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Joy Division: Unknow Pleasure

Ultimo Aggiornamento: 28/10/2008 07:18
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18/05/2008 00:12
 
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Closer: il testamento di Ian Curtis.


Il 18 maggio 1980 moriva suicida Ian Curtis: venne trovato in ginocchio, in cucina, con un cappio intorno al collo. Non aveva ancora 24 anni.
Il tormentato leader dei Joy Division, band di Manchester nata nella scena punk intorno al 1977 ma musicalmente molto diversa dalla maggior parte di band del luogo, poneva così fine a una vita minacciata da continui conflitti, interiori e esteriori, che lo avevano reso poco più che un morto vivente e, contemporaneamente, poco meno che una leggenda del rock.
Non era ancora stato pubblicato l’ultimo album dei Joy Division, Closer, quando Ian decise di farla finita. Diceva che il primo album, Unknown Pleasures, era tutto ciò che voleva dalla sua carriera musicale. Era sempre stato il suo sogno emulare i suoi miti: David Bowie, Jim Morrison e Lou Reed su tutti. Ci era riuscito, in parte. Gli mancava la definitiva consacrazione. La ottenne percorrendo quella via di non ritorno che purtroppo scelgono troppi geni del rock.
Così, dopo la sua morte, Closer assunse tutt’altro significato: non era più il secondo disco nato all’ombra del successo del primo. Era il disco definitivo, finale, dei Joy Division. Era il loro capolavoro. Era il testamento di Ian Curtis, la chiave per capire i tormenti che l’avevano spinto al gesto estremo e, in generale, la sua vita. Forse nessuno l’aveva davvero compresa.

Closer, dunque. Un titolo enigmatico: più vicino musicalmente all’anima del gruppo o più vicino tragicamente alla fine, che appare quasi annunciata da Ian nei suoi testi? L’artwork di copertina (una foto della tomba della famiglia Appiani al Cimitero monumentale di Staglieno di Genova) introduce alla perfezione le atmosfere funerarie e gotiche che ossessivamente percorrono l’intero album. Le musiche cupe e la voce di Ian, monotona ma nonostante ciò incredibilmente espressiva, ci conducono in una sorta di viaggio spirituale dell’anima.
La prima canzone, Atrocity Exhibition, è un lento e martellante invito ad entrare nella mente del cantante. Un invito a vedere il mondo con i suoi occhi, per osservare con desolazione gli agghiaccianti orrori di cui l’uomo è l’artefice. La prima strofa è un riferimento alla sua personale condizione: a causa degli attacchi di epilessia e dei disturbi che coglievano spesso Ian proprio mentre era sul palco, il ragazzo era diventato più che altro un fenomeno da baraccone. La gente era colpita dalla sua particolarità, dai suoi problemi. Ma guardava il tutto da fuori, come chi osserva un manicomio con le porte aperte. Entrate dentro di me, canta lentamente e apaticamente Ian, è questa la via.

“Asylums with doors open wide
Where people could pay to see inside
For entertainment they watch his body twist
Behind his eyes he says: I still exist
This is the way, step inside”

Segue la frenetica Isolation, ballata paranoica scossa da un basso cupo e ossessivo. Ian è sempre più solo e, nella vergogna, lotta disperatamente per salvare la sua vita.

“Mother I tried please believe me
I’m doing the best that I can
I’m ashamed of the things I’ve been put through
I’m ashamed of the person I am”

Con Passover il ritmo si fa più pacato: Ian si rende conto che è giunta la crisi che ha sempre temuto e che, ora, tutte le sue certezze cadono inesorabilmente una dopo l’altra. La frustrazione prosegue nella claustrofobica Colony, dove si mescolano l’insoddisfazione familiare e i tristi ricordi di gioventù.

“I can’t see why all these confrontations
I can’t see why all these dislocations
No family life, this makes me feel uneasy
Stood alone here in this colony
In this colony, in this colony, in this colony, in this colony”

La lucida e disperata A Means To An End sintetizza, in pochi e lapidari versi, la perdita della fiducia in valori come amore e amicizia. La voce cupa di Ian esprime tutto il suo sconforto per come sono andate le cose. L’ipnotica Heart And Soul ci conduce all’interno dell’abisso della mente umana per un viaggio di non ritorno. Il mondo intorno brucia, l’esistenza perde il suo significato in bilico tra passato e futuro: tutto giunge ad una fine, solo una cosa sopravviverà: la nostra anima.

“Existence, well what does it matter?
I exist on the best terms I can
The past is now part of my future
The present is well out of hand
The present is well out of hand
Heart and soul, one will burn”

La tragica lotta di Ian contro se stesso ha un potente e catartico epilogo in Twenty Four Hours: Ian è sull’orlo del precipizio nell’estremo tentativo di salvare la propria vita. Lancia l’ultimo grido di aiuto, mentre il tempo batte inesorabilmente le ore e il suo destino sembra sfuggirgli per sempre.

“I never realised the lengths I’d have to go
All the darkest corners of a sense I didn’t know
Just for one moment I heard somebody call
Looked beyond the day in hand, there’s nothing there at all”

Le ultime due canzoni si potrebbero interpretare idealmente come postume alla morte di Ian. Si potrebbe dire che è uno spirito a cantare: la voce di Ian si fa ancora più distaccata, quasi aldilà di ogni riferimento temporale. The Eternal è una vera e propria marcia funebre, vista dall’esterno. La marcia funebre per la sua morte? A detta dello stesso Curtis, è ispirata alla storia di un conoscente che, impossibilitato da un handicap, trascorreva le sue giornate dietro le sbarre di un cancello fissando dal suo giardino la gente che passava. La melodia superba di un pianoforte introduce l’atmosfera di dolore per il ricordo di una persona cara venuta a mancare. Rapide immagini contribuiscono poi a evocare la malinconia: il lento camminare della gente, i fiori bagnati dalla pioggia, le foglie che cadono dagli alberi. Cadono lacrime di impotenza dagli occhi, lacrime di bambino nonostante il tempo renda tutti più anziani. E’ Ian questo bambino?

“Procession moves on, the shouting is over
Praise to the glory of loved ones now gone
Talking aloud as they sit round their table
Scattering flowers washed down by the rain
Stood by the gate at the foot of the garden
Watching them pass like clouds in the sky
Try to cry out in the heat of the moment
Possessed by the fury that burns from inside
Cry like a child, though these years make me older
With children, my time is so wastefully spent
Burden to keep, though their inner communion
Accept like a curse, an unlucky deal
Played by the gate at the foot of the garden
My view stretches out from the fence to the wall
No words could explain, no actions determine
Just watching the trees and the leaves as they fall”

Chiude l’album Decades, dove l’eco della voce di Ian risuona dalle tetre stanze infernali e rievoca i dolori patiti in passato collocandoli in quel ciclo continuo di nascita e morte di cui ogni uomo fa parte. Nel ciclo eterno del tempo vengono rievocati gli atroci abomini dell’uomo e le immagini di due guerre mondiali che hanno distrutto l’umanità. Ecco le nuove generazioni, canta, ecco i giovani. Ecco l’inferno del mondo: noi tutti siamo gli spettri che lo abitano, impossibilitati a essere liberi.

RIP
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