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Il malessere che percepiamo ha radici sociali

Ultimo Aggiornamento: 05/11/2013 21:32
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Un interessantissmo articolo sul rapporto tra psicoterapia e malessere,la posizione dell'individuo in questo momento in cui il suo disagio aumenta a causa dei problemi sociali dovuti alla crisi e non solo...
mi piacerebbe ci fossero commenti... [SM=g27822]

dal fattoquotidiano



Psicologia: il malessere che percepiamo ha radici sociali



di Mario De Maglie | 5 novembre 2013




“Non esistono soluzioni personali, biografiche a contraddizioni sistemiche” in questa frase del sociologo Ulrich Beck, ripresa nel libro Modernità liquida del collega e filosofo Zygmunt Bauman, c’è racchiuso uno degli aspetti più paradossali del nostro tempo. L’espressione, in apparenza complessa, è di una logicità disarmante, una volta compresa e metabolizzata. Non esistono possibilità per il singolo individuo di poter agire sul suo malessere, quando questo ha un origine sociale e non psicologica. Le soluzioni non vanno ricercate nel biografico, in un’analisi della propria vita, in quanto non è la persona a costituire il problema, ma il sistema in cui vive e che la espone a messaggi disfunzionali.

La psicoterapia, canale preferenziale di cura e trattamento del singolo, della coppia, del sistema familiare o del gruppo ristretto, non può farsi carico di problemi non psicologici, non pertinenti il singolo, la coppia, il sistema familiare, il gruppo ristretto. La visione di un futuro in cui riporre sempre meno speranze è collettiva, un sentire comune, indipendente dalle problematicità del singolo e del suo ambiente più vicino, anche se queste ne vengono a essere esasperate.

Il malessere che si percepisce attualmente nelle persone non ha radici psicologiche, ma sociali. Se un uomo o una donna arrivano in consulenza o in terapia e il loro malessere è generato dal non riuscire a progettare una vita perché precari, la consulenza o la psicoterapia non possono risolvere la situazione. Non è un evento raro, per me terapeuta, incontrare, professionalmente e non, sempre più persone che subiscono disagi psicologici enormi a causa dell’incertezza lavorativa che li attanaglia e che cercano un sostegno. L’angoscia in loro presente non è di un esistenziale, che parte dall’interno, ma di un esistenziale che colpisce violentemente dall’esterno. Non hanno bisogno di un aiuto psicologico, ma di un lavoro, meglio se adeguato alle loro competenze ed aspirazioni.

Il modello di sviluppo occidentale si pone, come obiettivo, una crescita infinita in un mondo finito quale è il nostro. E’ follia spacciata astutamente per norma, il nostro essere coglie la contraddizione, ma non è in grado di gestirla trasformandosi in mal-essere. Nasce uno scontro tra il proprio sentire e quello che ci viene dal modello esterno. Un conflitto del genere avviene in molti contesti in cui il lavoro psicologico ha la sua utilità, ma qui non parliamo di un esterno che vede in sé stessi, nella propria famiglia e nelle relazioni più vicine e intime, una possibilità di operatività concreta.

La cornice è molto più allargata rispetto a quelle che sono le reali possibilità della persona di agire nella sua prossimità, dove ha un potere maggiore o lo può comunque riconquistare. I messaggi dove la propria salute passa attraverso il consumo (più acquisto e più acquisto io senso) ci bombardano. Ogni volta che si avverte un vuoto dentro si proverà a riempirlo, consumando e consumandosi di un piacere fugace ed effimero. Appena l’effetto della novità sarà scomparso, il vuoto si farà nuovamente avanti e si ricomincerà a cercare le soluzioni nelle cose anziché nelle relazioni. ”Se sto bene, non ho bisogno di consumare” è un principio ineludibile, il mio equilibrio è direttamente proporzionale alla mia capacità di dare e ricevere come persona, indipendentemente dalle cose materiali e dall’immagine che agli altri voglio dare di me.

Bauman parla della scissione tra cittadino e individuo avvenuta nella modernità. Il cittadino che si sentiva parte di una polis, i cui problemi erano i problemi della comunità alla quale appartiene e viceversa, si è trasformato in individuo, il quale si sente separato dagli altri, non di rado entra con essi in lotta e competizione, e di conseguenza tende a fare i suoi esclusivi interessi personali, segue un egoismo di difesa. In una realtà sempre più precaria e competitiva, dove la persona viene ridotta a merce o, nel migliore dei casi, a consumatore di merce, il senso di inadeguatezza cresce. Il rischio concreto è che questo venga interiorizzato a tal punto che lo si accetti, lo si consideri inevitabile. Di fronte a quel che si è convinti di non poter cambiare si soffre e/o si prova ad accettarlo, ma non a combatterlo. E’ il meccanismo per cui la rabbia viene a essere sedata o meglio introiettata anziché esternata, creando una pericolosa assuefazione al continuum di disagio quotidiano dove è sempre tutto un lottare per arrivare alla fine del mese o avere l’ultimo smartphone.

E l’industria del vuoto è sempre la più fiorente. L’assenza della propria essenza ci deve far riflettere sull’essenza della propria assenza. Non smettere mai di desiderare è l’inferno dei tanti vuoti individuali che convergono in una voragine sociale. Sempre Beck afferma: “Chi arranca nella nebbia del proprio io, non è più in grado di notare che tale isolamento, tale segregazione dell’ego, è una condanna di massa”. Ci si convince di essere responsabili del proprio fallimento, la critica ricade su sé stessi, si cerca di darsi sempre più da fare, ma il contesto è tale per cui non è la nostra operosità a portare il cambiamento, quindi decade la fiducia nelle nostre potenzialità. Il singolo individuo è impotente di fronte al sistema nel suo complesso e, a breve termine, non può che rimanerne sconfitto. Egli non deve lavorare su di sé, ma sul cogliere le contraddizioni del sistema e consapevolizzarle come altro da sé.

Deresponsabilizzare la persona rispetto a quel che subisce non significa non responsabilizzarla in merito a dove invece può svolgere un ruolo attivo. Cultura,educazione, corretta informazione, gruppi di autoconsapevolezza sono gli unici strumenti adeguati per agire a livello sociale. Non è un’epoca facile e non immagino cambiamenti rapidi e sicuri. I tempi del cambiamento sono l’unico paragone che penso sia sensato associare alla psicologia. In terapia il cambiamento è tanto più efficace quanto più diventa stabile, ecco perché chi comincia un percorso terapeutico ne conosce l’inizio, ma non la fine. Il tempo è garanzia di stabilità, ma non come mero dato quantitativo bensì qualitativo perché sottintende la complessità dei processi in corso. Se abbiamo o meno tempo, prima di eventuali stravolgimenti sociali dovuti al modello di sistema imperante, è una domanda alla quale non so però rispondere.





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