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Sauro Ciccola: «Io, le chitarre e quei cento giorni con Michael Jackson»

Ultimo Aggiornamento: 29/12/2015 10:10
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09/02/2014 21:32
 
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Visto che per una volta ho trovato una testimonianza in italiano mi limito a copiarla [SM=g27828]





Sauro Ciccola ha realizzato il suo sogno di musicista, lavorando alla preparazione del "suono" dei più grandi artisti del mondo: dagli Eagles ai Deep Purple, da Ringo Starr al defunto re del pop, del quale conserva la mitica "Music Man" rossa

Sauro Ciccola ha venti gatti ("ma sono arrivato anche a 33; li salvo, li curo, li nutro"), una splendida Harley Davidson, una Suzuki RGV 250 gamma da pista, una dozzina di chitarre («la più bella? La "music man" rossa di Tommy Organ, l'unica che usava Michael Jackson.»), un orto rigoglioso e l'assonnata pianura del torgianese tutto attorno a casa, da una parte la collina di Brufa, dall'altra, laggiù in fondo, la nebbiolina che sale dal Tevere.
Ma Sauro non è un ragazzo di campagna, è un uomo di mondo, uno che vive sugli aerei, sui tir, sui camper, sui palchi dei concerti; è un "tecnico delle chitarre", uno dei "roadie", gente che vive "on the road" seguendo le tournée degli artisti: tecnici di suono, video e luci, palchisti-montatori, autisti, addetti a security, catering, ufficio stampa. Un piccolo esercito, nel quale si muove ormai agevolmente da 16 anni, tra cavi, microfoni, corde, sbalzi di corrente e d'umore.

Da Giorgia (la prima) a Pino Daniele (l'ultimo lavoro), passando per Negramaro, Antonacci, Christina Aguilera, Ricky Martin, B.B. King, Eagles, Thin Lizzy, Deep Purple, Styx, Ringo Starr e naturalmente Michael Jackson, col quale ha lavorato per 100 giorni, gli ultimi della vita del re del pop.

«Un'esperienza bella e sconvolgente, tre mesi e mezzo indimenticabili, nell'immenso Staples Center di Los Angeles, 20mila posti a sedere, dove di solito giocano i Lakers. Lì abbiamo preparato "This is it", il suo grande tour mondiale. Purtroppo Michael è morto cinque giorni prima di partire e nello stesso posto abbiamo dovuto organizzare il megaconcerto del suo funerale. Per fortuna tutte le prove erano registrate e così è stato possibile ricavarne un film-documentario».

Fuori c'è Miralduolo, 119 abitanti, dentro una stufa a legna che riscalda anche l'anima, e il sogno americano. Rilegge la sua storia.
«Qui ci cono le mie radici, ma io sto bene in America. Quando ci sono andato per la prima volta, in vacanza, avevo tante nozioni in testa: il surf, la Harley, Venice Beach. Ma volevo vedere se era solo enfasi, euforia o c'era sotto dell'altro. Laggiù ho trovato il piacere di lavorare, la concretezza, la valorizzazione della professionalità. In Italia anche se sei un tecnico della chitarra, quando serve devi anche "spelare" un filo, aggiustare una presa di corrente, un microfono o scaricare le casse. Negli Stati Uniti ognuno al suo posto, non si scherza. E si guadagna di più, seguendo tariffe a scalare, da 2.500 a 10mila dollari a settimana. Più lavori, più migliori il tuo curriculum, più sali di livello. Le raccomandazioni non esistono».
Ma da piccolo aveva già questa idea un po' di frontiera? Andare lontano, partire...

«La musica l'ho sempre avuta nel sangue, un po' merito dei miei, Umberto e Anna, che a 10 anni mi hanno mandato a scuola di fisarmonica, così ho imparato il solfeggio ed a leggere la musica. Poi come tutti gli adolescenti ho preso in mano la chitarra e pian piano ho cominciato a conoscerla, non solo a suonarla. E a Los Angeles ho visto che si poteva guadagnare bene preparando le chitarre a chi poi faceva concerti. Ho visto che in tutti i locali, dal più piccolo al più grande, si faceva musica live tutte le sere, non con i disc jockey come da noi, ma con delle band vere e proprie. È stato lì che ho conosciuto tutto il mondo che c'è dietro un concerto e quando sono rientrato in Italia mi sono dato da fare».

Senza raccomandazioni?

«Esattamente. Pur di entrare in quel mondo mi sono offerto come facchino per un concerto di Morandi al Turreno. Ho caricato e scaricato casse di materiali, ma ho potuto conoscere le persone giuste, mi sono presentato, e loro mi hanno messo alla prova: una settimana in magazzino a preparare bauli per le varie tournée. E non si poteva bluffare: o sai esattamente cosa maneggi, per esempio quanti metri di cavi e quanti microfoni servono, in base a dove si va suonare, al numero degli elementi della band e degli strumenti, o non se ne esce fuori. Andò bene e a 21 anni sono partito con il tour di Giorgia, cinque mesi in giro per la Penisola. Ho conosciuto lei, una artista eccezionale, Mike Scott, chitarrista storico di Prince, ma soprattutto Michael Baker, batterista e direttore artistico di Giorgia, ma ancor prima, e per ben sette anni, di Whitney Houston. Praticamente un mito. È stato lui che mi ha aperto le porte degli Stati Uniti qualche tempo dopo presentandomi Victor Rodriguez, capo tecnico degli Eagles. Mi ha subito dato una opportunità e sono partito: 6 date con loro e altra esperienza da mettere nel curriculum».

Spieghiamo come avviene il vostro lavoro di preparazione.

«Prima di partire bisogna organizzare una specie di mappa del palco, tecnicamente lo "stage plot", un lavoro che impegna i tecnici di audio, video e luci. Bisogna portare tante linee, cioè i cavi, quanti sono i suoni da far sentire. Per capirci: una chitarra può avere necessità di otto "segnali", una batteria anche 20. Perché non ci sono solo tamburi e piatti, ma anche triangoli e altri strumenti manuali e tutti devono essere microfonati, alcuni anche in wireless quando gli artisti si muovono molto in mezzo al palco. Parliamo dunque di una mappa con centinaia di cavi, ben nascosti, che vanno verso le postazioni degli artisti, sempre quelle. Ma una volta pronto lo "stage plot", e ci possono volere anche settimane, non si cambia più. Problemi? Soprattutto in fase di smontaggio: bisogna fare con calma, perché ti prende la smania di correre, invece si rischia di rompere cavi o strumentazioni molto delicate. E poi quando si fanno tour all'estero, come nel 2006, cinque mesi con i Deep Purple, Thin Lizzy e Styx, dagli Usa all'Inghilterra, dal Giappone all'Australia, bisogna essere super attrezzati perché in ogni paese in cui vai cambia il voltaggio della corrente».

L'aggancio al mondo americano come è avvenuto?

«.la vita è una catena, tre anni dopo il tour con gli Eagles, mentre ero a Los Angeles, preparando chitarre per Joe Walsh che stava registrando un album nella "House of Blues", mi telefona proprio Rodriguez: "vuoi lavorare con Michael Jackson? Passa al magazzino degli Eagles, prendi la valigetta del lavoro e presentati a Frank DiLeo, il suo manager. Ha appena licenziato un tecnico della chitarra". Sono volato. DiLeo ha letto il mio curriculum, mi ha scrutato e. "cominci subito". Per 15 giorni non ho alzato la testa da terra, tanto era l'entusiasmo di lavorare per preparare un tour così importante. Mi erano toccati i due chitarristi, Tommy Organ e Orianthi, perché come spiegavo la specializzazione è massima. Una volta che stavo aggiustando una spina per poco il capo elettricista non mi appende al muro.».

Che impressioni ti ha lasciato Michael Jackson?

«Totalmente diversa da quella che viene diffusa dai mass media. Un ragazzo alla mano, che mangiava a mensa con noi, stringeva la mano a tutti e dava grandi pacche sulle spalle. Mi prendeva in giro perché non nascondevo la mia passione per Springsteen. per lui ero "Savdor", l'italiano: per loro Sauro è impronunciabile. Per tre mesi e mezzo è stato sul palco con noi, dalla mattina alla sera, dicendo poche parole ma significative: "siamo una famiglia, non ci sono regole se non quella di non fare "cazzate", siate responsabili del vostro lavoro, divertitevi e lavorate sodo ora. Il tour, poi, sarà una passeggiata". Quando mi ha proposto il contratto abbiamo parlato per due ore nel suo camerino, erano diciassette pagine da firmare, con una cifra a nove zeri. Purtroppo è finito tutto con Michael. La notte prima della sua morte, alle 3, stavamo ancora provando "Thriller" e lui, che era un Peter Pan in tutti i sensi, si divertiva a manovrare un ragno gigantesco che faceva parte della coreografia. Il giorno dopo, nel pomeriggio, il regista Kenny Ortega accese tutti i microfoni e ci disse semplicemente "Michael passed away". Nonostante la commozione e il dolore abbiamo organizzato i suoi funerali, preparando a dovere il palco dove si sarebbero alternati Stevie Wonder, Lionel Richie, Mariah Carey, Christina Aguilera. È stata l'unica volta in cui avrei fatto davvero a meno di lavorare con i grandi della musica».

www.giornaledellumbria.it/article/article152299.html
[Modificato da Compix 29/12/2015 10:10]
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