camomilla, prima del funerale in mondovisione, del lutto su scala globale.

Un momento dello show
Un momento dello show
Non è un morto che balla il protagonista di Michael Jack­son's This is It , il film che racco­glie le prove per la serie di cin­quanta concerti londinesi che l’artista non ebbe il tempo di fa­re. E’ arrivato ieri nei cinema di tutto il mondo (600 sale soltan­to in Italia), nei quali resterà, nei progetti del distributore, sol­tanto per 15 giorni. Il tempo, se­condo le previsioni, di incassa­re nei prossimi cinque giorni, e soltanto negli Usa, 250 milioni di dollari, che lo renderebbero il massimo successo al botteghi­no di tutti i tempi — nessun al­tro film ha incassato tanto in meno di una settimana.

Che il record mondiale riesca o no — quello è un problema dei manager che avevano inve­stito decine di milioni sul tour che non è mai nato — il film di Jackson rappresenta un fenome­no mondiale e anche, in più di un senso, una novità. Perché si tratta delle registrazioni delle prove, le interviste del backsta­ge , materiale secondario che per intenderci di solito compa­re come bonus nelle confezioni di dvd doppi per amatori. Inve­ce la morte dell’artista il 25 giu­gno scorso nella villa di Holm­by Hills, Los Angeles, che affitta­va per centomila dollari al me­se, ha trasformato quel materia­le di contorno, 120 ore girate dall’abile regista Kenny Ortega (della serie High School Musi­cal ) nel piatto principale. Ecco dunque un documentario atipi­co, un reality show non sui ra­gazzi che cercano il successo ma su una vecchia star che cer­ca di ritrovarlo, girato a Los An­geles in giugno quasi esclusiva­mente sullo stesso palcosceni­co (il palazzetto Staples Center) nel quale venne poi riposta la bara dorata di Jackson al concer­to- funerale del 7 luglio. Nel quale Jackson appare in condizioni non ideali, smagri­to, ma certamente non il fanta­sma evocato dai tabloid dopo la sua morte, e questo documenta­rio non è un remake de La not­te dei morti viventi . Si vede Jack­son il perfezionista dettare i tempi alla band, a volte magari in modo un po’ ellittico: «Deve essere illuminato da un raggio di luna», «E’ come se la musica non volesse alzarsi dal letto, al­la mattina», «Mettilo a bagno­maria ». Ma spesso con una chia­rezza da grande impresario (ar­tistico, sul lato finanziario la­sciamo perdere) di sé stesso. Quando durante «Black or Whi­te » incita la giovane, intimidita chitarrista platinata Orianthi Pa­nagaris a tenere l’assolo «più a lungo, più acuto, è il tuo grande momento» e canta una nota impossibile per darle un’idea di quel che vuole, si capisce come quello sul palco — pur sfigurato dalle plastiche e magro ma non così scheletri­co da far temere per la sua vita — non è un burattino ma un artista che vuole fare bella figura al ritorno in sce­na dopo una lunga notte du­rata dieci anni.

Scene musicali a parte, nel documentario in stile «Amici» ci sono anche i collaboratori: i maghi del digitale che trascinano il cantante — in formato 3D — accanto a Rita Haywor­th e Bogart in «Smooth Criminal», due adorabili costumisti baffuti e un giovane filippino timidissimo che si dan­nano a costruire intricate ragna­tele swarowski, gli assi degli ef­fetti speciali che detonano un’apocalisse pirotecnica. E un gigantesco braccio meccanico porta Jackson in giro per l’aria sopra la platea, con il regista pre­occupato che geme: «Michael, reggiti al corrimano».

Certo, nelle prove Jackson non canta praticamente mai «in voce» (cioè utilizzando l’emissione del registro pieno, a pieno volume) e ripete spesso «devo risparmiare la voce», «de­vo salvaguardare la voce», ed è evidente nel suo tono l’insoddi­sfazione del perfezionista e l’in­certezza nei mezzi fisici. Come avrebbe cantato a Londra? Im­possibile dirlo. Il ballo? Certo Jackson cinquantenne non è più quello di vent’anni fa. Ma, in fondo, non lo siamo nean­che noi spettatori.

Matteo Persivale
29 ottobre 2009

www.corriere.it/spettacoli/09_ottobre_29/matteo_persivale_il_grande_show_di_jackson_con_lo_stile_di_un_reality_9d6adb86-c45a-11de-ae8c-00144f02aa...

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