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Tumori : cosa è il mieloma, i sintomi e le speranze di guarigione

Ultimo Aggiornamento: 07/02/2024 21:02
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Tumore al seno, un nuovo farmaco salva la vita al 70% delle giovani
Presentati a Chicago i risultati di una cura che migliora nettamente la sopravvivenza: Ribociclib è il primo inibitore CDK4/6 a dimostrare una sopravvivenza così alta nelle donne giovani con un carcinoma avanzato o metastatico - VIDEO

di DANIELA MINERVA
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01 giugno 2019
Tumore al seno, un nuovo farmaco salva la vita al 70% delle giovani
Una delle presentazioni più attese a Chicago, al congresso annuale dell'American Society of Clinical Oncology, quella del tumore al seno avanzato o metastatico nelle donne giovani e giovanissime. Sotto i 39 anni, infatti, i casi di tumore al seno aggressivo stanno aumentando. E, per la prima volta, uno degli ultimi farmaci approvati per questa malattia ha dimostrato di riuscire ad aumentare la sopravvivenza complessiva (e non solo quella libera da progressione della malattia). Parliamo del ribociclib: dopo 42 mesi di follow-up, la sopravvivenza globale è stata del 70% per le donne trattate in prima linea con la combinazione ribociclib più terapia ormonale standard, rispetto al 46% di chi è stato trattato con la sola terapia ormonale standard (un inibitore dell'aromatasi o tamoxifen). Complessivamnte, il rischio di morte risulta ridotto del 29%. Sono questi i risultati finali dello studio MONALEESA-7, pubblicati anche sul New England Journal of Medicine.

“Risultati così d'impatto sono quelli che speriamo di osservare in ogni studio clinico e raggiungerlo in una malattia inguaribile come il tumore al seno metastatico è un incredibile avanzamento per le pazienti”, commenta Sara Hurvitz, Medical Director della Jonsson Comprehensive Cancer Center Clinical Research Unit e Director of the Breast Cancer Clinical Trials Program presso UCLA.
Lo studio
Ribociclib è un inibitore delle chinasi ciclina-dipendenti 4 e 6 (CDK4/6, due proteine che sottostanno alla progressione del tumore), approvato in Europa alla fine dello scorso anno per il trattamento di prima linea delle donne in premenopausa con un tumore al seno avanzato o metastatico, positivo ai recettori ormonali (HR+/HER2-). Lo studio MONALEESA-7 (di fase III, randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo) ha riguardato 672 pazienti tra 18 e 59 anni. Questi risultati, raggiunti in anticipo rispetto a quanto atteso, aggiungono informazioni sia sull'efficacia sia sul profilo di sicurezza del farmaco, che risulta essere particolarmente attivo contro le CDK4: molecole che sembrano essere davvero cruciali nello sviluppo del tumore al seno e nella sua progressione. Ed è importante che anche l'Italia abbia partecipato. "Abbiamo avuto un ruolo da protagonista nel programma di ricerca clinica per lo sviluppo di ribociclib con circa 1.000 pazienti inclusi negli studi - afferma Michelino De Laurentiis, direttore del Dipartimento di Senologia all'Istituto Nazionale Tumori IRCCS Pascale di Napoli - l'obiettivo è la cronicizzazione del carcinoma mammario metastatico. Un traguardo sempre più vicino".

Tumore seno metastatico, grazie a un nuovo farmaco il rischio di morte si riduce del 29%

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Il significato della sopravvivenza globale
L'aumento di sopravvivenza generale è un obiettivo difficile da raggiungere: è una misura diretta (al contrario della sopravvivenza libera da malattia) per capire se il trattamento è realmente in grado di aumentare l'aspettativa di vita delle persone colpite dal tumore. Dimostrare che un farmaco può aumentare la sopravvivenza generale è spesso difficile negli studi clinici, sia perché richiede di seguire i pazienti per tutta la loro vita, sia perché spesso questi ricevono molte linee di trattamento e la variabilità nella sequenza in cui vengono assunti può rendere difficile misurare in modo corretto questo parametro.

Il tumore al seno metastatico
Il tumore al seno metastatico è la principale causa di morte per malattia oncologica nelle donne, in particolare nella fascia più giovane, tra 29 e 59 anni. Il rischio di sviluppare metastasi dopo una prima diagnosi di tumore al seno è stimata intorno al 20-30%. Nel caso di tumore sensibile agli ormoni femminili, un rischio sembra permanere anche dopo oltre 10 anni dalla prima diagnosi. In Italia una prima stima dei registri tumori (Airtum), indica che le donne che oggi vivono in Italia con tumore metastatico siano oltre 37 mila, ma non esiste ancora un registro ad hoc che tenga conto di incidenza e prevalenza reali. “Le donne giovani con un tumore metastatico vivono una condizione difficilissima”, conclude MJ DeCoteau, Executive Director della non profit canadese Rethink Breast Cancer: “Possono essere studentesse, mamme o appena all'inizio della loro carriera. Sapere che un trattamento già approvato ha dimostrato di poterle aiutare a vivere più a lungo è molto importante e dà speranza”.



www.repubblica.it/oncologia/news/2019/06/01/news/tumore_al_seno_metastatico_sopravvivenza_del_70_con_nuovo_farmaco-227729997/?ref=RHPPLF-BL-I0-C8-P1...
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Uno studio su Nature Medicine apre nuove strade per migliorare la terapia farmacologica, oggi limitata e insoddisfacente

di SARA PERO
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05 luglio 2018
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Tumori, scoperto il meccanismo che causa metastasi al cervello
DIETRO la crescita delle metastasi al cervello, provenienti da tumori del polmone e della mammella, ci sarebbe un fattore molecolare, chiamato Stat3, presente nelle cellule del cervello sano. La scoperta arriva dalla collaborazione tra il gruppo di ricerca neuro-oncologica del dipartimento di Neuroscienze dell'ospedale Molinette della Città della Salute di Torino e il Cnr di Madrid, un team internazionale che si è appena aggiudicato una pubblicazione sulla prestigiosa rivista scientifica Nature Medicine.

• I RISULTATI DELLO STUDIO
"Il nostro studio, in collaborazione con gli anatomopatologi del nostro ospedale e un gruppo di ricercatori di base del Cnr di Madrid, è partito da un dato sperimentale molto interessante - commenta Riccardo Soffietti, direttore della Unità Operativa di neuro-oncologia clinica dell'Azienda Ospedaliero-Universitaria Città della Salute e della Scienza e Università degli Studi di Torino - e cioè la presenza inaspettata della proteina Stat3, un fattore di trascrizione pro-oncogenico, non tanto sulla membrana delle cellule metastatiche, dove potevamo aspettarcelo, quanto piuttosto in quelle sane, nei cosiddetti astrociti reattivi, che circondano le metastasi cerebrali. Un'evidenza che abbiamo riscontrato anche in modelli di topo, nei quali erano state trapiantate metastasi nel cervello, e che adesso abbiamo dimostrato in alcuni pazienti".

Non tutti i campioni, però, mostravano l'espressione della proteina: "Su 100 campioni di metastasi, derivati da operazioni condotte nel nostro ospedale negli ultimi 5 anni, alcuni erano caratterizzati da astrociti reattivi esprimenti questa proteina, altri campioni no. Ma questa differenza nell'espressione di Stat3 ci ha mostrato un dato clinico davvero importante: soltanto i campioni nei quali Stat3 era espressa mostravano al contempo una prognosi peggiore. Questo vuol dire - continua Soffietti - che questa proteina ha un valore prognostico". Insomma, i pazienti le cui cellule esprimono la proteina in questione hanno una sopravvivenza molto più breve.

LEGGI - Cancro al seno, così il sistema immunitario ha "distrutto" le metastasi

• IPOTESI SUL MECCANISMO
"Dai nostri risultati risulta evidente, dunque, come il fattore Stat3 sia espresso in quelle cellule (gli astrociti reattivi, ndr) che fino ad oggi venivano considerate una specie di barriera per la sopravvivenza e l’espansione della popolazione tumorale. La nostra prossima mossa sarà capire come, e con quale meccanismo, la presenza della proteina sulle cellule sane accresca le metastasi cerebrali. Una delle ipotesi è che l'espressione di Stat3 negli astrociti agisca inibendo in qualche modo la risposta immunitaria, in particolare le cellule T. La speranza è di poter bloccare farmacologicamente questa Stat3 in futuri studi clinici". Una possibilità che potrebbe aiutare a migliorare la terapia farmacologica, tuttora insoddisfacente: le metastasi cerebrali, infatti, rappresentano una complicanza sempre più frequente di tumori solidi, tra i quali quelli del polmone e della mammella. Perché, purtroppo, al di là della chirurgia e della radioterapia, la terapia farmacologica - nel caso delle metastasi al cervello - è tuttora limitata.

• LE METASTASI
"Il tumore, quando va incontro a metastatizzazione, può idealmente colonizzare qualsiasi organo del corpo. Da qualche anno si sa, però, che esistono sottopopolazioni di tumori primitivi, come quello della mammella, del polmone, o il melanoma che prediligono il cervello come organo bersaglio delle cellule metastatiche in circolo nel sangue. Questo perché probabilmente - conclude Soffietti - mettono in atto dei meccanismi che riescono a garantire il superamento della barriera ematoencefalica, attraverso alcune cellule che la costituiscono".



www.repubblica.it/salute/medicina-e-ricerca/2018/07/05/news/tumori_scoperto_il_meccanismo_che_causa_metastasi_al_cervello-200924577/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P6...
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E' un farmaco 'jolly' perche' puo' colpire 29 tipi diversi di tumore, in adulti e bambini, grazie al suo particolare meccanismo d'azione: non agisce, infatti, sull'organo dove il cancro ha avuto origine bensi' sull'alterazione genica Ntrk che puo' essere comune alle cellule cancerose di molte neoplasie; ventinove, appunto, quelle ad oggi testate ma potrebbero essere molte di piu'. Gli ultimi risultati sull'efficacia della molecola (larotrectinib) sono stati presentati al Congresso europeo di oncologia Esmo e sono definiti "eccezionali" dalla comunita' scientifica: si e' infatti registrata una riduzione del 30% della massa tumorale nel 79% dei pazienti valutati (su un campione di 153) e nel 75% di quelli con metastasi cerebrali, e la sopravvivenza media e' superiore ai 3 anni.

Il farmaco - definito tecnicamente 'agnostico' perche' non ha come bersaglio un organo particolare, agendo indipendentemente dalla localizzazione del tumore - é il primo del suo genere ad aver ottenuto, pochi giorni fa, il via libera della Commissione Ue per la commercializzazione in Europa. La molecola agisce sui tumori solidi in stadio avanzato o metastatico nei pazienti adulti e pediatrici per i quali l'intervento chirurgico sarebbe troppo rischioso e che presentano una particolare alterazione genica definita fusione genica di Ntrk.

Si tratta di un'alterazione rara ma che in Italia interessa

www.ansa.it/canale_saluteebenessere/notizie/medicina/2019/09/28/tumorifarmaco-efficace-su-29-tipicolpisce-alterazione-geni_c397bbd7-ed11-4d9c-96f1-680ee0cedd9c.... 4mila pazienti ogni anno
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Presentati al congresso della Società americana di ematologia i risultati di un anticorpo monoclonale efficace in malati che hanno già ricevuto molti trattamenti, compresa la terapia con cellule ingegnerizzate CAR-T
Si tratta ancora di una terapia sperimentale e la sua efficacia è stata provata in studi che per adesso vogliono capire quale sia la giusta dose di farmaco da dare ai pazienti, ma I risultati sono così incoraggianti da essere presentati in sessione plenaria al congresso della Società americana di Ematologia (Ash) in corso in questi giorni a Orlando. Parliamo di un nuovo anticorpo monoclonale, mosunetuzumab, somministrato a pazienti con linfoma non-Hodgkin resistente, che cioè non risponde a nessuna delle terapie disponibili o che non lo fa più sebbene sia stato trattato con diversi farmaci, compresa la terapia CAR-T. Lo studio multicentrico internazionale presentato a Orlando mostra che nel 22% di questi pazienti così difficili mosunetuzumab ha portato alla remissione completa della malattia.

I linfomi non-Hodgkin sono tumori del sistema linfatico e circa l'85% delle forme interessa le cellule B, come per esempio il linfoma diffuso a grandi cellule B o il linfoma follicolare. La maggior parte dei pazienti risponde bene alle chemioterapie disponibili, ma chi non ha risultati duraturi tende a non reagire bene neanche alle terapie successive. Recentemente, con l'introduzione delle terapie a base di linfociti ingegnerizzati – CAR-T – si è riusciti a indurre una risposta nel 40% di alcuni di questi pazienti (CAR-T è approvata per il linfoma diffuso a grandi cellule B ma non per il linfoma follicolare). “C'è quindi ancora molto bisogno di trattamenti per i casi di linfoma refrattario o che recidiva, anche perché la maggior parte dei pazienti è in condizioni di salute troppo precarie per essere sottoposto a CAR-T”, ha spiegato Stephen J. Schuster, direttore del Lymphoma Program dell'Abramson Cancer Center all'Università della Pennsylvania autore principale dello studio. “Uno dei benefici di questo nuovo farmaco è che è disponibile per tutti, non deve cioè essere prodotto per ogni singolo paziente”.

Mosunetuzumab è un anticorpo monoclonale disegnato per legarsi a due recettori specifici delle cellule tumorali: CD19, come già fanno i linfociti T "armati" nella terapia CAR-T, e CD20. A oggi oltre 270 pazienti hanno ricevuto il farmaco – sotto forma di infusioni che durano diversi mesi – in 7 Paesi in tutto il mondo, di cui 193 sono risultati valutabili. Ebbene i risultati mostrano che nei malati con malattia aggressiva, pari al 65% del campione, c'è stata una riduzione della patologia nel 37% dei casi e una remissione completa nel 19%; nei pazienti con malattia più indolente, invece, la riduzione si è verificata nel 63% dei casi e la remissione completa nel 43%. Non solo. La remissione dura nel tempo, dopo 6 mesi l'83% dei pazienti indolenti che l'avevano raggiunta e il 71% di quelli con malattia aggressiva è ancora libero da malattia. E ancora, in alcuni dei pazienti precedentemente trattati con CAR-T, i test molecolari hanno mostrato che le cellule ingegnerizzate infuse nel loro organismo sono aumentate in seguito alla somministrazione di mosunetuzumab. “Questo significa che non solo mosunetuzumab è capace di uccidere le cellule tumorali ma che riesce anche a rivitalizzare le cellule CAR-T e aumentare l'efficacia del trattamento precedente”, ha sottolineato Schuster.

Rimane da capire quando nel corso del trattamento sia opportuno inserire anche questa nuova molecola e soprattutto se non si aumenta troppo in questo modo il rischio di effetti collaterali tipici delle terapie cellulari, come la sindrome da rilascio delle citochine. In ogni caso, concludono gli autori, si tratta di risultati preliminari che vanno ulteriormente confermati da studi di fase più avanzata.



www.repubblica.it/dossier/salute/labrevolution/2019/12/09/news/linfoma_non-hodgkin_una_nuova_speranza_per_i_pazienti_che_non_rispondono_alle_terapie-242987610/?ref=RHRS-BH-I242990443-C6-P2...
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Presentati al congresso della Società americana di ematologia i risultati di un anticorpo monoclonale efficace in malati che hanno già ricevuto molti trattamenti, compresa la terapia con cellule ingegnerizzate CAR-T
Si tratta ancora di una terapia sperimentale e la sua efficacia è stata provata in studi che per adesso vogliono capire quale sia la giusta dose di farmaco da dare ai pazienti, ma I risultati sono così incoraggianti da essere presentati in sessione plenaria al congresso della Società americana di Ematologia (Ash) in corso in questi giorni a Orlando. Parliamo di un nuovo anticorpo monoclonale, mosunetuzumab, somministrato a pazienti con linfoma non-Hodgkin resistente, che cioè non risponde a nessuna delle terapie disponibili o che non lo fa più sebbene sia stato trattato con diversi farmaci, compresa la terapia CAR-T. Lo studio multicentrico internazionale presentato a Orlando mostra che nel 22% di questi pazienti così difficili mosunetuzumab ha portato alla remissione completa della malattia.

I linfomi non-Hodgkin sono tumori del sistema linfatico e circa l'85% delle forme interessa le cellule B, come per esempio il linfoma diffuso a grandi cellule B o il linfoma follicolare. La maggior parte dei pazienti risponde bene alle chemioterapie disponibili, ma chi non ha risultati duraturi tende a non reagire bene neanche alle terapie successive. Recentemente, con l'introduzione delle terapie a base di linfociti ingegnerizzati – CAR-T – si è riusciti a indurre una risposta nel 40% di alcuni di questi pazienti (CAR-T è approvata per il linfoma diffuso a grandi cellule B ma non per il linfoma follicolare). “C'è quindi ancora molto bisogno di trattamenti per i casi di linfoma refrattario o che recidiva, anche perché la maggior parte dei pazienti è in condizioni di salute troppo precarie per essere sottoposto a CAR-T”, ha spiegato Stephen J. Schuster, direttore del Lymphoma Program dell'Abramson Cancer Center all'Università della Pennsylvania autore principale dello studio. “Uno dei benefici di questo nuovo farmaco è che è disponibile per tutti, non deve cioè essere prodotto per ogni singolo paziente”.

Mosunetuzumab è un anticorpo monoclonale disegnato per legarsi a due recettori specifici delle cellule tumorali: CD19, come già fanno i linfociti T "armati" nella terapia CAR-T, e CD20. A oggi oltre 270 pazienti hanno ricevuto il farmaco – sotto forma di infusioni che durano diversi mesi – in 7 Paesi in tutto il mondo, di cui 193 sono risultati valutabili. Ebbene i risultati mostrano che nei malati con malattia aggressiva, pari al 65% del campione, c'è stata una riduzione della patologia nel 37% dei casi e una remissione completa nel 19%; nei pazienti con malattia più indolente, invece, la riduzione si è verificata nel 63% dei casi e la remissione completa nel 43%. Non solo. La remissione dura nel tempo, dopo 6 mesi l'83% dei pazienti indolenti che l'avevano raggiunta e il 71% di quelli con malattia aggressiva è ancora libero da malattia. E ancora, in alcuni dei pazienti precedentemente trattati con CAR-T, i test molecolari hanno mostrato che le cellule ingegnerizzate infuse nel loro organismo sono aumentate in seguito alla somministrazione di mosunetuzumab. “Questo significa che non solo mosunetuzumab è capace di uccidere le cellule tumorali ma che riesce anche a rivitalizzare le cellule CAR-T e aumentare l'efficacia del trattamento precedente”, ha sottolineato Schuster.

Rimane da capire quando nel corso del trattamento sia opportuno inserire anche questa nuova molecola e soprattutto se non si aumenta troppo in questo modo il rischio di effetti collaterali tipici delle terapie cellulari, come la sindrome da rilascio delle citochine. In ogni caso, concludono gli autori, si tratta di risultati preliminari che vanno ulteriormente confermati da studi di fase più avanzata.



www.repubblica.it/dossier/salute/labrevolution/2019/12/09/news/linfoma_non-hodgkin_una_nuova_speranza_per_i_pazienti_che_non_rispondono_alle_terapie-242987610/?ref=RHRS-BH-I242990443-C6-P2...
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Per la prima volta, uno studio ha valutato i livelli di queste sostanze che si formano in seguito alla disinfezione dell’acqua. In Italia sarebbero correlati all’1,2% dei casi. Fondamentali i controlli e il rispetto dei limiti

di TIZIANA MORICONI
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21 gennaio 2020
IL 5% DEI CASI di tumore della vescica in Europa sarebbe attribuibile all’esposizione prolungata a sostanze - i trialometani come cloroformio, bromodiclorometano, dibromoclorometano e bromoformio - che si trovano nell’acqua di rubinetto, sottoprodotti dei sistemi per la disinfezione a base di cloro. A sostenerlo uno studio coordinato dall’Institute for Global Health di Barcellona, pubblicato su Environmental Health Perspectives che ha analizzato per la prima volta la presenza di questi composti nell’acqua potabile di 26 Paesi dell’Unione europea, correlandoli con l’incidenza di questo tumore, che è tra più frequenti. La conclusione è chei trialometani rappresenterebbero un fattore di rischio per 6.500 casi ogni anno, e 2.900 di questi potrebbero essere evitati se i Paesi rispettassero i limiti europei.

Il rischio legato ai trialometani
Come riportano gli autori nell’introduzione dello studio, “l’esposizione a lungo termine ai trialometani è stata associata all’aumento del rischio di tumore della vescica”. Questo non vuol dire che sia stata dimostrata una chiara relazione di causa-effetto: l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (International Agency for Research on Cancer - IARC) dell’Organizzazione mondiale della sanità ha classificato due dei trialometani, cloroformio e diclorobromometano, nel gruppo 2B, cioè delle sostanze “possibilmente cancerogene”, per le quali esistono ancora limitate evidenze di cancerogenicità sia negli esseri umani sia negli animali. Altre sostanze (come il bromoformio) sono invece nella lista 3, le “non classificabili come cancerogene per l’essere umano”: vuol dire che esiste il dubbio, ma le prove non sono sufficienti.

L‘indagine
I ricercatori, tra i quali due Italiani dell’Università di Modena e Reggio Emilia, hanno analizzato i valori di trialometani nelle acque municipali registrati durante i monitoraggi di routine tra il 2005 e il 2018 (escludendo Bulgaria e Romania per scarsità di dati). In seguito hanno correlato i livelli con l’incidenza del tumore della vescica, arrivando infine al numero dei casi potenzialmente attribuibili a questi contaminanti nei differenti scenari, sebbene la copertura e l’accuratezza fosse risultata eterogenea. Il livello medio di trialometani è risultato di 11,7 microgrammi per litro (il limite europeo per alcuni di questi è di 30 microgrammi per litro). La concentrazione di questi composti - e il tipo - dipende da diversi fattori, come la temperatura e il pH.

La Danimarca e i Paesi Bassi sono risultati i Paesi con i valori più bassi e, di conseguenza, con la più bassa percentuale di casi potenzialmente attribuibili ai trialometani (0%), seguiti da Germania, Lituania, Austria, Slovenia, Italia e Polonia. Cipro (23,2%), Malta (17,9%) e Irlanda (17,2%) hanno invece le percentuali più alte.

Qualità dell'acqua buona in Italia
Per l’Italia, in particolare, si riporta un valore medio di trialometani di 3,1 microgrammi per litro e di 1,2% di casi di tumore alla vescica potenzialmente attribuibili all’esposizione ai trialometani presenti nell’acqua potabile. Si parla, quindi, di 336 casi sui quasi 30 mila che si verificano ogni anno. La stragrande maggioranza del tumore della vescica, circa il 70%, vede invece il fumo di sigaretta tra i principali fattori di rischio.

“In Italia la situazione è decisamente positiva: la qualità delle nostre acque è estremamente buona e la disinfezione induce una formazione di concentrazioni molto limitate di questi prodotti, tanto che abbiamo potuto adottare un valore guida molto più basso di quello che è consigliato dalla Unione europea (100 microgrammi per litro, ndr) e adottato da molti paesi europei”, spiega Elena Righi, Professore associato di Igiene generale e applicata, epidemiologa ambientale che si occupa da anni dello studio dei potenziali effetti sulla salute legati ai sottoprodotti della disinfezione. “Circa il 99% dei campioni riporta valori inferiori ai 15 migrogrammi per litro”.

I campioni di acqua
Righi ha potuto utilizzare i dati di numerosi campioni, provenienti però da acquedotti che coprono solo il 20% della popolazione italiana: “I dati ci sono e le sostanze vengono controllate in tutti gli acquedotti per legge. Non esiste quindi un problema di controllo, ma solo di diffusione dei dati. Sarebbe importante l’istituzione di un database unico nazionale, in Italia come negli altri Paesi. Bisogna infine ricordare che sull’associazione tra trialometani e tumori esiste ancora molta incertezza. Bisogna continuare a fare ricerca, senza nel frattempo distogliere l’attenzione dai fattori di rischio ben noti, come il fumo. Va infine ricordato che la disinfezione è un intervento fondamentale, e che il processo di ottimizzazione è in corso già da molti anni”.


Anche se la situazione italiana non desta preoccupazioni, lo studio pone l'attenzione sui sistemi di disinfestazione dell'acqua, poco sicuri in altri paesi. “Si tratta di uno studio molto interessante su quello che sembra essere una specie di 'boomerang' dei sistemi di disinfezione dell’acqua, che possono a volte portare alla creazione di sostanze pericolose come i trialometani”, commenta Sergio Bracarda, direttore della Oncologia medica dell’Azienda Ospedaliera Santa Maria di Terni, esperto dei tumori urogenitali. “L’articolo correla la presenza di queste sostanze - aggiunge l'esperto _ a un aumentato rischio di tumori della vescica, una delle neoplasie più frequenti in assoluto, dopo aver valutato esposizione ad altri fattori di rischio come il fumo di sigaretta. Pur essendo l’Italia considerata un area a basso rischio nell’ambito dei paesi europei studiati, la presenza di una copertura geografica incompleta e l’esistenza di paesi europei a rischio zero anche per l’uso di sistemi di potabilizzazione diversificati, suggeriscono l’importanza di un monitoraggio e di un miglioramento continuo della qualità delle acque potabili italiane, al fine di ridurre ulteriormente i rischi indiretti derivanti dall’uso di acqua potabile. I buoni stili di vita non vanno solo incoraggiati ma anche supportati".



www.repubblica.it/salute/medicina-e-ricerca/2020/01/21/news/tumore_della_vescica_oltre_6_mila_casi_in_europa_associati_ai_contaminati_presenti_nell_acqua_potabile-246304729/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P11...
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Sperimentato con successo all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma un trattamento che mitiga gli effetti collaterali di CAR-T depurando il sangue dei pazienti

di DAVIDE MICHIELIN
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17 febbraio 2020
NEGLI ultimi anni, la terapia CAR-T ha letteralmente rivoluzionato il trattamento dei tumori del sangue che non rispondono alla chemioterapia: i linfociti T del paziente vengono prelevati, riprogrammati per riconoscere le cellule neoplastiche e quindi reinfusi. La desiderata reazione infiammatoria può tuttavia sfuggire al controllo e compromettere, in circa un quarto dei casi, le funzioni vitali del paziente leucemico trattato con l'immunoterapia. È la cosiddetta sindrome da rilascio di citochine, i mediatori dell’infiammazione e della sepsi, che nei casi più gravi può portare il paziente alla morte. Sino ad oggi, la sindrome è stata trattata con farmaci che non sempre riescono a controllare lo stato infiammatorio, oltre a sopprimere il sistema immunitario.

Nel tentativo di limitare questo effetto collaterale, senza incidere sull’efficacia della terapia genica, nei mesi scorsi i medici della Terapia intensiva pediatrica Area Rossa e quelli dell’Oncoematologia pediatrica del Bambino Gesù di Roma hanno sperimentato con successo un approccio inedito: purificare rapidamente, e in maniera selettiva, il sangue. Nello studio pubblicato sulla rivista Critical Care Explorations, la dottoressa Gabriella Bottari e colleghi riportano il primo caso di un quattordicenne affetto da una grave forma di leucemia linfoblastica acuta – la forma più diffusa in età pediatrica, che ogni anno in Italia conta circa 400 nuovi casi – trattato con le CAR-T in combinazione con l’emoperfusione extracorporea, dopo l’insorgenza di una forma gravissima di sindrome da rilascio citochinico. Il piccolo paziente, ricoverato in terapia intensiva pediatrica aveva infatti sviluppato una grave insufficienza respiratoria su base infiammatoria a distanza di una settimana dall’infusione delle CAR-T ed è stato salvato e dimesso dopo 15 giorni dalla terapia intensiva pediatrica.

MEDICINA E RICERCA
Via libera alla Car-T: in Italia sbarca la prima super terapia contro i linfomi
DI MICHELE BOCCI

“Nei pazienti con forme gravi della sindrome da rilascio di citochine, gli anticorpi monoclonali che inibiscono le citochine, e in particolare quello contro l’interleuchina 6, rimangono la prima linea di trattamento” premette Bottari. “Tuttavia, essi sono estremamente selettivi: in alcuni casi non sono sufficienti a controllare l’infiammazione e inoltre non tutti i pazienti rispondono”. Nell’approccio tentato al Bambino Gesù il sangue venoso viene prelevato, transita attraverso delle colonne di assorbimento e quindi ritorna nel paziente in un circolo continuo. Durante il percorso, le molecole indesiderate, cioè le citochine infiammatorie, vengono catturate da resine speciali che lasciano passare le altre componenti, inclusi i linfociti T. La vasta superficie di contatto del sorbente, grande quanto quattro campi da calcio, permette di filtrare fino a 300 litri di sangue al giorno. Dando così il tempo anche alle citochine presenti nei diversi distretti corporei di raggiungere il sangue e venire rimosse. In questo sistema c’è molto made in Italy: l’innovativa resina assorbente delle colonne è stata sviluppata dall’azienda Aferetica/Cytosorb, nata nel 2014 come startup all’interno dell’incubatore del Parco scientifico e tecnologico di Mirandola.

MEDICINA E RICERCA
Car-T, come funziona la super terapia contro i tumori del sangue

Il ricorso a questa terapia ha consentito di ridurre i valori delle citochine in maniera significativa e di migliorare l’evoluzione del danno d’organo correlato a questi mediatori dell’infiammazione. L’emoperfusione extra-corporea con colonna ad adsorbimento ha una duplice potenzialità. “In primo luogo, l’effetto sinergico con i farmaci anti-citochine oppure la loro sostituzione nei pazienti che non rispondono a questa linea terapeutica. Inoltre, ha la capacità di non interferire su una terapia ‘viva’ come quella basata su cellule CAR-T nella loro azione contro il cancro”. Il progetto è promettente e proseguirà per verificare in quali altri ambiti si possa applicare perché “la terapia non è solo di supporto agli organi ma letteralmente curativa” conclude Bottari.



www.repubblica.it/salute/medicina-e-ricerca/2020/02/17/news/car-t_testata_per_la_prima_volta_una_terapia_che_contrasta_gli_effetti_collaterali_nelle_leucemie_acute-248793397/?ref=RHPPLF-BH-I248796467-C4-P12...
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L'aspirina riduce il rischio di diversi tumori gastrici
Una meta-analisi di oltre cento studi condotta dall’Istituto Mario Negri di Milano mostra una diminuzione del rischio dal 22 al 38% dei tumori gastro-esofagei ed epatobiliari, compresi i più aggressivi come quelli del pancreas. Ma servono conferme del ruolo preventivo

di TIZIANA MORICONI
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16 aprile 2020
L'aspirina riduce il rischio di diversi tumori gastrici
Foto di Steve Buissinne da Pixabay
L’ASPIRINA è associata a una riduzione del rischio di sviluppare molti tipi di cancro del tratto digestivo, compresi alcuni particolarmente aggressivi, come quelli del pancreas e del fegato. Una conferma di quanto altri studi avevano in parte già osservato arriva dalla analisi più ampia condotta fino ad oggi, che mostra una riduzione del rischio tra il 22% e il 38%. Lo studio, pubblicato su Annals of Oncology, è italiano, guidato da Cristina Bosetti, a capo dell’Unità di Epidemiologia dei tumori dell’Istituto Mario Negri di Milano.

Lo studio
Da diverso tempo si stanno accumulando dati convincenti a sostegno dell’ipotesi che l’aspirina possa avere un effetto protettivo nei confronti del tumori dell’intestino, e altri più piccole analisi hanno suggerito un’associazione con la riduzione del rischio anche in tumori del tratto esofageo e dello stomaco. Il nuovo studio è una meta-analisi di 113 studi osservazionali condotti nella popolazione generale fino al 2019, per un totale di 156 mila casi. Di questi studi, 45 riguardano l’intestino, 13 l’esofago, 10 il cardias, 14 lo stomaco, 5 i dotti biliari, il fegato e la cistifellea, e 15 il pancreas e 10 il tratto testa-collo.

LEGGI - Tumore del fegato, l'aspirina a basse dosi riduce il rischio

Ad eccezione di questi ultimi, l’assunzione regolare di una o due pillole di aspirina a settimana è stata associata ad una riduzione statisticamente significativa del rischio di sviluppare tutti i tipi di cancro. In particolare: del 27% quelli dell’intestino, del 33% quelli dell’esofago, del 39% quelli del cardias, del 36% quelli dello stomaco, del 38% quelli epatobiliari e del 22% quelli del pancreas. All'inizio di aprile, inoltre, altri dati da metanalisi, pubblicati sempre dal gruppo dell'istituto Mario Negri, confermano la riduzione del rischio per il cancro del colon-retto.

LEGGI - Sì, la cardioaspirina riduce il rischio di tumore al colon-retto

“Per il 2020 sono attesi circa 175 mila decessi per tumori dell’intestino in Europa, di cui 100 mila in persone tra 50 e 74 anni. Se altri studi confermeranno questi dati, assumendo che l’uso dell’aspirina passa dal 25% al 50% in questa fascia di età, potrebbero essere evitate 12-18 mila nuove diagnosi e 5-7 mila morti per tumore all'intestino. Altri 3 mila decessi potrebbero essere risparmiati per i tumori di esofago, stomaco e pancreas, e 2 mila per i tumori del fegato”, ha commentato Carlo La Vecchia, Professore di Epidemiologia presso la Scuola di Medicina dell’Università di Milano. “I risultati - continua l'esperto - suggeriscono un ruolo preventivo dell’aspirina, in linea con l’effetto osservato negli studi clinici sul rischio cardiovascolare. Le persone ad alto rischio di questi tumori sono quelle che hanno maggiore probabilità di trarne i benefici maggiori. Un uso a scopo preventivo dell’aspirina, però, deve essere fatto solo in accordo con il proprio medico, tenendo conto dei rischi individuali: età, genere, storia familiare e ad altri fattori”.

Dosi e tempo di assunzione contano
Per quanto riguarda il tumore dell’intestino, i ricercatori del Mario Negri hanno anche analizzato dosi e durata di assunzione dell’aspirina. “Abbiamo osservato che il rischio di cancro diminuisce all’aumentare della dose”, dice Bosetti: “Una dose tra i 75 e 100 mg al giorno è stata associata a un riduzione del 10% rispetto a chi non assume il farmaco; una dose alta, di 325 mg al giorno è invece associata a una riduzione del 35%, e una dose di 500 mg al giorno a una riduzione del 50%. I dati riguardanti le dosi più alte, però, si basano su pochi studi e devono essere interpretati con precauzione”. Inoltre, bisogna tenere anche tenere conto del rischio di ulcere e sanguinamenti, che aumenta con la dose. Anche il tempo di assunzione conta: la riduzione del rischio di tumori dell’intestino passa dal 4% dopo un anno, all’11% dopo tre anni, al 19% dopo cinque e al 29% dopo dieci. Nel pancreas, dopo 5 anni si è visto un calo del 25% rispetto a chi non prende il medicinale.

I limiti dello studio
Bisogna però tenere conto - sottolineano gli autori - che questa analisi si basa su studi osservazionali e non prospettici, e possono quindi esserci fattori confondenti. Altre limitazioni includono il fatto che le persone possono aver riportato l’uso di aspirina in modo non accurato e che molti degli studi non hanno considerato l’uso concomitante di altri farmaci.


www.repubblica.it/oncologia/prevenzione/2020/04/16/news/studio_italiano_aspirina_associata_alla_riduzione_del_rischio_di_diversi_tipi_di_cancro_anche_del_pancreas-254156844/?ref=RHPPBT-VV-I0-C4-P18...
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Due giovani ricercatori torinesi scoprono un inibitore del cancro ai polmoni
Collaborazione tra il Piemonte e New York, la sperimentazione potrebbe giovare anche a chi ha tumori al colon-retto e al pancreas

di OTTAVIA GIUSTETTI
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14 luglio 2020
Due giovani ricercatori torinesi scoprono un inibitore del cancro ai polmoni
Due giovani ricercatori tra Torino e New York per una scoperta molto importante per la cura del cancro, appena pubblicata dalla prestigiosa rivista Cancer Discovery. Sandra Misale, dottorata dell'Università di Torino, e attualmente ricercatrice associata al Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, e Vito Amodio, dottorando dell'Università di Torino, insieme a un'altra scienziata torinese, Pamela Arcella, firmano la scoperta di un inibitore del Kras, uno dei geni mutati più comuni nei tumori umani, come il cancro ai polmoni, al colon-retto e al pancreas. Questo gene è stato considerato incurabile per decenni, fino al recente sviluppo di una nuova classe di inibitori covalenti, tra cui appunto il promettente Amg510, capace di inibire una delle versioni mutanti del Kras, la G12c. Questa mutazione è presente in gruppi di pazienti affetti da cancro ai polmoni e al colon-retto. E l'uso dell'inibitore Amg510 del gene, seppur in una fase ancora sperimentale, ha mostrato risultati promettenti sui pazienti colpiti da cancro ai polmoni.

"In questo lavoro, abbiamo cercato di comprendere i meccanismi alla base delle differenze di lignaggio nelle cellule del cancro ai polmoni e del cancro al colon-retto", spiega Sandra Misale. "I dati ci dicono che, nonostante ospitino la stessa mutazione, ci sono differenze intrinseche nel manifestarsi tra i due tipi di cancro, che si traduce in sensibilità diverse dell'inibizione del gene Kras G12c. Queste scoperte hanno una rilevanza immediata per i pazienti affetti da cancro al colon-retto, un tumore causato dalla mutazione del gene Kras G12c". Lo studio dal titolo "Egfr blockade reverts resistance to KrasgG12C inhibition in colorectal cancer" è condotto dal team internazionale di esperti e guidato da Alberto Bardelli, direttore del laboratorio di Oncologia Molecolare all'Irccs Candiolo e docente del dipartimento di Oncologia dell'Università di Torino.




torino.repubblica.it/cronaca/2020/07/14/news/scoperta_torino_new_york_cancro_al_colon-261899676/?ref=RHPPLF-VU-I257343052-C8-P4...
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30/11/2020 19:33
 
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Lecce militare stroncato a 21 anni dalla leucemia. La Cassazione: "Nesso tra malattia e gli 11 vaccini somministrati in 8 mesi"
di Francesco Oliva

Una sentenza che è destinata a rappresentare un precedente per i circa 3mila militari colpiti da linfoma durante il servizio. "Non va demonizzato il vaccino di per sé - chiarisce l'avvocato - ma le tempistiche delle somministrazioni troppo ravvicinate"
30 NOVEMBRE 2020
2 MINUTI DI LETTURA
Morto per una leucemia fulminante dopo la somministrazione di undici vaccini in appena otto mesi. La Corte di Cassazione ha confermato il nesso di causalità tra quelle vaccinazioni e il decesso di Fabio Mondello, un volontario in ferma breve dell'Esercito, originario di Gallipoli. "È la prima causa che arriva in Cassazione e visto che la Corte ha confermato il nesso di causalità si tratta a pieno titolo di una sentenza che è destinata a rappresentare un precedente per i circa 3mila militari colpiti da linfoma durante il servizio", è il commento dell'avvocato della famiglia, Francesco Terrulli.

Il giovane salentino si era arruolato agli inizi del 1999. Mesi dopo inizia ad effettuare tutte le vaccinazioni. Ben 11 fino ad aprile del 2000. In quel periodo Mondello è in servizio a Civitavecchia. È sano e con una salute di ferro. Fino a quando non inizia ad accusare febbre, debolezza e continue perdite di sangue dal naso. Ricoverato, la diagnosi è atroce: leucemia. E dopo neppure un anno il giovane militare muore a soli 21 anni. Da quel momento i genitori del ragazzo hanno avviato una battaglia "iniziata 12 anni fa per ottenere giustizia per un figlio - precisa l'avvocato della famiglia - che mai niente e nessuno potrà restituire".

Dopo un primo ricorso presso il Tribunale di Lecce, la svolta arriva nel secondo grado di giudizio quando la Corte d'Appello riconosce il nesso di causalità tra le vaccinazioni e la morte del militare salentino alla luce delle risultanze di una consulenza tecnica d'ufficio e di un ampio carteggio depositato dalla difesa. "Non va demonizzato il vaccino di per sé - chiarisce l'avvocato - ma le tempistiche delle somministrazioni troppo ravvicinate". Di fatto la battaglia legale si è trasformata in un iter giudiziario lungo, sfiancante e doloroso per i familiari di Fabio. Contro quella decisione il Ministero stesso ha presentato ricorso in Cassazione che, per due volte, ha confermato la sentenza della Corte d'Appello senza entrare nel merito "perché il provvedimento dei giudici leccesi - spiega l'avvocato Terrulli - era molto motivato". La Cassazione, con la sentenza dello scorso 25 novembre, ha così riconosciuto "L'alta probabilità statistica che il considerevole numero di vaccinazioni somministrate in brevissima sequenza temporale abbia causato o comunque favorito la malattia acuta letale. Il nesso di causalità è un punto fermo sotto il profilo medico, legale e scientifico", spiega l'avvocato.

Battaglia vinta? No. Solo in parte. Rimane aperto il fronte dell'indennizzo che il Ministero della Salute dovrebbe concedere ai familiari della
vittima: 65mila per una vita umana volata in cielo a soli 21 anni anche se "nessuna cifra potrà ripagare il dolore di una famiglia che ha perso il proprio figlio in pochi mesi". Un fronte su cui Corte d'appello e Cassazione hanno adottato interpretazioni differenti. Per i giudici di secondo grado per ottenere tale indennizzo sarebbe stato sufficiente dimostrare la coabitazione e non che i superstiti, ossia i genitori del militare, risultassero a carico del ragazzo deceduto".

Mondello aveva la residenza a casa dei genitori, di cui era convivente, quindi ai genitori ed eredi sarebbe spettato - secondo la Corte dì; Appello - l'indennizzo. La Cassazione, però, ha adottato un orientamento differente accogliendo il ricorso del Ministero della Salute con l'avvocatura dello Stato basato sul presupposto che il militare non manteneva i genitori e che gli aventi diritto all'indennizzo da parte del ministero della Salute risultavano "i soli superstiti a carico delle persone decedute" e non anche i conviventi. La Suprema Corte ha così rimandato gli atti davanti
alla Corte d'Appello per una nuova valutazione nonostante le perplessità dell'avvocato Terrulli "perché risulta impossibile che un ragazzo di soli 20 anni, alla sua prima esperienza lavorativa fuori di casa, possa già trovarsi nelle condizioni di mantenere i propri genitori".



bari.repubblica.it/cronaca/2020/11/30/news/lecce_militare_leucemia_nesso_con_vaccini-27...
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Tumori, in Australia allo studio «un virus capace di uccidere tutti i tipi di cancro»
SALUTE > RICERCA
Sabato 9 Novembre 2019 di Alix Amer
73,3 mila
​​Tumori, dall'Australia: «Allo studio un virus capace di uccidere tutti i tipi di cancro»
Alcuni scienziati in Australia hanno sviluppato una nuova cura basata sull’utilizzo del virus del vaiolo bovino per sconfiggere le cellule tumorali. Secondo il Daily Telegraph, il trattamento, chiamato CF33, ucciderebbe ogni tipo di cancro e, sempre secondo le fonti mediche, durante la sperimentazione avrebbe ridotto i tumori nei topi.

APPROFONDIMENTI
Il professor Yuman Fong, esperto statunitense di cancro, sta pianificando il trattamento, sviluppato dalla società biotecnologica australiana Imugene. Ora sperano che la cura possa essere testata entro il prossimo anno su pazienti affetti da carcinoma. Il professor Fong è attualmente in Australia per organizzare le sperimentazioni cliniche, che saranno condotte anche all’estero. I pazienti con carcinoma mammario triplo negativo, melanoma, carcinoma polmonare, vescica, carcinoma gastrico e intestinale verrebbero testati nel “basket study”.

Il successo con i topi non garantisce che il virus possa essere in grado di curare gli esseri umani, ma il professore Fong rimane positivo, poiché altri virus specifici sono stati efficaci nella lotta contro il cancro nell’uomo. «Il virus, che causa il raffreddore comune, è stato trasformato in un trattamento per il cancro al cervello dagli scienziati negli Stati Uniti. La malattia in alcuni pazienti è scomparsa per anni prima che di tornare, mentre altri hanno visto i tumori ridursi considerevolmente».

Allo stesso modo, si è scoperto che una forma del virus dell’herpes labiale chiamato Imlygic o T-Vec è in grado di trattare il melanoma, poiché ha aiutato il sistema immunitario a riconoscere e distruggere tumori e cellule di melanoma nel corpo. «C’erano prove che i virus potevano uccidere il cancro già dai primi del 1900», ha spiegato ancora Fong. Ma c’erano anche delle preoccupazioni che i virus potessero essere troppo tossici per l’uomo e diventare fatali. «Il problema era che se rendevi il virus abbastanza tossico da uccidere il cancro, temevi che avrebbe potuto uccidere anche l’uomo», ha aggiuto.

Mescolando il vaiolo bovino con altri virus, i test hanno scoperto che si potrebbe arrivare ad uccidere il cancro. «Si spera che il virus infetti le chiamate contro il cancro e le faccia esplodere. Il sistema immunitario dovrebbe quindi essere avvisato di altre cellule tumorali nel corpo, spingendo le cellule malate ad essere uccise».


www.ilmessaggero.it/salute/ricerca/tumori_australia_virus_ultime_notizie_oggi-4852...
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Dove curo il tumore? È online la mappa degli ospedali sicuri
di LETIZIA GABAGLIO
Per garantire una assistenza adeguata è fondamentale che gli ospedali eseguano un minimo di interventi all'anno. Ora sul web si può controllare quanti ne fanno, Regione per Regione

20 GIUGNO 2019
PUBBLICATO + DI UN ANNO FA
4 MINUTI DI LETTURA
MAGGIORE è il numero di pazienti con tumore che vengono operati in un ospedale, migliore è la qualità dell'assistenza che possono ricevere. È una questione di competenza e di esperienza. D'altronde, preferireste che la vostra macchina fosse riparata da un meccanico che ne ha visti almeno 100 di modelli come il vostro o da uno che ne ha toccati solo 10? Per orientare i pazienti oncologici e i loro familiari nella scelta del centro a cui rivolgersi per affrontare la malattia, Fondazione AIOM dedica due sezioni del sito a “Dove mi curo” e “Come mi curo”, temi al centro di un convegno nazionale oggi a Roma (Palazzo Giustiniani), realizzato con il contributo incondizionato di 3M.
Le soglie minime
Nel caso della cura dei tumori e della chirurgia oncologica, il primo presidio nella cura del cancro, la comunità scientifica ha stabilito che se non si eseguono almeno un tot di interventi l'anno non ci si può considerare “esperti”. Per il tumore del polmone sono 70, per quello della mammella 150 e così via. La mappa disegnata sul sito della Fondazione fa emergere un quadro per certi versi preoccupante: nella chirurgia del carcinoma del polmone, solo il 27% esegue il numero minimo di operazioni; soltanto il 23% dei centri (rispetto al 33% del 2016) è “esperto” di tumore dello stomaco; solo quattro Regioni (Veneto, Lombardia, Toscana e Lazio) hanno un centro che esegue il minimo di operazioni stabilito per il tumore al pancreas. Dall’altro lato, il nostro Paese registra miglioramenti nel cancro della mammella: nel 2017, il 20% degli ospedali ha effettuato almeno 150 interventi chirurgici, lo standard stabilito per legge, rispetto al 16,5% del 2015. Non solo. La proporzione di re-interventi di resezione entro 120 giorni da un’operazione conservativa per carcinoma della mammella si è ridotta nel tempo, passando dal 12,3% del 2010 al 7,4% del 2017, a conferma che alti volumi di attività garantiscono migliore qualità delle cure. “I dati della letteratura scientifica hanno confermato la forte associazione tra volumi di attività chirurgica più alti e migliori esiti delle cure oncologiche. Vogliamo offrire ai cittadini una fotografia delle strutture sanitarie ad alto volume di chirurgia oncologica”, sottolinea Fabrizio Nicolis, presidente di Fondazione AIOM. “Devono aumentare i centri che rispondono alla soglia minima di procedure chirurgiche richiesta”.
Le buone pratiche
La quantità da sola, però, non basta. Ci vogliono anche le buone pratiche assistenziali prima, durante e dopo la chirurgia. “Un obiettivo che può essere realizzato solo grazie a team multidisciplinari, che caratterizzano ad esempio le Breast Unit/Centri di senologia”, va avanti Nicolis. “È significativo anche il dato sugli interventi di ricostruzione contestuale a un’operazione chirurgica demolitiva per carcinoma della mammella, che è migliorato nel tempo, passando dal 35,5% del 2010 al 50% del 2017. Questa procedura consente di semplificare il processo ricostruttivo dell’organo e di ridurre l’impatto psicologico e sociale dell’intervento demolitivo, senza modificare il percorso terapeutico della paziente”. Un miglioramento che non procede però spedito su tutto il territorio: l’Umbria e la Provincia Autonoma di Trento riportano il 70% di ricostruzioni contestuali rispetto al 26% di Calabria e Campania. E spesso ci sono differenze marcate anche dentro le stesse Regioni.

“È innegabile il progresso verso una razionalizzazione e centralizzazione delle patologie oncologiche maggiori in centri ad alto volume di attività. Ad esempio, in 5 anni (2013-2017), la percentuale dei centri sopra la soglia richiesta è raddoppiata per il cancro del polmone e della mammella, anche se siamo ancora lontani dal conseguimento di un risultato ottimale”, afferma Alessandro Gronchi, Presidente Eletto Società Italiana di Chirurgia Oncologica (SICO). “È quindi indispensabile arrivare a un sistema di riferimento dei pazienti, qualsiasi sia la loro patologia, cioè a centri ad alto volume per la patologia specifica. Il tutto andrebbe organizzato in una logica di rete, per minimizzare gli spostamenti dei pazienti alle fasi di cura in cui è strettamente necessario. Le reti oncologiche regionali, così come la rete nazionale tumori rari, dovrebbero diventare il cardine della riorganizzazione, per massimizzare gli outcome e minimizzare le spese del nostro sistema”.
Non bastano i volumi
“Un ampio bacino di pazienti e il superamento delle soglie non rende automaticamente un ospedale virtuoso in termini di completezza e qualità assistenziali”, dice ancora Nicolis. “Per garantire standard elevati, servono centri dotati di un team multidisciplinare composto da figure esperte”. Lo specialista in anestesia-rianimazione-terapia intensiva del dolore, per esempio, oltre a giocare un ruolo trasversale come medico del perioperatorio, può supportare il percorso terapeutico sia nelle fasi diagnostiche propedeutiche al trattamento, che nell’assistenza alla fragilità che molti di questi malati sviluppano e che richiede cure personalizzate. “Anche l’intervento, di conseguenza, deve essere inserito in un contesto globale, programmato con tempi e modalità improntati alla massima efficacia e alla minima sofferenza, salvaguardando la sicurezza e definendo insieme alla persona in cura la compromissione tollerabile della qualità della vita, scelta del tutto personale”, spiega Flavia Petrini, Presidente Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI). Fondamentale anche la figura dell'infermiere “che deve possedere notevoli capacità relazionali, comunicative e competenze altamente specialistiche. Siamo infatti a contatto con pazienti spesso fragili che presentano diversi bisogni, a partire dalla necessità di mantenere una qualità di vita soddisfacente”, afferma Alessio Piredda, Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche (FNOPI).
I bisogni dell'individuo
La medicina di eccellenza data dai grandi volumi non può pero ignorare la dimensione dell’individuo e delle sue abitudini e stili di vita entro cui si iscrive l'intervento chirurgico oncologico programmato. Uno dei tanti problemi da affrontare riguarda, ad esempio, lo stato nutrizionale dei pazienti. Il successo della chirurgia oncologica non è esclusivamente correlato alla qualità ed efficacia del gesto chirurgico, infatti, ma anche alla capacità dell’organismo di reagire a questo trauma con un supporto nutrizionale adeguato. “La malnutrizione del paziente sottoposto a chirurgia oncologica provoca un prolungamento della permanenza in ospedale dopo l’intervento, un aumento delle complicanze postoperatorie e della mortalità postoperatoria e, spesso, un ritardo nell’inizio di ulteriori terapie. Per questo, la valutazione preoperatoria dello stato nutrizionale e il supporto dietologico in preparazione, durante e dopo il ricovero sono alcuni dei fattori che determinano l’esito positivo delle cure”, spiega Nicolis.
Da dove provengono i dati
Il sito di Fondazione AIOM, nelle sezioni dedicate a “Dove mi curo” e “Come mi curo”, utilizza i dati forniti dal Programma Nazionale Esiti (PNE) dell’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (AGENAS). I numeri sono suddivisi per Regione e per intervento chirurgico, riportando i dati degli ospedali che effettuano un numero totale di interventi superiore ad una determinata soglia. “Questo valore, per ciascuna patologia oncologica, è individuato da fonti nazionali e, nel caso di assenza di un riferimento normativo, si è fatto ricorso alla letteratura scientifica internazionale più recente”, sottolinea Maria Chiara Corti, Coordinatore delle Attività del Programma Nazionale Esiti di AGENAS. “I dati della letteratura sono concordi nel sottolineare che il rischio post-operatorio per i pazienti diminuisce all’aumentare dei volumi di attività delle strutture e dei reparti. Le conoscenze scientifiche, da sole, non consentono di identificare per gli indicatori di volume un preciso e puntuale valore soglia, minimo o massimo, ma è possibile stabilire un intervallo, al di sotto del quale il rischio di esiti negativi aumenta notevolmente”. È dimostrato che la mortalità a 30 giorni dopo l’intervento chirurgico diminuisce decisamente nei centri con almeno 50-70 interventi all’anno per tumore del polmone, nei centri con almeno 50 interventi per carcinoma del pancreas e nei centri con 20-30 interventi per tumore dello stomaco.



www.repubblica.it/oncologia/news/2019/06/20/news/dove_curo_il_tumore_e_online_la_mappa_degli_ospedali_migliori-22...
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Tumore del colon-retto: la carne rossa mette a rischio anche i giovani
di Tiziana Moriconi

Una nuova analisi ha indagato il ruolo dei fattori di rischio non genetici per i tumori negli under 50. E porta nuove conferme sul nesso con un maggiore consumo di carne rossa e di alcolici
20 MAGGIO 2021
3 MINUTI DI LETTURA
SI TORNA a parlare del nesso tra consumo di carne rossa e tumore del colon-retto, ma questa volta negli under 50. A portare nuovi dati su una questione a lungo indagata e ancora dibattuta è una analisi condotta negli Usa dalla NYU Langone Health, finanziata dal National Cancer Institute e pubblicata su JNCI Cancer Spectrum, che ha esplorato i fattori non genetici associati all'aumento del rischio di questa neoplasia nei più giovani.


Elevato consumo di carne rossa e di alcolici tra i fattori di rischio per i più giovani
Utilizzando i dati raccolti in 13 studi di popolazione, i ricercatori hanno comparato oltre 3.700 casi di tumore del colon-retto con 4mila casi controllo (persone che non hanno sviluppato la malattia) negli under 50. Lo stesso hanno fatto per la fascia di età superiore ai 50 anni, confrontando più di 23.400 pazienti con più di 35.300 casi-controllo.

Tra i più giovani, il tumore del colon-retto è risultato associato a un uso non regolare di aspirina, a un maggior consumo di carne rossa, a un basso livello di istruzione, a un consumo eccessivo di alcolici, come anche - da notare - alla totale astinenza dall'alcol. Un introito inferiore di fibre, inoltre, è stato associato in modo più forte al tumore del retto che non al tumore del colon. Ci sono anche altri fattori per i quali è stata messa in evidenza un'associazione, tra cui il diabete e un basso apporto di folati (vitamine del gruppo B) e di calcio, oltre che di fibre. Non è stata invece trovata una correlazione né con l'indice di massa corporea né con il fumo, diversamente per quanto emerge per gli over 50.

Sindrome di Lynch: l’aspirina dimezza il rischio di tumore del colon-retto
di MARIA TERESA BRADASCIO
01 Luglio 2020

Casi raddoppiati negli ultimi 40 anni negli Usa
Lo studio parte da una constatazione: che oltreoceano l'incidenza dei tumori del colon-retto sotto i 50 anni (early-onset colorectal cancer - EOCRC) è quasi raddoppiata negli ultimi 30 anni, passando da 8,6 a 13,1 casi per centomila abitanti tra il 1992 e il 2013. Ad essere aumentati in questa classe di età - riportano i ricercatori della NYU Langone Health - sono soprattutto i tumori del retto: circa una diagnosi su 10, infatti, ha riguardato persone sotto i 50 anni. La curva cresce per i nati dagli anni Sessanta in poi, sia negli Usa sia in Canada, in Australia e in Giappone. Da quegli stessi anni - fanno notare gli autori - si sono verificati anche i principali cambiamenti nella dieta, con una diminuzione del consumo di verdura (a eccezione delle patate) e della frutta, e un aumento del consumo dei cibi processati e dei soft drink.

Perché il cancro colpisce sempre più giovani
di Tiziana Moriconi , Tina Simoniello
12 Gennaio 2021

Molte ricerche negli ultimi anni hanno esplorato il ruolo della dieta e di alcuni alimenti in particolare, come anche del sovrappeso, dell'obesità e di uno stile di vita sedentario. Una recente metanalisi pubblicata su Jama Open, per esempio, ha passato in rassegna le evidenze scientifiche sulle correlazioni tra rischio di tumore, alimenti e tipi di diete, definendo come "convincenti" quelle con elevati consumi di carne rossa e alcolici, mentre un elevato apporto di fibre si è confermato protettivo.

Cancro del colon-retto: i cibi che aumentano il rischio e quelli “protettivi”
di Tina Simoniello
25 Febbraio 2021

Un altro studio condotto dalla International Agency for Research on Cancer (IARC) e pubblicata su BMC Medicine ha invece trovato che il ruolo del peso e dell'indice di massa corporea (BMI) è diverso per gli uomini e le donne. Un elevato BMI sembra essere più pericoloso per i primi, mentre un eccessivo rapporto vita-fianchi (una misura del grasso addominale, che si calcola dividendo la misura del girovita per la circonferenza a livello dell'anca) lo sarebbe per le seconde.

Tumori, il rischio legato al sovrappeso è diverso per uomini e donne
di Tina Simoniello
10 Febbraio 2021

Italia in controtendenza: i casi diminuiscono
Negli Usa, l'American Cancer Society ha già raccomandato di portare l'inizio dello screening a 45 anni invece che 50, e anche in Europa i dati sull'aumento dell'incidenza negli under 30 sono bene noti. In questo quadro, il nostro paese rappresenta un'eccezione. Il numero di casi di tumori del colon-retto è infatti in diminuzione: è calato di ben il 20% negli ultimi 7 anni, passando da 53 mila a 43 mila l'anno. Tanto che gli oncologi parlano di un 'caso colon-retto'. Questi dati si devono - secondo gli esperti - alla diffusione degli screening che permettono di identificare e asportare i polipi prima che si sviluppino in tumori veri e propri, servendo quindi come strumento di prevenzione, oltre che di diagnosi precoce.

Lo ‘strano’ caso del colon-retto: diagnosi diminuite del 20% in 7 anni
di IRMA D'ARIA
08 Ottobre 2020

La diminuzione, però, non è così evidente sotto i 40 anni. Va detto che in questa fascia di età i casi sono rari: rappresentano appena il 5% circa di tutte le diagnosi (2300 casi stimati nel 2020) e per la maggior parte sono legati a sindromi genetiche.





www.repubblica.it/salute/dossier/oncoline/2021/05/20/news/tumore_del_colon-retto_la_carne_rossa_tra_i_fattori_di_rischio_nei_giovani-301808112/?ref=RHTP-BG-I294524205-...
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21/04/2022 11:35
 
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Come un incantesimo delle fiabe, è con un bacio del sonno che le cellule tumorali fanno addormentare le cellule Natural Killer del sistema immunitario. A scoprirlo, i ricercatori dell’Ospedale di Ottawa e dell’Università di Ottawa in Canada i cui risultati sono stati pubblicati su Science Advances. Questa sorta di bacio tra le cellule è chiamato trogocitosi e gioca un ruolo chiave nella battaglia tra il sistema immunitario e le cellule tumorali del sangue. La trogocitosi è un fenomeno per cui le cellule immunitarie, come le cellule Natural Killer (NK), entrano in stretto contatto con un’altra cellula e ‘rubano’ un pezzo della sua membrana. Michele Ardolino e il suo team hanno scoperto che quando le cellule NK rubano le membrane dalle cellule tumorali del sangue, una proteina chiamata PD-1 fa addormentare le cellule NK, interrompendo la loro attività antitumorale. “Le cellule NK sono eccezionali killer del cancro e in precedenza abbiamo scoperto che il PD-1 impedisce loro di funzionare correttamente”, afferma Ardolino, scienziato presso l’ospedale di Ottawa e assistente professore presso l’Università di Ottawa.

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“Un pezzo mancante del puzzle è il modo in cui le cellule NK producono PD-1. Ora capiamo perché: le cellule NK non producono il proprio PD-1, ma lo rubano dalle cellule tumorali! Non sappiamo esattamente perché le cellule NK rubano le membrane dalle cellule tumorali, ma sembra chiaro che i tumori dirottano il processo per far addormentare le cellule NK ed eludere il sistema immunitario”, prosegue Ardolino. Fortunatamente, i farmaci che bloccano il PD-1, chiamati anche inibitori del PD-1 o inibitori del checkpoint immunitario, sono ora abitualmente utilizzati per “risvegliare” il sistema immunitario e aiutarlo a combattere le cellule tumorali. Questi farmaci hanno migliorato significativamente la sopravvivenza per le persone con alcuni tipi di cancro della pelle, del sangue e ai polmoni. Gli inibitori del PD-1 sono stati originariamente sviluppati per risvegliare i linfociti T del sistema immunitario. La ricerca di Ardolino risolve un mistero su come gli inibitori del PD-1 funzionano sulle cellule NK. Una migliore comprensione di come questi farmaci agiscono su diversi tipi di cellule immunitarie potrebbe portare a nuovi tipi di immunoterapia per il cancro, sostengono i ricercatori.

L’abstract dello studio

Foto: Hasim et al., Sci. avv. 8, eabj3286 (2022)

Paola Perrotta


www.ilfattoquotidiano.it/2022/04/20/cosi-le-cellule-tumorali-fanno-addormentare-le-cellule-killer-del-cancro-lo-studio-su-science/...
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Ateneo Bologna, lo studio: l’inquinamento ambientale ha un ruolo rilevante nei decessi per tumore in Italia
Ateneo Bologna, lo studio: l’inquinamento ambientale ha un ruolo rilevante nei decessi per tumore in Italia
Roberto Cazzolla Gatti, primo autore della ricerca: "È necessario dare priorità anche alla riduzione della contaminazione ambientale. Solo se sapremo curare il nostro pianeta, potremo evitare di ammalarci"
23 SETTEMBRE 2022 ALLE 13:21
4 MINUTI DI LETTURA
Si muore di tumore "soprattutto dove l'inquinamento ambientale è più elevato, anche se si tratta di zone in cui le abitudini di vita sono in genere più sane". Uno studio delle università di Bologna e Bari e del Cnr realizzato su scala nazionale mostra la rilevanza della qualità dell'ambiente sulla mortalità da tumore, anche rispetto ad altri fattori socioeconomici e allo stile di vita.

I tumori sono oggi la seconda causa di morte al mondo dopo le malattie cardiovascolari. Negli ultimi decenni di ricerca sul cancro, lo stile di vita (in particolare abitudini come obesità, sedentarietà, scorretta alimentazione, alcolismo e fumo) e fattori casuali o genetici sono stati indicate come cause principali nello sviluppo dei tumori. Aumenta, però, sempre più la consapevolezza che tra i principali elementi in grado di indurre la proliferazione tumorale ci sia l'inquinamento ambientale. Per approfondire questo tema, un gruppo di ricercatori, ha analizzato con innovativi e sofisticati metodi di intelligenza artificiale i legami tra mortalità per cancro, fattori socioeconomici e fonti di inquinamento ambientale in Italia, a scala regionale e provinciale.

I risultati dell'indagine sono stati pubblicati sulla rivista Science of the Total Environment, per la parte analitica, mentre sulla rivista Nature Scientific Data sarà pubblicato l'intero dataset decennale con i tassi di mortalità tumorale per tutti i comuni italiani, accessibile gratuitamente in modalità user friendly. "Dalla nostra analisi è emerso che, contrariamente a quanto creduto finora, la mortalità per cancro tra i cittadini italiani non ha una distribuzione né casuale né spazialmente ben definita", spiega Roberto Cazzolla Gatti, professore al Dipartimento di Scienze biologiche, geologiche e ambientali dell'Alma Mater e primo autore dello studio. "La mortalità per tumore supera, invece, la media nazionale soprattutto dove l'inquinamento ambientale è più elevato, anche se si tratta di zone in cui le abitudini di vita sono in genere più sane".


Gli studiosi hanno preso in considerazione 35 fonti ambientali di inquinamento (ad esempio industrie, pesticidi, inceneritori, traffico automobilistico), rilevando che tra queste la qualità dell'aria è al primo posto per importanza per quanto riguarda l'associazione col tasso medio di mortalità per cancro. Seguono la presenza di siti da bonificare, le aree urbane, la densità dei veicoli a motore e i pesticidi. Inoltre, altre specifiche fonti ambientali di inquinamento si sono rivelate significative per la mortalità di alcune tipologie di tumore (come, ad esempio, la presenza di aree coltivate associate alla mortalità per tumori al tratto gastrointestinale, la vicinanza a strade e acciaierie per il cancro alla vescica, le attività industriali in aree urbane per il tumore alla prostata e i linfomi, etc.).

Le province con tassi maggiori di mortalità
La provincia con tasso di mortalità da tumore più alta nel decennio 2009-2018 è risultata quella di Lodi, seguita da Napoli, Bergamo, Pavia, Sondrio e Cremona. La prima provincia del Centro Italia è Viterbo (11° posizione), seguita da Roma (18°), mentre al sud, oltre alla provincia di Napoli al secondo posto, solo quella di Caserta (8°) rientra nelle prime 10 per mortalità da tumore. È possibile verificare il tasso di mortalità decennale a livello locale accedendo al dataset libero pubblicato dagli autori dello studio.

Smog, l'Italia nel 2030 centrerà tutti gli obiettivi di riduzione dell'inquinamento dell'aria
di Corrado Zunino
14 Settembre 2022

"Questi risultati non mettono in discussione, ovviamente, il fatto che uno stile di vita più sano aiuta a ridurre il rischio di cancro, così come non contestano gli sforzi per arrivare a comprendere le basi genetiche che possono favorire l'insorgere dei tumori", aggiunge Cazzolla Gatti. "I nostri risultati, però, ci danno buone ragioni per credere che vivere in un'area altamente inquinata può annullare i benefici che si ottengono con uno stile di vita sano e indurre lo sviluppo di tumori con una frequenza maggiore".

"La qualità della vita dipende da quella dell'ambiente"
"In un'ottica di salute globale, secondo l'approccio noto come One Health, è ormai chiaro che la qualità della vita della nostra specie dipende strettamente da quella dell'ambiente in cui viviamo e dell'intero pianeta", spiega Cazzolla Gatti. "È necessario, allora, dare priorità non solo alla ricerca di cure per il cancro, ma anche alla riduzione e prevenzione della contaminazione ambientale: si tratta di azioni imprescindibili da mettere in atto nella difficile lotta contro l'insorgenza dei tumori. Solo se sapremo curare il nostro pianeta, potremo evitare di ammalarci".

Secondo lo studio, le regioni italiane con un tasso di mortalità per cancro relativamente alto sono caratterizzate da un grado di inquinamento relativamente elevato, nonostante registrino una frequenza relativamente bassa di fattori di norma associati al rischio di cancro (come sovrappeso e fumo, basso reddito, alto consumo di carne e basso consumo di frutta e verdura). Inoltre, su scala provinciale, per i tumori maligni e benigni in generale, e per 16 su 23 specifiche tipologie di cancro, sono emerse associazioni spaziali significative con alcune fonti di inquinamento (che spiegano più della metà dell'associazione tra ambiente e tumore), confermando che, nella maggior parte dei casi, l'esposizione a un ambiente contaminato incide notevolmente sulla mortalità per cancro in Italia.

"I dati mostrano buone, anche se preliminari, evidenze che un migliore stile di vita e una maggiore attenzione alle problematiche socio-economiche e sanitarie possono ridurre solo in parte il rischio di morire di cancro, se la qualità dell'ambiente viene sottovalutata", spiega Cazzolla Gatti. "Questo potrebbe spiegare il motivo per cui abbiamo osservato che le persone che vivono nelle regioni del Nord Italia (in particolare quelle situate nella Pianura Padana, tra la Lombardia e il Veneto, aree fortemente industrializzate), esposte a livelli di inquinamento ambientale molto elevati, mostrano un eccesso di mortalità per cancro significativo rispetto a chi vive nelle regioni centro-meridionali (ad eccezione di alcune località anch'esse molto inquinate, come la Terra dei Fuochi in Campania), anche se godono di una migliore salute, hanno reddito più elevato, consumano più alimenti di origine vegetale rispetto a quelli di origine animale, e hanno accesso più facile all'assistenza sanitaria".



L'intera banca dati decennale (2009-2018) sui tassi di mortalità per cancro messa a punto dagli studiosi, realizzata a partire dai registri ISTAT, è stata pubblicata con accesso libero: vengono prese in considerazione 23 macro-categorie tumorali in Italia su scala comunale, provinciale e regionale. "Vogliamo rendere facilmente accessibile una fonte di dati completa, aggiornata e pronta all'uso sullo stato della mortalità per cancro in Italia, perché possa essere consultata dagli enti interessati e dagli amministratori locali e nazionali, e per fornire ai ricercatori dati utili per realizzare ulteriori studi", conclude Cazzolla Gatti.

Gli autori dello studio
Lo studio è stato pubblicato in open access sulla rivista Science of the Total Environment con il titolo "The spatial association between envirnonmental pollution and long-term cancer mortality in Italy", mentre l'intero dataset sarà sulla rivista Nature Scientific Data. Gli autori sono Roberto Cazzolla Gatti (Università di Bologna), Arianna Di Paola (CNR, Istituto per la BioEconomia), Alfonso Monaco (Università degli Studi di Bari "Aldo Moro"), Alena Velichevskaya (Tomsk State University, Russia), Nicola Amoroso (INFN, Sezione di Bari), Roberto Bellotti (Università degli Studi di Bari "Aldo Moro").

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Leucemia, con le cellule Carcik malattia scomparsa in sei pazienti. Lo studio italiano
Leucemia, con le cellule Carcik malattia scomparsa in sei pazienti. Lo studio italiano
Storia di Massimo, 64 anni. Ogni terapia aveva fallito, ma ora è uno dei pazienti che hanno risposto al trattamento sperimentale

di Peter D'Angelo | 25 OTTOBRE 2020
“Ho scoperto di avere la leucemia linfoblastica acuta nel 2015, da allora ho fatto 4-5 terapie diverse, anche il trapianto, ma non stava funzionando niente poi all’improvviso sono stato inserito in uno studio sperimentale a Bergamo, e tutto è cambiato”. Massimo ha 64 anni, è di Viterbo, lavora come gommista dagli anni 70′, come faceva suo padre. È uno dei pazienti che hanno risposto al trattamento sperimentale messo a punto dalla Fondazione Tettamanti, l’Università di Milano Bicocca e l’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, “ho ricevuto la prima infusione di cellule Carcik a giugno, di quest’anno, da quel giorno è iniziato a cambiare tutto per me, sono migliorato, sto bene e ho ripreso il mio lavoro”. Massimo, aveva provato anche il trapianto di midollo da donatore, questa è una delle terapie più efficaci per curare la leucemia, grazie all’attività antitumorale del sistema immunitario che viene trasferito dal donatore al paziente. Spesso però, a seguito del trapianto, le cellule leucemiche sviluppano delle strategie con cui sfuggono al sistema immunitario. Il risultato è la recidiva. “In questi anni ho fatto varie terapie cortisone, pasticche di Desatinib (è una terapia mirata utilizzata per trattare alcuni casi di leucemia mieloide cronica e leucemia linfoblastica acuta “LLA”), e poi chemio fino al trapianto, purtroppo la malattia è tornata”.

Massimo oggi sta bene, grazie alla ricerca di un team tutto italiano, che ha testato una terapia sperimentale con cellule Carcik in un gruppo di pazienti affetti da leucemia linfoblastica acuta. I risultati di questo trial sono stati pubblicati su The Journal of Clinical Investigation. Quasi l’86% dei pazienti trattati, tra bambini e adulti, ha risposto al trattamento con una scomparsa completa del tumore. I pazienti arruolati in questo studio erano 13, se si considera la remissione della malattia al giorno 28 dall’infusione, la risposta in tutti i pazienti è stata del 61.5%. Ma nei 7 pazienti che hanno ricevuto le dosi più alte di cellule, 6 su 7 (quindi l’85,7%) hanno ottenuto risposta di remissione con una scomparsa completa del tumore. Le cellule Carcik sono linfociti T derivati da sangue periferico di un donatore sano. Nelle sperimentazione le cellule si sono espanse in modo robusto e hanno mostrato di persistere nell’organismo fino a 10 mesi. Massimo, ha sempre corso, è un podista quasi professionista, in 25 anni qualche gara l’ha pure vinta, “adesso non sto riprendendo lo sport, ma sono tornato a fare la vita di prima, anche a lavoro. Non ho fatica”. La sperimentazione ha dimostrato finora un profilo di alta sicurezza di queste cellule tali da ipotizzare studi futuri con dosi multiple per rafforzare la remissione ematologica. Inoltre sono in corso studi per estendere l’applicazione ad altre patologie, come la leucemia mieloide acuta. Lo studio in corso, dove è stato arruolato Massimo, è uno studio sperimentale di fase 1/2 in cui si prevede il trattamento di pochi pazienti per dimostrare la sicurezza del trattamento e avere indicazioni sull’attività.

A questa tipologia di studi, seguiranno studi in coorti di pazienti più grandi. Questo potrebbe dare accesso alle terapia con CAR-T per i pazienti con leucemia linfobalstica acuta con età superiore ai 25 anni ma anche nei bambini o adolescenti. I primi autori di questa ricerca sono Chiara Magnani, ricercatrice della Fondazione Tettamanti e Giuseppe Gaipa. L’intero studio è stato coordinato da Andrea Biondi, direttore della Clinica pediatrica dell’Università di Milano Bicocca e da Alessandro Rambaldi, direttore del Dipartimento di ematologia e oncologia dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. La leucemia linfoblastica acuta è un tumore del sangue relativamente raro, la cui incidenza è massima in età pediatrica, con un picco nella fascia 2-5 anni; tuttavia, oltre ai bambini, può colpire anche gli adolescenti e gli adulti. In Italia rappresenta circa il 10% di tutte le leucemie e colpisce ogni anno circa 600 persone, di cui anno 450 bambini e adolescenti fino a 14 anni. Le cellule CAR-T rappresentano una forma di immunoterapia cellulare nella quale si utilizzano cellule T (o linfociti T, cellule del sistema immunitario deputate alla difesa dell’organismo) opportunamente modificate in laboratorio mediante tecniche di ingegneria genetica in modo da potenziare le loro capacità di riconoscere e uccidere le cellule tumorali. La manipolazione consiste nell’introduzione di un gene sintetico il cui prodotto è un CAR (Chimeric Antigen Receptor), ovvero un recettore chimerico non esistente in natura, in grado di riconoscere e legare un antigene espresso sulla superficie delle cellule tumorali.




www.ilfattoquotidiano.it/2020/10/25/leucemia-con-le-cellule-carcik-malattia-scomparsa-in-sei-pazienti-lo-studio-italiano/...
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Cancro osseo primario, così il medico che perse un amico ha sviluppato un farmaco che blocca la diffusione del tumore
Cancro osseo primario, così il medico che perse un amico ha sviluppato un farmaco che blocca la diffusione del tumore
Il ricercatore capo dello studio, il dottor Darrell Green, della Norwich Medical School dell’UEA, è stato ispirato a studiare il cancro alle ossa infantile dopo che il suo migliore amico è morto a causa della malattia da adolescente e gli ha dedicato lo studio come scritto sul suo profilo Linkedin. Il trattamento funziona nei topi

di 30science per Il Fatto | 8 MARZO 2023
Sembra uno di quei film in cui un bambino perde un caro amico per una malattia e giura che diventerà medico per sconfiggere per sempre quella stessa malattia. Solo che non si tratta di un film, ma della realtà: una realtà che potrebbe salvare e migliorare la vita di tantissimi bambini nel mondo, riducendo di molto le conseguenze nefaste del cosiddetto cancro osseo primario. I ricercatori dell’Università dell’East Anglia (Uea) in Gran Bretagna, infatti, hanno sviluppato un nuovo farmaco che agisce contro tutti i principali tipi di tumore osseo primario. Questo cancro che inizia nelle ossa – a differenza del caso di un tumore che si è diffuso alle ossa – colpisce prevalentemente i bambini.

Il trattamento di questa patologia attualmente è estenuante, con cocktail chemioterapici fino all’amputazione degli arti. E comunque, il tasso di sopravvivenza a cinque anni è scarso, appena il 42%, in gran parte a causa della rapidità con cui il cancro alle ossa si diffonde ai polmoni. Ma il nuovo studio pubblicato oggi su Journal of Bone Oncology mostra come un nuovo farmaco chiamato “CADD522″ sia riuscito a bloccare un gene associato alla diffusione del cancro, in topi impiantati con cancro osseo umano. Il farmaco rivoluzionario aumenta i tassi di sopravvivenza del 50% senza la necessità di interventi chirurgici o chemioterapia. E a differenza della chemioterapia, non provoca effetti collaterali tossici come perdita di capelli, stanchezza e malessere.

Il ricercatore capo dello studio, il dottor Darrell Green, della Norwich Medical School dell’UEA, è stato ispirato a studiare il cancro alle ossa infantile dopo che il suo migliore amico è morto a causa della malattia da adolescente e gli ha dedicato lo studio come scritto sul suo profilo Linkedin. Ora, il team ha realizzato quella che – affermano – potrebbe essere la più importante scoperta di farmaci nel campo da oltre 45 anni. Il dottor Green ha dichiarato: “Il cancro osseo primario è un tipo di cancro che inizia nelle ossa. È il terzo tumore solido infantile più comune, dopo cervello e rene, con circa 52.000 nuovi casi ogni anno in tutto il mondo. Può diffondersi rapidamente ad altre parti del corpo, e questo è l’aspetto più problematico di questo tipo di cancro. Una volta che il cancro si è diffuso, diventa molto difficile trattarlo. Al liceo, il mio migliore amico Ben Morley si è ammalato di cancro alle ossa primario. La sua malattia mi ha ispirato a fare qualcosa al riguardo perché durante i miei studi mi sono reso conto che questo cancro è stato quasi lasciato indietro in termini di ricerca e progresso terapeutico. Così ho studiato e ho frequentato l’università e ho ottenuto il dottorato di ricerca per poi lavorare sul cancro osseo primario. Volevo capire la biologia alla base della diffusione del cancro in modo da poter intervenire a livello clinico e sviluppare nuovi trattamenti in modo che i pazienti non debbano affrontare le cose che ha vissuto il mio amico Ben”. “In definitiva – conclude Green – vogliamo salvare vite umane e ridurre la quantità di disabilità causata dalla chirurgia. E ora abbiamo sviluppato un nuovo farmaco che potenzialmente promette di fare proprio questo”.

Il team ha raccolto campioni di ossa e tumori da 19 pazienti presso il Royal Orthopaedic Hospital di Birmingham. Tuttavia, questo piccolo numero è stato più che sufficiente per rilevare alcuni evidenti cambiamenti nei tumori. Il team ha utilizzato il sequenziamento di nuova generazione per identificare i tipi di regolatori genetici chiamati piccoli RNA che erano diversi durante il corso della progressione del cancro osseo. Hanno anche mostrato che un gene chiamato RUNX2 è attivato nel cancro osseo primario e che questo gene è associato alla diffusione del cancro. Hanno continuato a sviluppare un nuovo farmaco chiamato CADD522, una piccola molecola che impedisce alla proteina RUNX2 di avere effetto, e lo hanno testato sui topi. Il dottor Green ha dichiarato: “Negli studi preclinici, la sopravvivenza libera da metastasi è aumentata del 50% utilizzando il nuovo farmaco CADD522 da solo, senza chemioterapia o intervento chirurgico. Sono ottimista sul fatto che, combinato con altri trattamenti come la chirurgia, questa cifra di sopravvivenza aumenterebbe ulteriormente. È importante sottolineare che, poiché il gene RUNX2 di solito non è necessario per cellule normali, il farmaco non provoca effetti collaterali come la chemioterapia”. E ha aggiunto: “Il nuovo farmaco che abbiamo sviluppato è efficace in tutti i principali sottotipi di cancro alle ossa e, finora, i nostri esperimenti dimostrano che non è tossico per il resto del corpo. Ciò significa che sarebbe un trattamento molto più adatto per i bambini con cancro alle ossa, rispetto alla chemioterapia e all’amputazione degli arti.” Il farmaco è ora sottoposto a una valutazione tossicologica formale prima che il team raccolga tutti i dati e si rivolga all’MHRA – Medicines and Healthcare products Regulatory Agency, l’agenzia regolatoria dei farmaci britannica per l’approvazione per avviare una sperimentazione clinica sull’uomo. La ricerca è stata condotta dall’UEA in collaborazione con l’Università di Sheffield, l’Università di Newcastle, il Royal Orthopaedic Hospital di Birmingham e il Norfolk and Norwich University Hospital.


www.ilfattoquotidiano.it/2023/03/08/cancro-osseo-primario-cosi-il-medico-che-perse-un-amico-ha-sviluppato-un-farmaco-che-blocca-la-diffusione-del-tumore/...
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Con l’arrivo di tanti nuovi farmaci mirati contro le singole mutazioni è determinante avere, fin dalla diagnosi, il profilo molecolare di ogni paziente per una medicina sempre più personalizzata

Tumore ai polmoni, la nuova «era» dei test genetici per scegliere le cure più efficaci
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Si apre una nuova «era», quella della medicina personalizzata, per la cura del tumore al polmone non a piccole cellule: un numero crescente di persone può trarre beneficio dai nuovi farmaci mirati contro le s pecifiche mutazioni che provocano il tumore. Con vantaggi sia in termini di un allungamento della sopravvivenza (passata da pochi mesi anche a diversi anni), sia sul fronte della qualità di vita perché si riduce la necessità di fare chemioterapia e la tossicità delle terapie. Molti studi presentati al congresso annuale della Società Europea di Oncologia Medica (Esmo, European Society for Medical Oncology), in corso a Madrid, sono dedicati a questo argomento: i miglioramenti ottenuti nella cura delle neoplasie polmonari grazie ai trattamenti innovativi in fase di sperimentazione e puntati su precise alterazioni genetiche, molto diffuse e rare. Miglioramenti che riguardano i pazienti con una malattia in fase iniziale, ma anche quelli in stadio avanzato.

I test genetici fanno la differenza: cure scelte caso per caso
Sono 44mila le nuove diagnosi di cancro ai polmoni ogni anno nel nostro Paese (il carcinoma al polmone non a piccole cellule rappresenta circa l’80-85% di tutti i casi), con 34mila i decessi registrati nel 2022. Soprattutto nell’ultimo decennio la ricerca scientifica ha fatto progressi importanti e la sopravvivenza dei malati, per anni ferma a pochissimi mesi, ora si riesce a prolungare anche per alcuni anni in un numero crescente di casi. «È fondamentale conoscere se e quali alterazioni genetiche sono presenti all’interno della neoplasia di ciascun paziente perché è proprio in base al cosiddetto “profilo molecolare” del tumore che possiamo scegliere le cure più efficaci caso per caso — ricorda Silvia Novello, ordinario di Oncologia medica all’Università di Torino e responsabile dell’Oncologia polmonare al San Luigi Gonzaga di Orbassano —. Già oggi circa un terzo dei tumori del polmone si può affrontare con un approccio nel contesto della medicina di precisione: ricercando cioè target molecolari per i quali sono stati sviluppati farmaci mirati».

Le terapie oggi standard sono destinate a cambiare
Un’opportunità importante per i pazienti, perché usare farmaci specifici ha portato a un’efficacia superiore dei trattamenti e a una migliore tollerabilità delle cure, garantendo lunghe aspettative di vita per una malattia che fino a 15 anni fa aveva una prognosi decisamente infausta. «I risultati di diverse sperimentazioni illustrati a Esmo 2023 sono notevoli e indicano che possiamo aspettarci dei cambiamenti nella pratica clinica – dice Alessandra Curioni-Fontecedro, dell’Università di Friburgo (Svizzera) -. Il che significa che sono così rilevanti da modificare lo standard di cura attuale, ma anche che è sempre più determinante che il cancro al polmoni sia diagnosticato e trattato in ospedali dove operano più specialisti esperti in questa patologia e dove sia garantito ai malati il test per il profilo molecolare».

Lo studio KEYNOTE-671
Gli esiti del trial di fase tre (l’ultima prima dell’approvazione definitiva e l’entrata in commercio di un medicinale) KEYNOTE-671 indicano, ad esempio, che in stadio precoce l’immunoterapia con pembrolizumab, prima e dopo l’intervento chirurgico (la sperimentazione ha reclutato 797 pazienti con carcinoma polmonare non a piccole cellule operabile, in stadio II, IIIA o IIIB), aggiunta alla chemioterapia riduce del 28% il rischio di morte e migliora la sopravvivenza globale, con il 71% dei pazienti vivi a tre anni. Un passo avanti importante verso la possibilità concreta di guarire per le persone a cui viene diagnosticato un carcinoma polmonare non a piccole cellule e che è destinato a cambiare l’attuale trattamento standard. «È un importante passo in avanti - spiega Novello -. Pembrolizumab più chemioterapia prima dell’intervento chirurgico e a seguire come singolo agente dopo la chirurgia ha il potenziale per diventare una strategia fondamentale che può modificare la storia di questa neoplasia in stadio precoce, aumentandone significativamente le possibilità di cura. Storicamente, più della metà dei pazienti con questa neoplasia, anche quando viene diagnosticata in fase iniziale, ha una ricaduta in seguito all’operazione, mentre con l’aggiunta dell’immunoterapia alla chemioterapia (che è la cura prevista attualmente) il tasso di ricadute diminuisce notevolmente».

Mutazione EGFR
Altri due trial, MARIPOSA e MARIPOSA-2, che saranno esposti durante la sessione presidenziale del congresso lunedì 23 ottobre, riguardano chi ha un carcinoma polmonare non a piccole cellule in stadio avanzato o metastatico e presenta una delle mutazioni più diffuse, quella del gene EGFR: i risultati indicano che i malati trattati con una combinazione di nuovi farmaci (amivantamab e l azertinib) hanno avuto una sopravvivenza libera da progressione di malattia (ovvero il tempo che intercorre tra la fine del ciclo di cure e il momento in cui la neoplasia si ripresenta) significativamente migliore rispetto alla cura attualmente più efficace (osimertinib). «Nello specifico i dati di MARIPOSA-2 mostrano che i pazienti che sono andati in progressione dopo aver fatto osimertinib e vengono curati con amivantamab e lazertinib più chemioterapia hanno una sopravvivenza libera da progressione di malattia più lunga» dice Filippo de Marinis, direttore della Divisione di Oncologia toracica all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano.

Per chi non ha mutazioni
«Ci sono speranze anche per chi affronta una neoplasia avanzata o metastatica e ha una ricaduta dopo diverse linee precedenti, oggi candidato a ricevere solamente chemioterapia – prosegue de Marinis —: gli esiti del trial TROPION-LUNG01, che saranno illustrati sempre lunedì 23, lasciano intravedere un prolungamento importante della sopravvivenza libera da progressione di malattia utilizzano un innovativo anticorpo monoclonale farmaco-coniugato (datopatamab deruxtecan), che combina un anticorpo monoclonale, progettato per colpire selettivamente le cellule cancerose), con un agente citotossico che le uccide». È un medicinale altamente selettivo per le cellule tumorali, che riduce al minimo i danni alle cellule sane circostanti e aumenta l’efficacia del trattamento. «La maggior parte dei pazienti non trae beneficio da un solo farmaco, ma ha bisogno di più linee e di più medicinali combinati fra loro – chiarisce l’esperto -. Servono ulteriori ricerche per capire come “mixare” le cure, in quale stadio della malattia e in quali categorie di pazienti, in modo tale da ottenere i massimi risultati possibili per i malati, contenendo i costi del nostro Ssn».

Mutazioni di ALK, RET e altre più rare
Nella sessione presidenziale di oggi, sabato 21, ricerche dimostrano che l’utilizzo di farmaci target può ridurre la necessità di chemioterapia. Un discorso che sembra valere per i pazienti operabili positivi alla mutazione di ALK (curati con alectinib), per quelli con carcinoma avanzato e mutazione di RET (trattati con selpercantinib) e per chi ha un’alterazione più rara e difficili da trattare, quella da inserzione dell’esone20 dell’EGFR (che ha ricevuto il farmaco sperimentale amivantamab). E ancora: altri studi rinforzano il valore di aggiungere l’immunoterapia alla chemio in alcuni sottotipi di carcinoma polmonare non a piccole cellule. Ad esempio gli esiti del trial CHECHMATE 77T indicano che, nei malati operabili, l’utilizzo dell’immunoterapico nivolumab più la chemio prima della chirurgia riesce a ridurre il tumore e favorisce una migliore risposta ai trattamenti che verranno fatti successivamente. «Sappiamo che la prognosi è migliore se i farmaci prima dell’intervento portano a una scomparsa del tumore, i nuovi dati indicano che aggiungere nivolumab alla chemio in fase pre-operatoria e poi continuare l’immunoterapia di mantenimento per un anno è ancora più efficace» conclude De Marinis.


www.corriere.it/salute/sportello_cancro/23_ottobre_21/tumore-polmoni-nuova-era-test-genetici-scegliere-cure-piu-efficaci-0e713a86-6f60-11ee-be32-abf574c1eee9.shtml?re...
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Ecco perché ci si ammala di tumore: cause, età, ereditarietà, stili di vita e fattori ambientali
di Vera Martinella
Non esiste quasi mai, tranne in alcune rare forme ereditarie, un’unica causa che possa spiegare l’insorgenza di una neoplasia. Al suo sviluppo concorrono diversi fattori, alcuni dei quali non sono modificabili, come i geni ereditati dai propri genitori o l’età, mentre su altri si può intervenire per ridurre il rischio di andare incontro alla malattia



La cause del cancro: che cosa sappiamo oggi
Non esiste una risposta definitiva al perché si sviluppa un tumore, ma sono noti moltissimi fattori di rischio che giocano un ruolo più o meno determinante: età, ereditarietà, sili di vita, fattori ambientali. Sono stati fatti notevoli passi avanti ed è ormai chiaro che la proliferazione incontrollata delle cellule cancerose dipende da alterazioni (mutazioni) dei geni: «Alcune di queste mutazioni sono ereditarie, ma la maggior parte sono provocate da fattori esterni, indotti dai nostri comportamenti o dall’ambiente in cui viviamo - spiega Saverio Cinieri, presidente dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) -. Riuscire a capire motivi e cause scatenanti dei vari tipi di cancro (e della loro maggiore o minore gravità) sarebbe un passo fondamentale per prevenire ogni volta possibile la malattia e riuscire a curarla con successo».



L’età
L’invecchiamento è il più importante fattore di rischio per il cancro: la maggior parte dei tumori infatti si sviluppa in persone con oltre 60 anni. È così in tutto il mondo e anche in Italia, dove le statistiche indicano chiaramente che degli oltre 377mila nuovi casi di cancro diagnosticati ogni anno più o meno la metà riguarda una persona over 60. In molti casi, insomma, i tumori sono da considerarsi «patologie tipiche dell’invecchiamento». E questa è anche la principale ragione per cui le neoplasie sono in aumento in tutto il mondo, di pari passo con l’allungamento della vita media e il crescente numero di persone anziane. Negli anziani, il rischio di sviluppare un tumore è circa 40 volte più alto rispetto alle persone di 20-40 anni e quattro volte più alto rispetto a quelle di 45-65 anni. Fra i 50 ed i 69 anni, un uomo ogni 5 e una donna ogni 7 hanno la probabilità di avere una diagnosi oncologica.



Ereditarietà o familiarità
I tumori sono ereditari? È una domanda che ricorre spesso, una paura diffusa. «Ma se si guardano i numeri, ci si sente rassicurati: solo una quota minoritaria di tutti i tumori diagnosticati ogni anno, viene inserita dai medici nella categoria di quelli che in gergo si chiamano “familiari”, perché hanno un evidente legame di parentela - chiarisce Cinieri - . Questo non significa che con i geni si trasmette la malattia, ma solo una maggiore predisposizione a svilupparla. Se quindi ci sono stati diversi casi di cancro in famiglia, non significa che tutti i membri prima o poi si ammaleranno, ma solo che occorre prestare maggiore attenzione a seguire stili di vita sani e sottoporsi con regolarità ai controlli suggeriti dal proprio medico. È possibile infatti ereditare un gene mutato che rende la cellula più suscettibile alla malattia, ma perché il tumore possa cominciare a svilupparsi e crescere è necessario che si sommino altri errori». Per questo gli esperti sconsigliano di sottoporsi senza una particolare indicazione medica ai test genetici a pagamento che possano rivelare una maggiore probabilità statistica di andare incontro al cancro. La consulenza genetica oncologica , e relativi test, vengono invece offerti tramite Ssn a chi ha precisi requisiti.




Stili di vita
Gli esperti di tutto il mondo lo ripetono ormai da tempo: più di un caso di cancro su tre potrebbe essere evitato solo adottando abitudini di vita sane. Le mosse vincenti sono poche e semplici: non fumare, non bere alcolici, seguire un’alimentazione corretta, fare regolarmente esercizio fisico, prevenire le infezioni che potrebbero dare origine a un tumore. A parte il tabacco, notoriamente responsabile di un lungo elenco di tipi di cancro (dal polmone alla bocca alla vescica, per citarne alcuni), sempre più cruciale appare la scelta di ciò che mettiamo nel piatto (chi mangia bene evita la metà dei tumori) e l’evidenza, ormai dimostrata da diversi studi, che il sovrappeso e l’obesità sono fra i fattori di rischio noti per i tumori di endometrio, colon retto, esofago, rene, pancreas e seno, specie fra le donne in post menopausa. È stato anche scientificamente provato che una moderata attività fisica (come camminare di buon passo) per almeno mezzora cinque giorni la settimana contribuisce a tenere lontane diverse forme i cancro. Infine è fondamentale esporsi al sole con cautela e buon senso, evitando le scottature che possono favorire l’insorgere di tumori della pelle (non a caso le lampade abbronzati sono state incluse nell’elenco dei cancerogeni noti).




Fattori ambientali
Soltanto circa il 5% dei casi di cancro è conseguenza dell’ambiente in cui viviamo ed è riconducibile all’inquinamento ambientale. Ci sono diversi elementi nell’ambiente che ci circonda che possono favorire la comparsa di neoplasie. Alcuni sono presenti in natura, come le radiazioni ionizzanti (provenienti dai raggi cosmici che penetrano l’atmosfera), l’asbesto o amianto, responsabile del temibile mesotelioma pleurico, e alcuni metalli, tra i quali arsenico, berillio, cadmio, cromo, piombo e nichel; altri sono prodotti chimici cui possono essere maggiormente esposte alcune categorie di lavoratori: il benzene, per esempio, contenuto in alcuni solventi e materiali per il lavaggio a secco, ma anche nel fumo di sigaretta, aumenta il rischio di leucemia. Le diossine sono sostanze che si producono nel corso di diversi processi produttivi e tendono ad accumularsi nell’ambiente e negli alimenti; altre sostanze pericolose sono contenute in alcuni pesticidi usati in agricoltura e il cloruro di vinile, con cui venivano in contatto soprattutto gli addetti all’industria della plastica. O, ancora, gli idrocarburi aromatici policiclici presenti nei gas di scarico delle auto e nel fumo prodotto dalla combustione del legno nel camino o nelle stufe (oltre che nel fumo di sigaretta e nei cibi cotti alla griglia), che possono favorire lo sviluppo di tumori di polmone, pelle e apparato urinario.




I virus
«In Italia, come negli altri Paesi ad alto reddito, le infezioni croniche sono la causa di circa il 7-8% di tutti i tumori maligni diagnosticati ogni anno, meno di 30mila casi annui su 377mila - ricorda Cinieri -. Sono causati da alcune infezioni croniche (tra le quali quelle dovute ai virus dell’epatite B e C, Epstein-Barr, HIV e Papillomavirus o HPV) che potrebbero essere in larga parte evitate o persino prevenute con il vaccino. Persistendo per molti anni in vari organi e tessuti, questi agenti infettivi possono provocare la formazione di differenti tumori in base alle caratteristiche individuali e a quelle dell’agente infettivo». I virus dell’epatite B e C possono condurre a tumori del fegato (epatocarcinoma) , l’HPV provoca quelli della cervice uterina e di cavo orale, vagina, vulva, ano, l’ Helicobacter pylori favorisce il carcinoma dello stomaco. E ancora: alcuni tumori del sangue, linfomi e leucemie sono collegati in varia misura dalla infezione con il virus di Epstein-Barr; infine il sarcoma di Kaposi è provocato da un herpes virus umano di tipo 8.




Epigenetica, sapete che cos’è?
Ricondurre tutto alla genetica è però riduttivo: da tempo è chiaro che c’è probabilmente c’era qualcos’altro che influiva sulla probabilità di andare incontro al cancro e che determina le sue caratteristiche caso per caso . Questo «qualcos’altro», identificato ormai da diversi anni, ma ancora in gran parte da esplorare, è ciò che i ricercatori chiamano epigenetica. «Che il cancro sia causato da errori nella sequenza del Dna, siano essi ereditari, casuali o dovuti ad agenti esterni come il fumo di sigaretta, è ormai cosa nota – chiarisce Cinieri -.Oltre ai geni, però, entrano in gioco anche alcune alterazioni che pur non modificando la sequenza del Dna stesso hanno un impatto sulla normale espressione dei geni, attivandone alcuni e reprimendone altri. E causando così in alcuni casi quella crescita cellulare incontrollata tipica dei tumori. Non si può più quindi parlare solo di genetica dei tumori, ma bisogna studiare meglio l’epigenetica (dal greco «sopra i geni»), ovvero di tutte quelle trasformazioni che accendono e spengono diversi geni». Mentre le mutazioni genetiche sono irreversibili, le alterazioni epigenetiche possono essere invece facilmente corrette grazie a trattamenti farmacologici pensati ad hoc e già testati con successo su numerosi pazienti.








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Tumore alla prostata, come si vive dopo? I problemi e le soluzioni
di Vera Martinella
La fotografia scattata dall'indagine promossa da Europa Uomo su oltre 5.500 pazienti. Disfunzione erettile e incontinenza gli effetti collaterali più pesanti, evitabili con la sorveglianza attiva (che non è per tutti)

Tumore alla prostata, come si vive dopo? I problemi e le soluzioni
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Un uomo su otto in Italia farà i conti con una diagnosi di tumore alla prostata, il tipo di cancro più frequente fra i maschi e i cui casi nel nostro Paese sono ai aumento da anni. Come si vive dopo la diagnosi? Bene secondo molti interessati, persino benissimo per circa un paziente su cinque. Pesano, però, molto più di quanto sia stato rilevato finora, gli effetti collaterali delle cure: prima di tutto la disfunzione erettile, seguita dall'incontinenza, dai disturbi ormonali, da ansia e depressione e dai dolori (presenti negli stadi più avanzati, dovuti soprattutto alle metastasi ossee). Ecco perché, ogni volta possibile, bisognerebbe proporre agli uomini un programma di sorveglianza attiva, che prevede solamente controlli e dunque non comporta conseguenze sulla sessualità e la funzione urinaria, prima di iniziare le cure. A ribadirlo sono i risultati di EUPROMS (Europa Uomo Patient Report Outcome Study), l'indagine promossa da Europa Uomo, condotta in 32 Paesi, coinvolgendo 5.500 pazienti, in media settantenni.

Casi in crescita prima dei 50 anni
«Emerge per la prima volta un racconto collettivo degli uomini che hanno ricevuto una diagnosi di tumore prostatico e che rispecchia in maniera fedele il loro vissuto dopo i trattamenti - racconta Maria Laura De Cristofaro, presidente Europa Uomo Italia -. Dalla survey, poi, arrivano tre messaggi chiave: primo, l’importanza della diagnosi precoce, tanto più cruciale dal momento che il tumore della prostata non dà segni di sé in fase iniziale; secondo, la necessità di potenziare percorsi diagnostico-terapeutici definiti attraverso la realizzazione delle Prostate Unit al cui interno opera un team multidisciplinare, il solo che può garantire qualità delle cure, evitare trattamenti inadeguati e assicurare una migliore qualità della vita, oltre al supporto psicologico; terzo, la sorveglianza attiva (piano sistematico di controlli a intervalli definiti per il tumore della prostata a basso rischio) è l’approccio che preserva al meglio la qualità di vita dei pazienti».Quello alla prostata è il tumore più frequente nel sesso maschile e i nuovi casi registrati nel 2022 in Italia sono stati circa 40.500. Grazie a diagnosi precoci e terapie sempre più efficaci, oggi oltre il 90% dei pazienti riesce a guarire o a convivere anche per decenni con la malattia. «La sua incidenza aumenta con l’avanzare dell’età, ma è un errore considerare questa neoplasia come “malattia dell’anziano”, perché colpisce anche in età produttiva - ricorda De Cristofaro -. Il numero di giovani uomini che, prima dei 50 anni, si vedono diagnosticare un carcinoma prostatico è in crescita da anni».

Non ignorate questi sintomi
«Pur non esistendo sintomi caratteristici del carcinoma della prostata all’esordio, non bisogna ignorare la comparsa di vari problemi urinari - spiega Bernardo Maria Rocco, presidente Comitato Scientifico Europa Uomo-, quali: difficoltà a iniziare la minzione, flusso urinario debole, necessità di “spingere” durante la minzione, incompleto svuotamento della vescica, elevata frequenza delle minzioni, urgenza di svuotare la vescica e presenza di minzioni notturne. Sono sintomi che si accompagnano all’ipertrofia prostatica benigna, molto comune nei maschi dopo i 50 anni e che quindi non devono allarmare, ma che non devono essere sottovalutati e ignorati. Basta parlarne con il medico di famiglia che valuterà se è necessaria la visita con lo specialista urologo facendola precedere da eventuali esami. Questa semplice attenzione potrà essere la prevenzione migliore del carcinoma prostatico consentendo una diagnosi precoce e tempestiva».Poi c'è il test del Psa, un normale prelievo di sangue (che misura l’antigene prostatico specifico), che ha vantaggi e limiti perché valori elevati non significano obbligatoriamente tumore indicano piuttosto che qualcosa non va a livello prostatico: può trattarsi infatti di un’infiammazione (prostatite) o di aumento del volume della ghiandola (ipertrofia), ma possono essere chiamati in causa anche fattori fisiologici come un rapporto sessuale precedente al prelievo.

Le cure e la sorveglianza
Qual è il trattamento più efficace? «Le possibili scelte terapeutiche di cui oggi disponiamo (ovvero chirurgia, radioterapia e brachiterapia) si sono dimostrate in grado di offrire risultati molto buoni in termini sia di guarigione sia di lungo-sopravvivenza — risponde Giuseppe Procopio, direttore del Programma Prostata e Oncologia Medica Genito-Urinaria alla Fondazione IRCSS Istituto Nazionale Tumori di Milano—. Sono opzioni valide e sovrapponibili soprattutto per quelle forme di tumore che sappiamo a rischio di progressione basso e intermedio (ovvero, in pratica, con poche probabilità di evolvere e dare metastasi), che sono la maggioranza. Mentre per le forme ad alto rischio vengono in genere proposti trattamenti “multimodali”, che combinano cioè fra loro diverse terapie. A parità di efficacia per i risultati che si ottengono contro la malattia, la scelta va dunque fatta prendendo in considerazione i possibili effetti collaterali, le preferenze e le aspettative del diretto interessato. Sono gli uomini che, soppesando pro e contro di ogni opzione, devono stabilire cosa è meglio per la loro qualità di vita». E poi c'è la sorveglianza attiva, introdotta nella pratica clinica da ormai 20 anni, ma ancora poco proposta agli interessati: «È una strategia riservata solo a determinate tipologie di malati - chiarisce Procopio -, quelli con un carcinoma di piccole dimensioni e non aggressivo. Oggi si stima che circa il 40% dei casi diagnosticati ogni anno in Italia appartenga a una categoria di rischio basso o molto basso di progressione, che possono essere tenuti soltanto sotto controllo (in sorveglianza, appunto) e non necessitano di cure immediate. Posticipando eventuali trattamenti al momento in cui la malattia cambia atteggiamento, se lo cambia. Rimandando così, per anni o per tutta la vita, insieme alle terapie anche i loro possibili effetti collaterali».

Effetti collaterali
Il sondaggio EUPROMS sulla qualità di vita ha evidenziato un impatto degli effetti collaterali delle cure molto più impattante di quanto rilevato con indagini condotte in ambito clinico. «Più del 50% dei partecipanti ha ricevuto la diagnosi prima dei 65 anni d’età - sottolinea Cosimo Pieri, Segretario Generale di Europa Uomo Italia -. Oltre la metà degli interpellati dichiara problemi di disfunzione sessuale e, nello specifico, il 60% degli uomini operati e più del 47% di chi ha fatto radioterapia. Questo è il problema più sentito dai pazienti. Anche sul fronte incontinenza si registrano problemi post chirurgia e radiazioni».Sia per i disturbi urinari che per quelli sessuali sono disponibili diverse soluzioni, «ma vengono sfruttate solo dal 30% dei pazienti perché non proposte in maniera adeguata - prosegue Pieri -. Il 42% dei partecipanti soffre poi di ansia o depressione e il supporto psicologico raramente viene offerto nei nostri ospedali». Anche l'oromonoterapia, prescritta per una neoplasia in stadio avanzato con l'intento di bloccare la crescita della malattia, può dare effetti indesiderati: «La cura è ben tollerata, ma può dare stanchezza cronica, osteoporosi, disturbi dell’umore, difficoltà di concentrazione e memoria, ginecomastia, vampate, effetti negativi sul desiderio sessuale -dice Masasimo Di Maio, direttore dell'Oncologia Medica 1U alla Città della Salute e della Scienza di Torino e Segretario Generale dell'Aiom (Associazione Italiana Oncologia Medica) -. Sono tante le strategie che si possono mettere in atto per tenere sotto controllo o ridurre queste reazioni avverse. Il primo passo è quello di non sottovalutare la tossicità e i disturbi riferiti dal paziente. Informare i malati, poi, li aiuterà a gestire meglio la situazione e a chiedere aiuto in caso di disturbi».


www.corriere.it/salute/sportello_cancro/23_dicembre_13/tumore-prostata-problemi-soluzioni-2006cc84-8a22-11ee-b917-5ca1f7581f16.shtml?re...

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