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tati-a4ever
00sabato 18 giugno 2011 21:40
Eccomi qua a tutti (:
So di avere una fan fiction in sospeso da spostare, anzi, due in realtà, ( una la sposterò presto, visto che è già completa ;) ), però ero entusiasta di spostare questa: questa è un connubbio dei caratteri delle protagoniste femminili di ogni mia storia su Michael (ognuna possedente parte del mio carattere e aspetto) e definisco questa storia come la mia opera più matura - fino ad ora - e completa, se così si può dire.
Spero sia di vostro gradimento, grazie per l'attenzione. (:



CAPITOLO UNO
L'inizio


Il mio interesse è nel futuro,
perché è lì che ho intenzione di spendere il resto della mia vita.
( Charles F. Kettering )



E' veramente strano come la vita prenda il suo corso, come ella sia strada delle nostre esperienze umane, e di come ella sia per noi la carta in cui ognuno di noi butta giù la nostra storia, parola per parola, secondo per secondo. Vivi nel tuo corpo umano, all’interno di quello scudo che può proteggere la tua anima di tenue e soffice luce e, molto probabilmente, non ti rendi conto nemmeno di tutto ciò che stai passando, importante o scontato che tu pensi che sia.

Ti accorgi di ciò che si ha vissuto solo dopo parecchio tempo. In genere alcuni riconoscono il valore della vita quando sono sull’orlo della morte o quando non si può più tornare indietro o quando – ahimè - è troppo tardi per poterli rivivere come se fosse la prima volta. Ci sono i più saggi, con il loro spiccato senso della puntualità, i quali si accorgono del valore della vita sempre ben in tempo; realizzano quanto i momenti della nostra esistenza siano importanti prima che la morte terrena ne tolga la possibilità di amarli incondizionatamente; questi saggi hanno avuto il particolare dono di godere della gioia migliore anche solo essendo felici di essere nati, anche soltanto di essere su Madre Terra a godere dei suoi regali. Per fortuna, mi ritengo sospesa fra questi due tipi di personalità. C’è sempre una via di mezzo.

E io credo che, dopotutto, tutti siamo stati uno di questi famigerati saggi, una volta nella nostra vita... e lo siamo, soprattutto quando siamo innamorati. Be’, allora sì che ci rendiamo conto di quanto la vita è bella! Allora crediamo che tutti intorno a noi risplenda, che noi stessi - pur non vedendoci - risplendiamo; tutto ci sembra incantevole, perfino l’oscurità che risiede ancora nei cuori pieni di paure. In quel momento, crediamo di essere vivi. Ci diciamo “Sì, la vita è bella!”, e viviamo ogni singolo momento in pace, col cuore sereno e scoppiettante nel petto, gli occhi illuminati di amore e vita. Tutti, ognuno a modo proprio, hanno vissuto; tutti sono stati innamorati e si sono considerati grati alla vita e fortunati ad esistere; hanno dimenticato i brutti momenti lasciando spazio alla felicità nel loro cuore, hanno donato amore incondizionato e hanno dimenticato quell’egoismo che porta, il più delle volte e il più delle persone, a voler ricevere obbligatoriamente quando si da, quasi fosse una forma di riscatto per un pezzo di sé stessi che si dona... o si crede di aver donato.

Lettori, la vita è bella quando si ama, quando l’amore è parte di ognuno di noi e della nostra quotidianità. Non importa il resto, tutto gira intorno all’amore. La vita si vive con l’amore, perché senza amore quella che noi viviamo non è vita. Ma non sto a chiarire ancora di più questo discorso, sebbene potrei dire molte cose su questo argomento; potrei dire che si vive la vita non solo con l’amore per gli altri, ma anche al grande amore per noi stessi, così difficile da trovare in ognuno dei nostri cuori e altrettanto complicato da voler realizzare. E potrei dire molte altre cose riguardo questo infinito e stupendo discorso sul legame vita-amore, ma non è di questo che voglio parlare con voi che state leggendo ciò che io ho scritto.

No, non voglio parlare di tutto ciò. Certo, aprirò qualche parentesi nel corso degli eventi di cui verrete a conoscenza, ma non mi fermerò solo su queste ‘pillole’ di saggezza spirituali e importanti per la esistenza di ogni essere vivente. No, perché io vi voglio raccontare una storia. Voglio narrare a voi - voi che con così ardore siete immersi nel racconto - la mia storia. Forse vi stuferete di ciò che leggerete e abbandonerete ogni curiosità emozione a questo racconto, e non posso né biasimare né arrabbiarmi per questa vostra scelta. Posso iniziare a narrare questo racconto solo iniziando a presentare chi è colei che ha scritto ciò che ora seguite con occhi, mente e cuore aperti.

Mi chiamo Sarah Anne Elinor Morris, ma in questa storia mi conoscerete e sentirete parlare di te semplicemente come Sarah Morris, o ancora meglio come Sarah e basta. Prima di passare alla mia piccola descrizione, vi premetto già da subito parecchie cose che dovete sapere sul mio conto. Non sono affatto una di quelle modelle dal fisico provocante e tonico delle riviste, né una di quelle grandi ‘fiche’ tutta sorrisini e moine; non ho uno sguardo o un viso che eccita l’altro sesso in alcun modo, né ovviamente l’aspetto fisico che, come ho detto, non è scolpito come Venere; non sono una principessa che attende di essere salvata dal suo principe azzurro – sebbene da bimba un po’ abbia sempre sognato di essere una principessa, con atteggiamenti e tutto il resto – o forse credo di non essere adatta per quel ruolo nella mia vita; non ho nobili origini e ancor meno talenti eccezionali o particolari che mi rendono speciali e diversa; non sono vergine, non sono un’alcolizzata, né faccio uso di droga o sigarette; non ho aspirazione a diventare né una diva né una star, ma solo a vivere la mia esistenza nel modo più pacifico possibile.

Non ho un fisico mingherlino e sottile – anzi, in realtà è un po’ robusto. Non ho gambe perfette, ma solo un po’ più grosse del normale; non ho la pancia piatta e inesistente, ma anzi possiedo tre/quattro centimetri in più sul giro vita; ho le braccia leggermente più grosse del normale e ho un viso leggermente tondeggiante. Diciamo in poche parole che sono il contrario della donna in perfetta forma fisica e patita dello sport. È anche vero che rispetto a molti anni fa sono molto più asciutta, ma neanche adesso sono nel peso forma, ecco... se non mi sarei cominciata ad amare di più, probabilmente nel corso degli anni sarei diventata il doppio di quanto ero prima. Ma non è solo colpa mia – dico davvero! – ma del mio metabolismo ritardato... non prendetela come una scusa, perché è la verità: mi sono curata per molti anni in ospedale per ristabilirmi fisicamente a causa di una tiroide rincoglionita e ghiandole surrenali sfasate. Anche vero che il mio peso era peggiorato non solo da disfunzioni fisiche, ma morali... perché ricordate, non stare bene dentro può portare a grandi problemi fisici, o peggiorare ancor di più la vostra attuale situazione! L’ho provato sulla mia propria pelle... so quel che dico!

Ad ogni modo, nonostante il fisico cicciottello, ci sono anche dei bei lati fisici: possiedo degli occhi parecchio strani, particolari se così si possono definire! Non hanno un colore ben definito, sebbene a primo impatto possano sembrare verdi. In realtà, se guardati da vicino con attenzione - soprattutto sotto la luce del sole - si possono notare parecchi particolari: il contorno dell’occhio è grigio, attorno alla pupilla color nocciola, verso l’interno color verde e, in ultimo, verso l’esterno ci sono lievi sfumature azzurre. Io stessa mi accorsi di questi dettagli solo pochi anni fa... evidentemente temevo troppo di guardarmi con attenzione allo specchio. Comunque oltre agli occhi - parte di me che preferisco e preferivo sopra ogni altra - il resto del viso è abbastanza piacevole. Anche i miei capelli, che una volta consideravo orribili, ora mi piacciono. Sono di un color rosso, castano quasi, ma al sole appare il vero colore dei miei capelli: un bel modesto rosso ramato. In realtà non mi piacevano per il fatto che non avevano mai una piega precisa – dei giorni erano ricci, dei giorni lisci – ma, dopo tanti anni, ho cominciato ad apprezzarli abbastanza. E li apprezzo soprattutto perché sono riusciti a crescere, arrivando a sorpassare il livello del seno. Che grande soddisfazione!

Nacqui il 25 gennaio 1975, in Italia, in una cittadina sperduta del Veneto. Nata da madre italiana e padre americano, vissi lì fino a quando non ebbi il diploma; dal giorno in cui finii i cinque anni di liceo classico, non persi l’occasione per partire in America, anche se di certo in Italia non mancavano di certo le università per continuare gli studi. In realtà avevo sempre desiderato fuggire via da quel luogo. La mia aspirazione era viaggiare, arricchirmi delle altre culture e fare volontariato ai bambini in Africa; realizzai di voler cambiare il mondo aiutando gli altri solo al terzo anno di liceo, quando era oramai troppo tardi per scegliere un’altra scuola da frequentare. Una volta negli Stati Uniti continuai le mie specializzazioni e ottenni una capacità di parlare inglese davvero perfetta – grazie comunque al fatto che papà era americano ed io ero già più avvantaggiata. Riuscii ad ottenere prestigio e in poco tempo, a venticinque anni – già parecchio avanti coi corsi – trovai lavoro come insegnante di letteratura inglese in una scuola pubblica non molto distante dalla mia università, la Harvard, più precisamente la Harvard Graduate School of Education.

Ma nemmeno un anno nella scuola pubblica cambiai subito lavoro; venni a sapere che una donna di mezza età, che segretamente era stata informata della mia bravura ed eccellenza, chiese il mio contributo nell’educazione privata dei suoi figli adolescenti; quella signora si chiamava Liza Todd Burton, figlia non poco di meno di Elizabeth Taylor. Oh sì, avevo sentito moltissimo parlare di lei – mia mamma era fissata con lei, il mito dei suoi magnifici occhi pervinca e il suo eccezionale talento per la recitazione –, ma solo qualche mese più avanti avrei capito quanto sarebbe stata importante per il mio futuro. Non incontrai mai Liz Taylor personalmente, se è questo che vi state chiedendo: io ero solo l’istruttrice dei nipoti Quinn e Rhys Tivey, e perciò venivo a casa Burton solo nei momenti in cui era necessario insegnare. Il mio rapporto con quella famiglia era di rispetto, discrezione e privacy: e la cosa mi andava assolutamente bene così, non chiedevo di meglio.

Ma non durò molto il periodo di insegnante in quella casa, uno o due anni pressoché, perché ricevetti la proposta di insegnamento per un certo signor Jackson. La mia stessa datrice di lavoro, la signora Liza, mi chiese personalmente se mi sarebbe piaciuto andare a lavorare per un amico della madre – anch’ella star di fama mondiale –, amico suo e persona di buon cuore. Forse dava per scontato che io avessi già intuito di chi parlasse, ma si sbagliava; in realtà all’inizio credevo si riferisse a uno di quei VIP oramai sconosciuti, uomini di mezza età abbandonati dai fan dopo il periodo di successo fin troppo poco duraturo, con a carico degli adolescenti da tirar su. Lo so, è una cosa che farà ridere perfino i polli, ma ahimè non avrei mai pensato quale persona sarei mai andata a trovare! Quando la signora Burton mi offrì quella proposta, accettai voler conoscere maggior dettagli e che avrei preso in considerazione quell’opportunità. Sembrava ci tenesse molto a farmi accettare quel lavoro, perché cercò in tutti i modi di farmi acconsentire all’offerta! Addirittura pensai che volesse sbarazzarsi di me, ma in verità non conoscevo a fondo il legame che aveva con questa persona, in particolar modo quello che sua madre aveva con codesto ‘signor Jackson’. Come avrei potuto capire che si stava parlando proprio del signor Michael Jackson, quando conoscevo così poco di lui e ancor meno della profonda amicizia fra lui e Liz Taylor? Diciamo che ero sempre stata una con la testa fra le nuvole... la mia ignoranza era scusata, per così dire.

E avendo accettato di prendere in considerazione la proposta - l’aver deciso di voler incontrare quell’uomo in faccia per discutere di ogni dettaglio del contratto di lavoro - mi ritrovai in troppo poco tempo in una lussuosa limousine - vestita senza troppo sfarzosità - in viaggio per la casa di questo famigerato signor Jackson, in una mite e soleggiata giornata di novembre della città di Santa Barbara, Los Angeles. Ero troppo ingenua per capire allora a chi e che cosa andassi incontro; non avevo considerato i pro e i contro, non avevo ben ragionato e riflettuto, non avevo ben indagato su questo misterioso signore, ma in tal attimo non mi preoccupavo affatto. Era il 26 novembre 2003, e presto avrei incontrato il mio forse-nuovo datore di lavoro e avrei discusso con lui dei miei forse-futuri compiti: questo era l’importante.

Me ne stavo seduta in una limousine nera – a Los Angeles ce ne erano tantissime, per quello forse nessuno ci faceva davvero caso ogni volta che ne passava una –, con le mani congiunte e adagiate sulle mie gambe accavallate, guardando al di fuori del finestrino oscurato il sole che risplendeva in alto in cielo. Era pomeriggio, e nonostante fosse autunno inoltrato il calore dei raggi solari scaldavano tanto quanto in primavera in Italia nelle regioni più a nord. Assaporai il calore che ricevevo sulle mie guance e sui miei strampalati capelli rossastri, nel frattempo che un’eccitante e nevrotica emozione mi dava l’impressione di avere un mattone nella pancia.

Ero sempre nervosa a qualsiasi appuntamento di lavoro o qualsiasi altro incontro che potessi mai avere con una persona; non sapere a che cosa andavo incontro mi dava fastidio, mi provocava un forte stato di ansia e lieve agonia che, nelle situazioni più gravi, mi facevano diventare ancora più irritabile di quanto già ero nella vita di tutti i giorni. Riflettevo sul come mi sarei dovuta comportare, sulle domande e risposte che avrei dovuto dare, e come al mio solito la mia innata fantasia mi portò a creare i miei soliti e pazzoidi dialoghi che sarebbero potuti realmente avvenire durante il colloquio. Già vedevo cosa sarebbe accaduto, le cose che mi sarei sentita dire e le cose che avrei risposto con tono professionale e – sperai – tenace e sicuro.

Cercavo di distrarmi guardando le figure delle macchine che passavano veloci... il tragitto che stavo percorrendo per non dimenticarlo se mai sarei dovuta tornare nel luogo dove stavo andando... era un’autostrada che mano a mano si faceva più deserta, un panorama che pian piano si spogliava della sua ricca vegetazione... un posto in cui la lieve aridità del suolo dava l’idea di attraversare le immense autostrade desolate già viste più volte nei film. E per quanto l’ansia potesse distrarmi dalla beltà innaturale di quel posto, alla fine non ostentai a dedicarmi a quella magnifica distrazione, né a fantasticare sul posto nel quale mi sarei presto ritrovata. Chissà, magari il signor Jackson abitava in un luogo di campagna piuttosto deserto... forse amava la tranquillità e, per dedicarsi alla pace, aveva scelto un posto piuttosto distante dalla vita movimentata di LA. Era una scelta davvero geniale, se le mie deduzioni erano l’effettiva verità dei fatti.

Ed ecco che la desolazione dava di nuovo spazio ad un verde più vivace; cominciarono a farsi sempre più vivi gli alberi, i campi ora non erano più desolati ma riempiti da questi esseri dalle chiome verdi e rigogliose. Pian piano la mia attenzione lasciò completamente perdere le preoccupazioni del colloquio per dar posto alla bellezza di quel posto così pacifico e tranquillo. Forse le cose non sarebbero andate tanto male, pensai fra me e me, non in un angolo di Paradiso così. Anche a me sarebbe piaciuto vivere là, in pace, senza nessuno, nella mia solitudine e nella cura del mio equilibrio interiore...
Improvvisamente però la mia pace si trasformò di nuovo in agitazione. Avevo perso il controllo del tempo, e la grande automobile si fermò. Cercai di espormi in ogni modo più possibile e immaginabile al finestrino, per scoprire in che posto ora mi fossi fermata. Ero già arrivata? No, era impossibile... non c’era nessuna abitazione ancora, se non per una grande ‘recinzione’ in mattoni rossi.

Mi sporsi verso il finestrino opposto a quello dove ero io vicina in quel momento per scorgere qualche indizio della residenza. Vidi una statua di bronzo di una bambina con le treccine, della stessa altezza che avrebbe una bimba di sei o sette anni, la gamba sinistra alzata in un salto e le braccia spalancate verso l’alto. Una strana statua, in effetti, ma non ci diedi tanto conto. Cercai di poter vedere attraverso la visuale del guidatore, ma siccome quella era una limousine c’era un vetro divisorio fra me e chi dirigeva l’automobile. Un po’ delusa, mi arresi.

E, invece che essere in ansia per quello che avrei dovuto dire, ero smaniosa di scoprire in che luogo sarei mai potuta venire in contatto. Quella bimba in bronzo mi aveva messo uno strano punto interrogativo nella mente: non era la prima volta che l’avevo vista. Ero addirittura tentata di abbassare il finestrino senza il consenso del guidatore... dopotutto, se avessi fatto piano, nessuno se ne sarebbe accorto... era solo una sbirciatina veloce, non c’era niente di male..! Perciò, come una bambina piccola, con le orecchie ben alzate come due antenne e lo sguardo attento, provai ad abbassare il finestrino con uno dei tasti in parte alla maniglia della portiera, ma d’improvviso mi bloccai paralizzata.

Ad un certo punto si avvicinò un uomo alto e con la divisa nera. Sentii che il mio piano di abbassare il finestrino di soppiatto era andato in frantumi, soprattutto dopo che di sicuro mi aveva scoperto!, ma un’ulteriore idea mi fece compiere una successiva pazzia. Vidi l’uomo scrutare verso di me, e anche se tuttavia non poteva vedermi mi sentii bollire le guance dall’imbarazzo e la vergogna. Dopodiché si rivolse al guidatore della limousine. Con tutta la capacità uditiva che avevo, mi avvicinai piano al finestrino e ascoltai le loro parole con fremente interesse.

«E’ la signorina Morris?», chiese l’uomo che si ero sporto verso il guidatore, appoggiandosi con la mano sinistra sul cofano della limousine. Lanciò di nuovo uno sguardo veloce verso il sedile posteriore dove stavo io, e per un momento temetti che mi potesse vedere davvero.

«Sì, è lei», confermò l’autista con tono serio.
Evidentemente gli ospiti non erano ben accetti, perché lo sconosciuto fuori dalla macchina aveva uno sguardo piuttosto diffidente. Probabilmente questo signor Jackson non amava la compagnia e i visitatori di alcun genere. Questa cosa mi dava ancor più trepidazione.

«Bene» disse l’uomo alto, «portatela presso la casa del signor Jackson, la sta attendendo... ci penseranno poi gli inservienti a guidarla da lui. Grazie per l’ottimo lavoro, puoi andare!», diede un colpo al cofano e l’autista si rimise in moto.

Sentii un rumore meccanico far muovere un enorme cancello, e quando l’uomo sparì dalla visuale il guidatore mise mano all’acceleratore e ripartì di nuovo con più calma. Io non persi l’occasione e abbassai di più il finestrino, proprio nel momento in cui stavamo per passar sotto il cancello. Solo allora riuscì a scrutare l’insegna in alto, anche se non nel miglior dei modi. Quel che riuscii a leggere fu “Never –", una scritta in lettere a carattere cubitali color oro. Con uno sguardo arreso, ritirai il volto dal finestrino aperto e lo alzai di nuovo, lasciando però una piccola fessura che mi avrebbe fatto sentire il vento nella fronte.

Non sapevo né che luogo era né chi fosse il proprietario; Liza mi aveva dato tempo per ricercar più notizie su questo personaggio – tre giorni, più o meno –, ma io pensavo fosse una persona tutt’altro che da prima pagina. Per quanto impossibile possa essere, io la televisione non la guardavo mai. Non compravo giornali, non amavo uscire per il cuore di Los Angeles... amavo leggere e scrivere, insegnare e occuparmi dei miei impegni di insegnante, guardare al massimo film al cinema o a casa, prenotandoli da un videonoleggio non troppo distante dalla dimora abituale. La mia vita era piuttosto tranquilla e isolata dal furore di LA; insomma, una vera straniera in una città piena di caos e vivacità. Però l’amavo... soprattutto la notte.

L’auto passò per un lungo immenso viale alberato, lasciando il sole e le ombre delle chiome verdi giocare con effetti di luce semplicemente stupendi. Riabbassai di nuovo il finestrino, quel poco che mi avrebbe permesso di lasciar scoperto almeno tutto il viso. Era un’emozione molto pacifica... guardare in alto le foglie muoversi dal vento, cullate dal suo delicato soffio, e percepire talvolta il sole in pieno viso... i miei capelli, che con la luce assumevano le loro tipiche sfumature rosso ramato acceso, selvaggiamente si posavano su ogni parte del mio volto... era una sensazione stupenda, davvero liberatoria.

Sebbene avessi idea che il signor Jackson non amasse molto gli ospiti, lo dovetti ammirare per la maestosa residenza nella quale aveva deciso abitare. Sarebbe stato il mio sogno vivere in un posto così verde, così pieno di alberi... un vero sogno che si avvera.
Dopo una decina di minuti abbondante – non so precisamente quanto fosse passato, persa com’ero in quell’ambiente irreale – l’autista si fermò nelle vicinanze di un grande ponte. Con velocità alzai del tutto il finestrino, appena in tempo prima che ci raggiungesse un altro uomo – piuttosto alto anche costui e vestito in nero. Senza aspettare di essere servita, aprii la portiera con rapido gesto, e allora il tizio accelerò il passo verso di me. Scesi dall’auto, chiusi la portiera e rivolsi un sottile ‘grazie’ all’autista, il quale annuì soltanto con grande cortesia.

L’uomo in nero era ormai a due metri da me, ma potei farne subito un lieve ritratto, nonostante i miei occhi fossero accecati dal sole. Era ovviamente alto e piuttosto robusto, scuro di pelle e con i capelli cortissimi, quasi del tutto rasato. Quando mi fu vicino abbastanza parlò, nel frattempo che strinse la mia mano con una notevole decisione (anche se neanche la mia stretta non era male).

«Benvenuta signorina Morris, il mio nome è Bill Whitfield, e sono una guardia del signor Michael. Prego, mi segua... la sta attendendo dentro in casa, assieme ai suoi bambini». Mi guardava con uno strano sguardo, serio e rigido ma tuttavia sereno, contrariamente al tizio che all’entrata di questa enorme ‘vallata’ mi aveva guardato attraverso il vetro oscurato della macchina.

«Grazie...», esclamai molto delicatamente, annuendo convinta. Notai – guardandolo attentamente negli occhi – che il suo viso era abbastanza paffuto; possedeva un taglio d’occhi fine, iridi molto piccole e scure. Lui fece retromarcia e io lo seguii di filato, cercando di star attenta a guardare dove andavo e allo stesso tempo di osservare l’ambiente tutto intorno a me.

A primo impatto mi sembrava di stare in un luogo fatato. Alla mia sinistra vedevo perfettamente il lago, immenso, che con la luce del sole acquistava uno stupendo colore verde smeraldo, e al centro di esso due grandi specie di fontane che sputavano l’acqua verso l’alto e il cielo azzurro. Alla mia destra avevo un’enorme prato, costeggiato da tantissimi alberi che mi privavano di vedere oltre e curiosare sulle tante meraviglie di quello strano posto. Con uno strano senso di tranquillità continuai il percorso in pietra, seguendo con scatto veloce colui che mi indicava la strada da seguire; dovevo essere agile, perché difficilmente lo avrei raggiunto se avessi camminato seguendo i miei ritmi.

Oltrepassammo due grandi alberi, e poco dopo mi ritrovai su una strada liscia e dinanzi agli occhi una casetta molto carina. Era costeggiata da giardinetti verdi con aiuole con tantissimi fiori rossi e lillà; era un villino molto grande, fatto di mattoni e di legno scuro, e mi dava tanto la sensazione che fosse una di quelle belle casette che puoi trovare solo nelle fiabe. Attorno alla casa c’erano grandi alberi, e con le loro chiome folte davano al sentiero un misto di luci e ombre che donava uno spettacolo sensazionale agli occhi di chi si trovava in tal luogo. Posso solo dirvi che quella casa era piena di maestosità, e nella sua semplicità altrettanto imponente e incredibile.

Avrei voluto fermarmi un momento per poter scrutare ancora più attentamente la bellezza innata di quel posto, ma l’uomo davanti a me – che si era presentato con il nome di Bill Whitfield – non ostentò nemmeno un secondo a fermarsi, neanche per controllare che io lo stessi seguendo. Egli mi portò davanti alla porta principale della casa – grande, creata in legno scurissimo – e come se niente fosse entrò in casa; si scostò dall’entrata, tenendo la porta per la maniglia e guardandomi passare fino all’interno dell’abitazione. Dopo che fui entrata emettendo dalle labbra la parola “grazie”, egli la chiuse e mi disse di seguirlo velocemente.

La prima cosa che colpirono i miei sensi furono il profumo dell’interno e l’arredamento semplice ma di classe. Il modo in cui già vedevo arredata la casa mi dava un senso di entusiasmo ed eccitazione innaturale, e con piacere immenso osservavo con accuratezza ogni cosa di quello stupendo nuovo ambiente. Il profumo che sentivo era fresco, pulito – uno strano odore di sandalo che si diffondeva leggero nell’aria mischiandosi con la freschezza di tale area – e tutto questo, con il sapore che suscitavano quei mobili alla mia vista, procurava un contrastato effetto: antico assieme al nuovo, pulito assieme alla vecchia raffinatezza di un ambiente quasi secolare.

Più i secondi passavano, e più credevo di essere dentro una fiaba. Dubitai del fatto di esser stata l’unica a rimanere meravigliata a questa incantevole visione; se il signor Jackson avesse fatto mai venire qualcuno in casa, oltre al gran personale che doveva possedere, di sicuro sarebbe rimasto sbigottito quanto me.

Seguii la guardia del corpo oltre un corridoio dal pavimento in legno scuro, dal colore così intenso quanto quello della porta d’entrata, e mi ritrovai presto in un salotto stupendo. Non feci tempo a dare un’occhiata all’arredamento principesco che fui attratta da tre persone, due delle quali erano seduta comodamente sul divano: erano un uomo, vestito molto elegantemente, e due bambini, un maschietto e una femminuccia. Evidentemente erano loro, il padrone di casa e i suoi figli... il signor Jackson e i bambini alla quale probabilmente sarei dovuta essere istitutrice.

«Signor Jackson, eccoci qua», disse Bill Whitfield, fermandosi sul posto a un metro da me. Mi fermai d’impatto anche io, incapace di muovere un altro solo passo in avanti. Il mio sguardo era catturato dall’uomo che se ne stava in piedi, con la schiena voltata verso di noi e la testa abbassata verso i suoi figli. I piccoli, che da prima parlavano con fare eccitato al padre, mi guardarono interessati, in silenzio. Successivamente anche il signor Jackson si voltò.

Era abbastanza alto, di corporatura giusta, con i capelli lisci e neri e un abito davvero raffinato, degno di un appuntamento di lavoro importante (e io che indossavo solo pantaloni di velluto nero e una camicia bianca da quattro soldi!). Ad ogni modo, da lontano, lo vidi scrutarmi con intensità. Io non ero da meno, perché non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso. Gli diedi un rapido check-up, fino a bloccarmi sul viso. Lui sorrise e mi stupì molto: credevo fosse un uomo più anziano, più serio, e soprattutto più severo. Invece la sua espressione era tranquilla, forse un po’ troppo esaminatrice, ma non cattiva o seriosa. E il sorriso che dopo mi rivolse era gentile e molto aperto. Non era come me lo ero immaginato. No, affatto...

Mi avvicinai di qualche passo, ma fu lui che mi venne più vicino. A grandi passi si diresse verso di me, e così potei scrutarlo ancora meglio in viso. Aveva un volto piuttosto pallido, rosato ma non abbronzato, con delle labbra molto belle – scommisi che, con un sorriso aperto un po’ più aperto, sarebbero state ancora più grandi; il naso era piuttosto fine, e aveva una evidente fossetta nel mento molto marcata. La pelle era perfettamente liscia, segno che si era da poco fatto la barba. I suoi occhi – che fin da prima li avevo visti nascosti da un paio di occhiali scuri – rimasero ignoti a me fino a quando non se li tolse, durante il tragitto dal divano all’entrata del salotto. Se li mise nella tasca della giacca e, con un’espressione tranquilla ma interessata, mi si avvicinò di pochi centimetri. Solo allora li potei osservare. Erano grandi, profondi e scuri... possedevano una strana luce, e non erano affatto iridi dall’espressione vacua.

Li sentivo scavare dentro le profondità del mio corpo, quasi fossero in grado di spogliarmi senza che non avessi i vestiti addosso. Forse fu il contatto diretto coi suoi occhi, forse la vicinanza, o forse quello stupido senso di nudità, ma mi sentii improvvisamente irrigidita e nervosa; nel sangue avevo l’adrenalina: mi sentivo così in ansia per quella vicinanza che sentivo il flusso sanguigno fermarsi in corpo. Mi creava un certo nervosismo quell’occhiata, ma resistetti comunque allo sguardo. Cercai di essere il più naturale possibile, anche quando mi porse la mano per stringerla.

«Piacere di conoscerla, il mio nome è Michael Jackson», disse in modo molto vellutato ma decisamente intenso; non smise mia di fissarmi nelle iridi verdi nemmeno un secondo, nemmeno quando io abbassai gli occhi sulla sua mano. Solo più tardi avrei notato quanto le nostre mani avessero una temperatura piuttosto simile, dato che improvvisamente la mia mente scattò a ragionamenti che prima non avevo immaginato fare, e il momento di offuscamento totale diede spazio a un’unica certezza: se lui era Michael Jackson, io ero Lady Diana.

Sorrisi, ed evitai di scoppiare a ridere a quella sua battuta. Era anche divertente, ma non originale... cioè, non che io conoscessi chi fosse Michael Jackson, ecco. Come ho già detto, io non aprivo molto la televisione, era quasi un optional per me, e di quella star sapevo solo la carriera musicale (all’incirca). L’ultima volta che lo avevo visto in viso era nella copertina dell’album Bad, di parecchi anni prima, ma non mi ricordavo più neanche com’era il suo volto oramai. Forse qualche canzone l’avevo anche sentita più volte, non lo sapevo... Poi da lì non avevo più saputo niente di lui. Sarà strano crederlo, ma io a Los Angeles non sapevo perché ci vivevo; la città delle star, Hollywood, Beverly Hills... io non ero tipo per quella città!

«Che c’è..?», chiese lui aprendo le labbra in un sorriso ancora più grande.

Soddisfatta della mia previsione, avevo constatato che non solo aveva dei bellissimi occhi, ma un sorriso così grande che sembrava andare da un orecchio all’altro. Non era affatto male, in effetti, sebbene non fosse il mio tipo. Aveva il tipico fascino maschile da vero uomo maturo che mi piaceva tanto a me, ma non lo vedevo come uomo dei miei sogni. Tuttavia non era così sveglio da capire che io avevo inteso il suo scherzo ironico... era evidente che stesse dicendo che era Michael Jackson per via del cognome uguale a quello della star, non ero così scema.

O almeno così credevo.

Risi leggermente. «Lei è Michael Jackson?», e alzai di poco le sopracciglia verso l’alto.

Lui divenne serio, aggrottò la fronte e strinse le labbra in un’espressione confusa. Il mio sorriso pian piano divenne meno ogni secondo in cui la sua serietà diventava maggiore. Mi chiesi se si stesse offendendo per la mia risatina sarcastica o se perché ero io che avevo detto o pensato qualcosa di sbagliato.

Poi mi guardò di nuovo, con maggiore profondità, e un attimo dopo scoppiò a ridere come un matto. «Be’, ...», disse toccandosi con l’indice e il pollice la fossetta che aveva sul mento. Era quasi imbarazzato, ma non riuscivo a capire perché... «Io sono Michael Jackson, e non sto scherzando...»

Se dapprima sorridevo pensando che il ‘signor Jackson’ possedesse un grande senso dell’umorismo – e anche un po’ di ingenuità – in quel momento mi sentii di essere io la vera cretina di turno. Chissà come mai, tutt’un tratto, non dubitai delle sue parole.

C’era una frase che volteggiava ad alta voce nella mia mente e non la smetteva di prendermi in giro. E quella frase era: ‘Brava, Sarah, complimenti per la tua prima meravigliosa figura di merda’.



Dayna87
00domenica 19 giugno 2011 16:31
Ciao tati-a4ever!![SM=g27822]
La tua storia mi piace tanto,la trovo molto interessante,davvero.Ho trovato divertente la parte finale dove Sarah chiede«Lei è Michael Jackson?»e lui«Be’,sì...»,disse toccandosi con l’indice e il pollice la fossetta che aveva sul mento.Era quasi imbarazzato,ma non riuscivo a capire perché...«Io sono Michael Jackson,e non sto scherzando...» [SM=x47979]Sono curiosa di leggere il seguito di questa storia. Complimenti [SM=x47932] [SM=x47932]
tati-a4ever
00domenica 19 giugno 2011 17:10
Re:
Dayna87, 19/06/2011 16.31:

Ciao tati-a4ever!![SM=g27822]
La tua storia mi piace tanto,la trovo molto interessante,davvero.Ho trovato divertente la parte finale dove Sarah chiede«Lei è Michael Jackson?»e lui«Be’,sì...»,disse toccandosi con l’indice e il pollice la fossetta che aveva sul mento.Era quasi imbarazzato,ma non riuscivo a capire perché...«Io sono Michael Jackson,e non sto scherzando...» [SM=x47979]Sono curiosa di leggere il seguito di questa storia. Complimenti [SM=x47932] [SM=x47932]




Grazie Dayna87, sono felice che ti piaccia [SM=g27819]
Sì, anche io ho trovato quella parte molto carina... è nel carattere di Sarah fare figure così. [SM=x47979]
Sposterò presto, e cercherò di non deluderti [SM=x47938]
Grazie ancora, e piacere di conoscerti! [SM=g27838]
maria0881
00domenica 19 giugno 2011 17:23
ahahah il finale è stato fantastico!!! Sei bravissima a scrivere la storia mi piace! Ti prego continuaaa!!
p.s.:Continua anche l'altra FF Mi manca!!
tati-a4ever
00domenica 19 giugno 2011 17:44
Re:
maria0881, 19/06/2011 17.23:

ahahah il finale è stato fantastico!!! Sei bravissima a scrivere la storia mi piace! Ti prego continuaaa!!
p.s.:Continua anche l'altra FF Mi manca!!



Grazie Maria [SM=g27819] Non so come ringraziarti per il tuo appoggio... [SM=g27821] Non ti preoccupare, non vi farò attendere molto per il continuo (almeno spero)!! Grazie di cuore [SM=x47938]

P.S. Dici Any Dream Can Become True o The Joy Of Love? La prima la finirò di pubblicare stasera, con gli ultimi capitoli [SM=g27823] , e la seconda purtroppo al momento è stata sospesa... [SM=g27813]
Dayna87
00domenica 19 giugno 2011 18:30
Mi piace "Any Dream Can Become True" [SM=g27817] ,non vedo l'ora che posti tutti i capitoli che mancano ,è non credo ci deluderai perchè, scrivi molto bene [SM=g27811] [SM=x47938]
P.S: mi chiamo Dayna ed e un piacere anche per me conoscerti [SM=g27828]
maria0881
00domenica 19 giugno 2011 19:55
Intendevo Any Dream Can Become true :D
Non vedo l'ora di vedere gli altri capitoli!!!
P.S.:Mi chiamo maria teresa ma chiamami Mary :D
tati-a4ever
00lunedì 20 giugno 2011 00:59
Piacere Dayna e Mary, è un vero onore conoscervi! [SM=x47938] Vi ringrazio per il vostro appoggio, mi auguro fino alla fine di non deludervi! Grazie per tutto, dal profondo del cuore [SM=g27838] [SM=g27821]
maria0881
00lunedì 20 giugno 2011 13:56
Non ci deluderai,sei bravissima!
Attendo con ansia il prossimo capitolo :D
tati-a4ever
00mercoledì 29 giugno 2011 19:31
Mi scuso per l'erorme ritardo, vi chiedo scusa [SM=g27813] Inoltre, perdonatemi per qualche errore... io non ho per nulla ricontrollato, ma mi auguro che sia comunque accettabile...
Buona lettura [SM=g27821]


CAPITOLO DUE
Il colloquio


L’ansia è sempre un vuoto che si genera tra il modo in cui le cose sono,
e il modo in cui pensiamo che dovrebbero andare;
è qualcosa che si colloca tra il reale e l’irreale.
( Charlotte Joko Beck )



Che grande figura del cazzo.

Scusate la volgarità, ma quel che è vero è vero. Mi ero preparata giorni e giorni per fare tutto quel discorso per evitare di fare figuracce, e alla prima occasione sbagliavo a causa di un maledettissimo dettaglio: il mio capo – mettiamo anche ex, visto la ridicola figura fatta – era Michael Jackson. Voi direte che fortunata che ero, che gioia sarebbe stata per voi scoprire che il vostro datore di lavoro era famoso in tutto il mondo o il vostro idolo (anche se per me non lo era affatto)... be’, io allora desideravo solo scomparire dalla faccia della Terra, sfuggire via e lasciarmi al passato quella grande cazzata che solo io avrei potuto mai compiere.

E se nel frattempo mi sentivo una grande deficiente e avevo il forte desiderio di sotterrarmi sono un grande mucchio di sabbia, il mio interlocutore era scoppiato a ridere come un pazzo. Mi aveva guardato in modo molto serio – forse aveva anche pensato che gli stessi mentendo, o che avessi qualche grosso problema mentale –, le mie guancie erano esplose in vampate color rosso scarlatto e lui si era messo a sghignazzare rumorosamente alla mia espressione rincretinita. Aveva unito le sue mani e se le era posate al petto, molleggiando la schiena avanti e indietro con lentezza, e mi guardava come se avesse appena visto la cosa più buffa della sua vita.

Lasciando perdere la mia vulnerabile permalosità per un momento, sono sincera se dico che avrei voluto girare i tacchi e con tutte le intenzioni scappare senza dire una parola. Era probabile che la mia espressione fosse lo specchio dello shock, visto che sentivo il mio volto intrappolato in una maschera di cemento, bloccato in un’espressione inebetita. Ma la permalosità non era la cosa più importante, non lì: un fiume di calore aveva reso il mio viso simile a un palloncino rosso, i miei occhi erano spalancati al massimo e la voce non aveva intenzione di uscire fuori dalla mia gola se non per pronunciare qualcosa di insensato. Insomma, non ero affatto messa bene. E in più non sapevo cosa fare per sdrammatizzare la situazione.
Però c’era una cosa che mi colpì, oltre l’imbarazzo di quel evento: aveva davvero una bella risata. Strana, è vero, e anche piuttosto acuta, e se non fosse stato per l’infermità mentale avrei riso anche io. E, per dirla con tutta la sincerità possibile, sembrava molto a quella della mia nonna, quella defunta. Non sto facendo la sarcastica, quella di mia nonna Luisa era davvero una risata contagiosa. Sentire quella di Michael Jackson mi avrebbe fatto morire dal ridere, se la condizione del momento sarebbe stata più tranquilla e meno professionale.

«Oh Dio», esclamò di nuovo, cominciando a calmare la risata e ad assumere un tono di nuovo serio e competente. Emise uno o due colpetti di tosse, nel frattempo che sentii da lontano i suoi due bambini parlottare fra loro, molto incuriositi dalla situazione. «E’ davvero strano che tu non sappia chi sono io... davvero...» - e il suo sguardo si fece ancora più serio di prima, quasi assente. Un attimo di pausa e poi continuò - «comunque, prego... seguimi!», e così mi fece cenno di avanzare verso il divano di quell’immenso salotto elegante.

Usava un tono molto confidenziale, quasi fossi una vecchia amica che si fa risentire dopo anni e anni di lontananza. Forse si era più sciolto a causa della mia figuraccia, o forse era così per natura: sta di fatto che mi sentivo nervosa comunque. Quando camminavo mi sentivo un robot, e in ogni passo che compivo mi sentivo un burattino di legno scricchiolante. Comunque sia, un clima più amichevole era la cosa migliore: mi avrebbe di certo fatto bene, il colloquio non sarebbe stato teso e l’aria non se ne sarebbe stata immobile nel silenzio fluttuante della tensione.

Con gli occhi rivolti verso il basso avanzai, aumentando il passo, e mi sedetti su un grande divano in tessuto color crema. Il signor Jackson si sedette di fronte a me, su un altro divano dello stesso colore, fra i sue due bambini; fu così che li potei osservar meglio e con maggiore attenzione (mi sono dimenticata di dirvi che ero un po’ cieca, e perciò avevo il necessario bisogno degli occhiali da vista). Un bimbo, maschio, se ne stava seduto alla destra del padre; aveva i capelli biondi, occhi scuri quasi come quelli del padre, nasetto un po’ all’insù e aria scrutatrice e intensa, seria addirittura. Alla sinistra invece ci stava una bambina; aveva grandissimi occhi azzurro/verde, anch’essi molto profondi e osservatori, labbra sottili e nasetto perfetto: pensai subito che fosse una bambina bellissima, intelligente e dal carattere furbetto. Lo capivo dalla luce che aveva negli occhi.

Sorrisi a entrambi timidamente, e loro ricambiarono con altrettanta discrezione ma gentilezza. Dedussi non fossero molto grandi, più o meno sui sei o sette anni; la più piccola forse era più piccola del maschio di qualche annetto. Tuttavia avrei fatto da loro insegnante con piacere, visto il loro modo di atteggiarsi molto educato e disponibile. Inoltre sembravano molto incuriositi dalla mia persona, soprattutto la piccola. Il bambino invece era più tranquillo e calmo. O magari erano così pacati ed educati in presenza del loro papà, e quando lui non c’era erano delle vere pesti... era ancora troppo presto per giudicare!

«Ti presento i miei figli», disse il signor Jackson sorridendomi con grazia. «Questo è Prince, ha sei anni, e ha da poco iniziato i corsi per la seconda elementare. Lei invece è Paris, ha cinque anni, e frequenta il primo anno. Salutate la signorina Morris, bambini...», lì invitò delicatamente.

«Salve signorina Morris», esclamarono entrambi non in sincrono perfetto. La bimba di nome Paris mi guardò allargando il suo sorriso in modo più aperto, e io allora mi permisi di guardarla con più amichevolezza. Sembrava non vedesse l’ora di parlare e fare amicizia. Prince, invece, dondolava in avanti e indietro e mi guardava sereno. Sentivo gli occhi di tutti e tre addosso a me.

«Papà», chiese la piccola Paris tirando lievemente per la manica suo padre. «possiamo fare qualche domanda alla signorina Morris?»

Dovevano essere stati educati molto bene, visto la cortesia che traspariva dal loro raffinato modo di atteggiarsi. La cosa mi lasciò stupita, perché pochi erano i bambini che chiedevano ai loro genitori di far qualcosa in quel modo così ben dolce e gentile. Paris si era comportata da bimba perfettamente cosciente della situazione, come se sapesse già che ci fosse un colloquio importante in esecuzione, e aveva chiesto al suo papà se poteva rivolgermi la parola. Non glielo aveva chiesto perché aveva paura di parlare, no, perché il signor Jackson la guardò stupefatto anch’egli.

«Se la signorina Morris lo vuole, certo che puoi», e mi guardò interessato. Ricambiai lo sguardo, come se fossi appena caduta dalle nuvole, e velocemente riposi gli occhi sulla bimba che mi studiava con espressivo entusiasmo. Le sorrisi allegramente.

«Sicuramente, puoi farmene quante ne vuoi!», risposi, ben preparata a quello che immaginato sarebbe poi avvenuto. I bambini avevano una cosa molto particolare e stupenda: erano capaci di farti domande schiette e sincere, richieste capaci di stupire ogni persona che si ritrova a rispondere; i bambini non formulavano le loro frasi valutando i pro e i contro della domanda con furbizia: loro chiedevano, ignari e innocenti, e si aspettavano solo che tu dessi loro una risposta sincera.

Paris sorrise, si sistemò più comodamente sul divano, sporgendosi più in avanti verso la mia direzione. Intuii che quella bambina non vedeva l’ora di rivolgermi la parola, quasi fossi per lei una coetanea della sua stessa età: tutto ad un tratto la sua serietà era diventata esaltazione.

«Come ti chiami, signorina Morris?», chiese come prima cosa.
Sorrisi con maggior ardore. «Puoi chiamarmi Sarah, Paris» risposi con la sua stessa schiettezza.

«Grazie», rispose educatamente sorridendo un po’ imbarazzata. «e quanti anni hai?»

Risi leggermente all’espressione del padre, che la guardò con titubanza. Poi si volse a guardare me con intensità, e solo allora riposi di nuovo la mia attenzione di nuovo verso la piccola bambina. «Ne ho 28». Ignorai la faccia del signor Jackson, ma mi sembrò che qualche dettaglio del suo viso avesse assunto una nuova espressione.

«Davvero?» disse incredula Paris, alzando un po’ le sopracciglia. «E quando compi gli anni?»

«Il 25 gennaio, e tu?», le chiesi incuriosita, per mostrarmi più disponibile a quella conversazione. Ero abbastanza consapevole della psicologia infantile, e non di certo grazie alla scuola. Io stessa comprendevo molto bene le sensazioni dei bambini.

«Il 3 aprile» rispose con allegria. Poi guardò il fratello e successivamente il papà. «Prince invece li fa il 13 febbraio, e papà il 29 agosto...»

«Davvero?», risposi alzando le sopracciglia mostrandomi entusiasta per quella curiosità. Nel mio atteggiarmi confidenzialmente, notai che Prince, l’altro bambino, non aveva un carattere piuttosto aperto con gli estranei; gli piacevo, questo sì, e lo notavo dal fatto che mi guardasse con adorazione, ma non voleva emettere parola. Probabilmente il suo era un carattere riflessivo e piuttosto chiuso; col tempo avrei tentato di capire se era per il fatto che fossi un’estranea o meno.

«E da dove vieni?», richiese la piccola.

«Be’, abitavo tempo fa a Las Vegas, nelle vicinanze della casa dove c’erano i bambini ai quali facevo da insegnante...», dissi, ma lei mi interruppe.

«Quindi se vieni a farci da nostra maestra verrai a vivere a Neverland con noi?»

Non capii inizialmente il riferimento a Neverland – l’Isola che non c’è – ma poi capii che il posto in cui mi trovavo era stato evidentemente chiamato così; i conti tornavano, visto la mezza scritta che avevo potuto leggere una mezz’ora prima, all’entrata di quel maestoso ranch. Non seppi che risponderle all’inizio, visto che non era ancora niente deciso, perciò optai a riferirle tutta la verità senza giri di parole.

«In realtà devo ancora decidere col vostro papà» - e mi riferii al plurale cercando di coinvolgere Prince, a cui lanciai un’occhiata e lui si fece molto più interessato di prima - «ma non penso che resterò qui. Troverò di sicuro un appartamento, qui vicino, così potrò raggiungervi senza troppa difficoltà...»

Paris stette in silenzio, e fissò il signor Jackson con fare molto eloquente. Lui la guardò di rimando e, accorgendosi del mio sguardo fisso su di lui, si affrettò a rispondere ai suoi figli.

«Paris, Prince, io credo sia meglio che ora vi assentiate...» disse loro gentilmente, posando le sue mani sulle loro spalle, «io e la signorina Morris dovremo discutere di tante cose, e fra queste decideremo anche dove andrà ad abitare, se gli accordi verranno fatti... più tardi, casomai, le farete tutte le domande che vorrete, ok?», chiese.

I bimbi annuirono e si alzarono in piedi dal divano; mi si avvicinarono uno alla volta, mi salutarono con le loro manine e se ne andarono, accompagnati dalla guardia del corpo che poco fa mi aveva guidato verso l’interno del villino. Osservai la popstar seguire con gli occhi i suoi figli fino a che entrambi non scomparvero dalla sua vista: il suo sguardo era pieno di adorazione e tenerezza nei confronti di quella piccole creature, tanto che sembrò illuminarsi perfino la più minuscola oscurità che poteva mai possedere il suo cuore umano.

Quando scomparvero alla sua vista egli mi osservò di nuovo; mi studiò per circa tre o quattro secondi, prima che spiccicasse parola. Ciò nonostante, questa volta non distolsi lo sguardo; capii che più mi stava lontano e più riuscivo a guardarlo in viso. Strano, vero? Eppure mi metteva nervosismo la sua vicinanza. Non per timore o ribrezzo, ma per imbarazzo e timidezza.

«Sono felice che tu abbia accettato venir qui per discutere del posto che ti vorrei offrire...», disse umettandosi il labbro inferiore e lanciando fulminee occhiate alle sue mani posate in grembo e al mio viso. Osservai con vigile attenzione ogni sua mossa.

Annuii e basta, e lui continuò, stavolta accennando di nuovo lo scoppiare di una risata. «In effetti, ehm... mi stupisce che tu non sappia chi sono...», e mi guardò ammiccando spiegazioni.

«Eh...», esclamai accennando una lieve risata intimidita e soffocata. Abbassai lo sguardo un secondo, successivamente lo fissai con maggior imbarazzo. «Liza Burton, la mia datrice di lavoro, non mi aveva accennato veramente alla sua vera identità... insomma, mi aveva detto che la proposta era arrivata da un certo ‘Michael Jackson’, ma non credevo fosse lei...», emisi nel frattempo che mi annodavo le dita delle mani innervosita.

«Ma non mi ha nemmeno riconosciuto quando le ho detto che ero Michael Jackson...», continuò alzando di poco un sopracciglio. Io lo guardai e pensai che mi stesse facendo parlare per capire se la mia reazione di poco prima era stata sincera o recitata. E io non amavo non essere creduta.

«Io sono una persona un po’ fuori dal mondo», dissi con tono serioso. «e non so niente del mondo dello spettacolo. Non uso la tv – se non per guardare film o serie tv o programmi che potrebbero arricchire la mia cultura – e non compro giornali scandalistici o altro; la mia vita si concentra solo sulla letteratura, sulla scrittura, sul cinema, sulla musica e su tante altre cose. Non so quanto si parli di lei in questo mondo, perché non mi è mai interessato nulla sulla sua personalità... al massimo avrò sentito qualche sua canzone, ogni tanto, in qualche negozio di Cd, ma sinceramente non ho ricordi di questo... riconosco solo il suo viso dell’album Bad, e dopo quell’aspetto non l’ho mai visto... che io ricordi...»

Il mio tono era stato così serio e determinato che ebbi paura, a fine discorso, di esser stata fin troppo dura; il fatto che mi irrigidissi non appena una persona mi credeva una bugiarda era un mio difetto, e col mio atteggiamento poteva sembrare che mi fossi comportata così per via della mia permalosità un po’ sconsiderata. Non ero tipa da mentire, anche perché non ero affatto brava a farlo. Le poche volte che lo avevo fatto, comunque, erano bugie piccole per, scusate il termine, salvarmi un po’ il culo; ma chi non le dice?

«E comunque, mentirle non sarebbe un gesto saggio... non conoscendo la fama e i mezzi di cui è a disposizione, chi mi dice che non potrebbe scoprirmi se mento? E tuttavia, comprendo il perché di quel suo sguardo così indagatore; teme che le stia mentendo, e fa bene a farmi quesiti e guardarmi in quel modo. Comprendo...»

Ok, probabilmente stavo andando un po’ fuori di testa, ma me la sentivo di dirglielo. Non per fare la buona samaritana o la saggia predicatrice, ma qualcosa – guardandolo negli occhi a calamita – mi aveva impedito di starmene zitta e cucirmi la bocca. Nonostante mi mostrassi sicura nella tonalità della mia voce, non nascosi il mio evidente nervosismo nella mia gestualità; incrociai le braccia al petto, e con la mano destra mi arricciai i capelli molto irrequieto. Parlare e dire tutto ciò che riguardasse quello che io ero nel profondo mi faceva sempre molto effetto, tanto che ero perfino capace di scoppiare a piangere per un nonnulla; scrivere ciò che pensavo non era difficile, ma quando dovevo dirlo a parole sentivo i sudori freddi salirmi dalla spina dorsale e in pieno viso.

Michael Jackson non distolse nemmeno un secondo dai miei occhi e io feci lo stesso con lui. Per quello forse mi sentivo così accaldata. Mi osservò perplesso – intensamente - preso da ogni dettaglio della mia espressività... più avevo continuato col discorso, più lui spalancava gli occhi meravigliato. Alla fine me lo ritrovai a fissarmi sorpreso, ma non meno attento di prima. Sembrava che lo avessi sbalordito, ma in fondo stava riflettendo alle mie parole. La mia energica determinazione non sembrò venir meno ad ogni modo; più qualcuno dubitava di me, e più io diventavo insistente.

Sorrise e alzò un sopracciglio. «Sei un po’ permalosa, vero?»

Avvampai. Sentii le mie guance farsi rosse e caldissime, e per un momento non fui capace di dire niente a mia discolpa. Mi sentivo colpita nel profondo, tant’è che per ripicca aggrottai un po’ la fronte. Lui scoppiò a ridere di nuovo e io mi feci ancora più piccola e intimidita.

«Non è per quello...», sussurrai. «Mi da fastidio quando qualcuno non mi crede... non lo accetto...»

Lui smise di ridere, e mi scrutò socchiudendo gli occhi, mantenendo un sorriso molto sottile. «Stai tranquilla, ti credo... era... per metterti alla prova, sai... devo stare bene attento a chi mi affido... a chi affido i miei bambini...»

Questa volta fu serio, e io lo guardavo con comprensione. Non sapevo quanto potesse essere famoso, ma di sicuro voleva essere molto prudente per garantire la privacy dei suoi bambini. Doveva essere un padre molto previdente, e sicuramente doveva aver ricevuto parecchie batoste per assumere un’espressione così triste. O voleva solo che alle sue meravigliose creature non si avvicinassero persone cattive, cosa che senza dubbio condividevo.

«Non credere che io non mi sia informata sul tuo conto... Liza è una mia amica, è la figlia di una delle vere e poche persone che mi sono state vicino. Sua madre è stata sempre pronta a starmi vicino, a consolarmi quando la stampa mi attaccava, a farmi da compagnia di giochi, a testimoniare la mia innocenza...», non capii molto quell’ultima frase, e infatti si fermò a osservare la mia espressione in dubbio. Rise senza divertimento, e mi lanciò un’occhiata sconsolata e triste. «Scommetto che non sa delle accuse sul mio conto, vero?»

Dissentii, sentendo un senso di angoscia nelle mie viscere non appena si rivolse a me con espressività tanto malinconica. Ero curiosa di sapere, visto che non ne sapevo una mazza di quello che lo riguardava.

«Be’, io per la stampa sono un pedofilo», disse.

Restai senza parole. Nella mia mente c’era il silenzio, e regnava il grave istinto di scoprire di più oltre quella misera frase. Se il mio capo era considerato un pedofilo non importava; l’importante era sapere se il mio capo era un pedofilo. Aspettai che continuasse prima di pensare a qualcosa di veramente tangibile.

Mi guardò, abbassò lo sguardo, e riprese, sofferente di ciò che stava dicendomi. «Tanti anni fa sono stato accusato di essere un molestatore di bambini, e ora, dopo dieci anni, un altro bambino si presenta alla stampa dicendo che io sono un pedofilo. Ora chiedimi... chiedimi se sono un... una persona così...», mi chiese con dolore, fissandomi negli occhi.

Senza aver capito in che situazione mi ero ritrovata ad affrontare, glielo chiesi. La mia voce era titubante, ma volenterosa della sua risposta. Non avevo paura di lui, ma più che altro ero intenta nel comprendere se lui stava mentendo o no. Temevo che la risposta sarebbe stata affermativa.

«No, certo che non lo sono!», esclamò con un certo tono disperato della voce. Si stava cercando di contenere, ma attraverso il volto e la tonalità di voce sembrava che parlare di quel fatto lo nuoceva più di quanto cercasse di nascondere. «Le persone si divertono a distruggermi... vogliono i miei soldi... vogliono rendermi un mostro, di fronte a tutti, senza alcuna pietà... mi hanno torturato per tanti anni, e fra un po’ è probabile che mi ritroverò ad andar contro a un processo penale che mi metterà in seria difficoltà... se non verrà fuori la verità, finirò in prigione, non rivedrò i miei bambini per tanto tempo...»

Sentii il mio cuore farsi piccolo, piccolo... non ero mai stata insensibile al dolore degli altri, anzi, e la sua voce era lo specchio di una sofferenza atroce. Un senso di pesantezza mi soffocava il respiro, e niente era così sensato nella mia mente che ogni parola che avrei potuto dire perdeva il suo significato. Ne soffriva sul serio, non stava mentendo... ovviamente il dubbio c’era ancora, ma in quel momento volevo provare a credergli. E la cosa non era poi difficile.

«Sono diffidente perché non voglio che le persone possano procurarmi ancora dolore, e soprattutto: non voglio che facciano del male ai miei bambini. Che mi uccidano, che mi impicchino o mi picchino fino alla morte... piuttosto che tocchino i miei bimbi, sono disposto a morire.», disse socchiudendo gli occhi e premendosi il palmo della mano destra sul cuore, guardandomi con intensità sbalordente. Io ero impotente in quel senso di forte sofferenza, tanto che per un momento me ne sentii così parte anche io che i miei occhi divennero lucidi.

«Perciò perdonami» esclamò dopo qualche secondo di silenzio, nel frattempo che io avevo abbassato gli occhi sulle mie ginocchia e la mia mente si svuotava da ogni ragionamento sensato. «Mi dispiace se ti ho offeso, ma capiscimi se ho dovuto metterti alla prova per capire quale sarebbe stata la tua reazione... non è facile per te, ma neanche per te dev’essere fidarti di me...»

Non lo guardai, ma dissi: «In realtà... in questo momento non so a cosa pensare...» - tornai a fissarlo - «non credo che sia così falso da mentire su un reato come questo, sebbene di persone brave e bugiarde ce ne sono parecchie... e non mi aspetto che lei si fidi subito di me, come lo stesso potrà valere per me. Ad ogni modo non mi sento di giudicarla, non ora, e nel mio caso la fiducia la si acquisisce vivendo. Perciò, nel caso decidessi di accettare questo lavoro e nel tempo cambiassi idea su di lei, come lei su di me, le nostre strade si divideranno così come si sono incrociate. Non sono persona che usa la stampa per diffamare, anche perché non saprei comunque a chi rivolgermi, visto la mia scarsa attenzione verso di loro...»

«Ha ragione...». Sorrise, lasciando per un attimo il dolore alle spalle. Feci lo stesso, e solo dopo che mi ebbe scrutato ancora un po’ batté entrambi i palmi delle mani sulle sue ginocchia, ed esclamò: «Il curriculum! Me ne stavo dimenticando...»

«Oh, non si preoccupi!», esclamai, prima che lui si alzasse in piedi. «Ne ho una copia nella mia borsa, aspetti...», e con agilità rovistai nel casino della mia borsa nera.

Lui si accomodò meglio sul divano e attese. Non sto nemmeno a dire quanto mi sentissi in soggezione in sua presenza, perché è scontato. Presi quel dannato insieme di fogli e glieli diedi in mano ferma e convinta. Lui lo guardò, e successivamente mi fissò con serietà.

«Questo non è un curriculum...», disse.

Subito mi sentii male. Cominciai a farmi un sacco di congetture mentali, della serie: “Oh mio Dio, che cacchio di foglio è?”, “Che diavolo ha letto?”, “Oh cazzo!”, e aspettai che me lo ridesse in mano. Ero agitata e arrossita peggio di quanto avessi mai immaginato. Non appena lo avrei avuto sotto i miei occhi, lo avrei squadrato e... si mise a ridere. Michael Jackson sghignazzò sotto il mio sguardo attonito e confuso.

«Scherzo, non ti preoccupare...» esclamò riguardando il curriculum e ignorandomi. Non tornò serio, ma lo lesse con un sorriso soddisfatto. Io, nel frattempo, mi sentii sollevata e allo stesso tempo desiderosa di mandarlo a quel paese. Mi aveva fatto prendere un infarto, e per cosa? Perché per la seconda volta – anzi no, per la prima – mi aveva giocato. Evviva!

Mi sembrò che il tempo non passasse mai; stetti a guardarlo leggere con attenzione, finché non lo vidi tornare a me e passarmi un’occhiata esaminatrice per l’ennesima volta. Il colloquio vero e proprio era iniziato.

Si fece serio, si umettò il labbro inferiore abbassando lo sguardo, dicendomi: «Perciò... dispone di un “diploma, laurea in lettere con il massimo dei voti e varie specializzazioni in fatto di letteratura e lingua inglese, francese, spagnolo e italiano”. È americana?»

«No, sono italiana di madre lingua. Be’, immagino lo stupore, visto che di italiano nel mio nome c’è solo Sarah...» - e, al seguito di un mio sorrisino, ridacchio piano - «ma sono qui da quasi undici anni. Ho frequentato la Harvard, nel corso per diventare insegnante, e da lì – ottenuto la laurea – ho eseguito corsi per le lingue.»

«Mmh-mmh...» annuì guardando il curriculum, «non mi meraviglio perché Liza ti abbia scelto... hai ottenuto il massimo dei voti in tutte le materie? Comprese quelle in cui non sei specializzata?»

«Sì», risposi.

«Perfetto. Oltre all’esperienza in casa Burton, ha avuto altri lavori?»

E così gli spiegai per filo e per segno la situazione. Non sto qua a riportarvi tutta la nostra discussione, perché sarebbe solo noiosa da leggere. Ma di certo non era noioso il modo in cui mi guardava. Non riuscivo a fissarlo per più di un minuto senza perdere la concentrazione. Era terribile, sentirsi sempre sotto osservazione e non avere libero controllo delle tue azioni. Io che di solito mi imbarazzavo se qualcuno mi fissava costantemente sapevo bene la tensione che provavo.

Una volta che quel discorso sulla mia condizione istruttiva finì, non mi sentii affatto più libera. Lo vidi per l’ennesima e ultima volta guardare il curriculum, si umettò il labbro inferiore, e con gentilezza me lo porse di nuovo. A dire il vero, avevo paura su cosa mi avrebbe detto. Avrei lavorato lì oppure no? Era soddisfatto dalla mia istruzione? O necessitava di qualcun altro con più esperienza nel campo?

«Pensi di riuscire, uhm... nello scopo di aiutare i miei figli?», chiese pensoso, osservandomi.

Un attimo di silenzio. Abbassai lo sguardo sul mio curriculum, aggrottai le sopracciglia, e presi un forte respiro. Lui attese con pazienza la mia risposta, cosa che avvenne solo cinque secondi più tardi, mentre io cercavo le parole adatte da dire a una domanda così particolare e inaspettata.

Di certo non si poteva dire che fosse una persona priva di sorprese.

«Non posso essere sicura di niente» dissi alzando lo sguardo verso di lui «posso solo provare a fare del mio meglio. Non mi considero un’eccellenza in quello che sono, e se un giorno lei o i suoi bambini vi stuferete dei miei metodi di insegnamento e di, uhm... o non ci saranno progressi nell’istruzione dei suoi figli, allora mi riterrò incapace di riuscire ad aiutarli. Fino ad allora non do nulla per scontato, ecco...»

La mia voce era quasi un sussurro, ma non era indecisa o titubante. Mi toccavo i capelli come era mio solito fare quando ero nervosa e, senza badarci, mi resi conto di cominciare ad avvampare ad ogni parola che pronunciavo.

Quando finii quel mio lungo teorema sulla domanda fatta, cadde il silenzio. Lo guardai studiarmi con interesse, umettarsi il labbro inferiore e socchiudere gli occhi. Dopodiché sorrise. Sembrava soddisfatto di ciò che avevo detto, e la cosa riuscii per un attimo a farmi sentire meno tesa.

«Allora ci vediamo domani, che ne dici?», chiese con un risolino derivato alla mia espressione stupefatta. «Non ti dispiace iniziare il mercoledì, vero? I miei bambini sono estasiati all’idea della scuola, tanto che difficilmente accettano l’idea di perdere le lezioni...»

Wow, io ne avrei fatto volentieri a meno, tanto tempo fa..., mi dissi.

«No, no, per me non c’è nessun problema!», esclamai con fare più energico.

Entrambi ci alzammo in piedi, si avvicinò al divano nella quale ero seduta e mi strinse la mano. «Ti dispiace se le faccio firmare il contratto domani? Ero così impegnato che mi sono dimenticato tutte le carte, oltre che il tuo curriculum...», chiese in tono più leggero e soffice.

«Non si preoccupi, nessun problema...» - e si sciolse la stretta di mano. - «grazie di cuore...»

Sorrise. «No, grazie a te...»

Rimase a fissarmi per qualche secondo ancora di più, ma non espresse parola. Io presi la borsa che ancora stava poggiata sul divano e lo scorsi ancora intento nello scrutarmi. Quanto avrei dato per sapere il perché di quelle attenzioni così strane e allo stesso tempo così... fastidiose?

«Vieni», si scosse, discostando il viso verso l’uscita del salotto. «Ti accompagno...»

«Non serve, non si preoccupi... mi ricordo la strada», dissi senza esitare. «Non c’è bisogno che si disturbi troppo, davvero...»

Mi guardò sbigottito, quasi confuso, ma sorrise. Annuì e si umettò di nuovo le labbra. Si dondolò per qualche secondo sulle punte dei piedi come un bimbo, mi osservò, e di seguito guardò i suoi piedi. Tutte quelle pause mi mettevano un po’ di timore... non sapere che cosa pensava mi faceva paura. Ed era strano, perché solo con lui succedeva... da tanto tempo avevo dimenticato l’opinione degli altri su di me, e risentire quella sensazione sulla mia pelle non era per niente piacevole.

«Allora, a domani...», dissi per interrompere il silenzio. Lui m’osservò di nuovo e annuì, senza emettere risposta. Arrossii senza motivo. «Grazie ancora...»

Mi diressi verso la porta d’uscita e, nel mezzo di aprirla, mi sembrò sentirlo parlare. Mi voltai, spaesata, e lui sembrò risvegliarsi dalle nuvole. Fece un espressione del tipo: «Che c’è?», e imbarazzata non seppi che dire. Sorrise nuovamente, così accennai a un sorriso intimidito e questa volta – lo giuro – lo sentii chiaramente dire:

«Arrivederci... Sarah».

Mi bloccai con la maniglia impugnata nella mano, nell’atto di aprirla, e voltai il capo per la seconda volta: «Arrivederci...», dissi, e dopodiché me ne uscii senza avergli dato un’ultima e profonda occhiata.

Sinceramente, ero troppo irrigidita per potermi voltare indietro - troppo persa nel vuoto della mia mente che si liberava velocemente di ogni pensiero ansioso di dosso -, per dare un’ultima guardata a quella grande casa di favole e fiabe.










Chiar@95
00mercoledì 29 giugno 2011 20:00
Non avevo mai commentato la tua ff ma devo dire che è stupenda...
Stai tranquilla,io ho postato dopo 3 mesi,ed infatti ora non legge nessuno..te sei molto più fortunata di me..
Continua presto...
Ciao. con affetto...
Chiar@95...
tati-a4ever
00giovedì 30 giugno 2011 15:08
Re:
Chiar@95, 29/06/2011 20.00:

Non avevo mai commentato la tua ff ma devo dire che è stupenda...
Stai tranquilla,io ho postato dopo 3 mesi,ed infatti ora non legge nessuno..te sei molto più fortunata di me..
Continua presto...
Ciao. con affetto...
Chiar@95...



Ciao Chiara! :)
Innanzitutto, grazie per la tua attenzione verso la mia storia e grazie per i complimenti, sono contenta che tu abbia apprezzato questa mia storia e mi auguro che lo farai anche in un futuro!
Sai, ho fatto più o meno lo stesso discorso che ora sto per fare io a te ora proprio qualche giorno fa, ad una mia amica che come noi due scrive. Mi raccomando, voglio che leggi con attenzione, e poi deciderai tu che cosa pensare di ciò che ti ho scritto (:
Per prima cosa, non significa nulla il fatto che le persone recensiscono o meno: il commento è una conferma della loro lettura, un motivo in più per noi per farci sentire amate e stimate... ma credimi, non penso che chi non commenta non legge! Anzi, magari queste silenziose persone aspettano solo che tu continui.
Te lo dico io che, l'ultimo capitolo pubblicato qualche giorno fa proprio riguardante questa storia, non ha ricevuto i commenti che avrei sperato ricevere. Eppure ci sono persone che leggono, me lo ha detto una persona che mi è vicina, ma non mi ha detto i loro nomi.
Io penso che tu non ti devi abbattere, e che - per quanto contino le recensioni e i complimenti, che sono molto importanti anche per me - devi innanzitutto cominciare ad amare la tua storia come se fossi una tua fan. Devi essere fan di te stessa, amare la tua storia e continuarla anche se gli altri non recensiscono, se davvero la ami, perchè se a te piace lo stesso non devi mollarla. Non puoi fare qualcosa per gli altri, scrivere per essere amata e stimata dagli altri se non ti mostri più devota a te stessa, e cominci ad apprezzarti senza il bisogno di sentirsi amata necessariamente dalle altre persone.
So che ti sembra un metodo difficile da mettere in pratica, e ti dico che non è stato semplice neanche per me: mi ci sono voluti mesi per cominciare a fregarmene degli altri, e ora se commentano o no non mi importa. L'importante - ricorda sempre - è piacersi: quando cominciano a piacerti le cose che fai e cominci ad amare con tutta te stessa la tua storia tutto sembrerà più facile da superare; anche se potrebbe non piacere a nessuno e la possono considerare ridicola, non importa: tu sii fiera del lavoro che stai facendo, stai maturando, e di' a te stessa che diventerai molto più brava, e che imparerai a mettere il cuore e l'anima in ciò che fai.... ma non per loro, per te.
Anche a me i complimenti fanno molto piacere, non sai quanto... però amo ciò che faccio - ho imparato a farlo anche se non ricevo metodo - e se delle volte mi butto giù penso ai progressi che sto facendo per arrivare a stimare me stessa senza necessariamente l'aiuto degli altri. Vedrai che quanto comincerai a essere orgogliosa e felice di ciò che fai, arriveranno le sorprese... proprio quando non ti aspetti nulla. :)
E ora ti lascio con un grande bacio, spero di esserti stata in qualche modo d'aiuto... non abbatterti, sono sicura che c'è qualcuno fiero di te, anche se non dice nulla [SM=g27822]
Ti voglio bene! [SM=x47938]
Dayna87
00venerdì 1 luglio 2011 18:41
Ciao tati! [SM=g27822]
Che bello questo capitolo!Ho apprezzato molto il loro dialogo,Sarah è stata brava nelle sue risposte [SM=g27817] adesso sono curiosa di leggere come se la cava con i bambini [SM=g27827] .Brava,scrivi molto bene [SM=x47932] .Al prossimo capitolo. [SM=g27828]
tati-a4ever
00venerdì 1 luglio 2011 20:11
Re:
Dayna87, 01/07/2011 18.41:

Ciao tati! [SM=g27822]
Che bello questo capitolo!Ho apprezzato molto il loro dialogo,Sarah è stata brava nelle sue risposte [SM=g27817] adesso sono curiosa di leggere come se la cava con i bambini [SM=g27827] .Brava,scrivi molto bene [SM=x47932] .Al prossimo capitolo. [SM=g27828]



Ciao Dayna! [SM=g27838]
E' un piacere rileggere un tuo commento! [SM=g27823]
Sono felice che tu apprezzi Sarah, è il personaggio più autobiografico che abbia creato, e perciò ne sono molto orgogliosa. Mi auguro che col passare dei capitoli lei e le situazioni cominceranno a prenderti di più, ne sarei veramente contenta (:
Aggiornerò presto, e vedrai come se la caverà con loro [SM=g27822]
Grazie per i complimenti, ti voglio bene, [SM=x47938]
Ambra
Dayna87
00venerdì 1 luglio 2011 22:00
Re: Re:
tati-a4ever, 01/07/2011 20.11:



Ciao Dayna! [SM=g27838]
E' un piacere rileggere un tuo commento! [SM=g27823]
Sono felice che tu apprezzi Sarah, è il personaggio più autobiografico che abbia creato, e perciò ne sono molto orgogliosa. Mi auguro che col passare dei capitoli lei e le situazioni cominceranno a prenderti di più, ne sarei veramente contenta (:
Aggiornerò presto, e vedrai come se la caverà con loro [SM=g27822]
Grazie per i complimenti, ti voglio bene, [SM=x47938]
Ambra



Ambra, aspetto impaziente![SM=g27828]Un forte abbraccio cara [SM=x47938]


tati-a4ever
00domenica 24 luglio 2011 16:17
Eccomi di nuovo... *sospira* Finalmente ho trovato il tempo per pubblicare anche qui!
Mi auguro che il capitolo sia di vostro gradimento. (:



CAPITOLO TRE
I bambini sperduti


A scuola, si è insegnato una lezione e poi dato una prova.
Nella vita, si è dato un test che vi insegna una lezione.
( Tom Bodett )



Non mi definisco un’insegnante nel vero termine della parola. Per dirla meglio, non mi definisco una maestra che fa il suo lavoro e, una volta finita l’ora di lezione, se ne torna a casa come se fosse niente, felicemente soddisfatta per aver spiegato tre o quattro cose nuove ai suoi alunni. Per me il termine ‘maestro’ è molto più di una semplice persona che fa imparare ai propri studenti il programma scolastico dell’anno.

L’insegnante è colui che cerca di interagire con chi si trova dinanzi, che cerca di instaurare un rapporto di rispetto reciproco e allo stesso tempo di divertimento senza che mai venga sottovalutato – senza che nessuno dei presenti sia sottovalutato; è colui che da lezioni non solo legate alla scuola, ma anche alla vita e alla crescita morale di ogni singolo soggetto.

Diciamo che per me l’insegnante è simile a un maestro che guida le anime altrui a trovare una propria strada, ma non perfettamente uguale. Quest’ultimo ha allievi che pendono dalle sue labbra ogni qual volta che parla, non aspettano altro che le sue pillole di saggezza e esso si dimostra a loro con umiltà e intelligenza fortemente intrigante; ha voglia di portarli a un cammino migliore, verso una via molto più luminosa di quanto possa essere la vita in sé. Da ai suoi allievi le morali di ciò che lui ha imparato dalla vita, li aiuta a guardare con amore anche le situazioni più dure e complicate, portando così più cuore in uno solo.

Be’, più o meno penso che il vero insegnante debba atteggiarsi così. Ovviamente non sarà mai come la grande guida spirituale, ma può dare molto più di ciò che crede di dover donare. Deve saper insegnare il valore della giustizia, della verità, della innocenza e dell’amore; deve intrattenere con allegria ma senza farsi mai mancare l’educazione; deve insegnare con il continuo desiderio di portare a chi lo segue concetti morali che potranno essere utili per il resto della vita, deve far capire che è importante mantenere la capacità di sognare e, soprattutto nei più piccoli, deve far continuare a creder loro quanto la fantasia sia un dono. Sto parlando di fantasia, non di illusione, sia chiaro. Sono due cose molto distinte.

Non molti capiscono l’importanza della conoscenza.

Quanto mi piace questa parola... conoscenza, proprio come la canzone di Janet Jackson. Questo termine non è solo legato all’istituzione, no, ma anche alle questioni di vita più importanti e profonde. Ogni persona – i più giovani più di ogni altro – devono sapere l’esistenza di certi valori affinché un giorno ne possano provarli e sentire che esistono davvero. Tutto questo porta poi alla conoscenza, che è la base della sensibilità di ogni singolo individuo. Proverò a fare un esempio...

Se a un bambino gli si insegna a maltrattare gli altri, quando farà le sue prime esperienze crederà che i suoi atteggiamenti siano giusti, e perciò le sue uniche conoscenze saranno quelle di schernire o trattar male chi gli sta intorno; questo permetterà al piccolo di non provare sensazioni più intense e pure, come l’amore e il rispetto altrui, e perciò rimarrà chiuso in un vortice di brutte emozioni che lo intrappoleranno per un bel po’ di anni verso una guerra interiore senza fine.

La conoscenza a scuola non deve riguardare solo le materie scolastiche, ma anche quelle sociali ed emotive. Ai bambini devono essere insegnanti i principi fondamentali di questa vita per trasformare questo mondo perverso e fuori controllo in un mondo migliore. Le lezioni servono per l’insegnamento, e ad ogni esperienza futura interverrà la possibilità di applicare l’insegnamento. Ovviamente ognuno sceglie che fare della propria vita e come reagire, ma credo che se si da un buon esempio c’è più possibilità che i bambini crescano con maggior sensibilità e bontà, che sono qualità necessarie per portare la pace in questo piccolo inferno.

E quale luogo può essere migliore della scuola? La scuola non dovrebbe essere noia e disturbo: dovrebbe essere per i bambini una fonte di conoscenza, una guida per il futuro.

Già... Ma sono altrettanto sicura che pochi insegnanti la pensano come me. O, almeno, davvero pochi tentano di applicare il proprio diploma, laurea ecc. seguendo la mia stessa via di pensiero. Non pensate che io non sia a conoscenza quanto è difficile portare a termine il mio compito, eh. Faccio del mio meglio per donare a quelli che sono i miei allievi gli insegnamenti più giusti e saggi che mai possiedo nel mio cuore e nella mia anima, e so che non sempre posso riuscire in tutto.

Molti anni fa mi sarei arrabbiata se non fossi riuscita in quelli che erano i miei obiettivi da insegnante, perché per me un sogno significa realizzare assolutamente quello che mi predispongo in testa a tutti i costi. Il mio compito è questo, in questa umana vita, e non riuscire in ciò mi ha sempre portato verso uno squilibrio emotivo terribile. L’impotenza mi fa sentire più inetta e debole di quanto non mi senta io molto spesso.

Insomma, si è capito che per me è di vitale importanza arrivare nel punto preciso che mi sono predisposta di arrivare, e se per qualche motivazione non ce la faccio, crollo.

Ma mi rialzo.

*

Mi ritrovavo davanti al cancello di Neverland, stavolta nella mia macchina, stavolta io come la guida e non come la passeggera ansiosa che quasi si strappa i capelli dal nervoso ogni volta che se li tocca. Potevo stare nel sedile anteriore della mia auto – Opel Astra color grigio metallizzato appena acquistata, per l’esattezza, dopo anni e anni di gavetta – e vedere in pieno il grande cancello dell’enorme Ranch senza dovermi agitare come una dannata e tirare il collo oltre il finestrino.

Era così bello che quasi riuscivo a distogliere lo sguardo di dosso; creato in ferro – o acciaio, quel che era – color verde bottiglia, è rivestito di magnifiche rifiniture oro. Al centro del cancello, uno stemma esclusivamente raffinato rappresenta due creature – un leone alla sinistra, con la corona in capo, e un unicorno alla destra – appoggiati uno di fronte all’altra su un emblema che non riuscivo a riconoscere perché troppo splendente e accecante a causa dei raggi solari.

Solo più avanti nel tempo avrei capito che quello era lo stemma Reale del Regno Unito.

Sopra il cancello, invece, oltre la enorme scritta “Neverland” a caratteri cubitali, c'è un altro stemma di cui avevo solamente intravisto la scritta ‘Michael Jackson’ e una enorme corona rossa e d’oro.

Mi ero presentata alla stessa ora nella quale mi ero presentata lo scorso giorno. Alla fine del colloquio non avevamo deciso l’orario, ma non so come un funzionario di Michael Jackson riuscì ad avere il mio numero e a telefonarmi, comunicandomi di presentarmi alla stessa ora di quel giorno l’indomani. Probabilmente lo aveva avuto da Liza Burton, la mia ex datrice: siccome era lei senza alcun dubbio che mi aveva ‘raccomandato’ al capezzale di Jackson, non era impossibile credere che avesse ottenuto il mio contatto da lei. Per cui ero diventata, alla fine, istitutrice dei figli di Michael Jackson. Solo qualche carta, e lo sarei stata ufficialmente.

Un uomo oltrepassò il cancello, lasciandolo socchiuso, e si avvicinò alla mia macchina. Come notai con mio enorme stupore, era lo stesso uomo di ieri. Lo guardai con silenziosa discrezione, e lui si avvicinò a me con sguardo serio e cupo. Nel frattempo che si diresse verso di me, abbassai il finestrino, pronta a sentire che cosa aveva mai da dirmi.

«Lei è la signorina Sarah Morris?», chiese non appena mi raggiunse, appoggiandosi con una mano sul finestrino abbassato. Mi squadrava da capo a piedi, e io feci lo stesso, sulla difensiva.

«Sì, sono io», dissi soltanto, anche se per la mente avevo la strana idea di domandargli se c’era qualcosa che aveva contro di me.

Se mi chiedete di descrivervi com’era, sinceramente non ricordo. Ero così interessata a sfuggirgli che me ne fregavo se fosse figo oppure no. Poteva anche essere Mister Universo, ma non mi sembrava comunque così propenso ad essere amichevole con gli estranei... e la sua sottile maleducazione mi istigava.

L’uomo prese un walkie talkie dalla tasca posteriore dell’enorme tuta blu che indossava, si allontanò un po’ da me e disse qualche incomprensibile parola attraverso quel magico oggetto. Stetti ad osservarlo impenetrabilmente, ad ogni gesto che compiva, e lui ricambiò con altrettanta risolutezza. Per un momento sembrò perfino stupito da quella mia intensità di sguardo.

«Vada sempre dritta» disse quando la conversazione al walkie talkie finì, «segua poi le rive del lago fino alla residenza principale, quella in cui è stata ieri. Presso il parcheggio troverà un assistente a cui custodirà la sua auto, e da lì prosegua dritta verso la villa».

Annuii, sebbene non del tutto convinta.

Certo che si era spiegato proprio male, eh.

Ci voleva un mago per capire quale strada corretta avrei dovuto prendere, e quel uomo di certo non aveva né la voglia né la pazienza di spiegarmi. Si allontanò dalla portiera, aprì il cancello e lasciò me e la mia auto passare.

Maleducato presuntuoso...

Proseguii impedita seguendo le indicazioni che mi aveva indicato. Improvvisamente vidi una strada che svoltava a destra, il quale orizzonte mostrava il lago; ci misi un po’ a capire se prendere la prima strada a destra o proseguire dritta, e decisi di seguire i consigli del tipo e andare sempre avanti. Un’altra strada a destra, poco più avanti...

«Eh no stavolta giro a destra, che cazzo!»

Non sto a spiegare né quanto tempo ci misi né quant’altra confusione riempì la mia testa, vi dico solo che alla fine dopo un bel po’ di tempo arrivai al parcheggio.

Un uomo – colui di cui doveva aver parlato il tipo del cancello – si presentò davanti alla mia macchina dandomi indicazioni di fermarmi. Scesi, presi la mia roba, e lasciai a lui – come mi fu detto – la custodia della mia auto. Mi disse di “proseguire per quella strada”, seguendo una piccola salita che mi avrebbe portato entro un paio di minuti – che scoprii non furono pochi, ma bensì un quarto d’ora – alla residenza del signor Jackson.

Inutile dire che, a parte il paesaggio meraviglioso che regnava incontrastato nel luogo, ero in netto ritardo. Sebbene le acque calme del lago, le spumeggianti fontane e l’immensità del verde davano una pace e tranquillità innata al mio cuore, nel più profondo della mia anima sentivo l’ansia scorrere attraverso il sangue. Sapevo di essere in ritardo, e avevo paura che – come primo giorno di lavoro – sarebbe stato un punto in meno a quella che era la mia professionalità. Se l’altro giorno avevo fatto una figura degna di una studentessa modello e maestra come si deve – o quasi - in quel momento ero sicura mi sarei sentita uno schifo. Odiavo tardare. Non mi piaceva non essere puntuale ai miei impegni, primo perché mi metteva nervosismo, e secondo perché mi sentivo poi un’idiota...

Sì, facevo molto in fretta a sentirmi inferiore agli altri. Non avevo molta autostima di me stessa. Non coglievo le buone cose in me, soprattutto quando e se facevo qualcosa di positivo, ma tendevo sempre a sottolineare ogni minimo difetto in me. Allora non mi apprezzavo del tutto, ecco.

Perciò arrivare in ritardo – tenendo conto del calibro della ‘personcina’ che era il mio datore di lavoro – mi faceva venir voglia di sotterrarmi sotto la sabbia. Sperai che qualche impegno ‘improvviso’ lo avesse trattenuto più del previsto, ma ciò era per il 70% impossibile.

Quando arrivai alla residenza, guardai essa per la seconda volta con meraviglia e gioia nel cuore. Era la più bella casetta che avessi mai visto... be’, più che casetta, era una villa. Non rinunciai a dire a me stessa, di nuovo, che era quasi più bella di una di quelle case o castelli che esistono nei cartoni Disney. Altro che capanna nel bosco della bella addormentata!

Con rapido passo mi affrettai a raggiungere la porta d’ingresso, trassi un respiro con l’addome e cercai di rilassarmi. Purtroppo per me, non vi riuscii in nessun caso: i miei nervi erano troppo tesi per pensare alla pace interiore. Suonai il campanello proprio vicino alla porta, in attesa che qualcuno venisse ad aprirmi. Sentii all’interno risuonare un trillo vivace, quasi troppo allegro per un campanello normale, ma improvvisamente ricordai che tutta quella casa era fatata…

Nel giro di qualche lungo secondo, una signora venne ad aprirmi la porta.

Era una donna piuttosto giovane – sulla trentina circa -, scura di pelle, dalla corporatura piuttosto curvilinea. Aveva corti capelli spessamente ricci e castani e occhi neri come il carbone; aveva delle labbra piuttosto carnose e un naso leggermente più grosso del normale. Era vestita normalmente, con un paio di jeans e una maglia a maniche lunghe e leggera color celeste.

A primo impatto, la considerai come una donna gentile e di bell’aspetto. Un’altra "qualità" che avevo era la capacità di non notare mai i difetti di una persona e scandalizzarmi ad essi. Per me ogni persona era bellissima e aveva una propria bellezza, perciò considerai quella signora – anche se magari non per tutti di gran bell’aspetto – di un certo intrigante fascino.

Sorrise gentilmente. «Lei è l’istitutrice di Prince e Paris, vero?», chiese non togliendomi gli occhi di dosso. Sembrava dolcemente incuriosita dalla mia persona.

«Sì, sono io...», risposi con voce sottile, annuendo leggermente. La prima cosa che pensai fu che fosse Jackson si fosse scelto una moglie o fidanzata davvero carina.

«Piacere», disse porgendomi la mano. «Io sono Grace Rwaramba, e sono la tata dei due bambini. Ma prego, entri... la stanno aspettando con ansia.»

E ti pareva che sbagliavo anche questa...

Mi fece entrare con un altro gran sorriso, e chiuse la porta non appena oltrepassai la soglia. Non ebbi il coraggio di chiedergli se fosse presente anche il signor Jackson, perché sembrai a me stessa un po’ troppo impertinente e maleducata. Con un delicato «Prego, mi segua...», non appena mi fui tolta il cappotto e lo ebbe appoggiato su un appendiabiti, mi condusse al primo piano attraverso una grande scala di legno scuro e lucido. Proseguimmo un corridoio alla nostra destra, un altro svicolo più in là a sinistra, e si fermò davanti alla prima porta a destra che incrociammo. Aprii e spalancò quel tanto la porta affinché potessi entrare senza fatica.

La prima cosa che mi colpì fu la freschezza e la pulizia di quella stanza, così straordinariamente bianca e arieggiata. Era una stanza dalle pareti bianche, con un terrazzo con le ante socchiuse che dava direttamente al giardino anteriore della villa – quello che non avevo ancora avuto la possibilità di contemplare – e la mobilia in legno chiaro. C’erano una libreria di medie dimensioni proprio sulla parete sinistra alla porta d’entrata, un grande tavolo di legno di tiglio proprio al centro della stanza con quattro sedie, un armadio con diversi cassetti, una lavagna di non immensa grandezza e una scrivania con innumerevoli ripiani. Non era un posto di sconfinate misure, ma tanto bastava per essere un’aula di scuola per soli due alunni e insegnante. Ed in più, a completare la bellezza della stanza, il pianoforte... subito ne sentii la più profonda delle attrazioni chiamarmi verso di egli, ma mi trattenni con intima e silenziosa forza interiore.

I due bambini, Prince e Paris, erano entrambi seduti su due sedie, con libri e quaderni già ben posizionati sul grande tavolo. Non appena mi videro mi salutarono con le loro piccole manine, sorridendo entusiasti del mio arrivo. Paris, soprattutto, sembrava felice di vedermi. Salutai loro di rimando con la mano, e mi sentii richiamare da dietro dalla loro tata.

«Vi lascio lavorare in pace ora, vado nella stanza dei bambini a controllare Blanket... il loro fratellino» disse specificandomi chi fosse vedendo la mia faccia perplessa al pronunciare la parola “Blanket”. «Il signor Jackson probabilmente verrà a farvi un salto al suo ritorno, fra un’ora e mezza circa...»

Grazie a Dio era fuori. Almeno non mi ero dovuta subire la figuraccia per quel mio pazzesco ritardo di ben 15 minuti.

Tuttavia, anche se in quel momento non era in casa, il nervosismo sarebbe venuto non appena si sarebbe presentato. Cercai di concentrarmi da quel pensiero, augurandomi che i bambini non gli avrebbero detto del mio ‘piccolo ritardo’. Non sarebbe stato un buon augurio di inizio lavoro per me una bella ramanzina da parte del capo.

Vi chiederete se mi fossi informata maggiormente su chi fosse Michael Jackson, allora. Chiunque sano di mente avrebbe acceso la connessione Internet appena arrivato a casa e cercato sul motore di ricerca Google i risultati al nome “Michael Jackson”. Ebbene, io non l’ho fatto. Perché? Primo: non avevo connessione Internet (non mi potevo permettere anche l’ADSL al momento, con l’auto appena acquistata), e secondo avrei offeso il mio orgoglio e "dignità personale" se solo in quel momento mi fossi ritrovata a cercar più cose al suo riguardo. Il fatto è che mi sembrava una cosa un po’ ipocrita, cercare più cose su di lui solo quando ero venuta a conoscenza della sua esistenza... non l’ho avevo cagato minimamente prima, ora mi mettevo alla ricerca di informazioni su di lui?

Lo so, sono un pesce fuor d’acqua. Anzi, no: sono strana e basta. Non mi meraviglio se mi prendete per pazza. Ma non sarebbe normale se io, al mio solito, non mi isolassi dall’opinione comune: mi comportavo sempre come la svampita di turno che cadeva dalle nuvole, perché in quell'occasione dovrei essermi diversamente?

Dio, vero anche che lo conoscevo di nome anche io il signor Michael Jackson, ma... ok, non ho scuse per quella che ero. Non ci potevo far niente se ero così bizzarra, era la mia natura...

Però ammisi a me stessa di aver pensato molto a lui, a quello che mi aveva detto... alle occhiate intense con cui si rivolgeva a me e, probabilmente, con tutti gli altri con cui aveva a che fare. Pensai a quando mi aveva detto che era un pedofilo... e non riuscivo a darmi risposta. Non sapevo dove trovare la risposta. E non nego che non darmi delle risposte era un’altra di quelle cose che mi mandavano letteralmente in bestia.

Ad ogni modo decisi di non pensarci, di ignorare quelle continue domande che invadevano la mia mente come una tortura inconciliabile. Di certo non sarebbe stato piacere lavorare con un molestatore, ma... ecco, non riuscivo a considerarlo uno così. Forse mi sbagliavo... speravo di non sbagliarmi...

«E mi raccomando, bambini, fate i bravi...», continuò la tata rivolgendosi ai piccoli con occhiata di benevole raccomandazione, risvegliandomi dalle mie riflessioni.

Loro annuirono, salutandola mandandole dei baci con le manine. Lei si agitò nel tentativo di prenderli e, una volta ‘catturati’, se li pose sul cuore. Sorrisi intenerita, e la salutai con un accenno del capo non appena chiuse la porta della stanza.

Fu così che mi ritrovai da sola coi bimbi. Come da retorica in tutti quegli anni di insegnamento da privato, mi avvicinai al tavolo, posai la mia pesante borsa e parlai a loro con un sorriso stampato in volto. Loro mi scrutarono con sereno interesse.

«Ciao Paris, ciao Prince», salutai ognuno, guardandoli uno alla volta.

«Buongiorno signorina Morris», dissero loro educatamente.

«Ah no, eh», dissi subito in tono simpatico. Loro mi osservarono stupiti. «Non voglio sentire nessun “Buongiorno signorina Morris” – mi fa sentire ancora più vecchia, in effetti...» - risero con delicatezza - «Chiamatemi semplicemente Sarah, al massimo “signorina Sarah”, ok? Va bene che sono la vostra insegnante, ma non esageriamo...»

Forse per via della mia espressione o la simpatica aria infantile, o forse per quella frase, loro si rasserenarono sul posto. Paris, più di Prince, mi sorrise mostrandomi tutti i dentini. Mi sedetti sulla sedia che stava a capotavola, presi dalla mia borsa una piccola agenda che mi sarebbe servito da “Registro di classe” e un nuovo quaderno vuoto, più il mio piccolo astuccio contenente più penne colorate di quanto dovesse possedere un’insegnante. Quando mi sedetti, presi un respiro, arricciai le labbra in un’espressione pensosa, e poco dopo qualche secondo spiccicai parola.

«Allora... siccome non so dove siete arrivati con il programma di quest’anno, ho bisogno che voi mi diate un piccolo aiuto... non possiamo partire con le lezioni, non oggi almeno, senza sapere che cosa devo fare per voi.»

I bambini mi guardarono e annuirono.

«Bene. Chi vuole iniziare a parlarmi un po’ di ciò che ha fatto fino ad ora a scuola?». Ovviamente non avrei preso in considerazione solo le loro parole, ma avrei di sicuro chiesto al signor Jackson maggiori informazioni su quella che era stata fin ora la loro capacità scolastica e i risultati dove erano arrivati fino ad ora.

Paris alzò la manina per prima, perciò le detti il consenso di parlare. «Ok, Paris, dimmi pure.»

«Io ho cinque anni, perciò faccio la prima...», disse con voce lieve. «La scorsa maestra mi ha insegnato un po' l’alfabeto... mi ha insegnato un po’ a scrivere... a leggere, e leggeva parecchio per noi... i nomi e le cose, poi abbiamo fatto i numeri, qualche piccolo problema, mmh... gli animali... e mi faceva giocare, qualche volta..! I giocattoli sono tutti dentro là, in quel cassetto!», e indicò l’armadio dall’altra parte della stanza.

«Ok, piccola... be’... penso che sia giusto che la tua maestra ti facesse giocare un po’. E quella delle storie non è una brutta idea. Penso di aver capito, comunque... Sarai una piccola alunna del primo grado veramente avanti col programma!»

Lei sorrise eccitata. Capii subito che non vedeva l’ora di andare avanti col programma, e perciò presi appunto sul mio nuovo quaderno che dovevo organizzare un istituzione che l’avrebbe fatta sentire più preparata. Finito col appuntare questi dettagli, mi rivolsi al piccolo Prince.

«Tu e la maestra invece che avete fatto, Prince?», chiesi in tono cortese. Lui mi guardò, abbassò lo sguardo sul quaderno che teneva fra le sue manine e parlò.

«Abbiamo fatto alcune frasi... soggetto e... predicato, mi sembra. Poi abbiamo iniziato le addizioni e le sottrazioni un po' difficili, e mi faceva scrivere testi con la musica o dettati...», e mi guardò con attenzione.

Gli sorrisi. «Ok, ho capito... non ti dispiace se oggi mi porto a casa il tuo quaderno, per darci una piccola controllata? Anzi, porto i quaderni di entrambi. Così controllo meglio cosa avete fatto fino ad ora e domani possiamo partire subito con la prima lezione, vi va?», dissi facendo loro l’occhiolino.

Annuirono e sorrisero felici.

Drizzai la schiena, scoccai un colpo sul palato con la lingua e feci una faccia così pensosa che sembrò buffa, tanto che feci sghignazzare un po’ i due bimbi.

«Allora, per oggi penso che sia importante dirvi che cosa faremo nei prossimi giorni... di sicuro non faremo mai delle cose pesanti e noiose – non voglio che per voi la scuola sia centro di sonnellini, eh» - e risero di nuovo - «perciò... con me imparerete non solo l’abc, ma anche molte altre cose importanti...»

Spiegai loro come avrei diviso le lezioni giornaliere, in base ai diversi programmi dei due bambini. In mattinata entrmbi si sarebbero dedicato all'inglese, la geografia e avrei dato loro qualche ora di disegno libero con le quali si sarebbero divertiti a espandere la loro fantasie con pitture, acquerelli e pastelli. Nel pomeriggio ci saremo dedicati alla matematica e alla storia con Prince, mentre con Paris l'avrei lasciata distrarsi con alcuni giochi istruttivi oppure l'avrei lasciata giocare all'aperto in compagnia di suo fratello piccolo e Grace.

Avremo di sicuro dedicato una mezz’oretta o un’ora nella lettura di un libro e inoltre detti loro la possibilità di scegliere in quali giorni, se inmattinata o in pomeriggio, avremo trattato l’argomento musica. Non appena dissi loro che avremo suonato insieme qualche canzoncina insieme gli occhi di entrambi si illuminarono di gioia. Con le loro vocine mi chiesero: «Davvero suoneremo qualcosa? Che cosa suoneremo?», e io risposi loro che avremo suonato ciò che loro desideravano di più imparare, ma cose tuttavia semplici.

Non solo c’avevamo il pianoforte in stanza, ma a quanto mi dissero avevano a disposizioni molti altri strumenti, fra cui tamburelli, triangoli, maracas, xilofoni e addirittura piccoli cembali.

«Suoneremo le canzoni di papà?», chiese Prince improvvisamente vivace.

Eh. Bella domanda.

Se avessi saputo qualche sua canzone almeno ad orecchio avrei tentato a procurarmi qualche spartito, in un modo o nell’altro, ma non ricordavo di aver niente che lo riguardasse neanche nei miei libri di musica. Ma come facevo dire loro che di Michael Jackson – il loro papà, per giunta... – non conoscevo nulla? Dopotutto, pensai, era meglio dire la verità che una bugia...

Incapace di rispondere al momento, Paris intervenne subito dopo il fratello. «Potremo suonare “The lost children”, vero? E dopo la faremo sentire a papà..!»

«Ehm... in realtà non conosco delle canzoni del vostro papà...» risposi sentendomi le guance infiammare dall’imbarazzo non appena gli occhi dei due bambini mi osservarono spalancandosi. «Però potete farmene conoscere qualcuna, la imparerò, la insegnerò a voi e dopo la faremo sentire al vostro papà, che ne dite?», dissi subito dopo cercando di rimediare alla magra figura appena fatta.

In effetti, suonare di fronte a Michael Jackson una sua canzone, senza che io ne sapessi lo spartito, mi faceva sentire completamente una cretina... forse era meglio che non avessi detto che ne avrei recuperato lo spartito... mi avrebbe risparmiato la preoccupazione futura di dovermi esibire di fronte a lui... e io non sarei morta a causa dell’imbarazzo...

«Non conosci “The lost children”?», chiese Prince ignorando la mia frase riparatrice alla mia figura del cacchio. Aveva gli occhi così sgranati che pensai credesse che io le stessi mentendo.

«Davvero?», ripetè stupita Paris. Rimase con le labbra semiaperte, guardò il fratello e insieme, con uno sguardo di feeling molto affiatato, mi squadrarono di nuovo. Mi sentii così sottomira che ebbi paura di quello che mi avrebbero detto più tardi. «Non è possibile che tu non la conosca... il nostro papà ha creato le canzoni più belle del mondo...!»

Ecco, ora anche i bambini mi trovavano una pazza.

«Chi è che ha creato le canzoni più belle del mondo?», intervenne una voce dall’altra parte della stanza con un risolino divertito. Tutti e tre volgemmo lo sguardo verso la figura che se ne stava presso l’uscio della porta, che senza bussare era entrato e udito – sperai non molto – la nostra accesa discussione. Ecco, ora si che mi sentivo male.

Michael Jackson se ne stava in piedi e fissava me e i suoi bambini con finta curiosità... certo, perché non poteva non aver udito la nostra conversazione. Chissà da quanto tempo era là che ascoltava!

«Papà!», urlarono entrambi i due bambini entusiasti. I loro occhi si illuminarono ancor più di prima e, in un batter d’occhio, scesero dalle loro sedie correndo ad abbracciare il loro papà. Lui si abbassò sulle ginocchia per farsi stringere da loro, e chiuse gli occhi non appena le loro sottili braccia si strinsero al suo collo. Fu una scena così dolce che il mio cuore, per un momento, si dimenticò di essere tormentato dall’imbarazzo.

«Papà!», disse Paris guardando il suo papà negli occhi. «La signorina Sarah non conosce “The lost children”! Ha detto che non conosce la tua musica!...», e così dicendo tutti e tre mi guardarono.

Ecco. In quel momento sentii le mie guance tornare a un color rosso fuoco, e le tempie bagnarsi dal sudore freddo. Mi sentii così male che desiderai di scomparire con un colpo di bacchetta magica, e la schiena era così molla che non ci avrei messo molto tempo se avrei voluto scivolare fin sotto il tavolo.

Ora che gli avevano detto quella cosa, mi sentivo veramente messa male.

«Davvero?», disse lui fissandomi con gli occhi spalancati e luccicanti da quello che definii un “silenzioso divertimento”. Mi fece un veloce check-up e non smise di osservare a lungo il mio volto, che sentivo diventare sempre più accaldato.

«Sì! Non sa le tue canzoni... non conosce quella canzone...», continuò Prince. Se avessero insistito ancora un po’, giuro che mi sarei alzata e sarei scappata di corsa da quella stanza. Non avrei resistito ancora per molto a quella situazione...!

«Mmh... male, male...», disse lui, umettandosi il labbro inferiore e alzandosi in piedi. «Allora mi sa che dovremo fargliela conoscere al più presto...»

«Sì papà! Gliela canti? Ce la puoi cantare?» disse Prince entusiasta, prendendolo per la mano. In confronto alla sua che era piccina, quella di suo padre era quattro volte più grande della sua.

«Dai, papà! Ce la suoni al pianoforte?» continuò Paris arricciando le labbra in un sorriso affabile e vivace. Lui guardò entrambi con intensità, mi guardò – io ero lo specchio di un fantasma – e con un sospiro e un altro sorriso rispose: «Perché no?»

I bambini assunsero un’aria che dire entusiasta era addirittura un termine troppo riduttivo. Presero il loro papà per mano, accompagnandolo verso il pianoforte, e solo allora mi accorsi di una cosa che non avevo notato non appena era entrato in stanza: si atteggiava in modo molto stanco, appesantito, e il suo sguardo diventava vacuo non appena i suoi figli distoglievano lo sguardo da lui. C’era qualcosa che non andava – lo si vedeva chiaramente, o almeno io lo vedo molto bene – ma siccome non erano fatti miei cercai di trattenermi dal domandarmi cosa gli fosse accaduto.

Il signor Jackson si lasciò portare fino al pianoforte dai suoi figli, poi, con fare un po’ affaticato ma ben celato agli occhi di Paris e Prince, si sedette sullo sgabello, lasciando spazio ad un posticino ai suoi bimbi, uno a destra e uno a sinistra. Mi lanciò un’occhiata di sfuggita, attraversandomi con lo sguardo fin all’interno delle mie interiora, e io, stranamente, non feci nulla per distogliere gli occhi. Solo dopo che mi ebbe ben squadrato e posizionato le dita sul pianoforte, con un lungo sospiro, per la gioia dei bambini suonò quella canzone per loro e per me, giovane inetta inesperta.

Qualche nota candida al pianoforte fece suonare i tasti delicatamente, dando il via alla canzone con un morbido intro. Subito sentii il cuore placarsi ai suoi tormenti, e le mie orecchie, sempre ben attente, si lasciarono trasportare all’ascolto della musica, in attesa che la voce di Michael Jackson venisse fuori e si elevasse nell’aria.

«We pray for our fathers, pray for our mothers, wishing our families well. We sing songs for the wishing, of those who are kissing, but not for the missing. So this one’s for all the lost children, this one’s for all the lost children. This one’s for all the lost children, wishing them well... and wishing them home»

Stetti con il cuore e la mente ben aperta durante l’ascolto. Udii le parole di Jackson, chiare e pulite come l’acqua, attraversare tutta la stanza in un batter d’occhio; ben presto divenni di nuovo inabile nel posto in cui ero seduta, silenziosa ma aperta ad ogni parola che la sua voce formulava. Quando la voce raggiunse l’interno del mio corpo la sensazione che mi giunse subito fu la dolcezza. Attraverso la tonalità delicata colsi la tenerezza, la soavità che credevo di non aver mai potuto udire prima d’ora. Sapevo che dal vivo la voce di un cantante poteva cambiare molto, e sebbene non lo avessi mai udito in un Cd – o almeno non avevo nessun ricordo di questo, in tal attimo – mi venne la pelle d’oca.

Non mi meravigliai che fosse uno dei cantanti più famosi nel mondo.

Al ritornello i suoi bambini si aggiunsero a lui, dando alla canzone ancor più amabilità di quanto già fosse da sola. Stetti a guardare Michael Jackson e i suoi figli cantare in completa sintonia, immersi nel mistico incanto qual era il loro legame. Il signor Jackson guardava i suoi figli con amore innaturale, dimostrandosi un padre più amorevole e affettuoso di quanto avessi mai potuto immaginare egli fosse. Prince e Paris guardarono attenti le mani del loro papà, delle volte discostando lo sguardo dritto negli occhi della loro guida, sorridendo e lasciando la loro testa appoggiata alle braccia del padre.

«Home with their fathers, snug close and warm, loving their mothers. I see the door simply wide open... but no one can find thee...»

Nel momento in cui questa strofa venne cantata, sentii i brividi attraversarmi la schiena, fin su... nella nuca.

La voce di Jackson, da prima morbida e vellutata, divenne a quelle parole più dolorante e sentita... roca. Sentii i miei occhi farsi lucidi, e non solo per l’immenso amore che regnava fra il padre e i figli; il dolore che Michael Jackson aveva fatto percepire in quelle parole finali, aggiunto al significato solidale e allo stesso tempo triste di quella melodia, mi fece sentire il cuore molto piccolo.

Di nuovo il ritornello tornò a farsi udire, e i bambini con esso. Michael Jackson, che fino a quel momento era rimasto concentrato sui suoi bambini, sul pianoforte e sulla canzone, mi osservò.

Io non amavo farmi vedere piangere, soprattutto nei momenti meno opportuni. Magari per un film potevo capirlo, ma non in certe situazioni. Tralasciando il fatto che si potesse pensare che non volevo che la gente mi giudicasse e perciò tento di trattenermi, cosa non vera, non mi faceva sentire tranquilla uno sguardo così profondo nei momenti più critici. Non che fosse uno dei momenti in cui non riuscivo a smettere di piangere, ma diciamo che nemmeno mi sentivo libera di provare a pieno quell’emozione di profondo rammarico per “i bambini sperduti”.

Non mi accorsi subito che lui mi stava osservando, perché il mio sguardo era puntato sulle sue grandi mani e sui tasti nelle quali le sue dita poggiavano. Le fissavo, eppure ero vuota, perché non riuscivo a pensare a qualcosa di concreto.

Quando mi accorsi dei suoi occhi su di me, gli sorrisi lievemente, incrinando le labbra in un sorriso stirato, e lui ricambiò con la stessa espressione, arrossendo un po’ sulle guance.

Grazie al cielo non ero l’unica che soffriva di attacchi di timidezza acuta.

Tuttavia non si bloccò ma sorrise con maggior gioia, suonando con maggiore passione di quanta ne avesse già utilizzata poco prima.

Ma poco dopo la melodia si spense, con leggerezza, cullando la mia mente verso fantasie al di fuori di me. Mi ritrovai sperduta, smarrita in una melodia senza tempo e meravigliosa, con la visione di un padre e i suoi figli abbracciati, e gli occhi velati da lacrime invisibili.





Dayna87
00lunedì 1 agosto 2011 00:55
Sarah ,ragazza mia non ne azzecchi una!! [SM=x47954]
Il suo incontro "educativo"con i bambini non è stato niente male, ha fatto in modo che l'atmosfera fosse più serena e divertente per loro(anche per lei [SM=g27827] )idea molto intelligente.Carinissima la parte di Michael al pianoforte cantando insieme ai bambini“The lost children”immagino la scena e ho i brividi anch'io,quanta emozione! [SM=g27836] Spero che piano piano Sarah riesca ad alleviare la tristezza che si porta dentro MJ.Deliziosa l'ultima frase che hai scritto:"Mi ritrovai sperduta, smarrita in una melodia senza tempo e meravigliosa, con la visione di un padre e i suoi figli abbracciati" ,che dolce! [SM=g27822]Tati, aspetto il seguito e ribadisco ancora la tua bravura nella scrittura ,complimenti. [SM=x47938]
tati-a4ever
00martedì 9 agosto 2011 18:47
Re:
Dayna87, 01/08/2011 00.55:

Sarah ,ragazza mia non ne azzecchi una!! [SM=x47954]
Il suo incontro "educativo"con i bambini non è stato niente male, ha fatto in modo che l'atmosfera fosse più serena e divertente per loro(anche per lei [SM=g27827] )idea molto intelligente.Carinissima la parte di Michael al pianoforte cantando insieme ai bambini“The lost children”immagino la scena e ho i brividi anch'io,quanta emozione! [SM=g27836] Spero che piano piano Sarah riesca ad alleviare la tristezza che si porta dentro MJ.Deliziosa l'ultima frase che hai scritto:"Mi ritrovai sperduta, smarrita in una melodia senza tempo e meravigliosa, con la visione di un padre e i suoi figli abbracciati" ,che dolce! [SM=g27822]Tati, aspetto il seguito e ribadisco ancora la tua bravura nella scrittura ,complimenti. [SM=x47938]



No, Sarah non ne azzecca una [SM=x47954] Sono felice che la parte al pianoforte ti sia piaciuta, dimostra che sono riuscita in parte nel mio intento [SM=g27828] Vedrò di spostare il capitolo successivo entro breve, non ti preoccupare [SM=g27819] Grazie di cuore per i complimenti, un bacione [SM=x47938]
movida7521
00mercoledì 10 agosto 2011 11:01
Ciao ho appena letto i capitoli
di questa meravigliosa FF
non ho parole per esprimere l'emozioni che mi hai trasmesso....
è dolce e vera....e forse per questo è anche molto toccante..
continua cosi...
un bacio
movida
tati-a4ever
00mercoledì 10 agosto 2011 18:49
Re:
movida7521, 10/08/2011 11.01:

Ciao ho appena letto i capitoli
di questa meravigliosa FF
non ho parole per esprimere l'emozioni che mi hai trasmesso....
è dolce e vera....e forse per questo è anche molto toccante..
continua cosi...
un bacio
movida



Ciao Movida [SM=x47938]
Ester (o lisanicole) mi ha parlato di te. Anche lei segue la mia storia, e quando mi ha detto che sono riuscita a trasmetterti qualcosa ne sono stata molto felice. [SM=g27819]
Continuerò presto, non ti preoccupare [SM=x47984]
Un bacione grande
P.S. Anche tu vieni da Pordenone? Io sono di Aviano [SM=g27811]
tati-a4ever
00venerdì 16 settembre 2011 16:33
CAPITOLO TRE
I bambini sperduti


Se non riesci a immaginare di essere Peter Pan, non sarai mai Peter Pan.
( Tinkerbell, "Hook - Capitano Uncino" )



Questa era la famiglia. Il concetto ideale di famiglia; genitori e figli legati assieme da uno dei più fantastici doni che la vita può donare ad ogni essere umano: l’amore. E non un semplice “amore”, no, ma quello di una inestimabile purezza e innocenza... l’amore incondizionato, quel semplice sguardo o abbraccio che può valere ben oltre ogni discorso o parola emanata da bocca umana. Un sentimento indissolubile di semplicità, candore ed energia puramente cristallina... il rapporto che ogni figlio vorrebbe avere col proprio padre o con la propria madre... ciò che un padre e una madre dovrebbero desiderare di possedere con la propria creatura... quell’amore che non tutti sono fortunati di avere.

E questo mi poneva delle domande.

Lui – Michael Jackson – era un pedofilo? Michael Jackson, il padre che ora vedevo abbracciare i suoi figli in quel modo così tenero e sentito, la star che lui era e che non avevo mai avuto la possibilità di conoscere e che io avevo la possibilità di vedere in tale intimo momento... lui era un molestatore di bambini? Lui, che accarezzava con dolcezza infinita le teste dei suoi bimbi e il suo respiro si emozionava al solo bacio di quelle creature divine, era uno dei più temuti e silenziosi criminali che il mondo possa mai possedere?

Improbabile.

Qualcosa mi diceva che chi pensava che fosse un molestatore, in realtà, non aveva mai minimamente provato a cercare di conoscerlo veramente. Non lo aveva visto come lo stavo vedendo io e studiando con tanto interesse. O forse coloro che dicevano che era un pedofilo volevano solo buttarlo sotto i riflettori con una delle accuse più gravi che si potessero dare, e solo per motivi d’invidia e gelosia (cosa di cui sinceramente non mi sarei stupita). Se lui possedeva anche quel minimo di tenerezza con cui trattava i suoi bambini quando si atteggiava con gli altri, allora il mondo si era rovesciato sul serio. Se quella sua bontà era reale e sincera, allora Michael Jackson era stato giudicato in modo troppo crudele da una popolazione che non era più normale e non sapeva più cos’era il buono e il cattivo.

«Ora è meglio che continuate la lezione, che ne dite?», sussurrò ai propri piccoli dopo averli baciati uno alla volta sulle loro tempie. Mi osservò, scusandosi con un solo sguardo, nel frattempo che anche i suoi bambini volsero i loro occhi verso di me implorandomi di finire la lezione in quello stesso istante. E io non volli di certo deludere le loro speranze.

«Oh, non si preoccupi», dissi con espressione eloquente, «io e i suoi bambini abbiamo finito per oggi... sono stati molto attenti e si sono comportati come dei bimbi veramente educati.»

Feci loro l’occhiolino, storcendo le labbra in un furbesco sorrisino, talché anche loro ricambiarono con gioioso e rigoroso entusiasmo. Il signor Jackson ridacchiò alle loro continue preghiere per andare a giocare nella stanza dei bambini, e alla fine lui permise – fingendo di far tante storie – di poter andare. Prima che si volatilizzassero, si voltarono verso me, mi salutarono con educata cortesia e se ne andarono, dando un altro bacino veloce al loro papà. Sia io che Jackson li guardammo scomparire oltre la porta aperta della stanza con lo sguardo.

Michael Jackson, che dapprima era inginocchiato, si alzò in posizione eretta. Scorsi in lui una lieve difficoltà in quell’atto, ma nascose il dolore socchiudendo gli occhi e stringendo le labbra e i muscoli per non emettere un sospiro affaticato.

Lo guardai con apprensione, chiedendomi cosa gli provocasse tutta quella fatica. Non era un uomo anziano, no... anzi, dal fisico sembrava in forma per avere... ehm... di sicuro non più di quarant’anni... o quarantacinque, al massimo...

«Uhm... mi dispiace non essere potuto essere qui ad accoglierla in anticipo, avevo un’importante impegno da fare...» disse osservandomi con le sue grandi iridi scure.

Accorgendosi della mia occhiata indagatrice fissa su di lui, sviò gli occhi e si mise una mano sulla spalla. Ttuttavia si avvicinò verso di me lentamente, un passettino alla volta.

«Non si preoccupi, anzi...», ed era meglio che fosse arrivato in ritardo, mi dissi, così almeno avevo evitato direttamente di fronteggiare il mio stesso ritardo direttamente con lui. Anche se, comunque, qualcuno glielo avrebbe detto lo stesso prima o poi.

Lui mi studiò, concentrato, ma capii subito che quel giorno aveva la mente altrove: il suo sguardo vacillava fra me e varie parti della stanza ambiguamente, e manteneva la schiena irrigidita. Intuii che il punto in cui teneva la mano fosse un posto in cui provasse molto dolore quel giorno, ma non volli parlare per evitare indiscrezioni o brutte figure. Mi dispiaceva per lui, ma non potevo impicciarmi dei suoi affari: avrebbe pensato che fossi una maleducata invadente. E io non lo ero.

«Oh», disse ad un certo punto, interrompendo il silenzio che stava diventando sempre più palpabile. «mi sono dimenticato il contratto... anche oggi... mi dispiace...», si scusò guardando velocemente verso me.

All’inizio non risposi, troppo persa nell’osservazione del volto. Aveva qualcosa di speciale... che nemmeno io sapevo definire... e allo stesso tempo era triste. Aveva un viso particolare – c’era qualcosa in lui che mi creava uno strano effetto all’interno del mio corpo, forse calore, forse gioia – eppure captavo che delle cose in lui non andavano. Sembrava depresso, malinconico... i suoi occhi erano attenti – non come il giorno prima, ovviamente – ma emanavo un senso di vuoto molto strano... sembrava che, quando non fosse distratto da emozioni più forti come l’amore o la contentezza, la luce che possedeva si spegnesse in un istante. Era espressivo, di questo ne ero certa, e io ero così attratta dalle emozioni che si scaturivano dai suoi occhi che cercavo insistentemente di capire che cosa provasse. Non ero convinta al cento per cento di aver ragione, ma credevo che in fondo era turbato.

«Non importa» risposi accennando ad un sorriso e sollevando le sopracciglia. «davvero, per questi giorni posso anche insegnare senza aver firmato contratto... sì, insomma... così potrà decidere se vado bene per questo ruolo con più calma, ecco...»

Lo ammetto, da una parte credevo sarebbe stato meglio firmare quel documento; sarei rimasta più sicura del mio posto e non mi sarei scervellata tanto sui costi che avrei dovuto effettuare o meno per risparmiare quel po’ di soldi che mi servivano per andare avanti... mentre dall’altra non ne avevo nessuna necessità... anche senza contratto avrei insegnato volentieri a quei due bambini... peccato che, se fosse stato così, avrei dovuto trovarmi un altro lavoro, e non sapevo come fare visto che loro due mi richiedevano quasi tutta la giornata. Come all’università, probabilmente mi sarei dovuta trovare un lavoro da cameriera nei locali serali o come suonatrice di pianoforte nei pianobar.

«No, no, io ho già scelto!» rispose lui in fretta e furia. «E tu sei perfetta per questo lavoro...!»

Sorrisi imbarazzata, abbassando lo sguardo. Non osai guardare l’espressione del signor Jackson, poiché l’unica cosa che mi venne da fare fu pronunciare un «Grazie» così sottovoce che temetti non lo avesse udito.

«Uhm...» disse lui, abbassando gli occhi umettandosi il labbro inferiore. Sembrava avesse il desiderio di voler continuare a parlare con me, benché all’inizio pensai stesse solo cercando un pretesto per parlare per poi farmi sloggiare rapidamente. «Come le sembrano i miei bambini?»

«Molto teneri», risposi senza indugio, sorridendo. Lui mi guardò fortemente curioso. «Li trovo molto attenti, e di sicuro non manca loro la voglia di imparare. Per quel che ho potuto scorgere di Paris, in questo piccolo colloquio e nella discussione di ieri, è molto tenace; sa quello che vuole ed è testarda... quando vuole imparare una cosa, mi sa tanto che non la ferma più nessuno... però è affettuosa...»

Michael Jackson annuì, sorridente, e toccandosi con il pollice e l’indice il mento disse: «Oh sì, Paris è molto determinata... ama molto ciò che riguarda la natura, soprattutto... le piace curiosare, non esita a qualche nuovo insegnamento... è molto aperta con chi decide di aprirsi, sì...»

«Prince invece tende più a essere pacato e silenzioso... dev’essere anche lui birichino, sotto, sotto, ma a vederlo – almeno in questi due giorni – non parla molto ma ascolta... è più... mmh... insicuro rispetto alla sorella, ma non per questo manca di volontà... ed è anche piuttosto acuto e osservatore...», continuai fissando il quaderno del piccolo che tenevo fra le mani.

Il signor Jackson per qualche istante non disse nulla, ma percepii che mi stava osservando.

Poi, poco dopo, parlò: «Sì, è vero... Prince è più introverso... ma anche lui è molto giocherellone, quando si mette... ha solo bisogno di aprirsi di più, tende a chiudersi... però è anche molto bravo ad ascoltare, come ha detto lei...» - improvvisamente si accigliò, corrugò la fronte e mi puntò dritto negli occhi - «Senti, uhm... posso chiamarti Sarah senza formalizzazioni?»

A quella frase mi sentii cadere dalle nuvole.

Cosa aveva detto?

Be’, per me non sarebbe stato proprio un problema... anzi, sì, lo sarebbe stato. E, facendoci caso, mi accorsi che alternava momenti di serietà a momenti in cui sembrava rivolgersi a me con amichevolezza e spensieratezza. Credevo che non amasse i rapporti troppo rigidi, ed invece preferiva qualcosa di più sereno e tranquillo, senza troppa inflessibilità e autorevolezza. Mi stupii molto, tanto che la mia espressione era così colpita che mi sembrava di avere gli occhi tre volte più enormi di quanto ce li avessi già grandi naturalmente.

«Sì, sì, non c’è problema...» esclamai annuendo velocemente.

Lui sorrise, osservandomi socchiudendo gli occhi colmi di una luce estremamente furbesca e divertita. Per un attimo lo trovai molto affascinante. «E tu, Sarah, » sottolineò con rigore, inebetendomi, «mi chiami Michael?»

Un attimo di confusione – il mio cervello divenne improvvisamente vuoto e i pensieri mi si svuotarono dalla testa. Ebbi un momento in cui le mie riflessioni andarono a farsi benedire, tanto che non capii più nemmeno dove fossi.

Ridacchiai imbarazzata, e dissi: «Eh... non sarà molto facile, in effetti...»

Alzò un sopracciglio, aspettando che continuassi. Voleva una conferma, e non un rifiuto.

Sospirai e abbassai lo sguardo. «Ci posso provare... anche se non approvo molto tutto questo...»

«Uhm... perché no?», chiese corrugando la fronte di nuovo. Si mise le braccia intorno alla schiena e continuò inesorabilmente a scrutarmi. Con un istantaneo aumento di lucidità, risposi che chiamare il mio capo con il suo nome di battesimo mi sembrava di prenderlo quasi sottogamba. «Non è una mancanza di rispetto se mi chiami Michael... almeno, a me non importa se può sembrare così... “signor Jackson” mi fa sentire anziano... e non mi piace sentirmi vecchio...»

«Preferisce rimanere sempre giovane?», domandai con gli occhi illuminati da un intimo divertimento.

Lui mi squadrò e, a labbra serrate in un sorrisino sottile, scoppiò in una delle più delicate risate che avessi mai udito. Con le orecchie ben tese mi godetti quel risolino fino a quando non scomparve, sorridendo insieme a lui senza capire il perché; abbassò lo sguardo, ma quando smise di ridere mi osservò a testa alta con un’occhiata di segreta e innocente felicità.

«Io sarò sempre giovane... io sono Peter Pan... e Peter Pan non invecchia mai.»

Lo fissai incredula, la bocca lievemente socchiusa e un mezzo sorriso ad incorniciare il mio volto sbalordito. Era davvero stupefacente.

Non conoscevo il perché, ma quella frase mi piacque parecchio: continuò a risuonare nella mia mente e nel mio cuore per tutto il resto della giornata, come ancora fa oggi, nel più profondo e intimo dei miei ricordi passati.

Michael Jackson, una star che diceva di essere Peter Pan, l’eterno bambino che vive nella sua Neverland assieme a “i bambini sperduti”.

Un bagliore di nitidezza, e solo allora trovai il collegamento a tutto ciò che prima mi sembrava senza un chiaro senso... “The lost children”, la canzone... Neverland Ranch, il posto in cui abitava... e ora il riferimento a Peter Pan.

«E’ una bellissima cosa...» sussurrai ancora stupita da quella frase. Sbattei gli occhi confusa, alzai le sopracciglia e mi sbilanciai in un sorriso emozionato. «Le auguro davvero di non perdere mai la fantasia e la capacità di sognare... senza di quella Peter Pan non esiste... e così tutti i bambini sperduti e Neverland...»

La mia voce scomparve. Abbassai gli occhi, intontita, e cercai di capire come mai fossi così sconvolta e percossa dalle sue parole... cominciai a chiedermi che cosa fossero per lui la fantasia e il sogno, che cosa fosse per lui essere “eterni bambini”. C’erano tante persone che soffrivano della “sindrome di Peter Pan”, eppure lui non sembrava soffrirne. No, lui ci credeva... credeva di essere Peter Pan, e di certo credevo che la sua non fosse una sindrome... non era malato, era semplicemente... stupefacente.

E io, a una limpida certezza come la sua, non potevo far altro che rimanerne piacevolmente catturata. Che lui forse sapesse cosa significasse rimanere bambini e non crescere mai? Perché è crudele il mondo se decidi di rimanere bambino... non ti capiscono... ma se avrebbe saputo che anche lui, come la sottoscritta, provava quelle emozioni? Non è facile rimaner illeso quando vieni giudicato per i tuoi comportamenti bambineschi. Perciò mi domandavo: che mi assomigliasse almeno un poco?

«Non è facile» disse lui, risvegliandomi completamente dai miei pensieri, «con tutte le persone che cercano di distruggere l’innocenza che c’è in te...», proferì leggendomi nel pensiero.

Non finì la frase, ma rimase con il respiro bloccato nella gola e lo sguardo perso verso il basso... gli occhi di nuovo svuotati da una sensazione che ora non sapevo a cosa si riferisse, ma che avevo ben intuito nel profondo del mio cuore... la pedofilia era una delle tante motivazioni.

«...però è l’unica salvezza.», conclusi. M’osservò con curiosità e io non abbassai gli occhi. «La fantasia salva... ripararsi nei sogni può sollevare il cuore, puoi cercare di mantenere la purezza... ciò che resta della tua anima... non è così? », chiesi a voce tremante, non aspettandomi comunque una risposta.

E la risposta infatti non arrivò. Restò a guardarmi, con le labbra di poco schiuse, ma con gli occhi sempre sorprendentemente puntati su di me. Non trovava risposta come poteva darsi anche che non riuscisse a darmela. Potevo leggere il disorientamento attraverso i tratti marcati e raffinati del suo viso.

Il silenzio piombò sulla stanza, e non ebbi più coraggio di enunciare altro. Nemmeno lui sembrava nelle piene facoltà mentali per decidere di continuare l’argomento.

Perciò, con il corpo disfatto come i vecchi meccanismi di un robot arrugginito, mi voltai verso il tavolo, controllai di aver preso ogni cosa con lo sguardo, e mi voltai di nuovo verso Jackson... cioè, verso Michael. (Nel profondo non avrei mai avuto il coraggio di chiamarlo solo Michael, non così velocemente per lo meno).

Lo fissai e, con un mezzo sorriso, mi feci coraggio e dissi: «E’ meglio che vada, ora... va bene se mi presento verso le nove di mattina o è troppo tardi?»

«Oh, ehm...», rispose riprendendosi dal fitto scorrere delle sue riflessioni. Abbassò lo sguardo, si pose un indice e un pollice al mento, toccandosi lievemente la fossetta. «In realtà... nel contratto avevo espresso chiaramente l’orario... ma ora non ricordo... penso che quell’orario vada bene...»

Mi fissò, di nuovo, ma cercai di ignorarlo. Risposi con un «Ok, grazie...», e mi diressi verso la porta mezza spalancata della camera, in direzione dell’uscita. «La... ti ringrazio, arrivede...»

«No, aspetta, ti accompagno...» disse prima che io potessi uscire dalla stanza e finire la frase.

Neanche avevo detto arrivederci che lui mi era già accanto. Era arrossito un po’ in volto. Io, da ottima codarda qual ero, preferii osservare la sua grande mano che apriva la porta e mi invitava ad uscire. Chiuse la porta dietro di sé, si posizionò al mio fianco e aspettò che lo seguissi.

Nel frattempo che proseguivamo lungo il corridoio verso le scale che portavano al piano terra osservai ancor più attentamente la casa e l’arredamento. Ero rapita da quell’ambiente magico e elegante, tanto che i miei occhi provavano piacere solo a guardarlo. Era una villa davvero spettacolare, e se quella era solo parte della casa, non volevo immaginare le ulteriori sorprese che poteva celare.

«Ti piace questa casa?», chiese Jackson, il quale evidentemente aveva notato il mio sguardo puntato sul luogo circostante. Sembrava davvero leggere la mia mente.

Lo guardai, e notai l’espressione incuriosita puntata su ogni dettaglio del mio viso.

«Oh, sì, è davvero bella...» risposi cercando di placare il mio entusiasmo. «è arredata in modo molto elegante ma allo stesso tempo... ehm, fiabesco, se così si può dire...»

«E ti piacerebbe vivere qui?».

Lo fissai. Il suo viso era neutrale, me lo aveva chiesto con nonchalance, eppure i suoi occhi erano illuminati dalla curiosità. Ebbi paura in quel momento perché - detto in quel modo - sembrava volesse provarci già da subito con una come me. Un flirt così su due piedi mi riusciva un po’ strano, soprattutto nei miei confronti, visto che non ero mai stata una conquistatrice di uomini.

Mi bloccai a metà della rampa della scala che serviva per raggiungere il pian terreno, e quando lui mi sorpassò di qualche gradino e capì che mi ero bloccata, mi guardò.

Si accigliò, spalancò gli occhi, e stette zitto per qualche secondo; successivamente arrossì, rimase con la bocca aperta e sussurrò: «Oh... oh...».

Sembrava che si fosse accorto del doppio senso che avevo inteso io. Con molta probabilità il mio viso era lo specchio dei miei sentimenti: delle volte ero un po’ troppo espressiva...

«Oh, non pensare che l’abbia detto in quel senso, no...!», esclamò arrossendo portandosi una mano sulla guancia, che stava quasi per bollire dall’imbarazzo. «No, no... il fatto è che la scorsa istruttrice viveva qua, stava coi bambini quasi tutto il giorno, e... pensavo volessi anche tu...»

«No, no, io ho già cercato una casa qua nelle vicinanze... non c’è nessun problema, in realtà!», esclamai ridacchiando. Lui stette ad ascoltarmi, di nuovo in sé e silenzioso. «Ho già chiesto in affitto una casa qua nelle vicinanze. L’ho letto su un annuncio datomi dalla mia ex datrice di lavoro, i quali proprietari di quella casa ora abitano in Florida, e quindi lasciavano questa loro seconda casa a disposizione per chi ne avesse bisogno... perciò non ho bisogno di vivere qua, davvero...»

«E dove abita?» chiese, nel frattempo che riprendemmo a scendere le scale.

«Los Olivos, ossia non molto distante da qui... perciò da lì a qui ci terrò... venti minuti al massimo.»

«Mmh-mmh...», annuì, pensoso. Ci stavamo avvicinando alla porta d’entrata, e sia lui e sia io stavamo rallentando il passo. «Per fortuna non abiterà molto lontano...»

«Grazie a Dio! Non ci tenevo proprio a fare una lunga strada e svegliarmi alle sei del mattino...», esclamai ridacchiando, mentre il ricordo della sveglia al tempo della scuola, tanti anni fa, si rifaceva vivo. Il modo in cui lo dissi fece ridere anche lui.

Presi la mia giacchetta che la tata aveva appoggiato agli appendiabiti poche ore prima e me la misi su; in California in inverno non c’era molto freddo, anzi, non pioveva quasi mai, perciò le temperature erano così piacevolmente miti che si poteva andare in giro anche solo con una felpa pesante. Quel giorno però, vestita con solo una maglia a mezze maniche, non era consigliabile per me uscire fuori senza il giubbotto: ero piuttosto cagionevole di salute, ci stavo pochissimo ad ammalarmi...

«Arrivederci, allora...» dichiarai sorridendo.

Lui ricambiò, lanciandomi un’occhiata penetrante diritta nelle iridi, e annuì salutandomi con le mie stesse parole. Stavo per aprire la porta d’uscita, oramai voltata di spalle, quando la sua voce mi spinse a girarmi di nuovo verso di lui. Non mi ero mai sentita tanto osservata in vita mia...

«Ti chiamo stasera per dirti l’orario di domani, ok?», pronunciò lievemente.

Lo guardai e annuii, incapace di dire ulteriori parole. Strinsi le labbra in un piccolo sorriso intimidito. Non ebbi nemmeno il tempo, lì per lì, di ragionare sulla sua frase e sul suo modo di parlarmi. Lui mi salutò con la mano, e aspettò che me ne andassi da dietro la porta della sua casa fatata prima di lasciare la posizione in cui era... immobile, con quegli occhi scuri puntati su ogni mio minimo movimento.


*


Sono in ansia, quello era il pensiero del momento.

Voi vi chiederete perché mai dovrei essere stata in agitazione. In effetti, non ne avrei motivo... me ne stavo a casa, sola soletta, nella mia indipendente intimità e privacy, con indosso un pigiama di chissà quale marca color bianco e lilla – bellissimo, il mio preferito per giunta –, con le gambe incrociate a farfalla, seduta sul divano del piccolo salottino di quel nuovo posticino in affitto, con in mano... un Cd di Michael Jackson.

Qualcosa non torna, eh? Avete ragione. Non ho molte scuse al riguardo e meno che meno le avrei avute in tal attimo, ma vi posso dire che lottai molto contro me stessa e i miei istinti per non comperarlo.

Finito il lavoro, quel pomeriggio - ancora con la mente nell’Isola che non c’è - mi stavo per dirigere a casa quando ebbi l’istinto irrefrenabile di andare a visitare un negozio di Cd. Ma a chi voglio darla a bere... no, in realtà dovevo andare in biblioteca.

Siccome sono una divoratrice di libri, avevo programmato di farci un salto per vedere cosa avrei potuto noleggiare. Mi ero informata bene sul posto grazie a una cartina comprata il giorno prima e avevo deciso di farci un salto. Alla fine non avevo resistito alla tentazione di prendere qualche libro, e avevo scelto “Uccelli di rovo”, un libro che non avevo mai letto prima, e un libro dei miei autori preferiti, Nicholas Sparks, “I passi dell’amore”. Quest’ultimo lo adoravo con tutta me stessa, e non era paragonabile nemmeno un po’ al film uscito due anni prima.

Comunque, non penso sia questo che vi interessi particolarmente... be’, dopo quel salto in biblioteca durato solamente mezz’ora – e dico “solamente”, visto che io di solito lì ci stavo un’ora e mezza abbondante –, tornando a casa, ebbi la fantastica idea di passare davanti a un negozio di Cd.

Credetemi se ho dovuto competere duramente contro la volontà di entrarci e il desiderio di tornare a casa.

Sì, sono una ragazza molto orgogliosa in certi casi... però alla fine sono entrata.

Non era un negozietto enorme – Los Olivos era un centro mediamente popolato, paragonabile a una cittadella qualunque italiana, poiché la maggior parte della popolazione se ne stava nei grandi centri urbanizzati come Santa Barbara, Beverly Hills e Hollywood.

C’erano però molti scaffali di Cd, e anche là io ero capace di spendere molto del mio tempo.

Come devo avere già spiegato, o forse no, non ricordo, i luoghi dove maggiormente amavo stare erano la biblioteca, i cinema e i negozi di dischi... tralasciando gli ambienti naturali, erano posti di cui non potevo proprio fare a meno di andare e perdermi.

Non appena entrai, un uomo di statura medio/alta, di mezza età, con folti baffetti e capelli cortissimi castano scuro, m’osservò oltre il bancone. Salutò con un «Salve» poco allegro e tornò subito alla lettura del suo giornale, che teneva appoggiato sul banco di legno chiarissimo. Non sembrava eccitarsi alla presenza di un nuovo cliente, probabilmente perché era uno dei negozi di Cd che vendevano di più nella cittadina. Ad ogni modo non mi interessai minimamente al suo stato emotivo.

Ero tentata dal chiedere subito se avesse Cd di Michael Jackson – dovevo anche andare a fare la spesa e controllare il quaderno di Prince e Paris per mettermi in pari con i programmi da far loro svolgere – ma la voce mi si bloccò in gola. Ero così imbarazzata di pronunciare il suo nome ad alta voce che ebbi perfino voglia di tornarmene a casa di filato.

Non pensate che avessi paura di far sapere agli altri che volevo ascoltare un suo Cd, piuttosto ero io con il mio stupido orgoglio a non avere il coraggio di dire a me stessa che quel Jackson mi cominciava ad interessarmi parecchio.

Tuttavia cercai nei primi scaffali di sinistra, ma subito mi arresi. Dovevo farmi coraggio e dire le cose ad voce alta senza aver paura di scalfire il mio orgoglio. E poi non avevo neanche il tempo per starmene come una rincoglionita lì e cercare in lungo e in largo i Cd di Jackson. Perciò chiesi.

«Mi scusi» esclamai attirando l’attenzione del cassiere. «avete qualche Cd di Michael Jackson qui?»

Lui aggrottò le sopracciglia, chiuse il giornale e rispose dopo averci pensato su: «Sì, purtroppo, e sarebbe anche meglio che un giorno di questi mi decidessi a bruciarli tutti...»

Rimasi sbalordita da quelle parole, ma non dissi nulla: non capii immediatamente come mai tutto quell’odio per Michael Jackson. Il signore mi squadrò, sbuffò al mio completo silenzio e si diresse verso uno degli scaffali più nascosti del locale. Lo seguii.

«Eccoli qua, tutti per lei...», disse suonando quasi sarcastico, tornando al bancone senza nemmeno degnarmi di uno sguardo. «Li prenda pure tutti... nessuno prenderà mai più un Cd di quel pedofilo...»

Lo guardai sedersi al bancone, freddamente. Quando si accorse che lo fissavo, mi osservò con uno sguardo che sembrava dirmi «Che c’è?». Lo guardai con impassibilità, pensierosa e un po’ delusa per quelle brutte parole dette, e lui discostò gli occhi da me facendo finta di niente. Era così crudele ciò che aveva detto, che sebbene non fossi affezionata in alcun modo a Michael Jackson ebbi l’istinto di dirgli di farsi gli affari suoi e di cercare di conoscere la verità prima di giudicare iniquamente.

Di certo quell’uomo credeva che lui fosse un pedofilo, ma sicuramente io non avrei fatto a meno di prendere un Cd di Michael Jackson per rimediare alla opinione che aveva su di me e sul mio datore di lavoro.

Mi voltai verso gli scaffali, cercando di ignorare le parole del tizio che rimbombavano sonoramente nella mia mente, e osservai le varie copertine dei Cd sperando di riconoscere la figura di Jackson. Lo riconobbi soltanto per il nome che si evidenziava in ogni copertina, in realtà, e per gli occhi. In uno c’era un Michael Jackson piuttosto giovane vestito in smoking bianco con sotto una vellutata camicia nera, disteso su un fianco, con il colorito sicuramente più scuro di quello che ora aveva: il Cd era “Thriller”. In un altro, invece, c’era un Michael Jackson più maturo, con la pelle chiara, vestito di nero e di borchie con vicino la scritta in vernice rossa che diceva “Bad”. Ed infine ce ne era un altro, dalla copertina grigia metallizzata dalla quale potevo ben distinguere i tratti del viso del signor Jackson, con un occhio digitalizzato in pixel: il titolo era “Invincible”.

Rimasi in dubbio. Non sapevo sinceramente quale scegliere. Ce ne erano parecchi – ogni Cd aveva più o meno sei o sette copie non vendute – e mi dispiaceva lasciarli là, quando sembravano addirittura abbandonati e isolati dai dischi degli altri cantanti. Non potevo comperarli tutti e tre, dovevo stare attenta ai soldi che spendevo, e tuttavia avevo una gran voglia di far dispetto a quel commesso spregiudicato. Decisi a istinto quello che mi ispirava di più al momento: l’originalità di “Invincible” mi costrinse a sceglier quel disco. Poi, però, mentre stavo per dirigermi alla cassa, sentii una strana forza magnetica attirarmi verso lo stesso scompartimento.

Alla fine, tra battibecchi mentali fra me e me, presi una copia di ognuno dei tre Cd presenti. Ma sì, mi dissi, che cazzo se ne frega! Non controllai nemmeno le tracce che c’erano: li presi e basta.

Perciò ora ero a casa, con il Cd “Invincible” in mano che non avevo il coraggio di inserire sul lettore Cd, e osservavo la copertina molto concentrata. Sembravo addirittura contemplarlo, tanto che in un momento riuscii a farmi paura da sola. Osservai gli altri Cd che avevo lasciato sul tavolino davanti di me. Quando li avevo presi tutti e tre, il cassiere del negozio aveva guardato quei dischi con odio... e io, intanto, ero soddisfatta di avergli fatto quel dispetto. Alla faccia sua!

Forse avevo sbagliato... forse con il tempo avrei scoperto che Michael Jackson era davvero una persona inaffidabile e orripilante... ma in fondo, detta tutta, non mi importava.

Ero sicura di ciò che avevo visto coi miei occhi quel pomeriggio, e nel caso avrei speso soldi e tempo per niente almeno potevo dire di aver provato a fidarmi della sua persona e di essermi affidata alla sua innocenza ingenuamente. Non mi piaceva giudicare prima di conoscere... non amavo i pregiudizi, sebbene talvolta ci cadessi anch’io in essi. Un sentimento dentro di me mi diceva che Michael non era poi tanto male, e che non era cattivo...

Ero arresa alla consapevolezza che li avevo comperati tutti e tre e non potevo tornare indietro. Il gioco era fatto. Ero stata così attratta dall’idea insensata di conoscere Jackson che mi ero lasciata abbindolare dalla proposta di comperare i suoi dischi senza esitare. O ero fusa davvero, o era una cosa che capitava a tutti coloro che nella vita conoscevano Michael Jackson.

Di sicuro, desideravo che lui non sarebbe mai venuto a scoprire che possedevo i suoi album... sarebbe stato davvero imbarazzante, e stavolta l’orgoglio non c’entrava nulla: ero timida. Straordinariamente timida. Non avrei voluto che lui trovasse quei Cd, anche se l’opportunità che venisse a loro conoscenza era assai improbabile. Non solo mi sarei sotterrata la testa sotto una montagna di sabbia come gli struzzi, mi sarei annegata nell'oceano Pacifico, altrochè! E non sarei stata più in grado di guardare Jackson in faccia con naturalezza alcuna.

No, no... non doveva venirlo a sapere.

Mi decisi a mettere il Cd sul lettore. Mi alzai sbuffando dal divano, ma alla fine lo inserii. Cliccai “play”, e aspettai che la musica risuonasse per la stanza inondandola con note nuove che non avevo mai udito in vita mia. Un rumore strano di marchingegni: strane tecnologie facevano il sound della prima canzone dell’album che scoprii si chiamasse “Unbreakable”; mentre questa melodia iniziava, mi sedetti sul divano, estrassi il libretto con le canzoni dal Cd e seguii le parole del testo man mano che la musica avanzava. Riconobbi la voce di Jackson subito, e ammisi che sentirla dal vivo era cento volte più eccitante che attraverso il disco. Non era neanche da paragonare.

Ascoltai con le orecchie ben aperte le canzoni che sentivo. Erano originali, e anche molto orecchiabili, e raggiungevano un sound nuovo e completamente inesplorato da alcun’altro artista. Mi piacevano a primo impatto - sebbene non impazzissi dall’eccitazione - e soprattutto apprezzavo le parole che ci metteva; io guardavo molto le parole delle canzoni, delle volte molto più approfonditamente della musica stessa, ancor più in quel caso se il soggetto principale da valutare era proprio Michael Jackson.

Udii solo le prime tre canzoni, purtroppo. A inizio della quarta canzone, “Break of dawn”, il telefono squillò.

Cazzo, esclamai ad alta voce, mentre nella mente riuscii a solo a dirmi che dovevo immediatamente chiudere quel maledetto stereo prima che finisse di squillare il telefono.

Che fosse Jackson o mia madre non lo sapevo – quest’ultima mi telefonava sempre dopo cena, quindi era anche pensabile che fosse lei -, l’importante era spegnere ed evitare che Michael Jackson – nel caso fosse stato lui l’interlocutore – venisse a scoprire ciò che io non volevo fosse scoperto.

Prima che potessi prendere un respiro profondo tirai su la cornetta. Avevo corso così velocemente verso lo stereo che addirittura sarei potuta andare a sbattere contro il tavolino. Perché, la sottoscritta sbadata, non sapevo nemmeno dove metteva i piedi spesso e mal volentieri...

«Pronto?», dissi con il fiato corto sia dall’emozione sia dalle gincane appena fatte.

Rimasi in attesa. Sembrò passare un secolo quando la voce di Michael Jackson raggiunse le mie orecchie, penetrandomi con il basso e delicato suono della sua voce.

«Sarah? Sono Michael...»

E io sentii sciogliermi inconsciamente, rischiando di far cadere la cornetta del telefono dalla mano.




Dayna87
00domenica 6 novembre 2011 07:22
Ciao tati! [SM=g27823]
«Io sarò sempre giovane... io sono Peter Pan... e Peter Pan non invecchia mai.» Questa frase mi ha commosso parecchio ,pensavo alla intervista fatta da lui ad Encino nel 83; era così dolce e felice lì [SM=g27822]
«Non è facile» disse lui, risvegliandomi completamente dai miei pensieri, «con tutte le persone che cercano di distruggere l’innocenza che c’è in te...»Oddio qui mi sono uscite le lacrime [SM=x47964] Quanto a dovuto soffrire il nostro Michael.
Continua a postare perchè voglio davvero scoprire cosa succederà adesso [SM=g27828] Scusa se non ho commentato prima . [SM=g27838]
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