Tumori : colon, lo studio: “Un batterio presente in bocca è collegato alla crescita del tumore”.

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angelico
00martedì 31 gennaio 2012 22:06
Tumore alla gola in aumento a causa del sesso
Le infezioni da papilloma virus sono in crescita nella popolazione maschile e giustificano casi di neoplasie

Non importa il tipo di sesso, il rischio di prendersi un’infezione alla gola da papilloma virus (Hpv) c’è sempre. Per gli uomini più che per le donne. Ecco perché gli uomini, più delle donne, si ammalano di tumore all’orofaringe. Si sa, fin dal 2007, che esiste un legame fra questo tipo di tumore e l’infezione da papilloma virus di tipo 16 (di virus, infatti, ne esistono diversi tipi e alcuni sono responsabili anche del tumore alla cervice uterina, oltre che di condilomi), ma non si conosceva la diffusione dell’infezione.
LA RICERCA - Ecco, allora, che un gruppo di ricercatori americani dell’Ohio State University a Columbus, ha coinvolto oltre 5500 persone, che già facevano parte di uno studio, denominato Nationa Health and Nutrition Examination Survey, le hanno accolte in unità mobili sottoponendole a gargarismi di circa 30 secondi con un colluttorio che poi veniva analizzato alla ricerca del virus. Gli studiosi hanno trovato che almeno il 10 per cento degli uomini presentava l’infezione, con un picco fra i 30 e i 34 anni e un altro fra i 60 e i 64. Nelle donne, invece, l’infezione era presente soltanto nel 3,6 per cento dei casi.

ALCOL E SIGARETTE - «L’infezione orale da papilloma virus è causa di una certa percentuale di tumori all’orofaringe – ha spiegato la ricercatrice nel lavoro appena pubblicato su Jama– I tumori, correlati al virus, sono strettamente associati ai comportamenti sessuali, mentre esiste un’altra quota di tumori, negativi per l’Hpv, che invece sono correlati all’abuso di alcol e di sigarette. Almeno il 90 per cento dei tumori da Hpv sono provocati dal virus di tipo 16 e l’infezione orale aumenta di 50 volte il rischio di andare incontro alla neoplasia». Lo studio ha mostrato che la diffusione dell’Hpv era favorita dal numero di partner indipendentemente dal tipo di sesso praticato, vaginale o orale. La trasmissione per contatti non sessuali – dice ancora lo studio – è limitatissima.

I RISCHI DELL’INTIMITA’ - I risultati di questa ricerca pongono il problema della prevenzione dell’infezione con i vaccini che già esistono per il tumore alla cervice uterina. Al momento però – sottolineano gli autori – non si conosce l’efficacia del vaccino contro le infezioni orali e non ci sono elementi sufficienti per suggerire la vaccinazione nella prevenzione del cancro alla gola. Hans Schlecht di Philadelphia, in un commento al lavoro intitolato «I rischi dell’intimità», pone anche il problema della diagnosi precoce di lesioni alla gola provocate dal papilloma, prima che si trasformino in cancro: si potrebbe ricorrere a un Pap test (come avviene per individuare lesioni precancerose della cervice uterina) o ai test per la ricerca del Dna virale.

Adriana Bazzi
29 gennaio 2012 (modifica il 31 gennaio 2012)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
www.corriere.it/salute/sportello_cancro/12_gennaio_29/papolloma-virus-cancro-gola-bazzi_5e1361fa-4a91-11e1-bc89-1929970e79...
angelico
00giovedì 9 febbraio 2012 14:56
I ricercatori dell'Università di Alberta, a Edmonton, in Canada hanno trovato la cura per il cancro, la settimana scorsa, ma se ne parla pochissimo nei notiziari e alla TV.

È una tecnica semplice, si utilizza un farmaco molto semplice.

Il metodo impiega dicloroacetato, che è attualmente usato per trattare i disordini metabolici. Quindi, non vi è alcuna preoccupazione per gli effetti collaterali o gli effetti a lungo termine.

Questo farmaco non richiede un brevetto, per cui chiunque lo può utilizzare ampiamente ed è economico rispetto ai costosi farmaci antitumorali prodotti da grandi aziende farmaceutiche.

Gli scienziati canadesi hanno testato questo dicloroacetato (DCA) sulle cellule dell'uomo, ed ha ucciso le cellule del cancro dal polmone, mammella e cervello ed ha lasciato intatte quelle sane. È stato testato su topi con tumori gravi che si sono ridotti quando sono stati alimentati con acqua integrata con DCA. Il farmaco è ampiamente disponibile e la tecnica è facile da usare. Perché le case farmaceutiche più importanti non sono coinvolte? O i media non ne sono interessati?

Nel corpo umano c'è un elementa naturale che lotta contro il cancro: i mitocondri, ma hanno bisogno di essere “spinti” per essere abbastanza efficaci [i mitocondri sono organi contenuti in ogni cellula umana, con una struttura simile a quella dei batteri, e con un proprio DNA mitocondriale; la funzione principale del mitocondrio è quella di produrre energia - N.d.T.].

Gli scienziati hanno sempre pensato che i mitocondri venissero danneggiati dal cancro e quindi hanno pensato di concentrarsi sulla glicolisi che è meno efficace e più dispensiosa. I produttori di farmaci si sono concentrati solo su questo metodo della glicolisi per combattere il cancro. Questo DCA invece non si basa sulla glicolisi ma sui mitocondri, “innesca” i mitocondri che combattono le cellule tumorali.

L'effetto collaterale di questo è che viene anche riattivato un processo chiamato apoptosi. Vedete, i mitocondri contengono un fin troppo importante “pulsante di autodistruzione” che viene a mancare nelle cellule tumorali. Senza di esso, i tumori diventano più grandi e le cellule rifiutano di estinguersi.

I mitocondri pienamente funzionanti, grazie al DCA invece possono finalmente morire. Le aziende farmaceutiche non investono in questa ricerca perché il metodo DCA non può essere brevettato, senza un brevetto non possono fare soldi, come stanno facendo ora con le cure contro l'AIDS.

Dal momento che le case farmaceutiche non se ne interesseranno, altri laboratori indipendenti dovrebbero iniziare a produrre questo farmaco e fare ulteriori ricerche per confermare le conclusioni di cui sopra e produrre i farmaci.


www.ecplanet.com/node/2493

www.facebook.com/notes/uniti-contro-la-multinazionale-del-cancro/trovata-in-canada-una-cura-per-il-cancro-ma-le-big-pharma-fanno-finta-di-niente/2036851...
angelico
00venerdì 10 febbraio 2012 23:49
Studio dell'Usc di Los Angeles e del Gaslini di Genova: 48 ore di restrizione calorica garantiscono risultati migliori delle cure, facendo regredire il tumore e riducendo gli effetti collaterali
di GIUSEPPE DEL BELLO
Lo leggo dopo

GENOVA - Solo acqua e quarantott'ore di digiuno per aumentare la validità della chemio e prevenire le recidive. È il risultato di uno studio in corso di pubblicazione su Science Translational Medicine e condotto dai ricercatori coordinati da Valter Longo, direttore dell'istituto di Longevità alla University of Southern California di Los Angeles, insieme ai colleghi del laboratorio di Oncologia dell'istituto Gianna Gaslini di Genova, diretto da Vito Pistoia.

Oltre alla dieta di due giorni, lo studio ha rivelato che gli stessi effetti benefici - ovvero la rallentata progressione del tumore - sono raggiungibili attraverso strategie molecolari che simulano il digiuno. Del gruppo del Gaslini che ha partecipato alle ricerche fanno parte la coordinatrice Lizzia Raffaghello, Giovanna Bianchi e lo stesso Pistoia.

Ma quale è il meccanismo d'azione che favorisce l'effetto dei farmaci sulle cellule maligne, ma salvaguarda quelle sane? Dieci anni fa, Longo utilizzò la restrizione calorica (digiuno) su modelli animali, come strumento per potenziare gli effetti della chemioterapia sulle cellule tumorali e proteggere efficacemente le cellule normali.

In caso di digiuno però, la cellula normale smette di proliferare ed entra in una condizione di autoprotezione, mentre la cellula tumorale continua a moltiplicarsi in modo incontrollato ed è refrattaria a qualunque segnale che cerchi di bloccarne la crescita.

In un lavoro pubblicato nel 2008 da Longo con Raffaghello è stato dimostrato che una restrizione calorica (48 ore di digiuno prima della somministrazione della chemioterapia) proteggeva le cellule normali ma non quelle tumorali in un modello animale di neuroblastoma, tumore pediatrico spesso a cattiva prognosi.

"In altre parole - spiega Pistoia - il meccanismo permette di distinguere cellule amiche da quelle nemiche. Il cancro è come un esercito di traditori difficilissimo da combattere, dal momento che hanno la stessa divisa dei nostri soldati (le cellule normali). La strategia messa a punto agisce dotando i nostri soldati di uno 'scudo magico' che li protegge e differenzia dai nemici 'traditori'".

Restava da capire se il digiuno obbligato (cioè la restrizione calorica) potesse rendere le cellule maligne più sensibili alla chemioterapia. La risposta è arrivata proprio dalla sperimentazione appena conclusa che, condotto su diversi modelli preclinici di tumori pediatrici e dell'età adulta, ha dimostrato che 48 ore di digiuno pre-trattamento non solo sono efficaci nel rendere più vulnerabili le cellule tumorali agli effetti della chemio, ma ritardano di per sé la progressione del tumore.

La sperimentazione clinica sul digiuno "terapeutico e protettivo" nei pazienti colpiti da tumore è già in corso in alcuni centri d'Oltreoceano ed europei. Al momento, i risultati preliminari di una ricerca su 10 pazienti, sottoposti a digiuno prima della somministrazione di farmaci anti-tumorali, ha rivelato una netta riduzione di effetti collaterali dovuti alla chemio.

Analoghi risultati emergono da uno studio clinico di fase 1 condotto al Norris Cancer Center di Los Angeles. "Il nuovo studio, oltre a confermare questo dato - aggiunge Pistoia - dimostra che il digiuno di per sé svolge azione antineoplastica: per esempio nei tumori in fase iniziale, o in quelli in fase avanzata, la cui progressione viene rallentata. Non solo. Il digiuno potrebbe rivelarsi efficace anche nel ridurre l'incidenza di secondi tumori, indipendenti da quello primitivo ma associati alla tossicità della chemio".


(08 febbraio 2012)

www.repubblica.it/salute/ricerca/2012/02/08/news/digiuno_chemioterapia-2...
angelico
00lunedì 9 luglio 2012 00:36
Un ingorgo stradale. O una gara di tiro alla fune. Immagini fantasiose per spiegare in modo nuovo un fenomeno, la migrazione delle cellule, che ha un'importanza fondamentare in diversi fenomeni che avvengono nel nostro organismo: dalla crescita dell'embrione alla cicatrizzazione delle ferite, allo sviluppo dei tumori. Immagini che servono per spiegare il movimento a onda, per la migrazione delle cellule, illustrato nello studio "Physical forces during collective cell migration", da poco pubblicato su Nature Physics. Lo studio è stato coordinato dall'Istituto di bioingegneria della Catalogna a Barcellona ed è stato illustrato in un articolo di Xavier Trepat, coordinatore dello studio.

I ricercatori hanno dimostrato che lo spostamento di massa delle cellule non è guidato solo da segnali di tipo chimico, come ipotizzato finora, ma anche da forze di tipo meccanico, che le cellule si trasmettono attraverso le giunzioni che le fanno aderire una all'altra. In particolare, le cellule si muovono formando una specie di onda, e quelle che si trovano sul fronte di avanzamento si trascinano dietro tutte le altre.

Finora gli scienziati hanno proposto vari meccanismi per spiegare questi fenomeni, spiega Trepat. Secondo un'ipotesi infatti, la migrazione collettiva delle cellule è dovuta all'esistenza di cellule "leader" che guidano le altre, come una locomotiva che tira i vagoni in un treno. Un'altra ipotesi è quella per cui le cellule si muovono indipendentemente da tutte quelle intorno, come le auto in un ingorgo stradale o come soldati in una parata militare. Entrambe queste ipotesi illustrate da Trepat, vengono respinte. Secondo lo studio la deformazione si propaga quindi di cellula in cellula con una velocità doppia rispetto a quella con cui si muovono. «Immaginate di guardare un ingorgo stradale dall'alto - spiega Trepat – Vedrete un effetto onda molto simile in cui alcune auto si muovono in avanti seguite dopo poco da altre auto che vanno a riempire gli spazi lasciati vuoti. A differenza delle macchine, però, le cellule del nostro studio sono capaci di spingersi e tirarsi a vicenda, e questo rende il fenomeno ancora più complesso». E per trovarne una più aderente, Trepat, illustra l'immagine del tiro alla fune. «E' un meccanismo simile a una gara di tiro alla fune – spiega infatti Trepat – nella quale due squadre tirano una corda dalle estremità e chi tira più forte, vince. Durante la gara ogni giocatore genera una forza e la trasmette alla corda, in modo che la tensione esercitata sulla corda è la somma delle forze generate da ciascun membro della squadra. Ogni cellula genera una forza che passa ai suoi vicini in direzione del movimento».

L'individuazione di questo fenomeno potrà aiutare a comprendere non solo i processi che portano alla crescita dell'embrione, ma anche alla guarigione delle ferite e, cosa ancora più importante, allo sviluppo dei tumori. Afferma infatti Trapet: «Se per esempio trovassimo un modo per controllare la mobilità delle cellule durante le metastasi, il cancro diventerebbe una malattia curabile nella maggior parte dei casi»

www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2012-07-08/unonda-cellule-promettente-cura-153826.shtml?uuid=...
angelico
00mercoledì 1 agosto 2012 15:16
MILANO - Scoperta una proteina in grado di contrastare il meccanismo che, come un elisir di lunga vita, mantiene le cellule del tumore sempre giovani e le fa vivere più a lungo di quelle sane. I ricercatori dell'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano 1, infatti, hanno rivelato per la prima volta che la proteina DBC1 è in grado di far ripartire il meccanismo che porta le cellule tumorali a invecchiare e poi a morire. Queste cellule sono così aggressive perché l'azione svolta da un'altra proteina, SIRT1, le mantiene sempre giovani e forti.

Il Dna si altera. Quando le cellule del corpo umano presentano una grave alterazione del Dna, a quel punto si attiva al loro interno la proteina p53, chiamata "il guardiano del genoma" in quanto è responsabile di un meccanismo naturale che spinge le cellule con il Dna troppo danneggiato a morire. Questo 'suicidio cellulare' è essenziale perché evita che cellule con il patrimonio genetico alterato, potenzialmente in grado di trasformarsi in cellule tumorali, possano continuare a crescere in modo incontrollato.

In caso di tumore, questo meccanismo non solo non si attiva, ma è anche molto alto il livello della proteina SIRT1, l'elisir di lunga vita delle cellule, che blocca p53 e mantiene in vita le cellule tumorali per un periodo superiore alla norma. Lo squilibrio tra i valori di DBC1 e SIRT1 all'interno delle cellule tumorali era un fenomeno conosciuto, ma non si sapeva
che tipo di rapporto lega queste due proteine.

La proteina che protegge l'organismo. Per dimostrare che i valori di queste due proteine sono vincolate da un rapporto di causa ed effetto, i ricercatori dell'Istituto Nazionale dei Tumori hanno aumentato artificialmente il livello di DBC1 in cellule del tumore mammario. Conseguenza di questa variazione è stata una diminuzione di SIRT1. Alla riduzione di questa proteina è corrisposto un aumento di p53 e si è intensificato il fenomeno di morte programmata delle cellule tumorali.

"In pratica la proteina DBC1 si attacca alla SRT1 e "inibisce" la SRT1 - spiega Laura Zannini, ricercatrice del Dipartimento di Oncologia sperimentale e medicina molecolare dell’Istituto Nazionale dei Tumori - .A quel punto si attiva la b53 che fa trascrivere altri geni e questo porta alla morte della cellula danneggiata".

Lo studio dell'invecchiamento. Tra l'altro la SIRT1 ha un ruolo essenziale anche nella regolazione del metabolismo e dell'invecchiamento. per questo i ricercatori sono convinti che l'identificazione di questo meccanismo potrà avere riflessi anche in altri campi, come, ad esempio, lo studio dell'invecchiamento cellulare e di malattie metaboliche, come l'obesità e il diabete.

"La nostra ricerca ha studiato in particolare la presenza di queste proteine e come interagiscono tra loro nei tessuti del tumore del seno, ma queste molecole sono presenti e coinvolte nel ciclo vitale di tutte le cellule e questo implica che i risultati di questa ricerca sono applicabili a diverse forme di cancro - spiega Domenico Delia, responsabile della Struttura meccanismi molecolari di controllo del ciclo cellulare dell’Istituto Nazionale dei Tumori - . Si aprono quindi importanti prospettive di ricerca: possiamo studiare nuove strategie terapeutiche che aumentino la presenza nell’organismo e nei tessuti del tumore di DBC1, contrastando così l’azione di ringiovanisce di SIRT1 e spingendo al suicidio le cellule tumorali”.

Speranza per nuove terapie. "Lo studio è iniziato circa 3 anni fa e abbiamo lavorato su vari tipi di linee cellulari che derivano dal tumore. Ora ci concentreremo sempre di più sul ruolo di DBC1 e SIRT1 nello sviluppo e nella progressione del tumore alla mammella. E' in questo settore che abbiamo avuto risultati incoraggianti", spiega ancora Zannini.

Va ricordato che ci vorranno ancora anni per una eventuale terapia. Si tratta di una scoperta portata avanti in laboratorio e, come precisa Delia, "prima di avere un applicazione clinica di questo meccanismo saranno necessari alcuni anni”. Ora la scoperta sarà pubblicata su Journal of Molecular Cell Biology 2, una delle più importanti riviste scientifiche internazionali.
(01 agosto 2012)

www.repubblica.it/salute/ricerca/2012/08/01/news/tumori_scoperta_la_proteina_che_fa_morire_le_cellule_malate-4...
angelico
00sabato 29 dicembre 2012 11:04
Un farmaco contro tutti i tumori
Nuovi esperimenti sulle terapie molecolari, presto potrebbero essere provate sui pazienti. L'obiettivo della cura: l'anomalia di un gene responsabile dello sviluppo del cancro
di GINA KOLATA
Lo leggo dopo
PER LA PRIMA volta tre aziende farmaceutiche sono pronte a sperimentare nuovi farmaci che potrebbero agire contro un'ampia gamma di tumori - dal seno alla prostata, dal fegato ai polmoni. I farmaci prendono di mira un'anomalia che riguarda un gene responsabile dello sviluppo del tumore. L'esperimento potrebbe segnare l'inizio di una nuova era genetica nella ricerca contro il cancro e portare a cure rivoluzionarie per forme tumorali rare e finora dimenticate e per tumori più comuni. Merck, Roche e Sanofi stanno ingaggiando una corsa per mettere a punto le rispettive versioni di un farmaco in grado di ripristinare un meccanismo che induce le cellule danneggiate ad autodistruggersi.

Nessuna società farmaceutica ha mai condotto finora una sperimentazione clinica di vasta portata su pazienti affetti da varie forme tumorali. Otis Webb Brawley, direttore medico e scientifico dell'Associazione americana per la lotta contro il cancro, dice: "È un passo fondamentale nello sviluppo dei farmaci antitumorali. In futuro l'organo nel quale si è sviluppato il cancro conterà sempre meno, mentre la terapia a bersaglio molecolare sempre di più".

Al centro di questa sperimentazione ci sono pazienti come Joe Bellino. Sette anni fa i medici gli hanno diagnosticato un liposarcoma, raro tumore che colpisce le cellule del tessuto adiposo. Questa forma tumorale si prestava alla sperimentazione di un farmaco della Sanofi, perché i tumori quasi sempre presentano lo stesso problema genetico: una fusione di due grandi proteine. Se il farmaco funzionasse, Sanofi lo sperimenterebbe su diversi tumori che presentano alterazioni genetiche simili. Se non dovesse dare risultati, ammetterebbe la sconfitta.

L'alterazione genetica presa di mira dal farmaco assilla i ricercatori da decenni. Le cellule sane hanno un meccanismo naturale che le induce a morire se il loro Dna è troppo danneggiato per essere riparato. Una proteina nota come p53 - che Gary Gilliland della Merck definisce "l'angelo della morte della cellula" - innesca l'intero processo. Ma le cellule tumorali riescono a disattivare questa proteina direttamente, tramite una mutazione, o indirettamente congiungendola a un'altra proteina cellulare che la inibisce. Chi è impegnato nella ricerca contro il cancro cerca di riattivare la p53 nelle cellule cancerogene per provocarne l'autodistruzione.

Le speranze riposte nella proteina p53 iniziarono 20 anni fa: l'entusiasmo arrivò a tal punto che nel 1993 la rivista Science la consacrò "Molecola dell'anno" e la mise in copertina. Le case farmaceutiche cominciarono quindi a dare la caccia a una sostanza in grado di ripristinare il funzionamento della p53: provarono la terapia genica, ma senza esito. In seguito si misero a studiare le forme tumorali che utilizzavano una via alternativa per disattivare la p53, bloccandola dopo averla attaccata con una proteina nota come MDM2. E a cercare una molecola che si interponesse tra loro per distanziarle.

Nel 1996 i ricercatori della Roche individuarono una minuscola tasca tra le proteine nella quale poteva introdursi una molecola. Alla fine la Roche ha trovato la molecola giusta e l'ha chiamata Nutlin. Ma questa non ha funzionato come farmaco, perché non veniva assorbita dal corpo.
Successivamente Roche, Merck e Sanofi hanno sperimentato migliaia di altre molecole. Al-
Sanofi, il team di Debussche, insieme a Schaomeng Wang dell'università del Michigan e a una società biotech, Ascenta Therapeutics, ha trovato un composto promettente. La farmaceutica lo ha sperimentato iniettandolo ogni giorno nello stomaco di alcune cavie affette da sarcoma e ha scoperto che i tumori erano scomparsi.

La Roche è stata la prima a sperimentare un farmaco a base di p53 nei pazienti: come richiesto dai protocolli, ha iniziato a cercare la dose ottenesse l'effetto desiderato senza essere tossica. Sono serviti tre anni. A breve dovrebbero seguire studi rigorosi e qualora fossero positivi, sarebbero seguiti da sperimentazioni cliniche su più tipi di tumore. Recentemente la Merck ha approfondito gli studi per capire quale sia la dose sicura e sta reclutando pazienti affetti da leucemia mieloide acuta. La dose ideale sarà sperimentata in 15 pazienti su un campione di 30 per studiarne l'efficacia. Anche la Sanofi ha iniziato i suoi test sulla sicurezza in Europa. L'anno prossimo proseguirà in alcuni centri medici degli Stati Uniti. Al pari della Merck, si concentrerà su quei pazienti affetti da liposarcoma come Bellino che hanno maggiori probabilità di rispondere al farmaco.

Il liposarcoma è talmente raro - poco più di duemila casi l'anno nel mondo - che nessun farmaco è stato sperimentato sui pazienti colpiti da questo tumore. Bellino sperava di poter essere tra i primi. Purtroppo nel suo caso il test arriva troppo tardi. È morto di tumore il 13 novembre.
(Copyright The New York Times- La Repubblica. Traduzione di Anna Bissanti)

(24 dicembre 2012)


www.repubblica.it/salute/ricerca/2012/12/24/news/pillola_anti_tumore-49370186/?ref...
angelico
00lunedì 13 gennaio 2014 23:05
Con un semplice esame del sangue è possibile scoprire il tumore del polmone fino a due anni prima della diagnosi ottenuta con l'indagine radiologica di riferimento (l aTac spirale), impiegata proprio per la diagnosi precoce di questo tumore nei forti fumatori. A dimostrarlo sono i risultati di un ampio studio condotto all'Istituto nazionale dei tumori (Int) di Milano e pubblicato oggi sul Journal of Clinical Oncology. Il test - che è in grado - si basa sull'analisi dei microRNA circolanti (molecole di acido ribonucleico che modulano l'espressione genica e sono espressi in maniera aberrante nei tumori) e secondo la ricerca ha un'alta sensibilità e la capacità di ridurre in maniera significativa la percentuale di falsi positivi ottenuti con la Tac spirale. I risultati dello studio sono stati presentati da Gabriella Sozzi, direttore dell'Unità di Genetica tumorale dell'Istituto nazionale dei tumori. a San Diego, California, alla conferenza dell'Associazione americana per la ricerca sul cancro (Aacr) e dell'Associazione internazionale per lo studio del tumore al polmone (Ialsc) . Alla ricerca, finanziata dall'Airc e dall'azienda produttrice del test (Gensignia), hanno collaborato l'universita' di Parma e il Mario Negri di Milano.

Per Ugo Pastorino, direttore di Chirurgia toracica all'Int, «la riduzione dell'80% dei falsi positivi ottenuta combinando i risultati del test dei microRna e della Tac spirale» fra l'altro «porterebbe alla riduzione di costi e rischi associati con le ripetute indagini radiologiche o con l'uso di altre metodologie diagnostiche invasive per il paziente». Oltre alla riduzione dei falsi positivi, precisano dall'Istituto milanese, il test dei microRna ha mostrato di essere indipendente dallo stadio del cancro polmonare e dall'intervallo di tempo intercorso tra l'analisi molecolare e l'identificazione del tumore usando la Tac spirale. «Abbiamo messo a punto un test diagnostico molecolare a bassa invasività per il paziente che valuta i livelli di 24 microRna circolanti nel sangue dei fumatori e indica la presenza del cancro polmonare - spiega Sozzi - Complessivamente, i risultati del nostro studio supportano l'uso del test molecolare come strumento per migliorare l'identificazione precoce del tumore al polmone». «Numerosi biomarcatori con valenza diagnostica e prognostica sono stati identificati recentemente - osserva Marco Pierotti, direttore scientifico dell'Int - ma pochi hanno superato la prova della validazione e sono diventati veri strumenti della pratica clinica, come questo test molecolare si appresta a diventare».
Il test sarà infatti lanciato quest'anno per la prima volta negli Stati Uniti dalla Gensignia, società privata londinese attiva nello sviluppo di test diagnostici molecolari.


www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2014-01-13/un-esame-sangue-svela-cancro-polmone-anticipo-due-anni-163617.shtml?uuid...
angelico
00martedì 14 ottobre 2014 09:39
Leucemia, ecco la terapia Car: così l’Hiv aiuta a distruggere le cellule tumorali
La scoperta del team del professor Carl June, della University of Pennsylvania, potrebbe portare a notevoli passi avanti nella cura dei tumori. Nei pazienti con leucemia acuta linfoblastica si ha circa il 90 per cento di remissioni complete

di Beatrice Borromeo | 13 ottobre 2014Commenti (2)
Sistema immunitario
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La rivista Science l’ha definita una “terapia rivoluzionaria”. A raccontarla, la cura elaborata dal dottor Carl June pare fantascientifica: si tratta di serial killer che vengono iniettati nel paziente malato per dare la caccia alle cellule tumorali, eliminandone fino a mille ciascuno. Senza intaccare quelle sane. E quando non bastano per combattere il nemico, si moltiplicano da sole, come fossero comuni anticorpi, creando un esercito anti-cancro all’interno dell’organismo. I risultati? Al di sopra di ogni aspettativa. Nei pazienti con leucemia acuta linfoblastica si ha circa il 90 per cento di remissioni complete: ad anni di distanza dal trattamento, non si registra più alcun segno di tumore.

La terapia si chiama Car (da Chimeric antigenic receptor, cioè cellule T con recettore chimerico) e consiste nel prelevare i linfocitiT (sottogruppo dei globuli bianchi) dal paziente malato di leucemia per poi coltivarli in un laboratorio e riprogrammarli per eliminare il tumore. Per trasformarli in serial killer occorre la fusione tra una proteina e un anticorpo: i globuli bianchi vengono dunque “infettati” da lentivirus, vettori derivati dal virus Hiv – anche se ovviamente modificati cosicché non siano tossici – e noti per la loro capacità di penetrare le cellule. Questo lentivirus è in grado di trasferire pezzi di Dna nel linfocita e di armarlo con la nuova proteina (Car appunto) prodotta artificialmente in laboratorio, che riesce a individuare e distruggere la leucemia, creando anche una sorta di memoria nel sistema immunitario. Come spiega il dottor June, “i linfociti T modificati non interagiscono con le cellule che non sono tumorali, e dunque limitano gli effetti collaterali causati dalle terapie standard. Le cellule tumorali esprimono una proteina (CD19) che i linfociti modificati sono in grado di riconoscere e attaccare con precisione. E dato che hanno un’enorme capacità di riprodursi, vanno immaginati come un esercito di serial killer dall’incredibile potenza omicida”.

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Se il professor June è riuscito a concretizzare questa terapia – le cui radici risalgono agli anni Ottanta – è merito anche del caso. Agli inizi della sua carriera aveva infatti deciso di concentrarsi sulla leucemia, specializzazione che dovette abbandonare durante la guerra del Vietnam, quando si arruolò nella Marina americana. “Gli Stati Uniti pretendevano che noi militari ci concentrassimo su altri fronti, come i vaccini per la malaria o le cure per l’Hiv”. È così che June dedica alcuni anni allo studio di questo virus. “All’inizio il professore tentò di stimolare i linfociti per riconoscere l’Hiv”, spiega il dottor Marco Ruella, ematologo torinese che dal 2012 fa parte del team di Carl June alla University of Pennsylvania. Poi l’intuizione: applicare lo stesso processo per stanare le cellule tumorali. Ma come si fa a inserire in una cellula una proteina che non esiste in natura? Carl June realizza che i lentivirus derivati dall’Hiv sono perfetti cavalli di Troia.

La svolta, che porta la firma di June, è stata infatti quella di riuscire a trasportare la nuova proteina dal laboratorio alla clinica. Il professore comincia le sperimentazioni alla fine degli anni Novanta, alla UPenn, e nel 2010 tratta il primo paziente, un ex soldato di 60 anni affetto da leucemia in fase terminale. Sono passati anni da quando Bill, il paziente numero uno, ed Emily, la prima bambina a sperimentare la terapia, sono stati curati. Grazie alla loro guarigione, gli esperimenti sono andati avanti: “Abbiamo già trattato una trentina di leucemie acute e altrettante leucemie croniche. Una sessantina di casi – spiega il dottor Ruella – con risultati insperati, soprattutto considerando che queste persone avevano già ricevuto terapie, o trapianti, e la loro prognosi era pessima. Non c’erano alternative, se non cure sperimentali. Nei pazienti con leucemia acuta linfoblastica si ha tra circa il 90 per cento di remissioni complete. Alcuni pazienti hanno recidivato dopo mesi o anni. Ma la maggioranza, ad anni di distanza, non mostra più alcun cenno di tumore, e parliamo di persone che avevano un’aspettativa di vita di pochi mesi. Per questo l’immunoterapia è stata dichiarata “breakthrough” (una conquista nel campo della ricerca). La leucemia cronica si è mostrata invece più difficile da estirpare. Spiegano dalla facoltà di medicina della UPenn che “siamo riusciti a guarire circa il 50 per cento dei pazienti. I fattori in ballo sono parecchi, ma i risultati sono decisamente migliori rispetto a quelli delle terapie standard”.

Una volta in cura nel team di Carl June, al paziente viene filtrato il sangue per prelevarne i globuli bianchi. Questi vengono poi trasportati in appositi laboratori, isolati e fatti proliferare. Il passaggio chiave è il trasferimento all’interno dei linfociti T di questa nuova proteina artificiale (Car) grazie al vettore derivato dal virus Hiv. Dopo circa dieci giorni di espansione, i linfociti sono pronti per combattere il tumore. Si effettuano test di controllo per verificare che la proteina venga effettivamente espressa e i serial killer vengono poi (solitamente) congelati. Nel frattempo, il paziente è sottoposto ad una chemioterapia per abbassare il numero di linfociti T presenti nel sangue, così da far spazio a quelli modificati in laboratorio. Poi il processo è rapido e semplice come una trasfusione. “Si fa in 10, 15 minuti – spiegano dal laboratorio – I linfociti modificati girano per il corpo, entrano in contatto con leucemia presente nel sangue e nel midollo osseo e poi cominciano da un lato ad ammazzare le cellule tumorali e dall’altro a riprodursi in maniera esponenziale”. Se i costi sono così elevati (circa 600mila dollari per terapia) è perché – anche se il virus che si usa per trasferire la proteina nei linfociti t è universale – questi vanno coltivati individualmente in laboratorio: la terapia, basata sui globuli bianchi del singolo paziente, si fa su misura. Ma la casa farmaceutica Novartis – ha messo la terapia all’apice delle priorità nel suo budget per la ricerca che ammonta a quasi 10 miliardi di dollari – parla già di proporre la cura a costo zero nei Paesi in via di sviluppo, e spiega che, una volta entrata in commercio come prodotto clinico (nel 2016 in America), il prezzo scenderà comunque automaticamente. Uno degli aspetti più sorprendenti è poi che gli effetti collaterali, a lungo termine, sono molto blandi. Quando la terapia funziona i pazienti – che avevano un’aspettativa di vita di pochi mesi – oltre a non avere più la leucemia notano anche l’assenza dei linfocitiB, che producono anticorpi. Quindi, ogni due o tre mesi, ricevono un’infusione di anticorpi, considerata però dai medici niente affatto proibitiva. Per il resto, hanno davanti una vita normale.


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angelico
00giovedì 13 novembre 2014 17:09
Tumore al pancreas, un killer in crescita. Rischi da fumo, alcool e obesità
I dati dell'incidenza nella prima giornata mondiale dedicata a questo tipo di cancro: meno del 10% dei malati sopravvive a 5 anni

di IRMA D'ARIA
Lo leggo dopo
Tumore al pancreas, un killer in crescita. Rischi da fumo, alcool e obesitàIL 2014 si chiuderà con 12.700 nuovi casi di cancro al pancreas. Pochi dei nuovi diagnosticati, la maggior parte dei quali tra i 60 e gli 80 anni, riuscirà a sopravvivere. Secondo le stime, infatti, solo il 7% degli uomini e il 9% delle donne sono vivi a cinque anni dalla diagnosi. Negli ultimi trent'anni, la sua incidenza è significativamente aumentata: si colloca al decimo posto tra le neoplasie solide più frequenti. Tra i maschi rappresenta la quarta causa di morte per neoplasia e nelle donne la quinta.

Eppure, nonostante la sua aggressività, 6 italiani su 10 non ne hanno quasi mai sentito parlare. Nasce anche per questo la prima Giornata mondiale sul tumore del pancreas che si celebra proprio oggi e che si pone l'obiettivo di far conoscere meglio questa patologia in modo da individuare prima i campanelli d'allarme e arrivare subito ad una diagnosi.

Il tumore al pancreas. La testa del pancreas è la sede colpita con maggior frequenza. Circa il 95% di tutte le neoplasie che lo interessano riguarda la componente "esocrina", cioè la porzione che produce i succhi pancreatici. È un nemico insidioso perché in fase precoce dà sintomi aspecifici. Le cellule tumorali pancreatiche sono, infatti, particolarmente resistenti ai farmaci, che non riescono a bloccarne lo sviluppo, ma solo a rallentarne in modo estremamente limitato la crescita. Segnali chiari compaiono quando hanno ormai iniziato a diffondersi agli organi circostanti o hanno bloccato i dotti biliari.

I rischi del fumo. Il fumo rappresenta il fattore di rischio principale. I tabagisti presentano un rischio di incidenza da doppio a triplo rispetto ai non fumatori e l'aumento è proporzionale al numero di sigarette fumate. Gli esperti hanno addirittura stimato la proporzione di neoplasia al pancreas attribuibile al fumo: è dell'ordine del 20-30% negli uomini e del 10% nelle donne. Si potrebbero evitare quindi 3 casi di malattia su 10 nei maschi, se solo decidessero di gettare la sigaretta. Venti sigarette al giorno possono rubare una media di 4-6 anni ad una persona che inizia a 25.

Non esagerare con l'alcol. La dose di alcol non deve superare i 20-40 grammi al giorno per gli uomini e i 10-20 grammi per le donne. Andare oltre, rappresenta un rischio. Per capirsi: in mezzo litro di birra leggera ci sono 20 grammi di alcol, mentre un bicchiere da vino da 12° fornisce 14 grammi di alcol.

La pancreatite alcolica è una delle più gravi conseguenze del consumo cronico di alcol. Il rischio di contrarre la malattia aumenta in proporzione alle dosi e alla frequenza delle bevute. Il pancreas è in grado di "elaborare" l'alcol, tramite certi enzimi. Ma questa attività metabolica genera delle molecole che possono danneggiare le cellule pancreatiche. In pratica, gli enzimi prodotti dall'organo, invece di aiutare l'intestino a digerire le componenti degli alimenti, attaccano direttamente il pancreas. Questo processo, che diventa poi un circolo vizioso e cronico, aumenta addirittura di 10 volte il rischio di cancro. Inoltre, l'alcol può scatenare anche una pancreatite acuta.

Il ruolo dell'alimentazione. Di recente è stato scoperto un legame con l'obesità. Infatti, una revisione di studi pubblicata dal prestigioso Karolinska Institute di Stoccolma ha dimostrato una solida relazione fra chili di troppo e malattia. Soprattutto quando il grasso è stratificato sull'addome e sono presenti intolleranza al glucosio, resistenza all'insulina e diabete. Attenzione quindi agli alimenti altamente calorici, ricchi di proteine di origine animale, grassi e carboidrati raffinati.

La diagnosi. I camici bianchi sul territorio sono le prime sentinelle contro la malattia, perché conoscono la storia dei propri assistiti e possono identificare i fattori di rischio. "Dobbiamo cogliere i campanelli d'allarme, per indirizzare precocemente il paziente al centro di riferimento, distribuendo allo stesso tempo sul territorio il management delle persone in carico" ha sottolineato Claudio Cricelli, Presidente della Società Italiana di Medicina Generale (SIMG) intervenendo oggi in un Convegno alla Camera dei Deputati organizzato proprio per discutere del tumore al pancreas. "Deve quindi rafforzarsi sempre di più il rapporto tra medico di famiglia e specialisti".

L'intervento chirurgico. La chirurgia è uno dei modi più efficaci per intervenire sul tumore del pancreas. La particolarità e l'aggressività di questo tipo di cancro richiedono, però, competenze del tutto particolari che si sviluppano con la pratica. Moltissimi studi scientifici, pubblicati sulle più importanti riviste internazionali, hanno dimostrato che il rischio di mortalità e di complicanze post-intervento è di gran lunga maggiore nei centri che hanno un basso bacino di pazienti con questo tipo di cancro. E poi molto dipende da quando si riesce ad intervenire. "In circa l'80% dei casi" afferma Claudio Bassi, ordinario di Chirurgia Generale presso l'Istituto del Pancreas dell'Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona "il cancro del pancreas alla diagnosi non è passibile di chirurgia radicale perché il tumore è già metastatico, principalmente al fegato, oppure coinvolge localmente grossi vasi non resecabili. Per tale neoplasia è quindi necessaria una diagnosi molto precoce che può essere effettuata solo approntando programmi di screening per individui con sicuri fattori di rischio".

Radio e chemioterapia. La radioterapia è indicata dopo l'intervento (terapia adiuvante) e può essere utile anche nei pazienti con malattia localmente avanzata non resecabile. La chemioterapia può essere impiegata prima o dopo l'intervento chirurgico, oppure nelle persone in cui l'intervento non è indicato che rappresentano la maggioranza dei casi. Per molti anni l'unico trattamento disponibile è stata la gemcitabina ma vari studi hanno dimostrato che la terapia di combinazione, che abbina farmaci diversi, è più efficace. L'ultima conferma arriva da uno studio francese in cui una combinazione di farmaci (Folfirinox): 5-FU, leucovorina, oxaliplatino e irinotecano ha determinato un significativo vantaggio in sopravvivenza. Tuttavia, solo i pazienti con buone condizioni generali, senza ittero e protesi biliari sono in grado di tollerare questo trattamento aggressivo.

L'innovazione delle nanotecnologie. Gli ultimi progressi nel campo della ricerca sono le nanotecnologie. "Solo ultimamente si è iniziato a compiere significativi passi in avanti nella ricerca, grazie all'arrivo del nab-paclitaxel, cioè paclitaxel legato all'albumina in nanoparticelle" hanno spiegato Francesco Cognetti, presidente della Fondazione "Insieme contro il cancro" e Stefano Cascinu, past president dell'Associazione italiana di oncologia medica (Aiom). "È un trattamento già impiegato nel campo del tumore della mammella metastatico, che sfrutta le più recenti scoperte in ambito di nanotecnologia. Questo farmaco, associato alla gemcitabina, ha dato risultati incoraggianti, permettendo di avere per la prima volta pazienti lungo sopravviventi in uno studio sul carcinoma del pancreas".

La paura del cancro. Sette italiani su dieci considerano il cancro come un serissimo problema di salute pubblica. È quanto emerge dalla Global pancreatic cancer awareness omnibus survey, condotta per conto di Celgene, e presentata oggi alla Camera dei deputati. Dall'indagine, che ha coinvolto oltre settemila persone tra Europa e Stati Uniti, emerge che il tumore è molto più temuto di altre malattie invalidanti come l'Alzheimer (39%) e i disturbi cardiovascolari (34%).

In Italia siamo anche pessimisti sulle terapie. Nove cittadini su dieci pensano che negli ultimi vent'anni si sarebbe potuto fare di più e il 20% è convinto che si stia addirittura perdendo terreno. Scarsa la conoscenza del tumore del pancreas: 6 italiani su 10 non ne hanno quasi mai sentito parlare. "Ma la sete di notizie è tanta e il 73% appoggia con entusiasmo le campagne di sensibilizzazione. Come il progetto "PanCrea: creiamo informazione" che negli ultimi dodici mesi ha girato il Paese per spiegare l'importanza della prevenzione" ha spiegato Cognetti,. Il tour PanCrea ha toccato sei regioni, per incontri informativi con clinici, associazioni di pazienti e medici di famiglia.

Le associazioni di pazienti. Per aumentare la consapevolezza dei fattori di rischio e l'informazione su questa patologia, giocano un ruolo primario le associazione dei pazienti. "Ieri siamo stati al Parlamento europeo per rilanciare la nostra attività di sensibilizzazione su questa neoplasia" ha spiegato Elisabetta Iannelli, Segretario Generale della Federazione Italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia (FAVO). "Abbiamo partecipato alla 'call to action' Giving a Voice to Pancreatic Cancer, promossa dalla European Cancer Patient Coalition (ECPC), a cui hanno aderito anche molti eurodeputati, per includere questo tumore in tutte le principali iniziative europee sulla lotta contro il cancro. Vogliamo incrementare la ricerca scientifica, rendere più efficiente la raccolta di dati, individuare strumenti per la diagnosi precoce, migliorare gli standard di cura e le chance di sopravvivenza".

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angelico
00giovedì 13 novembre 2014 17:11
"Un'iniezione per fermare il tumore alla prostata"
Lo studio delle università di Bristol, Nottingham e della University of the West of England. Messo a punto un sistema per 'bloccare' la molecola che aiuta il cancro a formare nuovi vasi sanguigni e quindi a sopravvivere e diffondersi nel corpo

Lo leggo dopo
"Un'iniezione per fermare il tumore alla prostata"
di VALERIA PINI

UN'INIEZIONE per bloccare il tumore. Inibendo l'attività di una molecola chiave sarebbe possibile fermare la diffusione del cancro alla prostata. Uno studio delle università di Bristol, Nottingham e della University of the West of England (UWE Bristol), ha messo a punto un composto specifico in grado di bloccare l'attività della molecola SRPK1, che aiuta i tumori a formare nuovi vasi sanguigni e quindi a sopravvivere e diffondersi nel corpo.

La molecola SRPK1. Per arrivare a questo risultato, pubblicato sulla rivista Oncogene, i ricercatori hanno analizzato campioni umani di cancro alla prostata. In questo modo e' stato possibile osservare che un aumento della SRPK1 e' legato a una maggiore aggressività del tumore. In seguito gli esperti hanno dimostrato che farmaci conosciuti come composti SPHINX, progettati per inibire specificamente l'attività di SRPK1, sono in grado di ridurre la crescita tumorale in un modello murino di cancro della prostata, quando questi vengono somministrati tre volte alla settimana con iniezioni. "I nostri risultati indicano un nuovo modo di trattare i pazienti affetti da cancro alla prostata e possono avere implicazioni più ampie per il trattamento di altri tipi di tumori", hanno concluso i ricercatori.

Bloccare il tumore. "Abbiamo capito che c'era un collegamento fra l'attività della molecola SRPK1 e l'espansione del tumore - ha detto Sebastian Oltean, coautore dello studio e ricercatore della University of Bristol's School of Physiology and Pharmacology - . Con questa nostra sperimentazione abbiamo dimostrato che facendo calare i livelli dell'SRPK1 potevamo 'inibire' il tumore alla prostata."

Il test sui topi. I tumori hanno bisogno di sangue per sopravvivere e crescere. E' su questo punto che si sono concentrati gli sforzi dell'equipe. Gli studiosi hanno visto che bloccando i vasi sanguigni è possibile frenare l'espansione delle cellule cancerogene. Hanno creato una miscela che hanno sperimentato sui topi. Le iniezioni sugli sulle cavie da laboratorio riuscivano a fermare la molecola SRPK1 e a quel punto la crescita del cancro si fermava.

Contro altri tipi di cancro. La prossima tappa è quella di sviluppare un medicinale che possa influire sull'attività della molecola SRPK1. Dal momento che questo tipo di cura punta ad agire sui vasi sanguigni, può essere usata anche per combattere altri tipi di tumore e anche la degenerazione maculare legata all'età, che porta a cecità. "I nostri risultati propongono una nuova via per trattare il tumore alla prostata e potrebbero avere un'applicazione molto più ampia, per altri tipi di tumore", spiega l'altro autore dello studio, David Bates della University of Nottingham's Division of Cancer and Stem Cells.

La super risonanza magnetica. Intanto proprio in questi giorno è stata presentata una risonanza magnetica di ultima genereazione. Si chiama risonanza magnetica 'multiparametrica' e secondo uno studio dell'Ieo (Istituto europeo di oncologia) di Milano, che ne ha valutato il ruolo nella diagnosi e nella cura del tumore alla prostata, questa tecnica speciale può diminuire i più temuti effetti collaterali del trattamento anticancro - impotenza e incontinenza - a parità di efficacia oncologica. La ricerca su 278 pazienti con tumore prostatico in due anni, è stata pubblicata su 'Radiology'.

I dati. Il tumore alla prostata è una delle forme di cancro più diffuse tra gli uomini. In Italia i casi sono in calo. Per il 2015 sono attesi circa 35.000 nuovi casi, con una caduta rispetto a quelle che erano le stime degli anni precedenti legata al perfezionamento dei metodi predittivi e delle diagnosi precoci. Cala, inoltre, anche il tasso di mortalità causato dal carcinoma prostatico. Secondo le ultime stime, infatti, in Italia nel 2015 saranno 323.000 le persone con diagnosi di tumore alla prostata che sopravvivranno e il 50% dei 35.000 nuovi casi sono classificati a basso rischio. Per questi ultimi, quindi, si potrà così parlare di "sorveglianza attiva" e, forse presto, non sarà più necessario sottoporre tali pazienti a operazioni chirurgiche.




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angelico
00giovedì 26 febbraio 2015 19:27
Torino, diciottenne salvato dal tumore osseo con un bacino artificiale: è la prima volta al mondo
Il trapianto, con un'operazione lunga 12 ore, è stato eseguito all'ospedale Cto. La protesi in tantalio e titanio - emibacino e anca - è stata realizzata negli Usa grazie a un calco realizzato con una Tac. Il ragazzo, colpito dal cancro un anno fa e considerato finora "inoperabile", sta bene

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25 febbraio 2015
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Torino, diciottenne salvato dal tumore osseo con un bacino artificiale: è la prima volta al mondoFinora era stato considerato "inoperabile". E invece un ragazzo di 18 anni della provincia di Torino, colpito da un tumore alle ossa, è stato salvato con il trapianto di un emibacino in titanio e tantalio realizzato negli Stati Uniti. E' la prima volta al mondo. L'operazione, lunga dodici ore, è stata eseguita al Cto di Torino, l'ospedale traumatologico della Città della Salute. Il diciottenne soffriva da circa un anno da osteosarcoma del bacino. Considerato da tutti inoperabile, aveva risposto abbastanza bene a ben 16 cicli di chemioterapia nel reparto di Oncoematologia, diretto dalla dottoressa Franca Fagioli dell'ospedale Regina Margherita. Nel frattempo i chirurghi ortopedici dell'ospedale Cto avevano fatto costruire negli Stati Uniti un emibacino in titanio con rivestimenti in tantalio, materiale che si integra con le ossa umane, con misure perfette prese da un calco ricavato dalla Tac del paziente.
Leggi/ Il padre Bartolomeo: "Senza questi medici mio figlio sarebbe morto"
L'intervento, sottolineano in ospedale, è stato un esempio di collaborazione e di lavoro di équipe da parte di tutta la Città della Salute: un complesso sanitario che ha al suo attivo, anche di recente, operazioni chirurgiche all'avanguardia come l'impianto di un'arteria artificiale per il cuore che ha salvato la vita a un bimbo di 4 anni, o sperimentazioni innovative come la dialisi polmonare praticata con successo, per la prima volta al mondo, a pazienti che soffrono di broncopneumopatia cronica
Torino, ecco il "bacino bionico" prima e dopo il trapianto
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Ieri, con un'operazione durata circa 11 ore e 30 minuti, sono stati rimossi dal dottor Raimondo Piana, responsabile di Chirurgia oncologica ortopedica del Cto, l'emibacino destro e l'anca colpiti dall'osteosarcoma e successivamente sostituiti e ricostruiti con la protesi in titanio e tantalio dal professor Alessandro Massè, direttore della Clinica universitaria ortopedica dell'ospedale. La parte anestesiologica è stata seguita dal dottor Maurizio Berardino, che dirige il reparto di Anestesia e rianimazione. L'intervento, informa la Città della Salute, è tecnicamente riuscito con un ottimo esito finale e senza lasciare deficit alcuno. Ora il paziente è ricoverato in terapia intensiva ed è già stato estubato e svegliato in mattinata. Nel pomeriggio verrà trasferito nel reparto di Chirurgia oncologica.


torino.repubblica.it/cronaca/2015/02/25/news/torino_diciottenne_salvato_dal_tumore_osseo_con_un_bacino_artificiale_la_prima_volta_al_mondo-108157234/?ref=HREC1-14#gallery-slider=1...
angelico
00lunedì 2 marzo 2015 19:34
Scoperte le quattro varianti del 'killer' del pancreas: speranza nuove cure per il tumore
Ricerca australiana ha scoperto marcatori tumorali che potranno essere usati per terapie più accurate su una delle forme tumorali più aggressive

Lo leggo dopo
Scoperte le quattro varianti del 'killer' del pancreas: speranza nuove cure per il tumoreE' UNO dei tumori più aggressivi e più difficili da scoprire e curare. Ora una ricerca australiana pubblicata su Nature ha acceso una nuova speranza per la cura del cancro al pancreas: nuovi trattamenti medici saranno possibili grazie alla scoperta di quattro varianti genetiche.

La ricerca ha esaminato le variazioni nel genoma di 100 adenocarcinomi pancreatici, la variante riscontrata più diffusamente. Questo ha permesso di dividere il cancro in quattro categorie: stabile, disposto localmente, sparpagliato, instabile. Molti degli adenocarcinomi hanno subito mutazioni dopo essere stati trattati con medicinali usati per altri tipi di tumore. Inoltre due nuove mutazioni genetiche riscontrate potrebbero condurre a nuovi approcci di cura.

L'obiettivo dei ricercatori dell'Australian Pancreatic Genome Initiative, guidati da Nicola Waddell e assistiti dai colleghi dell'Università della Western Autralia, è quello di aumentare il tasso di sopravvivenza dei malati. Al momento la malattia uccide il 75% dei malati entro i primi 12 mesi dalla diagnosi e il tasso di sopravvivenza a 5 anni è di appena il 5%.

Gli studi sul tumore al Pancreas stanno procedendo spediti. Pochi giorni fa era arrivata la notizia della rimborsabilità da parte delle autorità sanitarie italiane del farmaco paclitaxel legato all'albumina, giù utilizzato per le metastasi al seno. Una sorta di "chemioterapia intelligente" che grazie alle nanotecnologie assicura una maggiore precisione nel 'colpire' la parte malata e prolunga la sopravvivenza media.

Nikolajs Zeps, professore associato dell'Università della Western Australia, ha affermato che lo studio rappresenta un buon esempio delle potenzialità delle "biobanche" collegate alle sequenze genomiche. "E' la prima volta - ha detto il professore - che vengono rilevati chiaramente marcatori tumorali che potranno essere usati per terapie più accurate. Il prossimo passo sarà quello di usare questi dati come base per nuove sperimentazioni cliniche allo scopo di alleviare le sofferenze dei malati affetti da questa malattia".


www.repubblica.it/salute/ricerca/2015/02/27/news/tumore_al_pancreas_-10...
angelico
00mercoledì 25 novembre 2015 20:10
Leucemia, bimba curata con terapia genica. Auricchio (Telethon): “Risultato molto positivo”
Leucemia, bimba curata con terapia genica. Auricchio (Telethon): “Risultato molto positivo”
Scienza
Nel Regno Unito primo trattamento al mondo effettuato su alcune cellule del sistema immunitario. La tecnica sperimentale è stata messa a punto dai ricercatori del Great Ormond Street Hospital e dell'University college London insieme alla società di biotech francese Cellectis. Il coordinatore del Tigem spiega come si è giunti a questo risultato
di Davide Patitucci | 22 novembre 2015
COMMENTI (97)

Più informazioni su: Genetica, HIV, Leucemia, Pozzuoli, Regno Unito, Ricerca Scientifica, Telethon
Una pionieristica tecnica di taglia e cuci molecolare del Dna è stata utilizzata nel Regno Unito per curare una bimba inglese di un anno dalla leucemia. Il trattamento di ingeneria genetica cellulare, effettuato su alcune cellule del sistema immunitario, è stato messo a punto dai ricercatori del Great Ormond Street Hospital (Gosh) e dell’University college London (Ucl) insieme alla società di biotech francese Cellectis, che ha deciso di finanziare trial clinici a partire dal prossimo anno. Ilfattoquotidiano.it ha chiesto ad Alberto Auricchio, coordinatore del Programma di ricerca di terapie molecolari dell’Istituto Telethon di genetica e medicina (Tigem) di Pozzuoli e docente di genetica medica presso l’Università Federico II di Napoli, di spiegarci come si è giunti a questo risultato e quali prospettive apre per la ricerca sulle malattie genetiche.

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Come giudica questa notizia che viene dal Regno Unito?
Al momento, è ancora un unico caso trattato da relativamente poco tempo, per cui bisognerà seguirne il decorso e sopratutto aumentare la casistica. Ma, considerando che non esisteva alternativa per questa bambina con aspettativa di vita molto breve, penso sia un risultato molto positivo.

I ricercatori britannici parlano di primo caso al mondo
Il trattamento riguarda una bambina con una forma di leucemia linfoblastica che aveva già avuto una ricaduta della malattia dopo il trapianto di midollo, e per la quale non erano disponbili altre terapie.

Com’è stato raggiunto questo risultato?
La terapia sperimentale consiste in un trapianto allogenico (da donatore diverso dal paziente stesso, ndr) di cellule T, cioè di cellule del sistema immunitario che sono state geneticamente modificate in laboratorio in modo da riconoscere e uccidere le cellule leucemiche.

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Come funziona questa tecnica di ingegneria genetica?
Si basa sulle nucleasi “Talens” (Transcription Activator-like Effector Nucleases), cioè forbici molecolari capaci di modificare il genoma, tagliandolo in posizioni molto precise, in modo da inattivare o correggere specifici geni, a seconda delle necessità. Queste molecole, assemblate artificialmente in laboratorio, fanno parte di una nuova generazione di enzimi modificatori del Dna, la cui versione più recente e versatile è rappresentata dalla tecnica “Crispr” (Clustered regularly interspaced short palindromic repeats). Si tratta di strumenti preziosi che possono essere usati non solo a scopo terapeutico, come in questo caso, ma anche per studiare la funzione di geni specifici.

Nel vostro istituto a quali patologie applicate questo “taglia e cuci” genetico?
Al Tigem di Pozzuoli, per esempio nel laboratorio di Andrea Ballabio, è in corso un progetto di ricerca che prevede l’inattivazione sistematica, mediante Crispr, di tutti i geni coinvolti in un gruppo di gravi malattie ereditarie, le malattie da accumulo lisosomiali. Questo permetterà di creare dei modelli cellulari che potranno essere utilizzati per comprendere meglio il meccanismo di queste malattie, ma anche di trovare nuovi farmaci per la loro terapia.

Quali sono i protocolli sperimentali di terapia genica in corso al Tigem?
Il Programma di terapie molecolari del Tigem, che coinvolge sei gruppi di ricerca, sta mettendo a punto terapie geniche per malattie lisosomiali, errori congeniti del metabolismo, malattie neurodenegerative e cecità congenite. Per alcune di queste siamo a una fase di sviluppo pre-clinico, per altre le sperimentazioni cliniche sono state effettuate o saranno cominciate a breve.

Quella inglese è una terapia già sperimentata altre volte? In cosa si differenzia rispetto ad analoghi trattamenti?
Il caso di Ucl/Gosh è il primo nel quale la tecnologia Talens è stata usata nell’uomo, sebbene in precedenza pazienti con Hiv siano stati trattati con cellule modificate da altri tipi di nucleasi. Rispetto ad altre forme di terapia genica, nelle quali si va ad aggiungere una copia sana del gene senza andare a correggere la copia mutata presente nel genoma, qui invece si modificano geni parte del patrimonio ereditario. Una vera e propria correzione piuttosto che un’aggiunta.

Che lei sappia, è già iniziata una sperimentazione clinica?
Immagino che i risultati promettenti di questo singolo caso apriranno le porte a una vera sperimentazione clinica che coinvolga più soggetti, senza la quale non sarà possibile comprendere la reale sicurezza ed efficacia di questo approccio. Solo il tempo, infatti, potrà dirci se la bambina è guarita. E solo una sperimentazione di più casi potrà stabilire se la guarigione è avvenuta grazie alla terapia genica.

Quali sono le prospettive future di questa terapia sperimentale e, in generale, della terapia genica?
I recenti risultati positivi di sperimentazioni cliniche di terapia genica condotte presso l’Istituto San Raffaele Telethon di Milano, il Tigem di Pozzuoli e altri centri europei ed americani hanno dimostrato che la terapia genica ha la possibilità di curare malattie altrimenti non trattabili. Questi risultati stanno risvegliando nei confronti di questa disciplina l’interesse anche da parte di aziende farmaceutiche, senza il cui contributo organizzativo ed economico è impossibile pensare di far arrivare il farmaco ai pazienti. Quindi, penso che i tempi siano maturi per allargare il successo clinico della terapia genica da questi iniziali esempi a un numero più largo di malattie, ereditarie e non.


www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/22/leucemia-bimba-curata-con-terapia-genica-auricchio-telethon-risultato-molto-positivo/...
angelico
00sabato 2 gennaio 2016 15:03
Il cioccolato fondente aiuta a prevenire il tumore al pancreas
La tesi è di una ricerca Usa sul legame tra il calo delle quantità di magnesio assunte e il rischio d'insorgenza del cancro. Gli esperti alla fine consigliano anche ai soggetti non a rischio il consumo quotidiano di tavolette ed anche frutta secca e verdure a foglia verde; tutti alimenti ricchi di questo metallo che difende anche dal diabete

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30 dicembre 2015



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Il cioccolato fondente aiuta a prevenire il tumore al pancreas
Cioccolatini realizzati con il cioccolato fondente (reuters)
ROMA - Meno dolce, ma anticancro. Il cioccolato fondente potrebbe proteggere contro uno dei tumori più letali, quella al pancreas. A sostenerlo è uno studio realizzato dagli scienziati dell'Indiana University e pubblicato sul British Journal of Cancer. L'ipotesi finale formulata dagli studiosi è che alcuni dei componenti del cioccolato fondente possono aiutare a prevenire questa neoplasia: in particolare, il merito andrebbe in gran parte al magnesio, sostanza che scarseggia in altri alimenti e che spesso viene assunta attraverso integratori, ma che invece è contenuta in alte dosi nelle tavolette e nei cioccolatini 'dark'.

"Il tumore al pancreas - ricorda la ricercatrice Ka He - è davvero unico e diverso dagli altri tipi di cancro. Il tasso di sopravvivenza a 5 anni è basso e ciò rende la prevenzione e l'identificazione dei fattori di rischio associati con questa malattia molto importanti". Per questo tutte le novità della ricerca che aprono prospettive anche sul piano della prevenzione sono accolte come grandi notizie.

Studi precedenti avevano già dimostrato che l'assunzione di determinate quantità di magnesio è inversamente correlata al rischio di diabete, patologia che è un grave fattore di rischio di cancro al pancreas. Ma non molti studi avevano esplorato il ruolo del magnesio nell'insorgenza del cancro al pancreas. Lo studio del team di scienziati Usa, invece, ha focalizzato l'attenzione proprio su tale ruolo, analizzando i dati di più di 66.000 uomini e donne di età compresa tra 50 a 76 anni e prendendo in considerazione l'associazione diretta tra il magnesio e il cancro al pancreas.

Ebbene, è emerso che ogni diminuzione di 100 mg nell'assunzione giornaliera di magnesio è associata a un aumento del 24% nella comparsa del tumore. E gli esperti fanno notare: "Per le persone più a rischio di cancro al pancreas, l'aggiunta di integratori di magnesio può rivelarsi utile nel prevenire la malattia. Ma la popolazione generale dovrebbe cercare di raggiungere le quantità raccomandate di magnesio attraverso la dieta, assumendo cioccolato fondente, verdure a foglia verde e frutta secca".


www.repubblica.it/salute/ricerca/2015/12/30/news/cioccolato_fondente_arma_anti_tumore_pancreas-13...
angelico
00lunedì 22 febbraio 2016 21:55
Tumori: 'biopsia liquida' dalla saliva. Risultati in 10 minuti
Test costa meno di 20 euro e dà risposte in tempi rapidi. Realizzato dall'universita' della California di Los Angeles

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15 febbraio 2016



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Tumori: 'biopsia liquida' dalla saliva. Risultati in 10 minuti
Il test promette risultati in 10 minuti
NON e' invasivo, costa poco meno di 20 euro e in soli 10 minuti può accertare la presenza di un tumore da una sola goccia di saliva: è il nuovo test capace di rilevare i frammenti del Dna tumorale nei fluidi del corpo. A svilupparlo David Wong dell'università, della California di Los Angeles, che ne ha presentato il prototipo al convegno dell'Associazione americana per l'avanzamento delle scienze. Una biopsia liquida, che si aggiunge a quelle in studio sul sangue.

Il test, assicura il ricercatore, si è mostrato accurato al 100% ed è così semplice da poter essere fatto nello studio del medico, dal farmacista, dal dentista o persino a casa. Finora il test si è mostrato accurato sul tumore ai polmoni e quest'anno dovrebbe entrare in piena sperimentazione clinica sui pazienti con questa malattia in Cina. Gli attuali metodi per rilevare un cancro al polmone dal sangue sono complicati, danno risultati in due settimane e possono monitorare la diffusione del cancro, ma non essere usati come esame iniziale.

La biopsia liquida della saliva invece dà una diagnosi definitiva non appena il tumore si sviluppa. Wong immagina di usarla insieme ad altri strumenti diagnostici. Ad esempio, se da una radiografia dovesse emergere un nodulo sospetto, il test potrebbe confermare la presenza del tumore dalla saliva. Secondo il ricercatore l'approvazione da parte della Food and drug administration (l'agenzia Usa che regola i farmaci) dovrebbe arrivare entro un paio d'anni, ed essere disponibile nel Regno Unito in 4 anni. La biopsia liquida della saliva potrebbe essere la chiave per la diagnosi precoce di alcuni tumori, come quello del pancreas, per cui attualmente non esistono screening precoci efficaci. "Più avanti - conclude Wong - potrebbe essere possibile avere un test in grado di rilevare contemporaneamente più tipi di tumore".

Questa è però solo l'ultima, in ordine di tempo, tra le biopsie liquide allo studio. C'è anche il progetto italiano Cancer-Id, dell'Istituto oncologico veneto (Iov), che punta a individuare nuovi marker che, mediante l'analisi del sangue, possano evitare la biopsia, permettendo di monitorare la riduzione o meno dei tumori e l'efficacia delle cure nei pazienti sotto terapia. E poi il test del National Cancer Institute degli Stati Uniti, che dal sangue è riuscito a prevedere la ricomparsa del tumore con oltre tre mesi di anticipo rispetto alla tac, e identificare i pazienti che probabilmente non avrebbero risposto alla terapia. Una frontiera sempre più interessante, tanto che negli Usa è appena nata una nuova azienda biotech dai laboratori della 'Illumina' di San Diego, che ha nel suo cda i fondatori di Microsoft e Amazon.


www.repubblica.it/salute/ricerca/2016/02/15/news/tumori_arriva_biopsia_liquida_dalla_saliva-13...
angelico
00giovedì 25 febbraio 2016 11:48
Usa, talco sotto accusa: Johnson & Johnson condannata a maxi risarcimento
La sentenza a St. Louis: 72 milioni di dollari di danni alla famiglia di una donna morta l'anno scorso di cancro ovarico, dopo aver usato per decenni due prodotti della multinazionale per l'igiene intima

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24 febbraio 2016



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Usa, talco sotto accusa: Johnson & Johnson condannata a maxi risarcimentoST. LOUIS (Missouri) - La Johnson & Johnson dovrà pagare 72 milioni di dollari (oltre 65 milioni di euro) di danni alla famiglia di una donna la cui morte per cancro ovarico era stata collegata all'utilizzo per decenni due prodotti a base di talco, Baby Powder e Shower to Shower. Il verdetto pronunciato dai giudici della corte statale di St. Louis, Missouri, è il primo che riconosce un risarcimento fra gli oltre mille procedimenti penali in cui la Johnson & Johnson è accusata di non aver avvertito i consumatori che quei prodotti potevano causare il cancro, pur di non perdere quote di mercato. La multinazionale ha sempre respinto le accuse e sta valutando un possibile appello.

Jacqueline Fox, 62 anni, di Birmingham, in Alabama, è morta nell'ottobre scorso. Era stata lei ad avviare la battaglia legale, sostenendo di aver usato quei prodotti per la sua igiene intima per 35 anni prima che le fosse diagnosticato un cancro ovarico nel 2012.

Dopo tre settimane di dibattimento e quattro ore di camera di consiglio, i giudici hanno ritenuto la Johnson & Johnson responsabile di frode, negligenza e associazione per delinquere.

Jere Beasley, avvocato della famiglia Fox, ha detto ai giornalisti che la multinazionale "sapeva fin dagli anni Ottanta del rischio" e ha preferito "mentire ai consumatori e alle agenzie di vigilanza".

Da parte sua la portavoce della Johnson & Johnson Carol Goodrich ha sostenuto che l'azienda "non ha responsabilità più grande che la salute e la sicurezza dei consumatori e siamo delusi dall'esito del processo. Siamo vicini alla famiglia Fox ma crediamo fermamente che decenni di prove scientifiche supportano il fatto che il talco è sicuro".


www.repubblica.it/salute/2016/02/24/news/usa_talco_sotto_accusa_johnson_johnson_condannata_a_maxi_risarcimento-134129467/?ref...
angelico
00martedì 8 marzo 2016 00:11
Ricerca su aspirina: contrasta tumori gastrointestinali e al colon e retto
Pubblicati su Jama Oncology i risultati di un gigantesco studio durato 32 anni su un campione di 135 mila persone. L'assunzione costante per 6 anni di due pasticche di acido acetilsalicilico riduce del 15% il rischio del cancro al tratto gastrointestinale e del 19% delle forme colon rettali

di AGNESE FERRARA
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04 marzo 2016


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Ricerca su aspirina: contrasta tumori gastrointestinali e al colon e rettoAssumere regolarmente l'aspirina, almeno due volte alla settimana per sei anni, sembra proteggere da diversi tumori, in particolare quelli che interessano il tratto gastrointestinale e il colon retto. Lo afferma una ricerca del Massachusetts General Hospital di Boston pubblicata oggi su JAMA Oncology.

I medici di Boston hanno infatti scoperto che assumere l'acido acetilsalicilico con regolarità riduce del 15% il rischio del cancro al tratto gastrointestinale e del 19% il rischio del tumore al colon e retto. Lo studio, durato ben 32 anni, ha osservato un campione di oltre 135.000 uomini e donne, malati e sani, ed ha incluso anche gli effetti su chi fa regolarmente la colonscopia. "Il farmaco - sostengono i ricercatori - potrebbe prevenire il 17% dei tumori colon rettali fra coloro che non si sottopongono all'endoscopia, ma anche l'8,5% degli stessi tumori in chi invece vi si sottopone". Gli studiosi ipotizzano che l'assunzione del farmaco potrebbe diventare uno strumento valido di prevenzione a basso costo e quando lo screening rimane incerto.

Gli autori della ricerca precisano che il rischio di ammalarsi di cancro in generale si abbassa del 3%, ad esclusione di alcuni fra i tumori più comuni, come quello al seno, alla prostata ed ai polmoni. I medici ricordano però che l'assunzione dell'aspirina non è esente da effetti collaterali, il più noto il calo della capacità di coagulazione del sangue: "A questo punto potrebbe essere considerato ragionevole parlare col proprio medico dell'ipotesi di assumere l'aspirina per prevenire i tumori gastrointestinali, in particolare se ci sono fattori di rischio in famiglia, ma i pazienti devono anche essere correttamente informati sugli effetti collaterali potenziali di questo farmaco e proseguire comunque i test di screening", ha commentato in una nota Andrew Chan, professore associato di medicina alla Harvard Medical School e coautore dello studio.



www.repubblica.it/salute/prevenzione/2016/03/04/news/ricerca_su_aspirina_previene_tumori_gastrointestinali_e_al_colon-13...
angelico
00martedì 8 marzo 2016 00:11
Ricerca su aspirina: contrasta tumori gastrointestinali e al colon e retto
Pubblicati su Jama Oncology i risultati di un gigantesco studio durato 32 anni su un campione di 135 mila persone. L'assunzione costante per 6 anni di due pasticche di acido acetilsalicilico riduce del 15% il rischio del cancro al tratto gastrointestinale e del 19% delle forme colon rettali

di AGNESE FERRARA
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04 marzo 2016


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Ricerca su aspirina: contrasta tumori gastrointestinali e al colon e rettoAssumere regolarmente l'aspirina, almeno due volte alla settimana per sei anni, sembra proteggere da diversi tumori, in particolare quelli che interessano il tratto gastrointestinale e il colon retto. Lo afferma una ricerca del Massachusetts General Hospital di Boston pubblicata oggi su JAMA Oncology.

I medici di Boston hanno infatti scoperto che assumere l'acido acetilsalicilico con regolarità riduce del 15% il rischio del cancro al tratto gastrointestinale e del 19% il rischio del tumore al colon e retto. Lo studio, durato ben 32 anni, ha osservato un campione di oltre 135.000 uomini e donne, malati e sani, ed ha incluso anche gli effetti su chi fa regolarmente la colonscopia. "Il farmaco - sostengono i ricercatori - potrebbe prevenire il 17% dei tumori colon rettali fra coloro che non si sottopongono all'endoscopia, ma anche l'8,5% degli stessi tumori in chi invece vi si sottopone". Gli studiosi ipotizzano che l'assunzione del farmaco potrebbe diventare uno strumento valido di prevenzione a basso costo e quando lo screening rimane incerto.

Gli autori della ricerca precisano che il rischio di ammalarsi di cancro in generale si abbassa del 3%, ad esclusione di alcuni fra i tumori più comuni, come quello al seno, alla prostata ed ai polmoni. I medici ricordano però che l'assunzione dell'aspirina non è esente da effetti collaterali, il più noto il calo della capacità di coagulazione del sangue: "A questo punto potrebbe essere considerato ragionevole parlare col proprio medico dell'ipotesi di assumere l'aspirina per prevenire i tumori gastrointestinali, in particolare se ci sono fattori di rischio in famiglia, ma i pazienti devono anche essere correttamente informati sugli effetti collaterali potenziali di questo farmaco e proseguire comunque i test di screening", ha commentato in una nota Andrew Chan, professore associato di medicina alla Harvard Medical School e coautore dello studio.



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angelico
00venerdì 6 maggio 2016 12:29

Cellule tumorali al microscopio
Un tumore localizzato in un organo è capace di riprogrammare il metabolismo di altri organi a distanza, alterandone le funzioni metaboliche e provocando così ulteriori danni all'organismo. Per riuscirci, il cancro forza a suo piacimento i meccanismi dell'orologio interno dell'organo-bersaglio e lo induce a 'lavorare' per lui, cioè a nutrire le sue cellule tumorali. Succede nel fegato e a scardinarne il metabolismo è l'adenocarcinoma al polmone. Il tumore altera i ritmi circadiani dell'organo-bersaglio, scatena una forte infiammazione che inibisce i segnali dell'insulina e riduce la tolleranza al glucosio, provocando iperglicemia e riorganizzando così il metabolismo lipidico a suo piacimento.

La scoperta, pubblicata oggi su Cell e di grande impatto biomedico, è stata fatta su topolini con adenocarcinoma ai polmoni dai ricercatori del Centro per l'Epigenetica e il Metabolismo della University of California, ad Irvine, diretti dall'italiano Paolo Sassone-Corsi, il più grande studioso al mondo dei ritmi circadiani.

"Un tumore, localizzato in un organo, è responsabile della riprogrammazione metabolica di altri organi, tra cui il fegato. E' la prima volta che viene messo in rilievo questo effetto 'a distanza' di un tumore - spiega Paolo Sassone-Corsi - . Credo davvero che questo studio cambierà le strategie di lotta ai tumori perché fa capire come il cancro influenzi il metabolismo di tutto il corpo. La scoperta è di grande rilevanza per tutti".

"Le implicazioni sono molteplici - spiega lo studioso - , tra cui la possibilità a livello clinico di trattare i pazienti prendendo in considerazione le trasformazioni metaboliche imposte dal tumore, e per le quali il paziente è spesso in gravi difficoltà. A questo si aggiunge che, comprendendo come l'omeostasi del fegato viene riprogrammata dal tumore, si potranno trovare vie alternative per colpire l'accrescimento tumorale. I malati di cancro sono sottoposti a enormi stress metabolici, fisiologici e psicologici - prosegue Sassone-Corsi - . E' noto che molti pazienti muoiono per complicanze sistemiche piuttosto che per lo sviluppo tumorale. Il nostro studio individua come il tumore ai polmoni alteri a distanza il metabolismo del fegato attraverso i ritmi circadiani, riprogrammandone il metabolismo. Conoscendo questi meccanismi molecolari accumuleremo informazioni essenziali per i medici quando devono pianificare la chemioterapia e altri tipi di trattamenti farmacologici".


www.repubblica.it/salute/ricerca/2016/05/05/news/tumori_scoperto_come_sfruttano_altri_organi_per_crescere-13...

angelico
00giovedì 12 maggio 2016 11:51
Lo stress 'nutre' i tumori, farmaci contro l'ipertensione potrebbero bloccare il processo
MEDICINA

Lo stress 'nutre' i tumori, farmaci contro l'ipertensione potrebbero bloccare il processo
Immagine di repertorio (Fotogramma)

Pubblicato il: 07/04/2016 15:48
Stress e tumori: una relazione pericolosa che 'nutre' il cancro, aumentando il rischio che il male che possa crescere e prendere piede nell'organismo. Un lavoro pubblicato su 'Nature Communications', coordinato dalla Monash University di Melbourne in Australia, con il contributo dell'Istituto europeo di oncologia di Milano, descrive il meccanismo attraverso il quale lo stress spalanca le porte al tumore, aprendogli nuove vie di fuga che gli permettono di colonizzare altri organi e tessuti. Il bersaglio su cui agisce è il sistema linfatico: una strada già facilmente accessibile alle cellule malate, che lo stress rende ancora più comoda da percorrere. La ricerca dimostra anche l'efficacia di comuni farmaci antipertensivi, i beta-bloccanti, nel frenare questo processo. Un approccio che l'Ieo si prepara a testare in 2 maxi-studi.

Lo stress cronico - spiegano gli scienziati - ristruttura le reti linfatiche intorno al tumore e al suo interno, per offrire alle cellule tumorali nuove vie di diffusione. Lo stress induce infatti una serie di cambiamenti fisiologici, come la formazione di nuovi vasi e l'attivazione di cellule infiammatorie quali i macrofagi, che promuovono la nascita di metastasi. "Lo stress influenza non solo il nostro benessere psicologico, ma anche la nostra biologia - sottolinea Erica Sloan della Monash University, co-autrice dello studio - In particolare, il nostro lavoro fa luce sulle prime fasi della disseminazione delle cellule tumorali all'interno del sistema linfatico. Abbiamo trovato nei modelli animali che lo stress favorisce la creazione di nuovi vasi linfatici che diffondono il tumore, e allo stesso tempo modula il flusso della linfa al loro interno. In pratica, lo stress aumenta la velocità lungo le nuove vie linfatiche e aiuta le cellule a spostarsi più rapidamente e a espandersi al di fuori del tumore".



I ricercatori hanno quindi esplorato la possibilità di ridurre la diffusione tumorale bloccando le vie di segnalazione dello stress e per questo hanno valutato l'azione dei beta-bloccanti - medicinali "a basso costo, con pochi effetti collaterali, normalmente utilizzati per la cura dell'ipertensione", precisano - che hanno la caratteristica di inibire il segnale di un ormone dello stress (la noadrenalina o norepinefrina), che a sua volta gioca un ruolo nella progressione tumorale. A questa parte di studio un contributo chiave a l'hanno dato Sara Gandini, Edoardo Botteri e Nicole Rotmensz della Divisione di epidemiologia e biostatistica Ieo.

Con uno studio osservazionale su mille donne, trattate in Ieo per tumore al seno, il team dell'Irccs di via Ripamonti ha confermato nella clinica i risultati ottenuti in vivo: le pazienti che assumono beta-bloccanti hanno dimostrato un'incidenza minore di linfonodi colpiti e di metastasi a distanza, anche tenendo conto di fattori concomitanti come l'età e il tipo di trattamento seguito.

"La ricerca su beta-bloccanti e stress è centrale allo Ieo - assicura Gandini -. L'associazione tra questi farmaci e la sopravvivenza da tumore al seno è stata dimostrata anche in una metanalisi di 10 studi e 46 mila casi di tumore, che abbiamo recentemente pubblicato sull''International Journal of Cancer'. Abbiamo inoltre dimostrato, in uno studio pubblicato su 'PlosOne' e condotto in collaborazione con la Divisione di psiconcologia diretta da Gabriella Pravettoni, come nelle pazienti operate per tumore al seno la relazione parentale e gli eventi stressanti legati alla vita sentimentale siano associati alla probabilità che la malattia si estenda ai linfonodi".

"Per confermare che i beta-bloccanti possono costituire un valido trattamento in ambito oncologico, abbiamo ora bisogno di sperimentazioni randomizzate. Per questo - conclude la scienziata - stiamo disegnando 2 studi multicentrici: uno ancora sul tumore del seno, in collaborazione con Andrea Decensi dell'ospedale Galliera di Genova e con Pamela Guglielmini dell'ospedale di Alessandria, e un'altra per pazienti con melanoma, insieme a Vincenzo Giorgi dell'ospedale Careggi di Firenze".



www.adnkronos.com/salute/medicina/2016/04/07/stress-nutre-tumori-farmaci-contro-ipertensione-potrebbero-bloccare-processo_bMx1RbRQ1mYaeUzD6bgtML.html?re...
angelico
00giovedì 2 giugno 2016 12:16
Tumori, il primo vaccino universale testato su tre pazienti in Germania. “Provoca una forte risposta immunitaria”
Tumori, il primo vaccino universale testato su tre pazienti in Germania. “Provoca una forte risposta immunitaria”
Scienza
Il vaccino è costituito da una capsula di molecole di grasso e contiene un cuore genetico, un piccolo Rna su cui sono scritte le istruzioni per attivare le difese dell'uomo contro il cancro. Il ricercatore Ugur Sahin: "Abbiamo un'evidenza clinica ancora limitata, ma i tumori hanno smesso di crescere dopo la somministrazione"
di F. Q. | 1 giugno 2016
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Più informazioni su: Anti-Cancro, Cancro, Vaccini
Un passo importante nella ricerca contro il cancro: è stato testato per ora su tre pazienti, tutti con melanoma in stadio avanzato, un vaccino potenzialmente universale contro i tumori. Ideato da esperti dell’università Johannes Gutenberg a Mainz, in Germania, il vaccino è costituito da una capsula di molecole di grasso e contiene un cuore genetico, un piccolo Rna su cui sono scritte le istruzioni per attivare le cellule del sistema immunitario del paziente a sferrare una forte risposta immunitaria contro il tumore.

“Per ora – spiega all’Ansa Ugur Sahin, ricercatore che ha condotto il lavoro – abbiamo ancora una evidenza clinica limitata, poiché abbiamo testato il vaccino su soli tre pazienti. Comunque questi sono rimasti stabili, il che significa che i loro tumori hanno smesso di crescere dopo la vaccinazione e per tutto il periodo di osservazione. Nel 2017 testeremo il vaccino su altri pazienti con diversi tipi di tumore”.

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Il segreto di questo vaccino sta, dunque, nella capsula di goccioline di grasso con cui viene veicolato. La capsula, infatti, iniettata endovena, raggiunge spontaneamente i distretti immunitari del corpo del paziente (milza, linfonodi, midollo osseo) e, una volta giunta a destinazione, viene ingoiata dalle cellule dendritiche che poi leggono le istruzioni in essa contenute – l’Rna – e le traducono in un “antigene tumorale specifico”, una “etichetta” molecolare che direziona le difese immunitarie in maniera mirata contro il tumore. La risposta immune scatenata è molto forte.

Il carattere di potenziale universalità del vaccino risiede nel fatto che l’Rna inserito nella capsula è intercambiabile a seconda del tumore, così da essere tradotto in un antigene tumore-specifico. Gli esperti hanno prima dimostrato l’efficacia del vaccino sui topi con diversi tipi di cancro; successivamente hanno iniziato i test sull’uomo, concentrandosi inizialmente sul melanoma. Il prossimo passo della ricerca, dunque, sarà modificare il cuore del vaccino con nuovi Rna antigenici e testarlo su pazienti con diversi tumori.

“La grande novità di questo lavoro – spiega Enrico Proietti, Direttore del reparto di applicazioni cliniche delle terapie biologiche dell’Istituto Superiore di Sanità – sta nel fatto che questi liposomi (gli involucri di grasso che racchiudono il vaccino) sono molto efficaci nell’indurre una forte risposta immunitaria, sia perché attivano l’interferone, sia perché raggiungono quasi tutti la milza, centro nevralgico delle reazioni immuni”. Potenzialmente, quindi, si tratta di un nuovo metodo di vaccinazione universalmente applicabile a diversi tumori (cambiando il contenuto della capsula a seconda del cancro), sottolinea Proietti. “Bisogna però essere cauti perché il dato clinico è al momento ancora troppo preliminare”.



www.ilfattoquotidiano.it/2016/06/01/tumori-il-primo-vaccino-universale-testato-su-tre-pazienti-in-germania-provoca-una-forte-risposta-immunitaria/...
angelico
00martedì 27 settembre 2016 11:45
abuso di olio di palma (come l’abuso di ogni altro olio e grasso) può nuocere alla salute, ma l’olio di palma - se mantiene il suo contenuto di vitamina E e non ha subito processi industriali come quelli per uso alimentare - contiene anche sostanze che contrastano il cancro e combattono molte altre malattie. Lo dimostra uno studio dell’Università Statale di Milano in collaborazione con l’Università dell’Aquila, studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports - Nature Publishing Group.

Oggetto della ricerca degli scienziati milanesi e abruzzesi coordinati da Patrizia Limonta sono i tocotrienoli, derivati della vitamina E.

Gli scienziati hanno estratto questi composti, e in particolare il δdelta-TT, da olio di palma commerciale prodotto da un’azienda malese, la Golden Hope Biorganic (utilizzato in composti destinati a usi clinici e farmaceutici), e dai semi di un’altra pianta, l’annatto (nome scientifico: bixa orellana), che si usa in America Meridionale per alcune ricette di carne e come colorante industriale per alimenti. Ebbene, il delta-TT - contenuto a dire il vero anche in altri oli - ha mostrato capacità formidabili nel combattere i terribili melanomi della pelle. E non solamente.

La vitamina E ha una duplice natura in quanto è costituita da due classi di sostanze antiossidanti: i tocoferoli e i tocotrienoli. Gli studi, condotti in vitro e in vivo, hanno verificato con sorpresa che i tocotrienoli inducono il pericoloso melanoma a una specie di “suicidio”, cioè grazie al delta-TT le cellule cacerogene attivano la loro morte cellulare programmata (apoptosi) attraverso un meccanismo intracellulare noto come stress del reticolo endoplasmatico.

La controprova in vivo, condotta nei laboratori dell'Aquila, ha visto che il composto delta-TT rallenta in modo assai evidente la crescita del tumore e la progressione della malattia. Inoltre non altera la proliferazione di melanociti umani non tumorali e non induce effetti tossici. Inoltre i tocotrienoli riducono i rischi di malattie cardiovascolari e neurodegenerative (come l’Alzheimer).

«Questi dati - spiega l’Università Statale di Milano - dimostrano che l’olio di palma contiene sostanze protettive per la salute umana. I tocotrienoli estratti dall’olio di palma contengono il 50% di δdelta-TT e gamma-TT mentre i TT estratti dai semi di annatto contengono ben il 99% di delta-‐TT e solo
l'1% di gamma-TT».
Le ricerche sono state finanziate dalla Fondazione Banca del Monte di Lombardia e dal Comitato Emme Rouge per la lotta al melanoma.

© Riproduzione riserva


www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-09-23/ricerca-sostenza-contenuta-nell-olio-palma-e-non-solo-combatte-cancro-121540.shtml?uuid=...
angelico
00mercoledì 8 marzo 2017 17:07
Tumori, lo studio italiano per impedire le metastasi bloccando la migrazione delle cellule tumorali nell’organismo
Tumori, lo studio italiano per impedire le metastasi bloccando la migrazione delle cellule tumorali nell’organismo
SCIENZA
La ricerca è stata condotta dall'istituto Ifom-Firc di Oncologia Molecolare di Milano in collaborazione con l'Università degli Studi Milano e pubblicata sulla rivista Nature Materials. Lo studio ha segnato un passo in avanti molto importante nella comprensione dei meccanismi di migrazione delle cellule tumorali grazie anche a un approccio multidisciplinare e integrato fra biologia e fisica dei materiali
di Emanuele Salvato | 7 marzo 2017
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Più informazioni su: Fuga dei Cervelli, Ilfattoquotidiano.it, Nature, Tumore
Bloccare la migrazione collettiva e coordinata delle cellule tumorali all’interno dell’organismo umano potrebbe essere la chiave per bloccare le metastasi, principale causa di morte da tumore. Un passo in avanti in questo senso l’ha fatto una ricerca italiana condotta dall’istituto Ifom-Firc di Oncologia Molecolare di Milano in collaborazione con l’Università degli Studi Milano e pubblicata sulla rivista Nature Materials. Lo studio ha segnato un passo in avanti molto importante nella comprensione dei meccanismi di migrazione delle cellule tumorali grazie anche a un approccio multidisciplinare e integrato fra biologia e fisica dei materiali. La ricerca è stata curata da Chiara Malinverno e Salvatore Corallino, come primi autori, Giorgio Scita, responsabile dell’Unità di ricerca presso Ifom e Roberto Cerbino, professore di fisica applicata all’Università degli Studi di Milano.

“Immaginiamo le cellule tumorali – spiega la giovane biologa Chiara Malinverno a ilfattoquotidiano.it – come tante persone ferme all’interno di una stanza di piccole dimensioni. Se queste si muovessero in modo disordinato e non coordinato non riuscirebbero a spostarsi da quello spazio, ma facendolo in maniera coordinata il loro movimento diventa fluido ed efficiente e riescono a migrare. La capacità delle cellule tumorali di migrare collettivamente e generar metastasi in altri tessuti dell’organismo dipende strettamente da fattori i densità e fluidità”. La ricerca ha evidenziato che la manipolazione di una proteina (RAB5A) – regolatore essenziale del processo di endocitosi preposto all’introduzione di sostanze all’interno della cellula – presente in elevate quantità nei tumori più aggressivi della mammella, risveglia masse cellulari tumorali inerti e permette, appunto, l’acquisizione di movimenti collettivi fluidi e scorrevoli in grado di generare metastasi.

“Con tecnologie di microscopia ottica ed elettronica – prosegue la dottoressa Malinverno – abbiamo potuto sorprendentemente osservare che un tessuto silente e immobile si sveglia in modo da generare nella massa cellulare delle correnti vorticose, rendendo il moto cellulare di nuovo fluido e scorrevole, ma allo stesso tempo coordinato”. Si tratta dello stesso identico meccanismo che può verificarsi in una massa tumorale quando origina metastasi: “Pur essendo solida e iperproliferante – prosegue Chiara Malinverno – questa massa tumorale, a seguito della stimolazione della RAB5A, può acquisire modalità fluide e spostarsi più agevolmente in spazi angusti. Immaginiamo di far passare un blocco di cemento in una fessura: sarebbe impossibile, a meno che questo blocco non diventi liquido e si muova in modo coordinato verso la fessura. Questo avviene nei tumori: più sono fluidi, più metastatizzano”.


La ricerca apre nuove prospettive nel campo della cura, soprattutto per quanto riguarda l’inibizione delle metastasi. Ma, seppur importante, si tratta, come ricorda al dottoressa Malinverno, di un tassello che va collocato in un mosaico ancora da riempire. “Si tratta di un primo passo – spiega Giorgio Scita – per definire strategie al fine di interferire con questo processo e, in ultima analisi, cercare di controllare la capacità di disseminazione dei tumori”. Una ricerca durata circa tre anni che ha visto la collaborazione con alcuni istituti spagnoli, svizzeri e asiatici, ma che dà lustro alla comunità scientifica italiana e ai tanti giovani ricercatori troppo spesso costretti ad andarsene dal loro paese per lavorare. “Anche io – conclude Chiara Malinverno – sono rimasta due anni negli Stati Uniti a fare ricerca e quel periodo è stato utilissimo per la mia formazione. Ma appena ho avuto la possibilità di lavorare in Italia l’ho colta al volo. L’Italia, dal punto di vista accademico, forma ricercatori e li prepara benissimo ed è un peccato che tanti di loro poi, vadano a spendere le loro competenze all’estero perché in Italia non c’è spazio. Tutti i ‘cervelli in fuga’ sono una ricchezza persa per il paese”.

www.ilfattoquotidiano.it/2017/03/07/tumori-lo-studio-italiano-per-impedire-le-metastasi-bloccando-la-migrazione-delle-cellule-tumorali-nellorganismo/...
angelico
00sabato 25 marzo 2017 20:19
Le mutazioni del Dna che causano la malattia, in due casi su tre, dipendono dagli errori che le cellule normalmente fanno quando si replicano. Il dato è pubblicato su Science da un ricercatore italiano e uno americano. "E' ovvio che fumare aumenta il rischio. Ma dobbiamo riconoscere che molte alterazioni all'origine del cancro avverrebbero comunque, a prescindere dallo stile di vita"

di ELENA DUSI
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23 marzo 2017
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Tumori, la maggior parte è dovuta al caso
(ap)
Perché viene il cancro? Fumo e raggi del sole, d’accordo. Ma questo non spiega perché ad ammalarsi è anche chi fa vita sana. E paradossalmente alla domanda, posta in maniera così diretta, la scienza non si era mai sforzata di rispondere fino in fondo. Poi sono arrivati Bert Vogelstein e Cristian Tomasetti, rispettivamente genetista e biostatistico della Johns Hopkins University di Baltimora, che nel 2015 su Science (complice un comunicato stampa forse un po’ ardito) risposero con uno studio tradotto dalla stampa così: di cancro ci si ammala per caso e per sfortuna.

La valanga di polemiche travolse quello che in realtà era un messaggio importante, e che a leggere bene le carte non assolveva affatto fumo, raggi del sole e altri fattori di rischio legati agli stili di vita. A Vogelstein e Tomasetti di lasciare il discorso così in sospeso proprio non andava. Ecco perché oggi su Science i due ricercatori pubblicano la seconda puntata della loro ricerca, con una mole di dati tale da lasciare stavolta poco spazio alle polemiche.

Si sa che una cellula normale diventa tumorale quando nel suo Dna si accumulano almeno due-tre mutazioni che la fanno “impazzire”. Vogelstein e Tomasetti hanno calcolato oggi che ben due terzi di queste mutazioni dipendono da errori casuali, che le cellule normalmente fanno quando si dividono e replicano la loro doppia elica. “E che avverrebbero comunque, qualunque cosa facciamo. Anche andando a vivere su un pianeta senza raggi del sole e mangiando solo cose sanissime, queste mutazioni ci farebbero ammalare comunque” spiega Vogelstein, che alla Johns Hopkins è condirettore del Kimmel Cancer Center.

Dire che il 66% delle mutazioni sono casuali non vuol dire che il 66% dei casi di cancro è dovuto alla sfortuna e quindi non è prevenibile. “Facciamo un esempio” spiega Tomasetti. “Se una cellula del polmone è diventata cancerosa dopo aver subito tre mutazioni, e solo una di quelle mutazioni era causata dal fumo, vuol dire che quella malattia era prevenibile”. Nel complesso, lo studio di Science non si discosta da quella che è la stima elaborata negli anni da Cancer Research Uk, secondo cui il 42% dei casi di cancro può essere evitato grazie a stili di vita corretti. Questo vuol dire che solo in Italia ogni giorno più di 400 persone potrebbero dribblare la malattia, seguendo i consigli di prevenzione.

“Il paradigma tradizionale è che il cancro ha cause ereditarie, ambientali e legate agli stili di vita” spiega Tomasetti, italiano da 15 anni negli Usa. “Noi all’inizio volevamo quantificare il peso di ciascuna di queste cause. Per farlo avevamo bisogno di eliminare il cosiddetto rumore di fondo: i fattori legati al caso. Ma andando avanti con le nostre statistiche ci siamo accorti che il caso non era affatto un rumore di fondo. Giocava anzi un ruolo principe nel causare le mutazioni del Dna che a loro volta causano il cancro”.

Ogni volta che una cellula si divide, in ciascuno dei tessuti del nostro corpo, lascia nel Dna degli errori di copiatura. “Da tre a sei per ogni duplicazione” precisa Tomasetti. Queste “sviste” possono avvenire ovunque nella doppia elica. Spesso non hanno conseguenze, ma se toccano uno dei geni che promuovono il cancro e se si accumulano una dopo l’altra, possono far nascere la malattia. “Più alto è il numero di divisioni cellulari che avvengono in un tessuto”, aggiunge il ricercatore, “più alto è il rischio di ammalarsi. L’epitelio che riveste il colon, ad esempio, si rinnova completamente ogni 4 giorni. Idem per la pelle. Anche nel seno le replicazioni cellulari sono molto frequenti. Non a caso questi tessuti sono più colpiti dai tumori rispetto ad esempio al cervello, dove i neuroni non si dividono mai o quasi”.

I meri errori di copiatura rappresentano il 95% di tutte le mutazioni nei tumori di prostata, ossa e cervello (qui l'infografica di Science). Nel caso dei polmoni, invece, il ruolo della “sfortuna” scende al 35%. Il 65% delle alterazioni del Dna, nell’organo più esposto al fumo di sigaretta e all’inquinamento, resta attribuibile a fattori ambientali. “Fattori ambientali – spiega Vogelstein – che semplicemente si sommano a quelli casuali”, modificandone le proporzioni ma non i valori assoluti. "Nelle cellule tumorali di un non fumatore trovavamo in media cento mutazioni genetiche" spiega Tomasetti. "In quelle di un fumatore circa trecento. Questo non ci permette di dire che il fumo causa con certezza la malattia. Può darsi infatti che fra le cento mutazioni ce ne siano alcune che coinvolgono i geni promotori del cancro, o che questi geni siano risparmiati del tutto dalle trecento mutazioni. Ma di sicuro le sigarette aumentano il rischio". Mettendo insieme tutti i tipi di tumore (i ricercatori ne hanno studiati 32) si arriva al dato del 66% delle mutazioni dovute al caso, mentre il 5% è legato a fattori ereditari e il restante 29% è imputabile a stili di vita scorretti.

Perché avvengano questi errori di copiatura, è presto detto. "Le alterazioni del Dna sono il motore dell'evoluzione. E quindi possiamo dire che i tumori, della nostra evoluzione, sono un effetto collaterale" spiega Vogelstein. "Sapere che una malattia è dovuta al caso e sfugge al nostro controllo può essere disturbante. Ma questo non è un buon motivo per nascondere la realtà". Tomasetti racconta di aver ricevuto molte lettere, "soprattutto di genitori di bambini malati, che si dicevano sollevati dal senso di colpa perché la malattia non dipendeva da fattori ereditari o dall'esposizione involontaria a fattori di rischio ambientale".

Se il cancro è una guerra, come il presidente americano Richard Nixon suggerì nel 1971, per combatterla si possono usare due strategie. "Si possono difendere i confini per evitare gli attacchi dei nemici dall'esterno" spiega Vogelstein, riferendosi ai fattori di rischio ambientali o legati agli stili di vita. "O si possono imparare a riconoscere i nemici interni, che sono le mutazioni casuali. Per prevenirle oggi non abbiamo nessuna arma. Ma concentrandoci sulla diagnosi e sugli interventi precoci potremmo salvare molte vite lo stesso". Uno dei filoni di ricerca più nuovi, seguito alla Johns Hopkins ma non solo, "è quello delle biopsie liquide" spiega Tomasetti. La scommessa (per ora ancora in fase sperimentale) è quella di rintracciare nel sangue le tracce di Dna e altre minuscole molecole che un tumore lascia fin dalle prime fasi della sua formazione. Un semplice prelievo permetterà forse un giorno di combattere la sfortuna.


www.repubblica.it/salute/2017/03/23/news/tumori_la_maggior_parte_sono_dovuti_al_caso-161241128/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P4...
angelico
00mercoledì 12 luglio 2017 13:49
12 Luglio 2017 - Ne avevamo parlato nei mesi scorsi, allorché il farmaco diede i primi incoragginanti risultati sperimentali. Oggi torniamo sull’argomento per evidenziare come l’Aifa abbia approvato il farmaco Keytruda (pembrolizumab) come “farmaco di prima linea”, cioè da usare come prima terapia in alcune neoplasie del polmone, incluse quelle inoperabili, per le quali fino ad ora esisteva solo la chemioterapia. Si tratta infatti di un nuovo anticorpo monoclonale, un “farmaco intelligente” che si è rivelato in grado di colpire e demolire il tumore del polmone fino ad oggi incurabile.

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L’effetto terapeutico è stato definito rivoluzionario, poiché per la prima volta in 40 anni un medicamento “biologico” si è rivelato arma efficace e selettiva, in grado di aggredire solo ed esclusivamente le cellule neoplastiche, potenziando il sistema immunitario del paziente ammalato e inducendolo a riconoscere e distruggere tutte le cellule maligne. Un primo importantissimo passo verso il futuro prossimo, che vedrà “l’immuno-oncologia” sostituire finalmente la classica chemioterapia.

E’ infatti il paradigma di aggressione del tumore a cambiare completamente: l’anticorpo monoclonale elimina solo le cellule tumorali, si lega unicamente alle cellule bersaglio per le quali è stato programmato, ed ha un meccanismo d’azione opposto rispetto a quello della chemio. Risveglia le difese naturali del nostro organismo, ovvero riattiva il sistema immunitario bloccato dal tumore, stimolandolo a riconoscere le cellule neoplastiche, ad attaccarle e indurle ad autodistruggersi. Riattivando i linfociti T, le cellule che normalmente sono presenti nel nostro sangue in difesa dalle malattie infiammatorie ed infettive (che la chemio distrugge), li induce a bloccare il recettore cellulare che fa crescere il tumore, il quale in breve tempo si riduce, smette di proliferare e le sue cellule in circolo vengono bersagliate una ad una, e muoiono “a cascata”, una dopo l’altra.

Gli anticorpi monoclonali si sono già dimostrati in grado non solo di curare, ma addirittura di guarire definitivamente molte neoplasie del sangue un tempo mortali (linfomi, mielomi e leucemie), e da circa 10 anni sono utilizzati anche per la cura dei tumori solidi. Con ottimi risultati per gli adenocarcinomi, come per esempio nella cura del terribile melanoma (tumore maligno della pelle) una volta letale al 90% ed oggi curabile anche nella sua fase più avanzata.

Il Pembrolizuman viene somministrato in infusione venosa in flebo, per circa 30 minuti ogni tre settimane, per circa sei mesi. Uno studio pubblicato sul Lancet Oncology ha testato 300 pazienti con tumore polmonare in fase molto avanzata, dimostrando che dopo oltre un anno il 70% dei malati dichiarati incurabili, trattati con l’anticorpo monoclonale, era vivo ed in buone condizioni, rispetto a circa il 40% di quelli trattati con la sola chemioterapia.

Al momento farmaco viene usato principalmente su particolari tipi di tumore polmonare, quelli con un carcinoma non a piccole cellule (NSCLC) e con alti livelli del recettore PD-L1, che inattiva i linfociti T, bloccando così la risposta del sistema immunitario contro il tumore. E’ inoltre in atto una sperimentazione su altri tipi istologici di neoplasia polmonare, ed anche sui carcinomi maligni di altri organi, come quelli del colon e del pancreas, con risposte che appaiono molto incoraggianti, addiruttura oltre le aspettative.

quifinanza.it/innovazione/arriva-anche-in-italia-il-farmaco-che-scioglie-il-tumore-ai-polmoni/130987/?re...

angelico
00venerdì 11 agosto 2017 13:45
Dallo studio del Bambin Gesù di Roma emergono importanti novità nella lotta alla leucemia pediatrica e ai tumori del sangue, grazie a una nuova tecnica di manipolazione di cellule staminali
di F. Q. | 26 luglio 2017
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Anche se il genitore non è compatibile, il trapianto di midollo è possibile e “con percentuali di guarigione sovrapponibili a quelle ottenute utilizzando un donatore perfettamente idoneo”. A spiegarlo è il nuovo studio condotto dall’équipe di ricercatori di Franco Locatelli, direttore del dipartimento di Oncoematologia e medicina trasfusionale al Bambino Gesù, che introduce importanti novità nella lotta alla leucemia pediatrica e ai tumori del sangue, grazie a una nuova tecnica di manipolazione di cellule staminali. Messa a punto dai ricercatori dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù, la tecnica è stata sviluppata con la più grande casistica al mondo nell’ospedale della Santa Sede su bambini con leucemie e tumori del sangue.

La procedura è stata applicata a 80 pazienti con leucemie acute resistenti ai trattamenti o con ricadute dopo i convenzionali trattamenti chemioterapici. I risultati mostrano che il rischio di mortalità da trapianto è straordinariamente basso (5%), quello di ricaduta di malattia è del 24% e la probabilità di cura definitiva è superiore al 70%, “un valore sovrapponibile (anzi lievemente migliore) a quello ottenuto nello stesso periodo in bambini leucemici trapiantati da un donatore, familiare o non consanguineo, perfettamente compatibile”. Risultati eccezionali, pubblicati su Blood, e rilanciati dalla Società americana di ematologia (Ash). Questa metodologia rivoluzionaria – messa a punto- era già stata applicata alle immunodeficienze e alle malattie genetiche (talassemie, anemie, ecc.). Il nuovo studio allarga le patologie trattabili alle leucemie e ai tumori del sangue.


Il trapianto di staminali del sangue rappresenta una terapia salvavita per molti bambini con leucemia o altri tumori del sangue, così come per i piccoli che nascono senza adeguate difese del sistema immunitario o con un’incapacità a formare adeguatamente i globuli rossi (malattia talassemica). Per anni l’unico donatore impiegato è stato un fratello o una sorella immunogeneticamente compatibile con il paziente. Ma la possibilità che due fratelli siano identici tra loro è solamente del 25%. Per ovviare a questa limitazione sono stati creati i Registri dei donatori volontari di midollo osseo che arruolano ormai più di 29 milioni di donatori e le Banche di raccolta e conservazione del sangue placentare, le quali rendono disponibili circa 700mila unità nel mondo.

Un 30-40% di pazienti non trova però un donatore idoneo o ha urgenza di essere avviato al trapianto prima di poter identificarlo al di fuori dell’ambito familiare. Proprio per rispondere a questa ‘urgenza’ terapeutica, negli ultimi 20 anni si è investito nell’utilizzo di uno dei due genitori come donatore di cellule staminali emopoietiche, immunogeneticamente compatibile per il 50% con il proprio figlio. Tuttavia l’utilizzo di queste cellule senza alcuna manipolazione rischia di causare gravi complicanze, potenzialmente fatali. Per questo motivo, fino a pochi anni fa, si utilizzava un metodo di ‘purificazione’ che garantiva una buona percentuale di successo del trapianto ma che si associava ad un elevato rischio infettivo, con un’elevata incidenza di mortalità.


Insomma, i trapianti da uno dei due genitori avevano una probabilità di successo significativamente inferiore a quella ottenibile impiegando come donatore un fratello o una sorella, o un estraneo compatibile. Il team del Bambino Gesù ha messo a punto una nuova tecnica di manipolazione delle staminali che permette di eliminare le cellule pericolose (linfociti T alfa/beta+), responsabili dello sviluppo di complicanze legate all’aggressione delle cellule del donatore sui tessuti del ricevente, lasciando però elevate quantità di cellule buone (linfociti T gamma/delta+, cellule natural killer), capaci di proteggere il bambino da infezioni severe e ricadute.

La stretta interazione tra ricerca clinica e ricerca di base ha permesso di capire che con il nuovo approccio di manipolazione selettiva dei tessuti da trapiantare, i pazienti possono beneficiare fin da subito dell’effetto positivo dei linfociti T gamma/delta+ e delle cellule natural killer del donatore. Inoltre, il rischio particolarmente basso di sviluppare complicanze a breve e lungo termine correlate al trapianto ottenuto grazie a questo nuovo approccio metodologico, “rende questa procedura un traguardo solo pochi anni fa impensabile e oggi una realtà potenzialmente applicabile a centinaia di altri bambini nel mondo”, spiegano dall’ospedale. Largo supporto alle attività di ricerca è stato dato da un grant finanziato da Airc (Associazione italiana per la ricerca sul cancro).

www.ilfattoquotidiano.it/2017/07/26/leucemia-il-trapianto-funziona-anche-se-il-midollo-del-genitore-e-incompatibile/...
angelico
00lunedì 30 ottobre 2017 22:38
Un nuovo trattamento contro il linfoma non-Hodgkin ha ricevuto il via libera della Food and drug administration, l'organismo governativo americano che regolamento l'utilizzo e la certificazione delle procedure sanitarie. Si tratta di una terapia genica che, secondo gli esperti, è in grado di riconfigurare le cellule immunitarie del paziente, trasformandole in killer del cancro. Potrà essere applicata alle persone adulte che abbiano già affrontato senza successo almeno due trattamenti di chemioterapia contro la forma di neoplasia maligna del tessuto linfatico. Potenzialmente, negli Stati Uniti riguarderebbe circa 3.500 pazienti all'anno. I costi, però, sono ancora ingenti e si aggirano sopra ai 370mila dollari.

Il trattamento, chiamato Yescarta, è stato inizialmente studiato dal National cancer institute e poi sviluppato con la Kite Pharma che ha fornito i fondi per lo sviluppo e ne ha ottenuto ora i diritti di sfruttamento. Si tratta della seconda terapia genica autorizzata dalla Food and drug administration. Il primo, che si chiama Kymriah ed è
di proprietà della Novartis, è stato approvato ad agosto e riguarda i bambini o i giovani con forme aggressive di leucemia. Un ciclo di Kymriah costa 475.000 dollari ma Novartis ha promesso che sarà gratis per quei pazienti che non mostreranno miglioramenti entro un mese.

www.repubblica.it/salute/2017/10/19/news/dagli_usa_nuova_terapia_genica_contro_il_cancro_trasforma_linfociti_in_killer_del_tumore-178687265/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3...

angelico
00lunedì 11 dicembre 2017 18:53
Tumori, ricerca italiana: il sistema immunitario blocca le cellule malate
Lo studio è stato pubblicato dalla rivista scientifica Nature dopo quattro anni di esperimenti dell'Irccs di Candiolo in collaborazione con l'università di Torino

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29 novembre 2017
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Tumori, ricerca italiana: il sistema immunitario blocca le cellule malate
QUATTRO anni di studi, ricerche, esperimenti. Il tutto per rendere le cellule tumorali visibili al sistema immunitario, che riesce così a bloccarne lo sviluppo. Ora i ricercatori dell'Irccs di Candiolo e dell'Università di Torino ce l'hanno fatta: il loro studio è stato infatti pubblicato - con il titolo "Inactivation of Dna repair triggers neoantigen generation and impairs tumour growth" - dalla rivista scientifica Nature.

"Il nostro è stato un approccio non convenzionale", spiega Alberto Bardelli, direttore del laboratorio di oncologia molecolare e docente del dipartimento di oncologia dell'Università di Torino che ha presentato lo studio con Giovanni Germano, ricercatore con esperienza in Immunologia. "Sappiamo - racconta Bardelli - che molti tipi di neoplasie riescono a mascherarsi e, eludendo i meccanismi di difesa, si diffondono nell'organismo. Ci siamo chiesti come affrontare questo problema partendo dalla cellula tumorale, per poi vederne gli effetti sul sistema immunitario. Abbiamo ipotizzato che inattivando il processo di riparazione del Dna di una cellula si inducessero nuove mutazioni, alcune di queste dette neoantigeni, riconoscibili come estranee e quindi attaccabili dal sistema immunitario".

Bardelli per fare un paragone facilmente comprensibile ha raccontato: "Abbiamo modificato un tumore, che possiamo paragonare a un velivolo stealth, e cioè invisibile, in uno che può essere individuato dai radar e intercettato dai nostri sistemi di sicurezza. Usando un'innovativa tecnologia genetica, abbiamo costretto cellule di tumori del colon e del pancreas ad uscire allo scoperto e a diventare un bersaglio da aggredire e neutralizzare per le cellule del sistema immunitario".

Mentre Germano ha parlato di "un lavoro complesso ma la posta in gioco era molto alta e gli esperimenti, sin dalle prime fasi, indicavano che stavamo percorrendo una strada mai intrapresa prima. Un lungo lavoro di squadra, con tante difficoltà, tra fallimenti sperimentali e conferme, ma che ci ha portato alla fine, in un freddo pomeriggio autunnale, a dire: era quello che avevamo ipotizzato".

Si tratta di un successo ottenuto in laboratorio "su linee cellulari trasferite poi su modelli animali fondamentali per avvalorare la nostra ipotesi. La strada per arrivare al letto dei pazienti è appena iniziata e il traguardo non imminente, ma si apre un nuovo percorso che potrà un giorno costringere tumori, capaci di nascondersi ai radar-controllori, a rendersi visibili e individuabili" per poter essere debellati.

Ma dove potrà portare questa scoperta? Per Bardelli "è presto per dirlo ma stiamo studiando se farmaci antitumorali, che come effetto collaterale causano danni al Dna, provocano la formazione di neoantigeni che possono risvegliare il sistema immunitario. Abbiamo già in mente potenziali candidati e stiamo lavorando anche con l'Istituto Nazionale dei Tumori, il Niguarda Cancer Center e l'Università di Milano per verificare la nostra ipotesi per futuri sviluppi clinici".

www.repubblica.it/salute/ricerca/2017/11/29/news/tumori_ricerca_dell_istiuto_candiolo_svela_cellule_al_sistema_immunitario_e_le_blocca-182543073/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P2...
angelico
00venerdì 5 gennaio 2018 12:26
Il risultato, pubblicato su Nature, è del gruppo della Columbia University di New York guidato da Antonio Iavarone. I farmaci che bloccano il meccanismo molecolare che dà energia ai motori del tumore esistono già, anche se sono usati per altri obiettivi

di F. Q. | 3 gennaio 2018
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Una chiave per comprendere il meccanismo che alimenta tutti i tumori. È stata scoperta quella che può essere considerata la “droga” del cancro contro cui diventa ora possibile rivolgere molti farmaci già esistenti. Il risultato, pubblicato su Nature, è del gruppo della Columbia University di New York guidato da Antonio Iavarone. I farmaci che bloccano il meccanismo molecolare che dà energia ai motori del tumore esistono già, anche se sono usati per altri obiettivi. In Francia, ha detto all’Ansa Iavarone, si stanno già sperimentando su alcune forme di tumore. Tra gli autori della scoperta ci sono molti italiani: Anna Lasorella, Angelica Castano della Columbia, Stefano Pagnotta e Luciano Garofano e Luigi Cerulo, che lavorano fra la Columbia e l’università del Sannio, Michele Ceccarelli dell’Istituto Biogem di Ariano Irpino.

I primi indizi dell’esistenza del meccanismo indispensabile ai tumori per crescere e proliferare risalgono al 2012. Allora Iavarone e Lasorella avevano identificato una proteina che nasceva dalla fusione dei geni di due proteine chiamate FGFR e TACC e che agiva come una droga capace di scatenare il tumore e di alimentarlo. La nuova proteina di fusione, chiamata FGFR-TACC, era stata osservata in azione nel piu aggressivo tumore del cervello, il glioblastoma, e si sospettava che potesse essere comune a molte altre forme di tumore. A distanza di cinque anni è arrivata la conferma: “Ora sappiamo che questa fusione genica è frequente in tutte le forme di tumore”, ha detto Iavarone. Adesso è stato ricostruito il meccanismo che alimenta il ‘motore dei tumori’ e si sa che è legato al funzionamento delle centraline energetiche delle cellule, i mitocondri.

L’inizio di tutto è stato nel 2012, quando lo stesso gruppo di ricercatori l’aveva identificata – guadagnandosi la pubblicazione su Science – come causa del 3% dei casi di glioblastoma, tumore che colpisce persone di tutte le età (anche se è più frequente tra i 45 e i 70 anni) e non risparmia i bambini, finito più volte alla ribalta delle cronache negli States. Nel 2015 per la morte del figlio 46enne dell’ex vicepresidente Usa Joe Biden, e prima ancora per la scomparsa del senatore democratico Ted Kennedy nel 2009. Poi di nuovo sotto i riflettori a luglio 2017 per l’annuncio della malattia del senatore repubblicano John McCain. La chirurgia, seguita da radioterapia e chemio – spiegano gli esperti all’Adnkronos – non è ancora in grado di curare questo tipo di cancro che porta a morte la maggior parte dei pazienti in meno di due anni. Gli scienziati hanno ora scoperto che l’elemento cardine del meccanismo innescato dalla fusione dei due geni è l’aumento del numero e dell’attività dei mitocondri, organelli presenti all’interno della cellula che funzionano come centraline di produzione di energia. E ritengono che l’aggiunta di farmaci che interferiscono con la produzione di energia da parte dei mitocondri porterà “benefici importanti” per il trattamento personalizzato dei tumori sostenuti dalla fusione genica Fgfr3-Tacc3. Un passo avanti sulla strada della medicina “su misura”.

Secondo gli scienziati, dunque, la combinazione di farmaci che inibiscono l’attività mitocondriale e quella enzimatica di Fgfr3-Tacc3 potrebbe risultare utile nel trattamento dei tumori che contengono la fusione dei due geni. In studi precedenti i ricercatori della Columbia University avevano dimostrato che ‘farmaci bersaglio‘, che bloccano direttamente l’attività enzimatica della fusione genica, portavano a un aumento della sopravvivenza di topi affetti da glioblastoma. Per questo vengono attualmente testati in pazienti con il tumore cerebrale positivo per Fgfr3-Tacc3 in studi clinici diretti da uno dei co-autori dello studio pubblicato su Nature, Marc Sanson dell’ospedale Pitié Salpetriere a Parigi. “Farmaci che inibiscono enzimi di tipo chinasi sono stati usati in alcuni tipi di tumori con risultati incoraggianti – conclude Iavarone – Tuttavia, con il tempo il cancro diventa resistente a questi farmaci e progredisce. Ipotizziamo che si possano prevenire resistenza e recidiva tumorale attraverso una simultanea inibizione del metabolismo mitocondriale e di Fgfr3-Tacc3. E stiamo testando questa nuova ipotesi nei nostri laboratori della Columbia University“.



www.ilfattoquotidiano.it/2018/01/03/cancro-scoperta-la-fusione-di-due-geni-che-fa-crescere-e-proliferare-tutte-le-forme-di-tumore/...
angelico
00giovedì 18 gennaio 2018 21:47
Le scoperte, pubblicate oggi su Nature Genetics e Nature Communications, sono dei ricercatori della Harvard University diretti dall’italiano Pier Paolo Pandolfi e dell’Institute of Oncology Research dell’università della Svizzera italiana di Bellinzona diretto da Andrea Alimonti

di AGNESE FERRARA
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15 gennaio 2018
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Tumore alla prostata: le metastasi si nutrono di grassi
UN'ALIMENTAZIONE ricca di grassi di derivazione animale è in grado di attivare le metastasi e, di fatto, rendere mortale il cancro. Se la correlazione statistica fra dieta e tumori è già stata più volte dimostrata, i ricercatori del Beth Israel Deaconess Medical Center (Bidmc) della Harvard Medical School di Boston, hanno scoperto i meccanismi molecolari con cui le cellule del cancro alla prostata avviano il processo di metastasi, ovvero si diffondono in altre parti del corpo. Identificati questi processi indotti dai grassi sono anche riusciti a bloccarli somministrando dei farmaci allo studio per combattere l’obesità. Per la prima volta quindi si riesce a intervenire sulla proliferazione tumorale. La scoperta è frutto di due ricerche pubblicate oggi su Nature Genetics e Nature Communications, e punta il dito sull’ambiente come fattore chiave in grado di interagire direttamente sui tumori rendendoli più aggressivi, oltre ai fattori genetici. Sempre su Nature Genetics di oggi un’altra indagine, condotta all’ Institute of Oncology Research dell’università della Svizzera italiana di Bellinzona conferma l’importanza dei grassi nello sviluppo del tumore alla prostata aggiungendo un ulteriore tassello alla scoperta.

“Il tumore alla prostata viene detto indolente da noi ricercatori perché cresce piano restando latente - spiega Pier Paolo Pandolfi, direttore del Cancer Center Institute al Bidmc, che ha diretto le scoperte - . La sua mortalità è calata del 40% negli Stati Uniti in questi ultimi 25 anni ma, se avvia le metastasi, diventa inevitabilmente fatale e la correlazione con il tipo di alimentazione era già stata ipotizzata tanto che la diffusione di questo tumore è molto più elevata negli Stati Uniti che in altre nazioni dove si assumono meno grassi di derivazione animale, come nei paesi asiatici, tipo il Giappone, dove l’incidenza è di circa il 10%. Quando però gli asiatici si trasferiscono negli Stati Uniti l’incidenza cresce al 40% avvicinandosi a quella di chi nasce qui”.

ARCHIVIO Il tumore alla prostata

Pandolfi precisa: “Sapevamo che il gene soppressore PTEN svolgeva un ruolo importante nella prevenzione del cancro alla prostata. La sua perdita parziale di attività infatti si riscontra nel 70% dei casi e, quando si perde del tutto, partono le metastasi ma le nostre osservazioni di laboratorio ci indicavano che non bastava l’assenza di questo gene a innescarle. Così abbiamo cercato di identificare altri geni coinvolti nel processo e abbiamo notato che un altro soppressore del tumore, il PML, tendeva ad essere presente nei tumori localizzati e non più in quelli già diffusi. Abbiamo visto che nel 20% dei tumori con metastasi erano carenti sia il gene soppressore PTEN che il PML. Abbiamo generato tumori senza PTEN a quelli senza PTEN e PML, questi ultimi erano molto più aggressivi e metastatizzavano. Inoltre abbiamo scoperto che le cellule senza PTEN e PML producono da sole grandi quantità di lipidi. Dunque, ci siamo detti, il grasso nei tumori senza PTEN e PML potrebbe essere alla base delle metastasi ed è sul ruolo del grasso nel favorire le metastasi che abbiamo concentrato le nostre ricerche”.

Gli scienziati avevano ancora un nodo da sciogliere: come mai nei topi di laboratorio il tumore alla prostata produce metastasi molto raramente? Da qui l’intuizione: se fosse l’alimentazione dei topi a proteggerli dall’aggressività del tumore? Afferma Pandolfi: “Ci siamo resi conto che i topolini di laboratorio mangiano essenzialmente vegetali. E’ una dieta quasi vegana di sicuro piu’ vicina alla dieta asiatica che alla “dieta McDonald’s”. Abbiamo quindi provato a introdurre nella loro dieta i grassi animali e, per la prima volta, sono comparse le metastasi anche in quei tumori indolenti, non metastatici, in cui manca la sola funzione del gene PTEN”.

Una volta ottenuto un modello di ricerca e individuati i meccanismi molecolari alla base del processo che avvia le metastasi gli scienziati hanno somministrato ai topi un farmaco attualmente in fase di studio per il trattamento dell’obesità, le fatostatine, che bloccano la sintesi dei grassi. Sorprendentemente, la molecola ha causato una profonda regressione del tumore così come la completa soppressione delle metastasi. “Alcuni dei farmaci anti-obesità, fatostatine o analoghi, agiscono bloccando la produzione dei lipidi, - precisa Pandolfi. – “Sono sostanze molto ben tollerate e stiamo organizzando ora i trials clinici sull’uomo”.

I ricercatori stanno anche cercando di capire quali siano nel dettaglio i lipidi cattivi che aumentano l’aggressività dei tumori, ma anche se ci siano lipidi buoni che possano avere un ruolo protettivo nella prevenzione dei tumori e nel bloccarne la loro progressione.

Sulla produzione esagerata di grasso da parte delle cellule metastatiche si sono concentrati anche i ricercatori dell’Institute of Oncology Research dell’università della Svizzera italiana diretti da Andrea Alimonti con una indagine pubblicata sempre su Nature Genetics di oggi. Il team svizzero, insieme a ricercatori spagnoli ed inglesi, ha scoperto infatti che anche mitocondri, che riforniscono di energia le cellule del tumore alla prostata, hanno bisogno soprattutto di grassi più che di glucosio, cioè zuccheri come si è creduto fino ad oggi. “Il metabolismo dei lipidi funziona da benzina per sostenere la macchina tumorale, - spiega Andrea Alimonti, - inibendo l’enzima mitocondriale PDC nelle cellule tumorali, il contenuto di lipidi cala drasticamente e le cellule maligne non proliferano più. Abbiamo perciò individuato una serie di molecole in grado di bloccare selettivamente questo
enzima senza danneggiare le cellule normali i diversi modelli sperimentali”. La scienza si concentra adesso su come affamare i tumori, levando loro la fonte primaria dell’energia e dello sviluppo, cioè i ‘grassi cattivi

www.repubblica.it/salute/ricerca/2018/01/15/news/tumore_alla_prostata_scoperto_il_meccanismo_che_provoca_le_metastasi_con_la_dieta_si_possono_bloccare-186541765/?ref=RHRS-BH-I0-C6-P11...
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