Il fenomeno -
Il grande show di Jackson
con lo stile di un reality
«This Is It» in tutto il mondo, entusiasmo dei fan
MILANO — Michael Jackson balla sulle note di «Beat It», di «Billie Jean», di «Wanna Be Startin’ Somethin’», dei grandi successi di una carriera straordinaria e — anche se la giacca è troppo grande per le spalle smagrite e la camicia è aperta su uno torace ossuto da adolescente e le anche scarne sbucano dai pantaloni — per qualche attimo esistono solo quei piedi velocissimi da Fred Astaire del pop, quei calzini di paillettes luccicanti sotto i riflettori. Per un momento c’è solo la musica, la musica di quando Michael Jackson era ancora il Re, il più bravo e il più ricco di tutti, la magia del successo globale, prima dei cento interventi chirurgici, dei debiti folli, degli scandali, del processo per pedofilia. Prima della morte accidentale per mano di un medico che usava l’anestetico da sala operatoria come la camomilla, prima del funerale in mondovisione, del lutto su scala globale.
Un momento dello show
Un momento dello show
Non è un morto che balla il protagonista di Michael Jackson's This is It , il film che raccoglie le prove per la serie di cinquanta concerti londinesi che l’artista non ebbe il tempo di fare. E’ arrivato ieri nei cinema di tutto il mondo (600 sale soltanto in Italia), nei quali resterà, nei progetti del distributore, soltanto per 15 giorni. Il tempo, secondo le previsioni, di incassare nei prossimi cinque giorni, e soltanto negli Usa, 250 milioni di dollari, che lo renderebbero il massimo successo al botteghino di tutti i tempi — nessun altro film ha incassato tanto in meno di una settimana.
Che il record mondiale riesca o no — quello è un problema dei manager che avevano investito decine di milioni sul tour che non è mai nato — il film di Jackson rappresenta un fenomeno mondiale e anche, in più di un senso, una novità. Perché si tratta delle registrazioni delle prove, le interviste del backstage , materiale secondario che per intenderci di solito compare come bonus nelle confezioni di dvd doppi per amatori. Invece la morte dell’artista il 25 giugno scorso nella villa di Holmby Hills, Los Angeles, che affittava per centomila dollari al mese, ha trasformato quel materiale di contorno, 120 ore girate dall’abile regista Kenny Ortega (della serie High School Musical ) nel piatto principale. Ecco dunque un documentario atipico, un reality show non sui ragazzi che cercano il successo ma su una vecchia star che cerca di ritrovarlo, girato a Los Angeles in giugno quasi esclusivamente sullo stesso palcoscenico (il palazzetto Staples Center) nel quale venne poi riposta la bara dorata di Jackson al concerto- funerale del 7 luglio. Nel quale Jackson appare in condizioni non ideali, smagrito, ma certamente non il fantasma evocato dai tabloid dopo la sua morte, e questo documentario non è un remake de La notte dei morti viventi . Si vede Jackson il perfezionista dettare i tempi alla band, a volte magari in modo un po’ ellittico: «Deve essere illuminato da un raggio di luna», «E’ come se la musica non volesse alzarsi dal letto, alla mattina», «Mettilo a bagnomaria ». Ma spesso con una chiarezza da grande impresario (artistico, sul lato finanziario lasciamo perdere) di sé stesso. Quando durante «Black or White » incita la giovane, intimidita chitarrista platinata Orianthi Panagaris a tenere l’assolo «più a lungo, più acuto, è il tuo grande momento» e canta una nota impossibile per darle un’idea di quel che vuole, si capisce come quello sul palco — pur sfigurato dalle plastiche e magro ma non così scheletrico da far temere per la sua vita — non è un burattino ma un artista che vuole fare bella figura al ritorno in scena dopo una lunga notte durata dieci anni.
Scene musicali a parte, nel documentario in stile «Amici» ci sono anche i collaboratori: i maghi del digitale che trascinano il cantante — in formato 3D — accanto a Rita Hayworth e Bogart in «Smooth Criminal», due adorabili costumisti baffuti e un giovane filippino timidissimo che si dannano a costruire intricate ragnatele swarowski, gli assi degli effetti speciali che detonano un’apocalisse pirotecnica. E un gigantesco braccio meccanico porta Jackson in giro per l’aria sopra la platea, con il regista preoccupato che geme: «Michael, reggiti al corrimano».
Certo, nelle prove Jackson non canta praticamente mai «in voce» (cioè utilizzando l’emissione del registro pieno, a pieno volume) e ripete spesso «devo risparmiare la voce», «devo salvaguardare la voce», ed è evidente nel suo tono l’insoddisfazione del perfezionista e l’incertezza nei mezzi fisici. Come avrebbe cantato a Londra? Impossibile dirlo. Il ballo? Certo Jackson cinquantenne non è più quello di vent’anni fa. Ma, in fondo, non lo siamo neanche noi spettatori.
Matteo Persivale
29 ottobre 2009
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