James Brown, l'omaggio di Harlem al suo re
NEW YORK - Sul cancello di ferro verniciato di nero della villa circondata da un vastissimo parco che si trova vicino a Beech Island, a poca distanza dal fiume Savannah, nella romantica Carolina del Sud, qualcuno per bloccare l’accesso ha piazzato attraverso le sbarre una catena con un pesante lucchetto. Qualcun altro, evidentemente il vicino di casa, ha invece legato con un nastro al cancello un piccolo mazzo di rose scarlatte con cartoncino dove si vede l’artista che canta all’aperto davanti a un microfono. «Ci mancherai tanto caro vicino! Che Dio ti benedica! I Kuglars», ha scritto una mano di donna a nome dell’intera famiglia.
NIENTE FIORI PER IL PADRE DEL SOUL- Tutto qui. Per i funerali il padre (anzi, come lo chiamano in America i fans The Godfather, il padrino) del soul e dell’hip hop, morto il giorno di Natale ad Atlanta, a 73 anni per complicazioni circolatorie dovute a un attacco di polmonite, ha chiesto espressamente che non gli siano inviati dei fiori. Chi lo desidera, spiega un annuncio della famiglia, potrà spedire invece un’offerta alla fondazione da lui creata per aiutare i giovani musicisti. L’indirizzo per le donazioni è il seguente: «James Brown Music Education Foundation, P.O. Box 460487, Fort Lauderdale, FL 33346, USA». A Beech Island, come ha fatto a Graceland, nella sua residenza di Memphis il grandissimo Elvis, anche Brown avrebbe voluto trasformare la sua casa in museo. O almeno così sostiene Timi Rae Hynie, la corista che dal 2001 ha vissuto in maniera intermittente e tempestosa con lui, dopo un controverso «matrimonio» celebrato dentro la villa, e che dal cantante ha avuto anche un figlio di 5 anni al quale è stato imposto il nome di James Joseph Brown II. Ma il problema (e questo spiega il lucchetto con la catena davanti al cancello) è che gli avvocati di Brown - e forse anche il suo agente Charles Bobbit - la pensano in maniera diversa. «Il matrimonio della signora», insiste l’avvocato Albert “Buddy” Dallas, «non poteva essere valido per il semplice motivo che Tomy Rae nel 2001 risultava ancora sposata, con un pakistano da lei incontrato nel Texas nel 1997. Di conseguenza lei non è la signora Brown e non ha neppure diritto di entrare dentro la villa». Tomy Rae nega. «E’ vero – ammette – che negli ultimi tempi abbiamo vissuto un po’ separati, perché lui era senz’altro un uomo difficile e io mi sono dovuta allontanare per farmi curare la depressione. Ma non ci possono essere dubbi. Il matrimonio c’è stato e io sono la vedova. In quella villa ho pieno diritto di entrare perché è casa mia».
ESEQUIE IN CARROZZA AD HARLEM - Intanto, mentre gli avvocati di Brown e della 36enne ex-corista che i familiari del padrino del soul vorrebbero declassare da moglie a “compagna” affilano le armi legali a New York sono incominciate le esequie, che si prolungheranno per un paio di giorni e, anche senza le corone di fiori, secondo la moltitudine accorsa per l’estremo saluto, saranno «degne di un re» con tanto di carrozza e cavalli. La salma, dopo essere stata portata a New York da Atlanta in aereo è arrivata in effetti in carrozza poco dopo le 12 di giovedì (le 18 in Italia) nello storico teatro “Apollo” sulla 125esima strada, il cuore del quartiere nero di Harlem. Sul teatro una semplice scritta come quelle che annunciano abitualmente i concerti dice: «Rest in Peace Apollo Legend. The Godfather of Soul. James Brown 1933-2006». Riposa in pace, leggenda dell’Apollo e padrino del soul.
Dentro l’Apollo, con il suo sporco tappeto Bordeaux e i suoi candelabri di vetro ricoperti di polvere, vero teatro-leggenda fin dall’era remota del jazz dove ebbero inizio i trionfi di Ella Fitzgerald,
Michael Jackson, Stevie Wonder e dello stesso James Brown, la folla transennata sfila nella penombra, come nei funerali di stato. E’ un fiume di umanità, dove il nero non solo dei vestiti da lutto, ma soprattutto delle origini etniche, decisamente prevale sul bianco. Una folla di migliaia e migliaia di persone che non si conoscono, tutte accomunate dall’amore per una forma nuova di arte, che la critica istituzionale per lunghi anni aveva guardato con sufficienza o addirittura ignorato. Il fiume umano scorre in silenzio davanti alla bara senza fermarsi, a parte una pausa di soli 30 minuti per una prima cerimonia riservata ai familiari più stretti. Non c’è tempo per i discorsi e del resto è anche meglio così. Le liriche del Padrino hanno già detto tutto quello che c’era da dire. Incominciando da quel suo primo successo intitolato «Please, please, please» che era addirittura del 1956, la remota preistoria del soul, per passare poi a «Think», «Cold sweat», «Sex machine». Chi non era indebitato artisticamente con Brown? Si parte dai nomi storici, come quelli del già citato
Michael Jackson e dello ieratico Mick Jagger per arrivare all’ormai classico rapper Shawn Corey Carter meglio noto come Jay-Z, che dopo avere promesso di ritirarsi come già “vecchio” nel 2004, a 35 anni, ha appena lanciato il nuovissimo album “Kingdom Come” e ha venduto 680.000 copie in una settimana.
I MESSAGGI DEI POLITICI - Scontati erano i messaggi dei politici a caccia di popolarità, come quelli di Bush che dalla Casa Bianca ha manifestato cordoglio, del reverendo Jesse Jackson, figura storica della comunità afroamericana e un tempo candidato presidenziale, e anche del reverendo nero Al Sharpton, che in qualità di amico e consigliere di Brown sabato, dopo un funerale privato, lo ricorderà in una cerimonia nello stadio di Augusta, in Georgia, che di Brown era la “città natale adottiva”. Già perché il padrino afro del soul, anche se cresciuto in Georgia (dove era stato anche abbandonato dai suoi genitori) per l’anagrafe veramente era nato a Pulaski, nel Tennessee: la patria addirittura del movimento razzista degli incappucciati del Ku-Klux-Klan! Ecco un altro bel paradosso, che a James Brown sarebbe sicuramente piaciuto.
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