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So Baby, Be Mine - Color of my soul Rating: verde

Ultimo Aggiornamento: 14/10/2014 12:56
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08/08/2014 14:24
 
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Ciao a tutti!

Sono nuova del forum - anche se non nuova in quanto fan di MJ - e condivido con tutti voi la passione per questo artista meraviglioso che seppur non più in mezzo a noi fisicamente, lo sarà sempre negli animi e nei cuori di chi come noi lo ha amato davvero e profondamente. E continueremo ad amarlo. Per sempre.

Sono in questa sezione perché, ovviamente - altrimenti sarei da tutt'altra parte -, mi diletto a scrivere fanfiction, e ne ho una a cui tengo particolarmente che vorrei proporvi. Mi sento un po', come dire, esposta, perché c'è tanto di me qui dentro e perché davvero tengo a Michael e non voglio fargli fare brutta figura. Spero possiate apprezzare.
Qui per voi il primo capitolo.



Capitolo 1 - Speechless is how you make me feel


Dicembre 1991
 
Il sole che abbracciava Los Angeles era fin troppo caldo per una giornata di dicembre. Le vie della città erano addobbate a festa; le luci e il clima natalizio in California stridevano sempre con la sua temperatura mite, ma non per questo Aura sentiva meno lo spirito magico di quel periodo.
Aveva sempre amato particolarmente il Natale, molto più di qualsiasi altra festività, e appena passava Capodanno non vedeva già l’ora del dicembre successivo per tornare a sognare un po’, come quando era bambina. Di certo in Illinois si passavano quei giorni a fare pupazzi e a tirarsi palle di neve, ma in cuor suo poco importava se ci si dovesse bardare come in Alaska o se si passasse la vigilia in spiaggia a surfare, l’importante era sempre stato altro: la bontà d’animo, i bambini in festa, l’amore e la gioia di stare con le persone importanti.
A proposito di persone importanti…
In quel periodo era solita tornare a casa, a Burlington, ma quell’anno gli introiti al negozio erano andati peggiorando di giorno in giorno e, tolte le spese dell’attività, l’affitto e il sostentamento personale, non le sarebbero rimasti molti soldi per permettersi un viaggio simile, per cui, per la prima volta nella sua vita, avrebbe passato le feste lontana da mamma, papà, dai suoi fratelli e da tutta quella pazza combriccola di parenti che si riunivano sempre a casa Mitchell.
Per cercare di riempire quel vuoto aveva organizzato insieme al suo piccolo, ecclettico gruppo di amici – conosciuti i primi tempi dopo il trasferimento, alla scuola di moda e design – la vigilia e il Natale più strambi che avesse mai vissuto: sulla spiaggia a prendere il sole, con tacchino arrosto, pudding e le mince pies della sua migliore amica Tanisha.
Stava ancora riflettendo su quanto sarebbe stato strano quell’anno senza la sua famiglia intorno e considerando che, nonostante questo, non aveva voglia di farsi rovinare il Natale – nemmeno dal pensiero di un possibile fallimento del negozio che aveva tanto desiderato – quando, dopo ore di silenzio, il campanello dell’ingresso tintinnò nuovamente.
«Non ci posso credere – pensò tra sé -, finalmente un cliente!» si alzò dallo sgabello di cui ormai il suo di dietro aveva preso la forma, si sistemò metodicamente la camicetta prendendo un respiro e s’incamminò dal retro verso l’ingresso.
Due uomini camminavano pigramente nella sezione dei salotti, uno sempre dietro all’altro. Il primo, quello che apparentemente studiava con più attenzione gli articoli esposti, incedeva con una camminata aggraziata e composta, con le mani unite dietro la schiena. Indossava un paio di pantaloni neri, una giacca sportiva rossa, degli occhiali scuri e un cappellino da baseball. Di quando in quando accarezzava con le dita sottili qualcosa che probabilmente lo aveva colpito particolarmente, e poi passava oltre.
Aura si avvicinò sempre di più, notando che il secondo uomo – piuttosto ben piazzato – seguiva sempre il primo a distanza di un passo, senza mai togliergli gli occhi di dosso.
Nel negozio calò un silenzio quasi reverenziale; persino la radio che gracchiava pigramente dal retro sembrò essersi spenta, o forse era solo che lei si era persa totalmente sulle mani grandi e affusolate di quell’uomo e non percepiva più lo spazio e il tempo intorno a sé.
«Buongiorno signorina, vorrei sapere quanto costa questo, per favore…»
Aura, nel sentire la voce di quell’uomo, ebbe un fremito che diventò brivido quando egli si girò a guardarla, mentre ancora teneva la mano sul mobile del quale aveva domandato il prezzo.
Non era una fan, non lo era mai stata di nessuno, ma certamente uno come lui non passava inosservato; e di sicuro tutti – proprio tutti – sapevano chi fosse. Era normale provare emozione di fronte a colui che il mondo intero riconosceva come il Re del Pop!
«S-Signor Jackson – in che modo avrebbe dovuto chiamarlo? Signore andava bene? Sua Maestà? –, quel comò fa parte di un tris d’arredamento, come può vedere dall’esposizione. La bellissima credenza che ha adocchiato, in effetti, è accompagnata da questi due comodini…»
Aura, mano a mano che parlava – e mano a mano che notava l’interesse di Michael crescere verso le sue spiegazioni riguardo quei mobili – prese più sicurezza e, mentre parlava di ciò che conosceva meglio – i suoi articoli “rari” – dimenticò per un momento anche l’identità dell’uomo che le stava di fronte.
«Bene! Signorina…?» la interruppe lui, forse saturo di informazioni, o già persuaso ad acquistare quell’arredamento tanto elogiato dalla giovane donna.
«Oh, mi scusi. Mitchell, Aura Mitchell, signor Jackson…» Si era presentata e non gli aveva porto la mano, anche se nemmeno lui l’aveva fatto. Avrebbero dovuto stringersela come fanno due estranei al primo incontro? O forse no? Ma perché si stava facendo tutte quelle paranoie? Mentre divagava su cose di dubbia importanza, Michael le stava sorridendo.
E a lei, per un momento, mancò la terra sotto i piedi.
«Niente signor Jackson, per favore. Chiamami Michael» le disse con quel sorriso ancora dipinto sulla bocca perfettamente disegnata. «Che bel nome Aura – continuò poi togliendosi gli occhiali da sole con un gesto fluido del braccio e scoprendo uno sguardo intenso che lei non seppe descrivere altrimenti – Che cosa significa?»
Mentre attendeva la risposta, riprese a camminare placidamente tra il mobilio, scrutando, sfiorando, accarezzando tutto ciò che al suo occhio attento poteva risultare apprezzabile.
«Significa “veloce come il vento”. Deriva dalla mitologia greca…» rispose lei per la milionesima volta da che ne aveva memoria. Era una domanda comune, che tutti le ponevano dopo aver saputo il suo nome, ma quella volta rispondere non le pesò poi tanto.
Michael si fermò nuovamente di fronte ad un sofà del tardo Ottocento, alzò il viso e le regalò uno sguardo sorprendentemente amichevole, dolce.
«Avevo ragione, allora: Aura è proprio un bellissimo nome» sentenziò riprendendo a camminare. Il sorriso, constatò lei con tenerezza crescente, non aveva più lasciato quel viso perfetto.
Lo seguiva quasi in punta di piedi; non gli si avvicinava troppo, provava una certa soggezione verso la sua persona e pensava che forse non avrebbe avuto piacere di averla troppo vicina, abituato com’era alla calca dei fan che in ogni dove desideravano un qualsiasi contatto fisico.
Senza rendersene conto, aveva praticamente completato il giro dello showroom e Michael non aveva fatto alcun accenno a voler comprare qualcosa. Stranamente, nonostante le condizioni traballanti della sua attività, Aura non se ne rammaricò troppo. Non gliene era mai importato granché di Michael Jackson, come della musica in generale, ma ammise con se stessa di essere stata colpita dal fascino di quell’uomo dagli occhi innocenti. Sì, era quello l’aggettivo che cercava poco prima, quando lui aveva sfilato gli occhiali da sole: innocenti.
«Devo farti i miei complimenti, hai davvero un negozio molto interessante. Non sono i soliti mobili che si vedono ad LA»  si complimentò per poi guardarsi intorno un’ultima volta.
«Se sei ancora interessato a quella credenza bianca con i pomelli in Swarowski posso fare uno strappo alla regola e vendertelo singolarmente per milleottocento dollari.»
«Veramente avevo intenzione di comprare tutto il set, Aura, e penso che acquisterò anche il sofà in broccato dell’Ottocento con la poltrona e le due lampade gemelle vicino all’ingresso»
Aura rimase a bocca aperta. Solo il sofà costava quindicimila dollari! Cercò comunque di non scomporsi, anche se già pregustava il pudding all’inglese di sua madre la notte di Natale.
Per l’ennesima volta in pochi minuti Michael l’aveva lasciata senza parole.
«Me li potresti spedire? Altrimenti, se è un problema, mando qualcuno a ritirare» le chiese, forse per aiutarla a uscire dall’imbarazzo, intuendolo dal suo sguardo attonito.
«No, no, non ti preoccupare, M-Michael, te le farò recapitare.»  
Di lì a poco Michael Jackson, dopo aver pagato profumatamente gli acquisti – anche più del dovuto – e aver lasciato l’indirizzo della sua casa, fece per andarsene, ma prima regalò ad Aura un ultimo sguardo carico di qualcosa simile all’affetto che lei ricambiò con tutto il cuore.
 
Erano trascorsi dieci minuti – forse venti – da quando quell’uomo e quella che doveva essere senz’altro la sua guardia del corpo erano usciti dal negozio e a lei mancava ancora il respiro. Il cuore probabilmente aveva smesso di battere a quel primo sorriso e non aveva ancora ripreso.
Si ritrovò a fissare la firma che Michael aveva apposto sull’assegno e a sperare nel profondo di avere presto un’altra occasione di rivederlo. 



"Smile, what's the use of crying, you'll find that life is still worthwhile, if you just smile"
11/08/2014 12:58
 
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2 Capitolo - Santa Ana brought me to you


Erano passati alcuni giorni da quell’insolita, gradita, emozionante visita, e Aura non aveva mai smesso di cercare tra i suoi ricordi il riflesso ancora nitido di quello sguardo magnetico e profondo.
Natale era ormai alle porte e, se fino a un paio di settimane prima il suo unico desiderio era stato quello di riuscire a raggiungere la famiglia per le feste in Illinois, ora se n’era aggiunto un altro, forse anche più impossibile da realizzare che non quello di partire. Anzi, partire sarebbe stato elementare ormai, con l’assegno che Michael le aveva fatto! Di ora in ora la voglia di rivederlo cresceva a dismisura, tanto che iniziava a pensare di essere impazzita. Il pomeriggio dopo quell’incontro aveva addirittura chiuso il negozio, era corsa al centro commerciale e aveva fatto il pieno di musicassette e vhs, nel tentativo di recuperare quello che si era persa in quegli anni – e anche un po’ per il gusto di poterlo vedere.
Fu proprio mentre guardava Moonwalker che incontrò di nuovo quel giovane uomo dagli occhi innocenti e, proprio come la prima volta in cui lo aveva incrociato, le mancò la terra sotto ai piedi.
 
Seduta sul divano di casa sua, dopo l’ennesima giornata infruttuosa in negozio, Aura rigirava tra le mani il biglietto dove Michael aveva scritto l’indirizzo per la consegna dei mobili. Da qualche giorno le era balenata nella testa l’idea di farsi un giro, giusto per vedere dove abitasse una pop star di quel livello, ma tutte le volte aveva accantonato l’idea. Troppo codarda, troppo indecisa, troppo… impaurita, in primis da se stessa che non si era mai invaghita così di qualcuno, fosse famoso o meno. Negli ultimi anni aveva pensato solo al lavoro, al sogno di avere un negozio tutto suo e diventare interior designer, lasciando indietro il resto del mondo; poi di colpo il risveglio, e Michael ne era stato l’artefice. Forse era quello il motivo per cui provava tutto quel trasporto verso di lui. Non c’era nulla di romantico o sentimentale: Michael era semplicemente la prima persona che avesse visto appena riaperti gli occhi!
Stropicciò il foglietto con la reale intenzione di buttarlo e non pensarci più, eppure c’era qualcosa che ancora la bloccava. Sapeva di dover lasciar perdere, in fondo lui era una superstar internazionale, che cosa poteva aspettarsi? Le sue mani, intanto, avevano preso quel pezzo di carta e lo avevano chiuso tra le pagine di “Il vecchio e il mare”, il suo libro preferito, uno di quelli che leggi e rileggi ma non ti stancano mai.
«Sarà il caso che la smetti, Auralee, o impazzirai!»
Il fatto che cominciasse anche a parlare da sola la diceva davvero lunga sul suo stato mentale, ma non si fermò troppo ad analizzare la questione, si alzò e si decise finalmente ad andare a letto.
 
Passarono altri giorni e Aura cercò con tutta se stessa di concentrarsi sul lavoro e accantonare quei nuovi pensieri che le avevano invaso la testa da quando Michael aveva fatto la sua comparsa al negozio. Ascoltava spesso la sua musica, adorava la sua voce piena, angelica; spesso si sorprendeva commossa dalla capacità che quell’uomo aveva di tramutarsi in tigre sul palco e poi essere tanto dolce e delicato nella vita – per quel poco che le era stato possibile constatare. Tutto sommato, comunque, si sforzò di andare avanti, fingendo quasi di non averlo mai incontrato.
Fu un paio di giorni prima di Natale, l’ultimo che avrebbe passato a Los Angeles prima delle feste, che quei sentimenti affiorarono nuovamente.
Il Santa Ana(*) soffiava più forte che mai quella mattina, e Aura aveva fatto non poca fatica per raggiungere a piedi il negozio. Quando finalmente vi giunse, sovrappensiero si chinò per aprire la serratura della saracinesca e si accorse di un foglio piegato, incastrato nello stipite del portoncino. Lo prese con noncuranza, convinta di avere a che fare con la solita pubblicità, entrò e si dedicò subito alla routine di apertura, abbandonando quel pezzo di carta sulla scrivania nel retro.
Solo più tardi, quando ebbe terminato i suoi compiti e decise di dedicarsi alla posta abbandonata da giorni in ufficio, lo aprì e il cuore le si fermò nel petto. La cosa che spiccava su tutto era la firma in basso a destra: era quella di Michael. Con una grafia tenera e irregolare le aveva lasciato un messaggio:
 
“Mi sono affacciato alla finestra e guardavo l’orizzonte, quando il Santa Ana mi ha raggiunto. Lo so, è strano, è sembrato anche a me, ma sentivo la necessità di seguirlo e vedere dove mi avrebbe portato. E sono finito qui: il vento mi ha condotto da te…”

Appena dopo l’ultima parola c’erano delle macchioline d’inchiostro. Le analizzò attentamente, sembrava come se lui avesse voluto scrivere altro, ma poi si fosse bloccato.
Aura aveva il cuore in gola, perché non poteva credere che Michael fosse davvero stato lì, che avesse scritto quelle parole a lei, lei che non era qualcuno di importante, che era… a lei che era nessuno, Michael aveva dedicato un pezzo di sé.
Continuava a fissare la carta, incredula, inebetita, emozionata, esaltata, sorpresa, eccitata da quella mole enorme di sensazioni a cui non sapeva dare un nome esatto. Si sentiva sopraffatta. Sedette lentamente su uno dei divani esposti, sempre con gli occhi puntati su quelle parole, incapace di muovere anche un solo dito, finché il telefono non prese a suonare.
Avrebbe dovuto alzarsi e andare a rispondere, per cui con quanta più forza riuscì a trovare, si diresse nel retro e con mano tremante alzò il ricevitore.
«Furniture Love, buongiorno, in cosa posso esserle utile?»
«Il nome del tuo negozio è stata la prima cosa a colpirmi» una voce come quella era impossibile da dimenticare. Le ginocchia si fecero budino e Aura dovette trovare un appiglio al quale tenersi per non cadere. Perché diamine le faceva quell’effetto?
«M-Michael, ciao…» l’emozione tangibilissima nella voce e nel solo modo di pronunciare quel nome.
«Ciao Aura, hai trovato il mio biglietto?» le chiese anch’egli evidentemente un po’ impacciato.
«Io, io sì, l’ho trovato. Io lo stavo leggendo e, beh… veramente, non so che cosa dire. È davvero bellissimo.»
Aura percepì che Michael stesse sorridendo a quelle parole; non sapeva come, ma se lo sentiva. Il suo cuore si riempì di tenerezza crescente, e più quella aumentava, più la voglia di rivederlo si faceva incontenibile. E alla fine quel desiderio esplose, sfacciato.
«Senti, Michael, io… - dovette prendere un lungo respiro prima di trovare il coraggio per arrivare alla fine della frase, ma sapeva di non aver nulla da perdere, doveva provarci – a me piacerebbe venire a trovarti.»
Lo disse velocemente, per evitare di cambiare idea e sostituire il tutto con un «Spero che con i mobili sia tutto ok», per esempio.
Per un istante lui non proferì verbo, cosa che fece temere ad Aura di aver completamente sbagliato tutto.
«Scusa, scusami, non volevo fare la sfacciata… è che…»
«Ti va se vengo io da te?» chiese lui con la medesima urgenza che aveva avuto lei di domandare, forse con la stessa paura di non riuscire ad arrivare fino in fondo alla frase.
Aura deglutì. Non si era resa conto di aver trattenuto il fiato perciò si lasciò andare lentamente e un sorriso ebete si fece largo sul suo viso.
Michael le aveva chiesto se potevano vedersi da lei… e lei non vedeva l’ora di averlo di nuovo di fronte a sé.
«Ma certo, ti do l’indirizzo.»
 
(*) forte vento asciutto e caldo tipico delle zone sud della California



"Smile, what's the use of crying, you'll find that life is still worthwhile, if you just smile"
19/08/2014 20:23
 
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E un bel inizio mi piace :)
21/08/2014 21:30
 
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Buonasera,
anzitutto volevo ringraziare rosamj per le sue parole.
Spero che anche chi non ha scritto, ma ha letto, abbia apprezzato fino a qui la storia.

Ecco il nuovo capitolo. :)



3 Capitolo - I've been looking around in the lost and found of my heart


Aura si guardava allo specchio e non poteva crederci; non riusciva a convincersi che di lì a poco Michael sarebbe stato a casa sua, davanti a lei, loro due da soli. Insieme.
Si era fatta la doccia e lavata i denti. Aveva preparato qualcosa da mangiare, cercando di renderlo commestibile – la sua arte culinaria aveva sempre avuto poco a che fare con quella della madre. Si era cambiata i vestiti almeno dieci volte, sempre meno convinta di stare bene, di essere abbastanza elegante oppure troppo formale. Non riusciva a decidersi, ma alla fine si arrese al suo armadio che non aveva più molto da offrire: indossò per l’ennesima volta i suoi Levi’s, una camicetta bianca morbida e le sue inseparabili scarpe da ginnastica; essere se stessa era l’unica carta che avrebbe avuto un senso giocare, ammesso e non concesso che Michael fosse arrivato veramente. E se non si fosse presentato?
Tornò a guardarsi allo specchio e, per un attimo, nei suoi occhi vide riflettersi quelli di lui, con quello sguardo innocente che le era entrato sotto pelle quel giorno al negozio: no, non poteva averle mentito, non con quel paio d’occhi; non dopo quelle meravigliose parole.
Intanto, il tempo passava. Scoccarono le otto, la tavola era pronta e a lei sudavano le mani. Da un momento all’altro sarebbe arrivato e, benché lei non avesse mai avuto un appuntamento che potesse anche minimamente ritenersi tale, sapeva che in qualche modo quello lo era. Era un appuntamento e, non solo non sapeva cosa le sarebbe convenuto fare o non fare, ma non aveva nemmeno idea di cosa aspettarsi da quell’uomo. Mentre i minuti ticchettavano inesorabilmente – e di lui ancora non si vedeva l’ombra – finì con l’analizzare la situazione e porsi qualche domanda.
“Perché mai uno come Michael desidera rivedermi?”
Iniziò a pensare che, alla fine, non si sarebbe presentato, e un po’ si dava della stupida per averci creduto; per aver recitato il ruolo della patetica ragazza da film romantici, preparandosi, cucinando e facendo l’isterica per decidere cosa indossare. Erano quasi le nove e ormai era chiaro che non sarebbe mai arrivato.
Sì alzò con l’aria sconfitta, senza nemmeno sapere se a farle più male fosse la sua stupidità o il fatto di non averlo potuto rivedere. Era convinta che di lui non gliene importasse poi tanto, che lo avesse semplicemente idealizzato come il suo salvatore da una vita priva di vere emozioni, ma perché allora stava piangendo?
Quando già stava rassettando la cucina, però, il campanello avvisò dell’arrivo di qualcuno. Aura alzò il viso verso la porta per poi buttare un occhio all’orologio. Erano le nove e dieci, e oltre a Michael non aspettava nessuno. Cercò di non correre al citofono come una pazza, non voleva dare l’aria di quella rimasta per ore sulla soglia, in attesa – anche se, in effetti, era stato più o meno così. Prese la cornetta con mano tremante.
«Sì, chi è?»
«Sono Michael – sussurrò l’altro con quella sua voce inconfondibile, che già riconosceva così bene, leggermente trafelata –, posso salire, per favore?»
In quel momento Aura si sentì sopraffatta dalle emozioni. Non riusciva a capire se essere più arrabbiata per il ritardo, sollevata perché alla fine era comunque arrivato o semplicemente estasiata dal fatto che fosse senza fiato e che, quindi, avesse fatto le corse per raggiungerla. Si limitò comunque a un più neutrale: «Ciao! Sì, Sali… secondo piano»
Prima di aprire si diede un’ultima veloce occhiata nello specchio, soprattutto al trucco: non era certo al massimo della sua forma, ma se si fosse degnato di arrivare puntuale – pensò con una punta di sarcasmo – forse avrebbe trovato qualcosa di meglio! Così era e così si sarebbe presentata.
Quando aprì la porta, però, quel principio di risentimento svanì completamente.
Era un po’ sudato, con un lieve fiatone. Indossava dei semplici jeans scuri, una maglietta bianca sotto a una camicia azzurra e un paio di mocassini neri. Era semplice. Semplicemente stupendo. Aura non solo sentì mancarle la terra sotto i piedi, ma il cuore perse qualche battito. Ogni volta, la sua mente si faceva sempre più confusa. Non aveva mai provato niente del genere prima di allora e non riusciva davvero a comprendere perché quell’uomo le facesse un effetto simile.
Lui le sorrise – dio quanto gli era mancato quel sorriso, quanto la faceva sentire felice –, lei si mosse un po’ goffamente verso destra per lasciare libero l’ingresso e lui entrò.
Quando Aura ebbe chiuso la porta si volse a guardarlo, ancora incredula che alla fine si fosse presentato davvero, emozionata e incapace di trovare qualcosa da dire. Le veniva solo da sorridere in risposta a quelle labbra perfette dolcemente increspate.
«Ciao Aura – si chinò leggermente per baciarle una guancia e le porse un pacchettino con un fiocco rosso fatto a regola d’arte –, scusami tantissimo per il ritardo, e anche per il contenuto del pacchetto, è parecchio tempo che non ho un appuntamento. Non ricordo cosa dica il galateo riguardo a come ci si comporta e ai regali da fare.»
“Bene, io di appuntamento non ne ho mai avuto uno, sei comunque avvantaggiato” si ritrovò a pensare lei.
«Non ti preoccupare. E non c’era bisogno del regalo, ma sono sicura che sarà perfetto.»
A lei, onestamente, di quello che le aveva portato non importava granché, tanto che lo appoggiò su una mensola senza aprirlo; lei era semplicemente felice che lui fosse lì.
«Accomodati pure, mi spiace solo per la cena. Si è raffreddata, e riscaldata non sarà il massimo. Già appena fatta non era un granché», ammise con un lieve imbarazzo.
«Sono sicuro che sarà perfetta» e quella frase arrivava giusto a confermare quanto la dolcezza fosse un suo tratto caratteristico; Aura lo aveva capito sin dalla prima occhiata.
 
Poco dopo, seduti uno di fronte all’altro, mangiavano in silenzio. Entrambi imbarazzati da quella situazione, ma in qualche modo curiosi di scoprire come sarebbe andata.
Aura realizzò solo in quel momento di aver messo in tavola hamburger e patatine fritte, e un po’ se ne rammaricò. Avrebbe potuto fare qualcosa di più salutare ed elaborato. Poteva una pop star mangiare quelle schifezze?
«Scusa per il menù, ma non sono un granché come cuoca. Spero non sia un problema.»
Michael, in tutta risposta, prese una patatina, la mise in bocca – sempre con quel suo tipico, tenero sorriso - e la masticò con gusto.
«Io adoro le schifezze! – annunciò ridendo di una risata leggera e morbida – So che non mi fanno bene, ma ogni tanto posso concedermi qualche strappo alla regola.»
Mentre Aura lo ammirava, seduta dall’altra parte del tavolo, non riuscì a non pensare a quanto quelle poche sensazioni che lui le aveva trasmesso la prima volta, si stessero ripresentando, e con una forza almeno cento volte maggiore. Lo osservava mentre le parlava, convinto che lei stesse veramente seguendo quello che diceva, e ogni minuscolo movimento trasudava eleganza, grazia e dolcezza. Non c’era una nota stonata in lui, un dettaglio fuori posto. Un difetto.
«Se ti sto annoiando, non hai che da dirlo – le disse d’un tratto, riportandola coi piedi per terra –, quando sono nervoso mi capita di iniziare a dire cose senza senso. Perdonami…»
«Oh, no, no! Anzi, è molto bello sentirti parlare… - e Aura lo disse così genuinamente che quasi non se ne rese conto finché non vide Michael arrossire, abbassare leggermente il capo e sorridere. Sulla guancia sinistra si formò una deliziosa fossetta che aggiunse altri brividi a quelli che già lei stava provando. Era bellissimo, di una bellezza innocente e pura che mai aveva trovato in qualcuno in tutta la sua vita.
Non ce l’avrebbe fatta ad arrivare fino a fine serata sana di mente. Non era abituata a dover gestire certe emozioni ed ebbe paura di soccombere a quella potenza.
 
Più tardi, dopo aver rassettato la cucina insieme, si accomodarono sul divano.
«Cosa ti va di fare, ora?» gli chiese. Si era sentita un po’ in imbarazzo all’inizio ma, mano a mano che parlavano, presero più confidenza e quel lieve disagio sparì quasi completamente.
«Non lo so, cosa va di fare a te?» le rispose. Se ne stava seduto nell’angolo del divano, con il corpo rivolto verso di lei e il gomito appoggiato alla spalliera. Lei era seduta completamente dalla parte opposta, nella medesima posizione. Non che il suo sofà fosse grandissimo, ma i loro corpi non si sfioravano neanche, e Aura, per la prima volta in vita sua, smaniava un contatto, soprattutto con le sue mani, grandi, affusolate e – immaginava - delicate.
«Parliamo un po’, ti va?» c’era qualcosa che non andava nel modo in cui gli aveva posto la domanda, e sperò che non fosse come pensava: stava flirtando? Stava facendo la civetta con lui?
«Certo che mi va, ma prima – disse lui, alzandosi e prendendo il pacchettino dalla mensola sulla quale Aura lo aveva appoggiato –, non ti va di aprire questo?»
Se l’era pure dimenticato, impegnata com’era a registrare ogni minimo dettaglio di quel viso, di quel sorriso.
«Oh, già, è vero – sussurrò quasi a se stessa, alzandosi per raggiungerlo – vediamo cosa nasconde!»
Gli prese il pacchetto dalle mani, sperando in un contatto fortuito, ma anche in quel caso non si sfiorarono neppure. Lo aprì velocemente, tirando un’estremità del fiocco rosso e alzando il coperchio della scatola. Fu immediatamente divertita dal contenuto: una confezione enorme di M&M’s.
«Che buoni! – li aprì e gliene offrì a Michael che immediatamente infilò la mano dentro al pacchetto e ne prese qualcuno – Ecco a lei servito il dessert!» annunciò ridendo. Non poteva crederci che le avesse portato delle caramelle, ma da una parte fu una cosa che apprezzò davvero, anzitutto per l’originalità, e perché fu un altro indizio che confermava la tesi di quanto fosse diverso dagli altri – anche se con altri non aveva paragoni, ma dalle esperienze delle sue amiche ne aveva avute di informazioni cui attingere!
«Dai, fammi vedere cosa sai fare!» le disse all’improvviso lanciandole sopra la testa una caramella, sfidandola a prenderla al volo. Risultato: M&M a terra.
«Ah! Sei fuori forma, forza, ritenta!» la incitò tirandone un’altra, finita a terra come la prima. «Ci vogliono tanto esercizio e costanza» sentenziò lanciandone una sopra la propria testa, altissima; muovendosi come un funambolo, riuscì a prenderla al volo tra le labbra, masticando poi allegramente e atteggiandosi un po’ per il bel colpo riuscito.
Entrambi scoppiarono a ridere. Aura si alzò per raccogliere ciò che era caduto a terra, continuando a ridere divertita.
«Dovrò fare molta pratica, evidentemente!» ammise. Michael la guardava con uno sguardo dolcissimo, sorrideva ancora e, di punto in bianco, lanciò un’altra caramella, più in alto ancora. Aura si mosse velocemente seguendo l’oggetto con lo sguardo e posizionandosi con la bocca aperta per tentare di prenderla. Finalmente ci riuscì e iniziò a saltellare per la cucina come una bambina di cinque anni. Sì sentiva soddisfatta, leggera e… felice.
«Sì!!! Hai visto che ci sei riuscita!»
Continuarono a giocare in quel modo per un po’, finché entrambi non furono stanchi – e anche sazi di M&M quasi a scoppiare. Sedettero sul divano, ridendo come due ragazzini; quella volta però nessuno si preoccupò delle distanze.
Le loro ginocchia si toccavano, erano seduti come poco prima, con i gomiti sulla spalliera del divano e rivolti l’uno verso l’altra. Si guardavano con ancora quell’espressione ebbra da bambini spensierati.
«Michael, perché hai accettato di rivedermi?» glielo aveva chiesto a bruciapelo, senza aver deciso coerentemente di farlo, ma era un dubbio che avrebbe voluto sciogliere già ore prima, e forse quello era il momento adatto per provarci.
Lui rimase un po’ spiazzato – era evidente da quei suoi occhi scuri spalancati –, ma non ci mise molto a riacquistare la sua tipica espressione tenera e gentile.
«Sono circondato da migliaia di persone meravigliose, Aura, in tutto il mondo, ma non c’è una persona speciale per me, fra queste. – le disse, tutto d’un fiato, come se volesse togliersi un peso dal cuore – A volte mi sento estremamente solo.»
Sembrava aver finito, e Aura non seppe cosa rispondere. Era andato lì solo per sentirsi meno solo? Per carità, le sarebbe andato bene tutto ugualmente, ma…
«E, sai, quando quel giorno al negozio ti ho guardata negli occhi – continuò, come se in quella pausa avesse voluto mettere insieme il coraggio per esprimere ciò che provava, e timidamente, prese ad accarezzarle con due dita il dorso della mano – improvvisamente, ho sentito la mia solitudine volare via con il vento.»



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Si e fatto desiderare,ma alla fine e arrivato!
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Bellissima storia... Ti prego, continua...

"Michael you are my life,I love you,you're always in my heart"
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