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Tumori : cosa è il mieloma, i sintomi e le speranze di guarigione

Ultimo Aggiornamento: 07/02/2024 21:02
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Tumori, il primo vaccino universale testato su tre pazienti in Germania. “Provoca una forte risposta immunitaria”
Tumori, il primo vaccino universale testato su tre pazienti in Germania. “Provoca una forte risposta immunitaria”
Scienza
Il vaccino è costituito da una capsula di molecole di grasso e contiene un cuore genetico, un piccolo Rna su cui sono scritte le istruzioni per attivare le difese dell'uomo contro il cancro. Il ricercatore Ugur Sahin: "Abbiamo un'evidenza clinica ancora limitata, ma i tumori hanno smesso di crescere dopo la somministrazione"
di F. Q. | 1 giugno 2016
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Un passo importante nella ricerca contro il cancro: è stato testato per ora su tre pazienti, tutti con melanoma in stadio avanzato, un vaccino potenzialmente universale contro i tumori. Ideato da esperti dell’università Johannes Gutenberg a Mainz, in Germania, il vaccino è costituito da una capsula di molecole di grasso e contiene un cuore genetico, un piccolo Rna su cui sono scritte le istruzioni per attivare le cellule del sistema immunitario del paziente a sferrare una forte risposta immunitaria contro il tumore.

“Per ora – spiega all’Ansa Ugur Sahin, ricercatore che ha condotto il lavoro – abbiamo ancora una evidenza clinica limitata, poiché abbiamo testato il vaccino su soli tre pazienti. Comunque questi sono rimasti stabili, il che significa che i loro tumori hanno smesso di crescere dopo la vaccinazione e per tutto il periodo di osservazione. Nel 2017 testeremo il vaccino su altri pazienti con diversi tipi di tumore”.

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Il segreto di questo vaccino sta, dunque, nella capsula di goccioline di grasso con cui viene veicolato. La capsula, infatti, iniettata endovena, raggiunge spontaneamente i distretti immunitari del corpo del paziente (milza, linfonodi, midollo osseo) e, una volta giunta a destinazione, viene ingoiata dalle cellule dendritiche che poi leggono le istruzioni in essa contenute – l’Rna – e le traducono in un “antigene tumorale specifico”, una “etichetta” molecolare che direziona le difese immunitarie in maniera mirata contro il tumore. La risposta immune scatenata è molto forte.

Il carattere di potenziale universalità del vaccino risiede nel fatto che l’Rna inserito nella capsula è intercambiabile a seconda del tumore, così da essere tradotto in un antigene tumore-specifico. Gli esperti hanno prima dimostrato l’efficacia del vaccino sui topi con diversi tipi di cancro; successivamente hanno iniziato i test sull’uomo, concentrandosi inizialmente sul melanoma. Il prossimo passo della ricerca, dunque, sarà modificare il cuore del vaccino con nuovi Rna antigenici e testarlo su pazienti con diversi tumori.

“La grande novità di questo lavoro – spiega Enrico Proietti, Direttore del reparto di applicazioni cliniche delle terapie biologiche dell’Istituto Superiore di Sanità – sta nel fatto che questi liposomi (gli involucri di grasso che racchiudono il vaccino) sono molto efficaci nell’indurre una forte risposta immunitaria, sia perché attivano l’interferone, sia perché raggiungono quasi tutti la milza, centro nevralgico delle reazioni immuni”. Potenzialmente, quindi, si tratta di un nuovo metodo di vaccinazione universalmente applicabile a diversi tumori (cambiando il contenuto della capsula a seconda del cancro), sottolinea Proietti. “Bisogna però essere cauti perché il dato clinico è al momento ancora troppo preliminare”.



www.ilfattoquotidiano.it/2016/06/01/tumori-il-primo-vaccino-universale-testato-su-tre-pazienti-in-germania-provoca-una-forte-risposta-immunitaria/...
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27/09/2016 11:45
 
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abuso di olio di palma (come l’abuso di ogni altro olio e grasso) può nuocere alla salute, ma l’olio di palma - se mantiene il suo contenuto di vitamina E e non ha subito processi industriali come quelli per uso alimentare - contiene anche sostanze che contrastano il cancro e combattono molte altre malattie. Lo dimostra uno studio dell’Università Statale di Milano in collaborazione con l’Università dell’Aquila, studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports - Nature Publishing Group.

Oggetto della ricerca degli scienziati milanesi e abruzzesi coordinati da Patrizia Limonta sono i tocotrienoli, derivati della vitamina E.

Gli scienziati hanno estratto questi composti, e in particolare il δdelta-TT, da olio di palma commerciale prodotto da un’azienda malese, la Golden Hope Biorganic (utilizzato in composti destinati a usi clinici e farmaceutici), e dai semi di un’altra pianta, l’annatto (nome scientifico: bixa orellana), che si usa in America Meridionale per alcune ricette di carne e come colorante industriale per alimenti. Ebbene, il delta-TT - contenuto a dire il vero anche in altri oli - ha mostrato capacità formidabili nel combattere i terribili melanomi della pelle. E non solamente.

La vitamina E ha una duplice natura in quanto è costituita da due classi di sostanze antiossidanti: i tocoferoli e i tocotrienoli. Gli studi, condotti in vitro e in vivo, hanno verificato con sorpresa che i tocotrienoli inducono il pericoloso melanoma a una specie di “suicidio”, cioè grazie al delta-TT le cellule cacerogene attivano la loro morte cellulare programmata (apoptosi) attraverso un meccanismo intracellulare noto come stress del reticolo endoplasmatico.

La controprova in vivo, condotta nei laboratori dell'Aquila, ha visto che il composto delta-TT rallenta in modo assai evidente la crescita del tumore e la progressione della malattia. Inoltre non altera la proliferazione di melanociti umani non tumorali e non induce effetti tossici. Inoltre i tocotrienoli riducono i rischi di malattie cardiovascolari e neurodegenerative (come l’Alzheimer).

«Questi dati - spiega l’Università Statale di Milano - dimostrano che l’olio di palma contiene sostanze protettive per la salute umana. I tocotrienoli estratti dall’olio di palma contengono il 50% di δdelta-TT e gamma-TT mentre i TT estratti dai semi di annatto contengono ben il 99% di delta-‐TT e solo
l'1% di gamma-TT».
Le ricerche sono state finanziate dalla Fondazione Banca del Monte di Lombardia e dal Comitato Emme Rouge per la lotta al melanoma.

© Riproduzione riserva


www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-09-23/ricerca-sostenza-contenuta-nell-olio-palma-e-non-solo-combatte-cancro-121540.shtml?uuid=...
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08/03/2017 17:07
 
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Tumori, lo studio italiano per impedire le metastasi bloccando la migrazione delle cellule tumorali nell’organismo
Tumori, lo studio italiano per impedire le metastasi bloccando la migrazione delle cellule tumorali nell’organismo
SCIENZA
La ricerca è stata condotta dall'istituto Ifom-Firc di Oncologia Molecolare di Milano in collaborazione con l'Università degli Studi Milano e pubblicata sulla rivista Nature Materials. Lo studio ha segnato un passo in avanti molto importante nella comprensione dei meccanismi di migrazione delle cellule tumorali grazie anche a un approccio multidisciplinare e integrato fra biologia e fisica dei materiali
di Emanuele Salvato | 7 marzo 2017
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Più informazioni su: Fuga dei Cervelli, Ilfattoquotidiano.it, Nature, Tumore
Bloccare la migrazione collettiva e coordinata delle cellule tumorali all’interno dell’organismo umano potrebbe essere la chiave per bloccare le metastasi, principale causa di morte da tumore. Un passo in avanti in questo senso l’ha fatto una ricerca italiana condotta dall’istituto Ifom-Firc di Oncologia Molecolare di Milano in collaborazione con l’Università degli Studi Milano e pubblicata sulla rivista Nature Materials. Lo studio ha segnato un passo in avanti molto importante nella comprensione dei meccanismi di migrazione delle cellule tumorali grazie anche a un approccio multidisciplinare e integrato fra biologia e fisica dei materiali. La ricerca è stata curata da Chiara Malinverno e Salvatore Corallino, come primi autori, Giorgio Scita, responsabile dell’Unità di ricerca presso Ifom e Roberto Cerbino, professore di fisica applicata all’Università degli Studi di Milano.

“Immaginiamo le cellule tumorali – spiega la giovane biologa Chiara Malinverno a ilfattoquotidiano.it – come tante persone ferme all’interno di una stanza di piccole dimensioni. Se queste si muovessero in modo disordinato e non coordinato non riuscirebbero a spostarsi da quello spazio, ma facendolo in maniera coordinata il loro movimento diventa fluido ed efficiente e riescono a migrare. La capacità delle cellule tumorali di migrare collettivamente e generar metastasi in altri tessuti dell’organismo dipende strettamente da fattori i densità e fluidità”. La ricerca ha evidenziato che la manipolazione di una proteina (RAB5A) – regolatore essenziale del processo di endocitosi preposto all’introduzione di sostanze all’interno della cellula – presente in elevate quantità nei tumori più aggressivi della mammella, risveglia masse cellulari tumorali inerti e permette, appunto, l’acquisizione di movimenti collettivi fluidi e scorrevoli in grado di generare metastasi.

“Con tecnologie di microscopia ottica ed elettronica – prosegue la dottoressa Malinverno – abbiamo potuto sorprendentemente osservare che un tessuto silente e immobile si sveglia in modo da generare nella massa cellulare delle correnti vorticose, rendendo il moto cellulare di nuovo fluido e scorrevole, ma allo stesso tempo coordinato”. Si tratta dello stesso identico meccanismo che può verificarsi in una massa tumorale quando origina metastasi: “Pur essendo solida e iperproliferante – prosegue Chiara Malinverno – questa massa tumorale, a seguito della stimolazione della RAB5A, può acquisire modalità fluide e spostarsi più agevolmente in spazi angusti. Immaginiamo di far passare un blocco di cemento in una fessura: sarebbe impossibile, a meno che questo blocco non diventi liquido e si muova in modo coordinato verso la fessura. Questo avviene nei tumori: più sono fluidi, più metastatizzano”.


La ricerca apre nuove prospettive nel campo della cura, soprattutto per quanto riguarda l’inibizione delle metastasi. Ma, seppur importante, si tratta, come ricorda al dottoressa Malinverno, di un tassello che va collocato in un mosaico ancora da riempire. “Si tratta di un primo passo – spiega Giorgio Scita – per definire strategie al fine di interferire con questo processo e, in ultima analisi, cercare di controllare la capacità di disseminazione dei tumori”. Una ricerca durata circa tre anni che ha visto la collaborazione con alcuni istituti spagnoli, svizzeri e asiatici, ma che dà lustro alla comunità scientifica italiana e ai tanti giovani ricercatori troppo spesso costretti ad andarsene dal loro paese per lavorare. “Anche io – conclude Chiara Malinverno – sono rimasta due anni negli Stati Uniti a fare ricerca e quel periodo è stato utilissimo per la mia formazione. Ma appena ho avuto la possibilità di lavorare in Italia l’ho colta al volo. L’Italia, dal punto di vista accademico, forma ricercatori e li prepara benissimo ed è un peccato che tanti di loro poi, vadano a spendere le loro competenze all’estero perché in Italia non c’è spazio. Tutti i ‘cervelli in fuga’ sono una ricchezza persa per il paese”.

www.ilfattoquotidiano.it/2017/03/07/tumori-lo-studio-italiano-per-impedire-le-metastasi-bloccando-la-migrazione-delle-cellule-tumorali-nellorganismo/...
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25/03/2017 20:19
 
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Le mutazioni del Dna che causano la malattia, in due casi su tre, dipendono dagli errori che le cellule normalmente fanno quando si replicano. Il dato è pubblicato su Science da un ricercatore italiano e uno americano. "E' ovvio che fumare aumenta il rischio. Ma dobbiamo riconoscere che molte alterazioni all'origine del cancro avverrebbero comunque, a prescindere dallo stile di vita"

di ELENA DUSI
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23 marzo 2017
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Tumori, la maggior parte è dovuta al caso
(ap)
Perché viene il cancro? Fumo e raggi del sole, d’accordo. Ma questo non spiega perché ad ammalarsi è anche chi fa vita sana. E paradossalmente alla domanda, posta in maniera così diretta, la scienza non si era mai sforzata di rispondere fino in fondo. Poi sono arrivati Bert Vogelstein e Cristian Tomasetti, rispettivamente genetista e biostatistico della Johns Hopkins University di Baltimora, che nel 2015 su Science (complice un comunicato stampa forse un po’ ardito) risposero con uno studio tradotto dalla stampa così: di cancro ci si ammala per caso e per sfortuna.

La valanga di polemiche travolse quello che in realtà era un messaggio importante, e che a leggere bene le carte non assolveva affatto fumo, raggi del sole e altri fattori di rischio legati agli stili di vita. A Vogelstein e Tomasetti di lasciare il discorso così in sospeso proprio non andava. Ecco perché oggi su Science i due ricercatori pubblicano la seconda puntata della loro ricerca, con una mole di dati tale da lasciare stavolta poco spazio alle polemiche.

Si sa che una cellula normale diventa tumorale quando nel suo Dna si accumulano almeno due-tre mutazioni che la fanno “impazzire”. Vogelstein e Tomasetti hanno calcolato oggi che ben due terzi di queste mutazioni dipendono da errori casuali, che le cellule normalmente fanno quando si dividono e replicano la loro doppia elica. “E che avverrebbero comunque, qualunque cosa facciamo. Anche andando a vivere su un pianeta senza raggi del sole e mangiando solo cose sanissime, queste mutazioni ci farebbero ammalare comunque” spiega Vogelstein, che alla Johns Hopkins è condirettore del Kimmel Cancer Center.

Dire che il 66% delle mutazioni sono casuali non vuol dire che il 66% dei casi di cancro è dovuto alla sfortuna e quindi non è prevenibile. “Facciamo un esempio” spiega Tomasetti. “Se una cellula del polmone è diventata cancerosa dopo aver subito tre mutazioni, e solo una di quelle mutazioni era causata dal fumo, vuol dire che quella malattia era prevenibile”. Nel complesso, lo studio di Science non si discosta da quella che è la stima elaborata negli anni da Cancer Research Uk, secondo cui il 42% dei casi di cancro può essere evitato grazie a stili di vita corretti. Questo vuol dire che solo in Italia ogni giorno più di 400 persone potrebbero dribblare la malattia, seguendo i consigli di prevenzione.

“Il paradigma tradizionale è che il cancro ha cause ereditarie, ambientali e legate agli stili di vita” spiega Tomasetti, italiano da 15 anni negli Usa. “Noi all’inizio volevamo quantificare il peso di ciascuna di queste cause. Per farlo avevamo bisogno di eliminare il cosiddetto rumore di fondo: i fattori legati al caso. Ma andando avanti con le nostre statistiche ci siamo accorti che il caso non era affatto un rumore di fondo. Giocava anzi un ruolo principe nel causare le mutazioni del Dna che a loro volta causano il cancro”.

Ogni volta che una cellula si divide, in ciascuno dei tessuti del nostro corpo, lascia nel Dna degli errori di copiatura. “Da tre a sei per ogni duplicazione” precisa Tomasetti. Queste “sviste” possono avvenire ovunque nella doppia elica. Spesso non hanno conseguenze, ma se toccano uno dei geni che promuovono il cancro e se si accumulano una dopo l’altra, possono far nascere la malattia. “Più alto è il numero di divisioni cellulari che avvengono in un tessuto”, aggiunge il ricercatore, “più alto è il rischio di ammalarsi. L’epitelio che riveste il colon, ad esempio, si rinnova completamente ogni 4 giorni. Idem per la pelle. Anche nel seno le replicazioni cellulari sono molto frequenti. Non a caso questi tessuti sono più colpiti dai tumori rispetto ad esempio al cervello, dove i neuroni non si dividono mai o quasi”.

I meri errori di copiatura rappresentano il 95% di tutte le mutazioni nei tumori di prostata, ossa e cervello (qui l'infografica di Science). Nel caso dei polmoni, invece, il ruolo della “sfortuna” scende al 35%. Il 65% delle alterazioni del Dna, nell’organo più esposto al fumo di sigaretta e all’inquinamento, resta attribuibile a fattori ambientali. “Fattori ambientali – spiega Vogelstein – che semplicemente si sommano a quelli casuali”, modificandone le proporzioni ma non i valori assoluti. "Nelle cellule tumorali di un non fumatore trovavamo in media cento mutazioni genetiche" spiega Tomasetti. "In quelle di un fumatore circa trecento. Questo non ci permette di dire che il fumo causa con certezza la malattia. Può darsi infatti che fra le cento mutazioni ce ne siano alcune che coinvolgono i geni promotori del cancro, o che questi geni siano risparmiati del tutto dalle trecento mutazioni. Ma di sicuro le sigarette aumentano il rischio". Mettendo insieme tutti i tipi di tumore (i ricercatori ne hanno studiati 32) si arriva al dato del 66% delle mutazioni dovute al caso, mentre il 5% è legato a fattori ereditari e il restante 29% è imputabile a stili di vita scorretti.

Perché avvengano questi errori di copiatura, è presto detto. "Le alterazioni del Dna sono il motore dell'evoluzione. E quindi possiamo dire che i tumori, della nostra evoluzione, sono un effetto collaterale" spiega Vogelstein. "Sapere che una malattia è dovuta al caso e sfugge al nostro controllo può essere disturbante. Ma questo non è un buon motivo per nascondere la realtà". Tomasetti racconta di aver ricevuto molte lettere, "soprattutto di genitori di bambini malati, che si dicevano sollevati dal senso di colpa perché la malattia non dipendeva da fattori ereditari o dall'esposizione involontaria a fattori di rischio ambientale".

Se il cancro è una guerra, come il presidente americano Richard Nixon suggerì nel 1971, per combatterla si possono usare due strategie. "Si possono difendere i confini per evitare gli attacchi dei nemici dall'esterno" spiega Vogelstein, riferendosi ai fattori di rischio ambientali o legati agli stili di vita. "O si possono imparare a riconoscere i nemici interni, che sono le mutazioni casuali. Per prevenirle oggi non abbiamo nessuna arma. Ma concentrandoci sulla diagnosi e sugli interventi precoci potremmo salvare molte vite lo stesso". Uno dei filoni di ricerca più nuovi, seguito alla Johns Hopkins ma non solo, "è quello delle biopsie liquide" spiega Tomasetti. La scommessa (per ora ancora in fase sperimentale) è quella di rintracciare nel sangue le tracce di Dna e altre minuscole molecole che un tumore lascia fin dalle prime fasi della sua formazione. Un semplice prelievo permetterà forse un giorno di combattere la sfortuna.


www.repubblica.it/salute/2017/03/23/news/tumori_la_maggior_parte_sono_dovuti_al_caso-161241128/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P4...
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12/07/2017 13:49
 
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12 Luglio 2017 - Ne avevamo parlato nei mesi scorsi, allorché il farmaco diede i primi incoragginanti risultati sperimentali. Oggi torniamo sull’argomento per evidenziare come l’Aifa abbia approvato il farmaco Keytruda (pembrolizumab) come “farmaco di prima linea”, cioè da usare come prima terapia in alcune neoplasie del polmone, incluse quelle inoperabili, per le quali fino ad ora esisteva solo la chemioterapia. Si tratta infatti di un nuovo anticorpo monoclonale, un “farmaco intelligente” che si è rivelato in grado di colpire e demolire il tumore del polmone fino ad oggi incurabile.

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L’effetto terapeutico è stato definito rivoluzionario, poiché per la prima volta in 40 anni un medicamento “biologico” si è rivelato arma efficace e selettiva, in grado di aggredire solo ed esclusivamente le cellule neoplastiche, potenziando il sistema immunitario del paziente ammalato e inducendolo a riconoscere e distruggere tutte le cellule maligne. Un primo importantissimo passo verso il futuro prossimo, che vedrà “l’immuno-oncologia” sostituire finalmente la classica chemioterapia.

E’ infatti il paradigma di aggressione del tumore a cambiare completamente: l’anticorpo monoclonale elimina solo le cellule tumorali, si lega unicamente alle cellule bersaglio per le quali è stato programmato, ed ha un meccanismo d’azione opposto rispetto a quello della chemio. Risveglia le difese naturali del nostro organismo, ovvero riattiva il sistema immunitario bloccato dal tumore, stimolandolo a riconoscere le cellule neoplastiche, ad attaccarle e indurle ad autodistruggersi. Riattivando i linfociti T, le cellule che normalmente sono presenti nel nostro sangue in difesa dalle malattie infiammatorie ed infettive (che la chemio distrugge), li induce a bloccare il recettore cellulare che fa crescere il tumore, il quale in breve tempo si riduce, smette di proliferare e le sue cellule in circolo vengono bersagliate una ad una, e muoiono “a cascata”, una dopo l’altra.

Gli anticorpi monoclonali si sono già dimostrati in grado non solo di curare, ma addirittura di guarire definitivamente molte neoplasie del sangue un tempo mortali (linfomi, mielomi e leucemie), e da circa 10 anni sono utilizzati anche per la cura dei tumori solidi. Con ottimi risultati per gli adenocarcinomi, come per esempio nella cura del terribile melanoma (tumore maligno della pelle) una volta letale al 90% ed oggi curabile anche nella sua fase più avanzata.

Il Pembrolizuman viene somministrato in infusione venosa in flebo, per circa 30 minuti ogni tre settimane, per circa sei mesi. Uno studio pubblicato sul Lancet Oncology ha testato 300 pazienti con tumore polmonare in fase molto avanzata, dimostrando che dopo oltre un anno il 70% dei malati dichiarati incurabili, trattati con l’anticorpo monoclonale, era vivo ed in buone condizioni, rispetto a circa il 40% di quelli trattati con la sola chemioterapia.

Al momento farmaco viene usato principalmente su particolari tipi di tumore polmonare, quelli con un carcinoma non a piccole cellule (NSCLC) e con alti livelli del recettore PD-L1, che inattiva i linfociti T, bloccando così la risposta del sistema immunitario contro il tumore. E’ inoltre in atto una sperimentazione su altri tipi istologici di neoplasia polmonare, ed anche sui carcinomi maligni di altri organi, come quelli del colon e del pancreas, con risposte che appaiono molto incoraggianti, addiruttura oltre le aspettative.

quifinanza.it/innovazione/arriva-anche-in-italia-il-farmaco-che-scioglie-il-tumore-ai-polmoni/130987/?re...

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Dallo studio del Bambin Gesù di Roma emergono importanti novità nella lotta alla leucemia pediatrica e ai tumori del sangue, grazie a una nuova tecnica di manipolazione di cellule staminali
di F. Q. | 26 luglio 2017
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Anche se il genitore non è compatibile, il trapianto di midollo è possibile e “con percentuali di guarigione sovrapponibili a quelle ottenute utilizzando un donatore perfettamente idoneo”. A spiegarlo è il nuovo studio condotto dall’équipe di ricercatori di Franco Locatelli, direttore del dipartimento di Oncoematologia e medicina trasfusionale al Bambino Gesù, che introduce importanti novità nella lotta alla leucemia pediatrica e ai tumori del sangue, grazie a una nuova tecnica di manipolazione di cellule staminali. Messa a punto dai ricercatori dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù, la tecnica è stata sviluppata con la più grande casistica al mondo nell’ospedale della Santa Sede su bambini con leucemie e tumori del sangue.

La procedura è stata applicata a 80 pazienti con leucemie acute resistenti ai trattamenti o con ricadute dopo i convenzionali trattamenti chemioterapici. I risultati mostrano che il rischio di mortalità da trapianto è straordinariamente basso (5%), quello di ricaduta di malattia è del 24% e la probabilità di cura definitiva è superiore al 70%, “un valore sovrapponibile (anzi lievemente migliore) a quello ottenuto nello stesso periodo in bambini leucemici trapiantati da un donatore, familiare o non consanguineo, perfettamente compatibile”. Risultati eccezionali, pubblicati su Blood, e rilanciati dalla Società americana di ematologia (Ash). Questa metodologia rivoluzionaria – messa a punto- era già stata applicata alle immunodeficienze e alle malattie genetiche (talassemie, anemie, ecc.). Il nuovo studio allarga le patologie trattabili alle leucemie e ai tumori del sangue.


Il trapianto di staminali del sangue rappresenta una terapia salvavita per molti bambini con leucemia o altri tumori del sangue, così come per i piccoli che nascono senza adeguate difese del sistema immunitario o con un’incapacità a formare adeguatamente i globuli rossi (malattia talassemica). Per anni l’unico donatore impiegato è stato un fratello o una sorella immunogeneticamente compatibile con il paziente. Ma la possibilità che due fratelli siano identici tra loro è solamente del 25%. Per ovviare a questa limitazione sono stati creati i Registri dei donatori volontari di midollo osseo che arruolano ormai più di 29 milioni di donatori e le Banche di raccolta e conservazione del sangue placentare, le quali rendono disponibili circa 700mila unità nel mondo.

Un 30-40% di pazienti non trova però un donatore idoneo o ha urgenza di essere avviato al trapianto prima di poter identificarlo al di fuori dell’ambito familiare. Proprio per rispondere a questa ‘urgenza’ terapeutica, negli ultimi 20 anni si è investito nell’utilizzo di uno dei due genitori come donatore di cellule staminali emopoietiche, immunogeneticamente compatibile per il 50% con il proprio figlio. Tuttavia l’utilizzo di queste cellule senza alcuna manipolazione rischia di causare gravi complicanze, potenzialmente fatali. Per questo motivo, fino a pochi anni fa, si utilizzava un metodo di ‘purificazione’ che garantiva una buona percentuale di successo del trapianto ma che si associava ad un elevato rischio infettivo, con un’elevata incidenza di mortalità.


Insomma, i trapianti da uno dei due genitori avevano una probabilità di successo significativamente inferiore a quella ottenibile impiegando come donatore un fratello o una sorella, o un estraneo compatibile. Il team del Bambino Gesù ha messo a punto una nuova tecnica di manipolazione delle staminali che permette di eliminare le cellule pericolose (linfociti T alfa/beta+), responsabili dello sviluppo di complicanze legate all’aggressione delle cellule del donatore sui tessuti del ricevente, lasciando però elevate quantità di cellule buone (linfociti T gamma/delta+, cellule natural killer), capaci di proteggere il bambino da infezioni severe e ricadute.

La stretta interazione tra ricerca clinica e ricerca di base ha permesso di capire che con il nuovo approccio di manipolazione selettiva dei tessuti da trapiantare, i pazienti possono beneficiare fin da subito dell’effetto positivo dei linfociti T gamma/delta+ e delle cellule natural killer del donatore. Inoltre, il rischio particolarmente basso di sviluppare complicanze a breve e lungo termine correlate al trapianto ottenuto grazie a questo nuovo approccio metodologico, “rende questa procedura un traguardo solo pochi anni fa impensabile e oggi una realtà potenzialmente applicabile a centinaia di altri bambini nel mondo”, spiegano dall’ospedale. Largo supporto alle attività di ricerca è stato dato da un grant finanziato da Airc (Associazione italiana per la ricerca sul cancro).

www.ilfattoquotidiano.it/2017/07/26/leucemia-il-trapianto-funziona-anche-se-il-midollo-del-genitore-e-incompatibile/...
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Un nuovo trattamento contro il linfoma non-Hodgkin ha ricevuto il via libera della Food and drug administration, l'organismo governativo americano che regolamento l'utilizzo e la certificazione delle procedure sanitarie. Si tratta di una terapia genica che, secondo gli esperti, è in grado di riconfigurare le cellule immunitarie del paziente, trasformandole in killer del cancro. Potrà essere applicata alle persone adulte che abbiano già affrontato senza successo almeno due trattamenti di chemioterapia contro la forma di neoplasia maligna del tessuto linfatico. Potenzialmente, negli Stati Uniti riguarderebbe circa 3.500 pazienti all'anno. I costi, però, sono ancora ingenti e si aggirano sopra ai 370mila dollari.

Il trattamento, chiamato Yescarta, è stato inizialmente studiato dal National cancer institute e poi sviluppato con la Kite Pharma che ha fornito i fondi per lo sviluppo e ne ha ottenuto ora i diritti di sfruttamento. Si tratta della seconda terapia genica autorizzata dalla Food and drug administration. Il primo, che si chiama Kymriah ed è
di proprietà della Novartis, è stato approvato ad agosto e riguarda i bambini o i giovani con forme aggressive di leucemia. Un ciclo di Kymriah costa 475.000 dollari ma Novartis ha promesso che sarà gratis per quei pazienti che non mostreranno miglioramenti entro un mese.

www.repubblica.it/salute/2017/10/19/news/dagli_usa_nuova_terapia_genica_contro_il_cancro_trasforma_linfociti_in_killer_del_tumore-178687265/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3...

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Tumori, ricerca italiana: il sistema immunitario blocca le cellule malate
Lo studio è stato pubblicato dalla rivista scientifica Nature dopo quattro anni di esperimenti dell'Irccs di Candiolo in collaborazione con l'università di Torino

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29 novembre 2017
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Tumori, ricerca italiana: il sistema immunitario blocca le cellule malate
QUATTRO anni di studi, ricerche, esperimenti. Il tutto per rendere le cellule tumorali visibili al sistema immunitario, che riesce così a bloccarne lo sviluppo. Ora i ricercatori dell'Irccs di Candiolo e dell'Università di Torino ce l'hanno fatta: il loro studio è stato infatti pubblicato - con il titolo "Inactivation of Dna repair triggers neoantigen generation and impairs tumour growth" - dalla rivista scientifica Nature.

"Il nostro è stato un approccio non convenzionale", spiega Alberto Bardelli, direttore del laboratorio di oncologia molecolare e docente del dipartimento di oncologia dell'Università di Torino che ha presentato lo studio con Giovanni Germano, ricercatore con esperienza in Immunologia. "Sappiamo - racconta Bardelli - che molti tipi di neoplasie riescono a mascherarsi e, eludendo i meccanismi di difesa, si diffondono nell'organismo. Ci siamo chiesti come affrontare questo problema partendo dalla cellula tumorale, per poi vederne gli effetti sul sistema immunitario. Abbiamo ipotizzato che inattivando il processo di riparazione del Dna di una cellula si inducessero nuove mutazioni, alcune di queste dette neoantigeni, riconoscibili come estranee e quindi attaccabili dal sistema immunitario".

Bardelli per fare un paragone facilmente comprensibile ha raccontato: "Abbiamo modificato un tumore, che possiamo paragonare a un velivolo stealth, e cioè invisibile, in uno che può essere individuato dai radar e intercettato dai nostri sistemi di sicurezza. Usando un'innovativa tecnologia genetica, abbiamo costretto cellule di tumori del colon e del pancreas ad uscire allo scoperto e a diventare un bersaglio da aggredire e neutralizzare per le cellule del sistema immunitario".

Mentre Germano ha parlato di "un lavoro complesso ma la posta in gioco era molto alta e gli esperimenti, sin dalle prime fasi, indicavano che stavamo percorrendo una strada mai intrapresa prima. Un lungo lavoro di squadra, con tante difficoltà, tra fallimenti sperimentali e conferme, ma che ci ha portato alla fine, in un freddo pomeriggio autunnale, a dire: era quello che avevamo ipotizzato".

Si tratta di un successo ottenuto in laboratorio "su linee cellulari trasferite poi su modelli animali fondamentali per avvalorare la nostra ipotesi. La strada per arrivare al letto dei pazienti è appena iniziata e il traguardo non imminente, ma si apre un nuovo percorso che potrà un giorno costringere tumori, capaci di nascondersi ai radar-controllori, a rendersi visibili e individuabili" per poter essere debellati.

Ma dove potrà portare questa scoperta? Per Bardelli "è presto per dirlo ma stiamo studiando se farmaci antitumorali, che come effetto collaterale causano danni al Dna, provocano la formazione di neoantigeni che possono risvegliare il sistema immunitario. Abbiamo già in mente potenziali candidati e stiamo lavorando anche con l'Istituto Nazionale dei Tumori, il Niguarda Cancer Center e l'Università di Milano per verificare la nostra ipotesi per futuri sviluppi clinici".

www.repubblica.it/salute/ricerca/2017/11/29/news/tumori_ricerca_dell_istiuto_candiolo_svela_cellule_al_sistema_immunitario_e_le_blocca-182543073/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P2...
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Il risultato, pubblicato su Nature, è del gruppo della Columbia University di New York guidato da Antonio Iavarone. I farmaci che bloccano il meccanismo molecolare che dà energia ai motori del tumore esistono già, anche se sono usati per altri obiettivi

di F. Q. | 3 gennaio 2018
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Una chiave per comprendere il meccanismo che alimenta tutti i tumori. È stata scoperta quella che può essere considerata la “droga” del cancro contro cui diventa ora possibile rivolgere molti farmaci già esistenti. Il risultato, pubblicato su Nature, è del gruppo della Columbia University di New York guidato da Antonio Iavarone. I farmaci che bloccano il meccanismo molecolare che dà energia ai motori del tumore esistono già, anche se sono usati per altri obiettivi. In Francia, ha detto all’Ansa Iavarone, si stanno già sperimentando su alcune forme di tumore. Tra gli autori della scoperta ci sono molti italiani: Anna Lasorella, Angelica Castano della Columbia, Stefano Pagnotta e Luciano Garofano e Luigi Cerulo, che lavorano fra la Columbia e l’università del Sannio, Michele Ceccarelli dell’Istituto Biogem di Ariano Irpino.

I primi indizi dell’esistenza del meccanismo indispensabile ai tumori per crescere e proliferare risalgono al 2012. Allora Iavarone e Lasorella avevano identificato una proteina che nasceva dalla fusione dei geni di due proteine chiamate FGFR e TACC e che agiva come una droga capace di scatenare il tumore e di alimentarlo. La nuova proteina di fusione, chiamata FGFR-TACC, era stata osservata in azione nel piu aggressivo tumore del cervello, il glioblastoma, e si sospettava che potesse essere comune a molte altre forme di tumore. A distanza di cinque anni è arrivata la conferma: “Ora sappiamo che questa fusione genica è frequente in tutte le forme di tumore”, ha detto Iavarone. Adesso è stato ricostruito il meccanismo che alimenta il ‘motore dei tumori’ e si sa che è legato al funzionamento delle centraline energetiche delle cellule, i mitocondri.

L’inizio di tutto è stato nel 2012, quando lo stesso gruppo di ricercatori l’aveva identificata – guadagnandosi la pubblicazione su Science – come causa del 3% dei casi di glioblastoma, tumore che colpisce persone di tutte le età (anche se è più frequente tra i 45 e i 70 anni) e non risparmia i bambini, finito più volte alla ribalta delle cronache negli States. Nel 2015 per la morte del figlio 46enne dell’ex vicepresidente Usa Joe Biden, e prima ancora per la scomparsa del senatore democratico Ted Kennedy nel 2009. Poi di nuovo sotto i riflettori a luglio 2017 per l’annuncio della malattia del senatore repubblicano John McCain. La chirurgia, seguita da radioterapia e chemio – spiegano gli esperti all’Adnkronos – non è ancora in grado di curare questo tipo di cancro che porta a morte la maggior parte dei pazienti in meno di due anni. Gli scienziati hanno ora scoperto che l’elemento cardine del meccanismo innescato dalla fusione dei due geni è l’aumento del numero e dell’attività dei mitocondri, organelli presenti all’interno della cellula che funzionano come centraline di produzione di energia. E ritengono che l’aggiunta di farmaci che interferiscono con la produzione di energia da parte dei mitocondri porterà “benefici importanti” per il trattamento personalizzato dei tumori sostenuti dalla fusione genica Fgfr3-Tacc3. Un passo avanti sulla strada della medicina “su misura”.

Secondo gli scienziati, dunque, la combinazione di farmaci che inibiscono l’attività mitocondriale e quella enzimatica di Fgfr3-Tacc3 potrebbe risultare utile nel trattamento dei tumori che contengono la fusione dei due geni. In studi precedenti i ricercatori della Columbia University avevano dimostrato che ‘farmaci bersaglio‘, che bloccano direttamente l’attività enzimatica della fusione genica, portavano a un aumento della sopravvivenza di topi affetti da glioblastoma. Per questo vengono attualmente testati in pazienti con il tumore cerebrale positivo per Fgfr3-Tacc3 in studi clinici diretti da uno dei co-autori dello studio pubblicato su Nature, Marc Sanson dell’ospedale Pitié Salpetriere a Parigi. “Farmaci che inibiscono enzimi di tipo chinasi sono stati usati in alcuni tipi di tumori con risultati incoraggianti – conclude Iavarone – Tuttavia, con il tempo il cancro diventa resistente a questi farmaci e progredisce. Ipotizziamo che si possano prevenire resistenza e recidiva tumorale attraverso una simultanea inibizione del metabolismo mitocondriale e di Fgfr3-Tacc3. E stiamo testando questa nuova ipotesi nei nostri laboratori della Columbia University“.



www.ilfattoquotidiano.it/2018/01/03/cancro-scoperta-la-fusione-di-due-geni-che-fa-crescere-e-proliferare-tutte-le-forme-di-tumore/...
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Le scoperte, pubblicate oggi su Nature Genetics e Nature Communications, sono dei ricercatori della Harvard University diretti dall’italiano Pier Paolo Pandolfi e dell’Institute of Oncology Research dell’università della Svizzera italiana di Bellinzona diretto da Andrea Alimonti

di AGNESE FERRARA
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15 gennaio 2018
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Tumore alla prostata: le metastasi si nutrono di grassi
UN'ALIMENTAZIONE ricca di grassi di derivazione animale è in grado di attivare le metastasi e, di fatto, rendere mortale il cancro. Se la correlazione statistica fra dieta e tumori è già stata più volte dimostrata, i ricercatori del Beth Israel Deaconess Medical Center (Bidmc) della Harvard Medical School di Boston, hanno scoperto i meccanismi molecolari con cui le cellule del cancro alla prostata avviano il processo di metastasi, ovvero si diffondono in altre parti del corpo. Identificati questi processi indotti dai grassi sono anche riusciti a bloccarli somministrando dei farmaci allo studio per combattere l’obesità. Per la prima volta quindi si riesce a intervenire sulla proliferazione tumorale. La scoperta è frutto di due ricerche pubblicate oggi su Nature Genetics e Nature Communications, e punta il dito sull’ambiente come fattore chiave in grado di interagire direttamente sui tumori rendendoli più aggressivi, oltre ai fattori genetici. Sempre su Nature Genetics di oggi un’altra indagine, condotta all’ Institute of Oncology Research dell’università della Svizzera italiana di Bellinzona conferma l’importanza dei grassi nello sviluppo del tumore alla prostata aggiungendo un ulteriore tassello alla scoperta.

“Il tumore alla prostata viene detto indolente da noi ricercatori perché cresce piano restando latente - spiega Pier Paolo Pandolfi, direttore del Cancer Center Institute al Bidmc, che ha diretto le scoperte - . La sua mortalità è calata del 40% negli Stati Uniti in questi ultimi 25 anni ma, se avvia le metastasi, diventa inevitabilmente fatale e la correlazione con il tipo di alimentazione era già stata ipotizzata tanto che la diffusione di questo tumore è molto più elevata negli Stati Uniti che in altre nazioni dove si assumono meno grassi di derivazione animale, come nei paesi asiatici, tipo il Giappone, dove l’incidenza è di circa il 10%. Quando però gli asiatici si trasferiscono negli Stati Uniti l’incidenza cresce al 40% avvicinandosi a quella di chi nasce qui”.

ARCHIVIO Il tumore alla prostata

Pandolfi precisa: “Sapevamo che il gene soppressore PTEN svolgeva un ruolo importante nella prevenzione del cancro alla prostata. La sua perdita parziale di attività infatti si riscontra nel 70% dei casi e, quando si perde del tutto, partono le metastasi ma le nostre osservazioni di laboratorio ci indicavano che non bastava l’assenza di questo gene a innescarle. Così abbiamo cercato di identificare altri geni coinvolti nel processo e abbiamo notato che un altro soppressore del tumore, il PML, tendeva ad essere presente nei tumori localizzati e non più in quelli già diffusi. Abbiamo visto che nel 20% dei tumori con metastasi erano carenti sia il gene soppressore PTEN che il PML. Abbiamo generato tumori senza PTEN a quelli senza PTEN e PML, questi ultimi erano molto più aggressivi e metastatizzavano. Inoltre abbiamo scoperto che le cellule senza PTEN e PML producono da sole grandi quantità di lipidi. Dunque, ci siamo detti, il grasso nei tumori senza PTEN e PML potrebbe essere alla base delle metastasi ed è sul ruolo del grasso nel favorire le metastasi che abbiamo concentrato le nostre ricerche”.

Gli scienziati avevano ancora un nodo da sciogliere: come mai nei topi di laboratorio il tumore alla prostata produce metastasi molto raramente? Da qui l’intuizione: se fosse l’alimentazione dei topi a proteggerli dall’aggressività del tumore? Afferma Pandolfi: “Ci siamo resi conto che i topolini di laboratorio mangiano essenzialmente vegetali. E’ una dieta quasi vegana di sicuro piu’ vicina alla dieta asiatica che alla “dieta McDonald’s”. Abbiamo quindi provato a introdurre nella loro dieta i grassi animali e, per la prima volta, sono comparse le metastasi anche in quei tumori indolenti, non metastatici, in cui manca la sola funzione del gene PTEN”.

Una volta ottenuto un modello di ricerca e individuati i meccanismi molecolari alla base del processo che avvia le metastasi gli scienziati hanno somministrato ai topi un farmaco attualmente in fase di studio per il trattamento dell’obesità, le fatostatine, che bloccano la sintesi dei grassi. Sorprendentemente, la molecola ha causato una profonda regressione del tumore così come la completa soppressione delle metastasi. “Alcuni dei farmaci anti-obesità, fatostatine o analoghi, agiscono bloccando la produzione dei lipidi, - precisa Pandolfi. – “Sono sostanze molto ben tollerate e stiamo organizzando ora i trials clinici sull’uomo”.

I ricercatori stanno anche cercando di capire quali siano nel dettaglio i lipidi cattivi che aumentano l’aggressività dei tumori, ma anche se ci siano lipidi buoni che possano avere un ruolo protettivo nella prevenzione dei tumori e nel bloccarne la loro progressione.

Sulla produzione esagerata di grasso da parte delle cellule metastatiche si sono concentrati anche i ricercatori dell’Institute of Oncology Research dell’università della Svizzera italiana diretti da Andrea Alimonti con una indagine pubblicata sempre su Nature Genetics di oggi. Il team svizzero, insieme a ricercatori spagnoli ed inglesi, ha scoperto infatti che anche mitocondri, che riforniscono di energia le cellule del tumore alla prostata, hanno bisogno soprattutto di grassi più che di glucosio, cioè zuccheri come si è creduto fino ad oggi. “Il metabolismo dei lipidi funziona da benzina per sostenere la macchina tumorale, - spiega Andrea Alimonti, - inibendo l’enzima mitocondriale PDC nelle cellule tumorali, il contenuto di lipidi cala drasticamente e le cellule maligne non proliferano più. Abbiamo perciò individuato una serie di molecole in grado di bloccare selettivamente questo
enzima senza danneggiare le cellule normali i diversi modelli sperimentali”. La scienza si concentra adesso su come affamare i tumori, levando loro la fonte primaria dell’energia e dello sviluppo, cioè i ‘grassi cattivi

www.repubblica.it/salute/ricerca/2018/01/15/news/tumore_alla_prostata_scoperto_il_meccanismo_che_provoca_le_metastasi_con_la_dieta_si_possono_bloccare-186541765/?ref=RHRS-BH-I0-C6-P11...
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Le scoperte, pubblicate oggi su Nature Genetics e Nature Communications, sono dei ricercatori della Harvard University diretti dall’italiano Pier Paolo Pandolfi e dell’Institute of Oncology Research dell’università della Svizzera italiana di Bellinzona diretto da Andrea Alimonti

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Tumore alla prostata: le metastasi si nutrono di grassi
UN'ALIMENTAZIONE ricca di grassi di derivazione animale è in grado di attivare le metastasi e, di fatto, rendere mortale il cancro. Se la correlazione statistica fra dieta e tumori è già stata più volte dimostrata, i ricercatori del Beth Israel Deaconess Medical Center (Bidmc) della Harvard Medical School di Boston, hanno scoperto i meccanismi molecolari con cui le cellule del cancro alla prostata avviano il processo di metastasi, ovvero si diffondono in altre parti del corpo. Identificati questi processi indotti dai grassi sono anche riusciti a bloccarli somministrando dei farmaci allo studio per combattere l’obesità. Per la prima volta quindi si riesce a intervenire sulla proliferazione tumorale. La scoperta è frutto di due ricerche pubblicate oggi su Nature Genetics e Nature Communications, e punta il dito sull’ambiente come fattore chiave in grado di interagire direttamente sui tumori rendendoli più aggressivi, oltre ai fattori genetici. Sempre su Nature Genetics di oggi un’altra indagine, condotta all’ Institute of Oncology Research dell’università della Svizzera italiana di Bellinzona conferma l’importanza dei grassi nello sviluppo del tumore alla prostata aggiungendo un ulteriore tassello alla scoperta.

“Il tumore alla prostata viene detto indolente da noi ricercatori perché cresce piano restando latente - spiega Pier Paolo Pandolfi, direttore del Cancer Center Institute al Bidmc, che ha diretto le scoperte - . La sua mortalità è calata del 40% negli Stati Uniti in questi ultimi 25 anni ma, se avvia le metastasi, diventa inevitabilmente fatale e la correlazione con il tipo di alimentazione era già stata ipotizzata tanto che la diffusione di questo tumore è molto più elevata negli Stati Uniti che in altre nazioni dove si assumono meno grassi di derivazione animale, come nei paesi asiatici, tipo il Giappone, dove l’incidenza è di circa il 10%. Quando però gli asiatici si trasferiscono negli Stati Uniti l’incidenza cresce al 40% avvicinandosi a quella di chi nasce qui”.

ARCHIVIO Il tumore alla prostata

Pandolfi precisa: “Sapevamo che il gene soppressore PTEN svolgeva un ruolo importante nella prevenzione del cancro alla prostata. La sua perdita parziale di attività infatti si riscontra nel 70% dei casi e, quando si perde del tutto, partono le metastasi ma le nostre osservazioni di laboratorio ci indicavano che non bastava l’assenza di questo gene a innescarle. Così abbiamo cercato di identificare altri geni coinvolti nel processo e abbiamo notato che un altro soppressore del tumore, il PML, tendeva ad essere presente nei tumori localizzati e non più in quelli già diffusi. Abbiamo visto che nel 20% dei tumori con metastasi erano carenti sia il gene soppressore PTEN che il PML. Abbiamo generato tumori senza PTEN a quelli senza PTEN e PML, questi ultimi erano molto più aggressivi e metastatizzavano. Inoltre abbiamo scoperto che le cellule senza PTEN e PML producono da sole grandi quantità di lipidi. Dunque, ci siamo detti, il grasso nei tumori senza PTEN e PML potrebbe essere alla base delle metastasi ed è sul ruolo del grasso nel favorire le metastasi che abbiamo concentrato le nostre ricerche”.

Gli scienziati avevano ancora un nodo da sciogliere: come mai nei topi di laboratorio il tumore alla prostata produce metastasi molto raramente? Da qui l’intuizione: se fosse l’alimentazione dei topi a proteggerli dall’aggressività del tumore? Afferma Pandolfi: “Ci siamo resi conto che i topolini di laboratorio mangiano essenzialmente vegetali. E’ una dieta quasi vegana di sicuro piu’ vicina alla dieta asiatica che alla “dieta McDonald’s”. Abbiamo quindi provato a introdurre nella loro dieta i grassi animali e, per la prima volta, sono comparse le metastasi anche in quei tumori indolenti, non metastatici, in cui manca la sola funzione del gene PTEN”.

Una volta ottenuto un modello di ricerca e individuati i meccanismi molecolari alla base del processo che avvia le metastasi gli scienziati hanno somministrato ai topi un farmaco attualmente in fase di studio per il trattamento dell’obesità, le fatostatine, che bloccano la sintesi dei grassi. Sorprendentemente, la molecola ha causato una profonda regressione del tumore così come la completa soppressione delle metastasi. “Alcuni dei farmaci anti-obesità, fatostatine o analoghi, agiscono bloccando la produzione dei lipidi, - precisa Pandolfi. – “Sono sostanze molto ben tollerate e stiamo organizzando ora i trials clinici sull’uomo”.

I ricercatori stanno anche cercando di capire quali siano nel dettaglio i lipidi cattivi che aumentano l’aggressività dei tumori, ma anche se ci siano lipidi buoni che possano avere un ruolo protettivo nella prevenzione dei tumori e nel bloccarne la loro progressione.

Sulla produzione esagerata di grasso da parte delle cellule metastatiche si sono concentrati anche i ricercatori dell’Institute of Oncology Research dell’università della Svizzera italiana diretti da Andrea Alimonti con una indagine pubblicata sempre su Nature Genetics di oggi. Il team svizzero, insieme a ricercatori spagnoli ed inglesi, ha scoperto infatti che anche mitocondri, che riforniscono di energia le cellule del tumore alla prostata, hanno bisogno soprattutto di grassi più che di glucosio, cioè zuccheri come si è creduto fino ad oggi. “Il metabolismo dei lipidi funziona da benzina per sostenere la macchina tumorale, - spiega Andrea Alimonti, - inibendo l’enzima mitocondriale PDC nelle cellule tumorali, il contenuto di lipidi cala drasticamente e le cellule maligne non proliferano più. Abbiamo perciò individuato una serie di molecole in grado di bloccare selettivamente questo
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’immunoterapia con linfociti riprogrammati comincia a dare risultati. Al Bambino Gesù di Roma trattato un piccolo di 4 anni, mentre dagli Usa arrivano i dati di efficacia a lungo termine su altri 75 pazienti

di LETIZIA GABAGLIO e TINA SIMONIELLO
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01 febbraio 2018
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Leucemia, il medico che ha salvato il bimbo: "Ora terapia genica anche per i tumori solidi"
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LA TECNOLOGIA CarT comincia a dare i suoi frutti. E sono risultati insperati per pazienti che fino a qualche mese fa non avevano possibilità di guarigione. Arrivano infatti oggi due notizie che confermano la validità di questo approccio avveniristico contro alcuni tumori del sangue: l'Ospedale Bambino Gesù di Roma annuncia di aver trattato il suo primo paziente, un bambino di 4 anni malato di leucemia linfoblastica acuta, mentre in contemporanea sul New England Journal of Medicine vengono pubblicati i risultati a più lungo termine della tecnologia su 75 pazienti affetti dalla stessa malattia, fra cui anche un bambino italiano.

. CAR-T
Sperimentata per la prima volta con successo nel 2012, negli Stati Uniti, questa tecnologia è ora allo studio in diverse sperimentazioni in tutto il mondo, alcune delle quali hanno portato pochi mesi la Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia del governo americano che si occupa di regolamentare i prodotti immessi nel mercato, ad approvare il primo farmaco a base di CAR-T sviluppato dall’industria farmaceutica.

Ma cosa sono le cellule CAR-T? Si tratta dei linfociti T degli stessi pazienti in cura, che una volta prelevati vengono modificati geneticamente in laboratorio utilizzando specifici virus che li forniscono di recettori diretti contro antigeni tumorali, e che di fatto ne potenziano sostanzialmente l’attività anticancro. Così rimaneggiate, le cellule T CAR (CAR sta per Chimeric antigen receptor) vengono re-infuse negli stessi pazienti da cui erano state prelevate.

. IL PRIMO PAZIENTE DEL BAMBINO GESU'
Il primo paziente trattato nell'Ospedale romano è un un bambino di 4 anni affetto da leucemia linfoblastica acuta, per il quale le terapie convenzionali non funzionano: aveva già avuto 2 ricadute della malattia, la prima dopo trattamento chemioterapico, la seconda dopo un trapianto di midollo osseo da donatore esterno. E' il primo paziente italiano curato con questo approccio rivoluzionario all’interno di uno studio accademico, promosso dal ministero della Salute, Regione Lazio e AIRC, ed eseguito all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. E oggi, a un mese dall’infusione delle cellule riprogrammate nei laboratori dell'ospedale romano, i medici che lo hanno in cura hanno reso noto che il piccolo paziente sta bene ed è stato dimesso: nel midollo non sono più presenti cellule leucemiche.
Leucemia, il medico che ha salvato il bimbo: "Ora terapia genica anche per i tumori solidi"

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"Per questo bambino – spiega Franco Locatelli, direttore del dipartimento di Onco-Ematologia Pediatrica, Terapia Cellulare e Genica del Bambin Gesù – non erano più disponibili altre terapie potenzialmente in grado di determinare una guarigione definitiva. Qualsiasi altro trattamento chemioterapico avrebbe avuto solo un’efficacia transitoria o addirittura un valore palliativo. Grazie all’infusione dei linfociti T modificati, invece, il bambino oggi sta bene ed è stato dimesso. È ancora troppo presto per avere la certezza della guarigione, ma il paziente è in remissione: non ha più cellule leucemiche nel midollo. Per noi è motivo di grande gioia, oltre che di fiducia e di soddisfazione per l’efficacia della terapia. Abbiamo già altri pazienti candidati a questo trattamento sperimentale".

. LA TECNICA ITALIANA
L’approccio adottato dai ricercatori del Bambino Gesù differisce parzialmente da quello nord-americano. Diversa è la piattaforma virale utilizzata per la trasduzione delle cellule, per realizzare cioè il percorso di modificazione genetica. Diversa è la sequenza genica realizzata, che prevede anche l’inserimento della Caspasi 9 Inducibile (iC9), una sorta di gene “suicida” attivabile in caso di eventi avversi, in grado di bloccare l’azione dei linfociti modificati. E’ la prima volta che questo sistema, adottato grazie alla collaborazione dell’Ospedale con Bellicum Pharmaceuticals, viene impiegato in una terapia genica a base di CAR-T: una misura ulteriore di sicurezza per fronteggiare i possibili effetti collaterali che possono derivare da queste terapie innovative.
Leucemia, per la prima volta in Italia bambino salvato dalla terapia genica

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Diversa, infine, è la natura della sperimentazione. L’infusione del primo paziente al Bambino Gesù, infatti, è il frutto di quasi tre anni di lavoro di ricerca pre-clinica all’interno di un trial di tipo accademico, non industriale. Il processo di manipolazione genetica e la produzione del costrutto originale realizzato per l’infusione – un vero e proprio farmaco biologico – avvengono interamente all’interno dell’Officina Farmaceutica (Cell Factory) del Bambino Gesù a San Paolo, autorizzata per quest’attività specifica dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA). Il processo di produzione dura 2 settimane, a cui vanno aggiunti circa 10 giorni per ottenere tutti i test indispensabili per garantire la sicurezza del farmaco biologico che si va ad infondere nel paziente per via endovenosa.

. USA: I RISULTATI SU 75 PERSONE
Lo studio pilota pubblicato oggi su New England Journal of Medicine si riferisce invece a 75 bambini e giovani adulti affetti da una forma di leucemia linfoblastica acuta ad alto rischio e ha dimostrato che le alte percentuali di remissione associate alla cura con tisagenlecleucel, il trattamento con CAR-T di Novartis approvato lo scorso agosto dalla FDA statunitense, possono portare a una remissione duratura e una sopravvivenza a lungo termine. Il tisagenlecleucel è il primo trattamento a base di cellule CAR-T approvato dall’FDA per la cura di pazienti pediatrici con leucemia linfoblastica acuta a cellule B resistente ai trattamenti tradizionali o recidivante. L’autorizzazione dell’ente di controllo statunitense venne accordata sulla base dei risultati di ELIANA, uno studio condotto in 25 ospedali di 11 paesi di tutto il mondo, tra cui l'Italia. "Nell'ambito di questa sperimentazione è stato trattato un bambino italiano già nel 2016", spiega Andrea Biondi, primario del reparto della Clinica pediatrica al San Gerardo di Monza, uno dei due centri italiani che hanno partecipato.


Lo studio pubblicato oggi, che fra gli autori vede anche Adriana Balduzzi proprio del San Gerardo, mostra che 61 dei pazienti trattati (cioè l’81%) hanno risposto al trattamento con una remissione completa dopo almeno tre mesi di follow-up. La sopravvivenza libera da recidive in questi 61 pazienti è stata dell'80% a sei mesi dal trattamento, e del 59% a 12 mesi. La sopravvivenza globale in tutti i 75 pazienti del 90% a sei mesi e del 76% a un anno.

LEGGI - Contro il linfoma più aggressivo speranze da un mix di farmaci

.UNA SOLA INFUSIONE
."Lo studio fornisce un'ulteriore prova di quanto questo trattamento può essere straordinario per i giovani pazienti sui quali tutti gli altri approcci hanno fallito", ha dichiarato l'autore principale dello studio, Shannon L. Maude, oncologa pediatra al Children's Hospital di Philadelphia e assistant professor di pediatria all'Università della Pennsylvania. "I nostri dati indicano che non solo possiamo ottenere una remissione duratura e una sopravvivenza a lungo termine per i nostri pazienti, ma che queste cellule personalizzate e antitumorali possono rimanere nell’organismo per mesi o anche anni, continuando a fare il loro lavoro efficacemente”. Tutti i pazienti arruolati hanno in effetti ricevuto una singola infusione di cellule CAR-T che, stando ai risultati, hanno dimostrato di continuare ad agire anche per 20 mesi.

.LE PROSPETTIVE
Molti sono gli studi che in questi mesi vengono condotti in tutto il mondo su questa tecnologia, e anche in Italia. Alla fine del 2017, oltre allo studio in corso al Bambino Gesù, l'AIFA ha approvato una sperimentazione accademica che vede uniti il San Gerardo e l'Ospedale Papa Giovanni XXXIII Bergamo: "si tratta di un trial su bambini e adulti che partirà a breve", dichiara Biondi. "Che in Italia ci siano due studi accademici che vogliono esplorare soluzioni nuove per questa potente tecnologia è motivo di soddisfazione per la ricerca e per i pazienti". L’Officina Farmaceutica del Bambino Gesù ha intanto completato la preparazione delle cellule per un adolescente affetto sempre da leucemia linfoblastica acuta, mentre è in corso la preparazione di CAR-T anche per una bambina affetta da neuroblastoma, il tumore solido più frequente dell’età pediatrica. "L’infusione di linfociti geneticamente modificati per essere reindirizzati con precisione verso il bersaglio tumorale rappresenta un approccio innovativo alla cura delle neoplasie e carico di prospettive incoraggianti. Certamente siamo in una fase ancora preliminare, che ci obbliga ad esprimerci con cautela", conclude Locatelli. "Ci conforta poter contribuire allo sviluppo di queste terapie anche nel nostro Paese e immaginare di avere a disposizione un’arma in più da adottare a vantaggio di quei pazienti che hanno fallito i trattamenti convenzionali o che per varie ragioni non possono avere accesso ad una procedura trapiantologica" .



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Messo a punto dalla Johns Hopkins University di Baltimora, combina l'analisi del Dna e proteine. Buoni i primi risultati sperimentali

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19 gennaio 2018
20,4mila
Nuovo test cerca 8 tumori nel sangue
DAL SANGUE sarà possibile diagnosticare precocemente le otto più comuni forme di tumore, sulla base di una nuovo test che combina l'analisi del Dna e delle proteine tumorali e ha un'affidabilità che varia dal 69 al 98% dei casi a seconda del tipo di cancro. Lo descrivono sulla rivista Science i ricercatori della Johns Hopkins University di Baltimora.

Il metodo, testato su mille persone già malate, è stato chiamato CancerSEEK. Il gruppo guidato da Joshua Cohen è riuscito a valutare le mutazioni di 16 geni tumorali, insieme ai livelli di 10 proteine circolanti nel sangue, per il cancro del seno, fegato, ovaie, polmone, stomaco, pancreas, esofago e colon retto. Lo hanno provato su malati a cui erano stati diagnosticati tumori di diversa gravità, e su 850 volontari sani. "Hanno cercato il Dna del tumore circolante nel sangue insieme ai livelli di alcune proteine, che possono essere indicative dello sviluppo del cancro", rileva Fabrizio d'Adda di Fagagna, ricercatore dell'Istituto Firc di Oncologia Molecolare (Ifom) di Milano.

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"Si tratta dunque di un test più completo e nuovo che potrà permettere una maggiore personalizzazione della terapia, adatta ai malati che hanno determinate caratteristiche genetiche", continua. A rendere ancora più affidabile l'esame è la probabilità bassissima che possa dare falsi positivi: nello studio sono stati solo 7 su più di 1000. In alcuni casi il test è riuscito a dare informazioni anche sull'origine del tessuto malato, cosa risultata sempre difficile in passato. Nello studio la diagnosi è stata fatta a persone con un tumore senza metastasi, sulla base dei sintomi. Il prossimo obiettivo sarà diagnosticare il cancro prima che compaiano i sintomi. Secondo i ricercatori il costo di questo esame del sangue per 8 tumori potrebbe essere di circa 400 euro, più o meno quanto costano i singoli test di screening per un solo cancro, come ad esempio la colonscopia.


www.repubblica.it/salute/ricerca/2018/01/19/news/pronto_nuovo_test_del_sangue_per_diagnosi_precoce_dei_tumori-186810468/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P6...
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Ottenuti ripiegando frammenti di Dna come origami hanno viaggiato nell’organismo e ucciso i tumori per fame, chiudendo i vasi sanguigni che li nutrono. La ricerca è stata pubblicata su Nature Biotechnology

di F. Q. | 12 febbraio 2018
14
2,6 mila
Più informazioni su: Cancro, Dna, Nature, Tumore
Poco più di un mese fa l’annuncio degli scienziati della Columbi University di aver trovato la chiave per comprendere il meccanismo che alimenta tutti i tumori. Oggi dall’altra parte del mondo arriva la notizia che è stato trovato un modo per “uccidere” quattro tipi di tumore affamandoli. I nanorobot, ottenuti ripiegando frammenti di Dna come origami, hanno viaggiato nell’organismo e ucciso i tumori per fame, chiudendo i vasi sanguigni che li nutrono. I primi test condotti su topi e maiali, nei quali sono state riprodotte le forme umane dei tumori di seno, ovaie, polmoni e pelle, sono positivi come si legge nell’articolo pubblicato sulla rivista Nature Biotechnology: la ricerca è stata condotta in Cina, nel Centro nazionale per le nanoscienze (Ncnst).

“Abbiamo sviluppato il primo sistema robotico fatto di Dna e completamente autonomo, programmato per una terapia anticancro”, ha detto uno degli autori dello studio, Hao Yan, dell’Università dell’Arizona. Mille volte più piccoli di un capello, i nanorobot fatti di Dna sono stati equipaggiati con un enzima che funziona come un’arma letale contro i tumori perché chiude loro i vasi sanguigni. I test hanno inoltre dimostrato che la tecnica non ha effetti collaterali.

I nanorobot sono foglietti di Dna delle dimensioni di 90 per 60 milionesimi di millimetro (nanometri), ripiegati su se stessi. Su di essi viene attaccato l’enzima trombina, che induce la formazione di coaguli che chiudono i vasi sanguini del tumore. Così confezionati, i nanorobot sono stati iniettati nei topi, hanno viaggiato nel sangue e hanno riconosciuto le cellule tumorali grazie a una molecola che si lega soltanto a queste. Arrivati a destinazione, i nanorobot hanno liberato l’enzima nel tumore come un cavallo di Troia.

www.ilfattoquotidiano.it/2018/02/12/cancro-nanorobot-efficaci-contro-quattro-tipi-di-tumore-primi-test-positivi/...
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Cancro ai polmoni, ecco come le fibre di amianto lo scatenano. “Speranze per una migliore diagnosi precoce”
Cancro ai polmoni, ecco come le fibre di amianto lo scatenano. “Speranze per una migliore diagnosi precoce”
Emanuela Felley-Bosco, del laboratorio di oncologia molecolare dell’Università di Zurigo, è autrice della ricerca, pubblicata sulla rivista Oncogene (Nature). “Sebbene l’associazione tra l’esposizione all’amianto e lo sviluppo del mesotelioma fosse conosciuta da oltre cinquant’anni, le prime tappe dello sviluppo dei tumori erano ancora un mistero" dice al fattoquotidiano.it

di Davide Patitucci | 11 marzo 2018
29
352
Più informazioni su: Amianto, Cancro, Ricerca, Ricerca Scientifica, Ricercatori, Tumore
Perché l’amianto è così pericoloso per la salute? Come fa a provocare il cancro ai polmoni? Una prima risposta arriva da uno studio svizzero coordinato da una ricercatrice italiana, Emanuela Felley-Bosco, del laboratorio di oncologia molecolare dell’Università di Zurigo. Secondo la ricerca, pubblicata sulla rivista Oncogene (Nature), tutto parte da un’infiammazione cronica, che porta poi al cancro. Finanziato dalla Fondazione nazionale svizzera per la scienza nell’ambito di un progetto che ha coinvolto gli ospedali universitari di Zurigo, Ginevra e Toronto, l’Università di Friburgo e il Politecnico federale di Zurigo, lo studio dimostra che l’amianto non causa direttamente il cancro ai polmoni. Passa, invece, attraverso un sottile strato di cellule che riveste gli organi interni, il mesotelio. Qui le fibre restano bloccate, l’organismo non riesce infatti a eliminarle a causa della loro forma e dimensione, e provocano micro-lesioni che scatenano una risposta immunitaria. S’innesca, così, nei polmoni un’operazione di riparazione dei tessuti danneggiati, che favorisce però la proliferazione cellulare e la formazione di masse tumorali, portando al mesotelioma, un tumore raro ma letale che rappresenta meno dell’1% di tutte le malattie oncologiche.

“Sebbene l’associazione tra l’esposizione all’amianto e lo sviluppo del mesotelioma fosse conosciuta da oltre cinquant’anni, le prime tappe dello sviluppo dei tumori erano ancora un mistero – spiega a Ilfattoquotidiano.it Emanuela Felley-Bosco -. Prendiamo l’esempio di una persona che inala delle fibre di amianto: queste passano dai polmoni nella cavità pleurica, una sorta di sacco che ricopre i polmoni. Il problema – spiega la coordinatrice dello studio – è che le fibre rimangono intrappolate in questa cavità a causa della loro forma e taglia. Nel nostro studio abbiamo messo in evidenza come questo accumulo crei un disequilibrio tra l’attivazione del sistema immunitario, che inibisce la crescita di cellule tumorali, e i segnali che promuovono la riparazione dei tessuti, la loro cicatrizzazione, che favoriscono invece la crescita delle cellule mutate. Probabilmente – chiarisce Felley-Bosco – ciò è legato all’esaurimento del sistema, a forza di continuare a ricevere segnali contraddittori. Abbiamo individuato nei topi – aggiunge la scienziata – alcune mutazioni dell’Rna (il braccio destro del Dna, ndr) che rendono più deboli le difese dell’organismo. E, dall’analisi di banche dati genetiche, abbiamo poi osservato che analoghe mutazioni sono presenti anche nell’uomo”.

Secondo un’indagine condotta negli anni scorsi dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), sono 107mila le persone che ogni anno perdono la vita per colpa dell’amianto. Poco più della metà, il 56%, è europea, nonostante nel Vecchio Continente risieda circa il 13% della popolazione del Pianeta. I tassi più alti di mortalità europea si registrano in Islanda con 25 decessi ogni 10 milioni di abitanti, in Italia sono, invece, 10. Ancora tante, troppe, secondo le indagini dell’Oms, le persone esposte all’amianto sul posto di lavoro: sono 125 milioni. Gli esperti stimano, infatti, che nel mondo siano ancora circa 2 milioni di tonnellate le fibre di amianto lavorate, soprattutto in Russia, Cina e Brasile.

Secondo gli autori, lo studio potrebbe aiutare a comprendere i meccanismi all’origine di altri tipi di cancro causati da infiammazioni croniche, come la colite ulcerosa, il morbo di Crohn e le infezioni allo stomaco da Helicobacter pylori. La ricerca oncologica, infatti, negli ultimi anni sta guardando con sempre maggiore attenzione alle potenzialità del sistema immunitario: è la nuova frontiera dell’immunoterapia, che mira ad addestrare le difese immunitarie contro il cancro. Questa strada in futuro potrebbe essere battuta anche contro il mesotelioma. Per Felley-Bosco, “una strategia mirata contro gli inibitori del sistema immunitario potrebbe, ad esempio, rappresentare un approccio promettente. La nostra speranza – conclude la studiosa – è che questi risultati possano essere utili per una migliore la prevenzione secondaria, cioè una diagnosi precoce che permetta d’intervenire in tempo contro il mesotelioma”.


www.nature.com/articles/s41388-018-0153-z


www.ilfattoquotidiano.it/2018/03/11/cancro-ai-polmoni-ecco-come-le-fibre-di-amianto-lo-scatenano-speranze-per-una-migliore-diagnosi-precoce/...
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Gli esperti riuniti per il Congresso Europeo delle Società di Oncologia Cervico-Facciale lanciano l’allarme sull’aumento dei tumori testa-collo e invitano a fare prevenzione diffondendo la vaccinazione HPV tra tutti gli adolescenti. Sotto accusa anche alcol e fumo

di IRMA D'ARIA
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09 aprile 2018
54
Boom di tumori oro-faringei, +250% di nuovi casi in 10 anni
Un aumento del 250% in 10 anni per un totale di 1.900 persone colpite nel 2017. E’ il dato impressionante relativo all’incremento dei carcinomi oro-faringei, quelli che si formano nella parte posteriore della gola e coinvolgono le tonsille o la base della lingua. Fanno parte dei tumori della testa-collo che sono in forte aumento sia in Italia che nel resto d’Europa: lo scorso anno si sono registrati, solo nel nostro Paese, 9.400 nuovi casi. I dati sono stati diffusi in occasione dell’apertura dell’ottavo Congresso Europeo delle Società di Oncologia Cervico-Facciale (ECHNO 2018). L’evento internazionale si svolge dall’11 al 14 aprile a Roma con la partecipazione di oltre 1.000 medici dal Vecchio Continente e anche provenienti da Iran, paesi Arabi e Nordafricani, India, Pakistan, Filippine, Singapore, USA e Australia.

LA VACCINAZIONE CONTRO L’HPV. Come mai questo aumento così importante dei tumori testa-collo? Secondo gli esperti, i motivi vanno ricercati, oltre che negli stili di vita errati, anche nelle infezioni da HPV ai quali sono attribuibili il 50% dei casi in Europa. Per questo gli specialisti hanno lanciato in occasione del Congresso l’appello affinché tutti gli adolescenti del Vecchio Continente, sia maschi sia femmine, si sottopongano alla vaccinazione contro il Papilloma virus. Se effettuata in entrambi i generi, infatti, questa profilassi medica può ridurre drasticamente i contagi e quindi anche il rischio oncologico.

I TUMORI TESTA-COLLO. Quelli della testa e del collo rappresentano ormai il 20% di tutti i tumori maschili. Sono un insieme di malattie molto varie perché possono nascere dai diversi tessuti e organi di questo distretto. “Quindi si tratta di neoplasie della pelle, naso, orecchio, tiroide, ghiandole salivari, collo, cavo orale, faringe e laringe - afferma Giuseppe Spriano, presidente del Congresso ECHNO 2018 e primario di Otorinolaringoiatria e Chirurgia Oncologica Cervico Facciale dell’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena di Roma. A causa di questa complessità la cura e l’assistenza ai pazienti richiede per forza il coinvolgimento di molte figure professionali fin dalle fasi della diagnosi: patologi, radiologi, medici nucleari, radioterapisti, oncologi medici e chirurghi otorinolaringoiatri".

I FATTORI DI RISCHIO. I tumori della testa e del collo nel 75% dei casi sono riconducibili all’abuso di alcol e al consumo di tabacco. Preoccupa in particolare il fumo che attualmente interessa il 26% dei cittadini europei. Il 59% di loro ha cercato di smettere tuttavia solo uno su cinque è riuscito effettivamente a perdere per sempre il vizio. Si stima che in Europa le sigarette provochino ogni anno costi diretti e indiretti per oltre 500 miliardi di euro. Riuscire a diminuire il numero di tabagisti ridurrebbe quindi anche le spese per i vari sistemi sanitari nazionali. Il consumo di alcol nel Vecchio Continente è invece diminuito negli ultimi 25 anni tuttavia, nello stesso periodo, i decessi attribuibili all'abuso sono aumentati del 4%. “Tra questi - sottolinea Spriano - ci sono anche le neoplasie del distretto cervico-facciale che nella comune percezione dei molti cittadini non sono riconducibili alle bevande alcoliche. Dobbiamo contrastare questi comportamenti pericolosi alla radice, intensificando le campagne informative rivolte ai giovanissimi”.

LE INNOVAZIONI TERAPEUTICHE. Il congresso di Roma riunisce i vari professionisti per discutere soprattutto delle principali innovazioni terapeutiche. “In campo chirurgico - prosegue Spriano - oggi grazie alla robotica possiamo eseguire interventi sempre meno “invasivi” e più rispettosi della integrità estetica e funzionale di questa delicata zona del corpo”. All’ECHNO 2018 di Roma molte sessioni sono interamente dedicate ai trattamenti medici a disposizione di specialisti e pazienti. “L’immunoterapia sta dimostrando di essere davvero efficace anche per i tumori della testa-collo - prosegue Spriano. Consiste nella somministrazione di farmaci in grado di consentire al nostro sistema immunitario di riconoscere le cellule tumorali e attaccarle, sbloccando l’attività di recettori che erano stati inibiti dal cancro. Nella diagnostica invece la prossima frontiera da esplorare è rappresentata dal ruolo della cosiddetta biopsia liquida. Questo innovativo test permette di rintracciare dei marcatori come i microRna, piccolissime molecole, la cui assenza o ricomparsa può indicare la assenza o la recidiva della malattia”.

VERSO IL CONGRESSO MONDIALE. Nelle settimane scorse l’assemblea generale tenutasi a New York della Federazione di tutte le Società di Oncologia Cervico-Facciale del pianeta ha nominato Giuseppe Spriano Presidente del Congresso Mondiale che si terrà nel 2022. “Sono onorato di aver ricevuto un così importante incarico - sottolinea Spriano. E’ una nuova dimostrazione del livello di assoluta eccellenza e prestigio che l’oncologia italiana ed europea gode in tutto il pianeta. Tuttavia molta strada resta ancora da percorre soprattutto per quanto riguarda la prevenzione primaria che è fondamentale per vincere la battaglia contro il cancro”.

www.repubblica.it/oncologia/news/2018/04/09/news/tumori_oro-faringei_250_di_nuovi_casi_in_10_anni-193419944/?ref=RHRS-BH-I0-C6-P22...
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Nell'ambito della settimana mondiale delle vaccinazioni, la presidente dell'Associazione Italiana di Oncologia Medica, Stefania Gori, spiega che si tratta di uno strumento prezioso anche per la prevenzione di alcuni tumori

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24 aprile 2018
143
Vaccinazioni, utili anche per la prevenzione dei tumori
Dal 24 al 30 aprile si celebra la settimana mondiale delle vaccinazioni (World Immunization Week) indetta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Si stima che le vaccinazioni salvino ogni anno circa 2-3 milioni di vite in tutto il pianeta, pari all’intera popolazione di una grande città. Troppe persone però non sono consapevoli del ruolo fondamentale svolto da queste misure di prevenzione primaria contro gravi malattie. Proprio per migliorare il livello di informazione dei cittadini, il tema della World Immunization Week quest’anno è "Protected Together, #VaccinesWork", con l’obiettivo di incoraggiare tutti i cittadini a impegnarsi di più per aumentare la copertura vaccinale. Le vaccinazioni sono uno degli strumenti più importanti anche per prevenire alcuni tipi di tumore. Ne parliamo con Stefania Gori, presidente AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica).

Presidente Gori, i virus possono causare i tumori?
Alcune neoplasie possono essere causate da infezioni virali. L’esempio più noto è il Papilloma virus umano (Human Papilloma Virus, HPV), che può provocare il cancro della cervice uterina, di testa e collo, della vulva, della vagina, del pene e dell’ano (quasi 4.400 casi di tumore ogni anno in Italia sono riconducibili all’HPV). Anche i virus dell’Epatite B e C sono associati allo sviluppo di epatite cronica, cirrosi e tumore primitivo del fegato (epatocarcinoma). Nel mondo il ruolo delle infezioni croniche è considerato responsabile del 16% di tutte le neoplasie. Per l’Europa questa stima è pari al 7%, simile a quanto evidenziato per l’Italia (8,5%). Nel nostro Paese è stato calcolato che, tra i tumori dovuti a agenti infettivi, l’Helicobacter pylori è causa del 42%, i virus dell’epatite B e C del 35%, l’HPV del 20%.

È possibile vaccinarsi contro alcuni di questi virus?
Esistono alcuni virus, contro cui è possibile vaccinarsi, in grado di manifestare gravi conseguenze dopo molti anni dall’insorgenza dell’infezione. Tra questi, il virus HBV (Hepatitis B Virus) che è causa dell’epatite B, la più comune infezione del fegato al mondo, e l’HPV. La vaccinazione contro l’epatite B riveste un ruolo importante nel prevenire l’insorgenza del tumore del fegato, che ha fatto registrare nel nostro Paese 13.000 casi nel 2017. La vaccinazione è una strategia efficace anche per prevenire i tumori causati dall’HPV. Si calcola che tre donne sessualmente attive su quattro contraggano nel corso della vita questo virus, che peraltro è pericoloso e può provocare l’insorgenza di tumori anche negli uomini.

In che modo la vaccinazione può cambiare l’evoluzione dei tumori causati dall’HPV nel prossimo futuro?
Negli ultimi anni stiamo assistendo a una crescente e ingiustificata ostilità verso le immunizzazioni che invece costituiscono strumenti fondamentali di prevenzione primaria. L’Italia è stato il primo Paese in Europa a stabilire la gratuità della vaccinazione anti-HPV e ad assicurarne, contestualmente, la commercializzazione e la rimborsabilità nell’ambito di un programma nazionale. Nel nostro Paese la vaccinazione per l’HPV è offerta gratuitamente e attivamente alle ragazze dodicenni in ogni Regione dal 2007-2008. Inoltre, tra le vaccinazioni previste nei nuovi Livelli Essenziali di Assistenza e nel Piano Nazionale Prevenzione Vaccinale 2017-2019, ora vi è anche quella contro l’HPV nei maschi nel dodicesimo anno di età. In questo Piano, il Ministero della Salute ha stabilito che, per quanto riguarda la vaccinazione anti-HPV, l’obiettivo è di arrivare entro il 2019 ad una copertura uguale o superiore al 95% sia nei maschi che nelle femmine.
Un’efficace combinazione tra metodiche di diagnosi precoce (Pap-test e determinazione molecolare di HPV) e vaccinazione anti-HPV da eseguire nelle adolescenti sarebbe in grado di eliminare completamente il tumore del collo dell’utero, ma nel nostro Paese siamo ancora lontani dal raggiungere questi risultati. Da un lato, è ancora insufficiente l’adesione al Pap-test: nel 2015 sono state invitate a eseguire l’esame poco più di 1 milione e 624mila italiane, ma ha aderito solo il 39,8%. Per la prima volta dal triennio 2008-2010 l’adesione è scesa, seppure di poco, sotto il 40%. Dall’altro lato, solo il 56% delle giovani nate nel 2003, il 72% delle nate nel 2000 e il 70% delle nate nel 1997 hanno effettuato il ciclo completo di vaccinazione. Stiamo dunque assistendo ad una preoccupante sottovalutazione di un’arma di prevenzione che invece potrebbe risparmiare ogni anno la sofferenza legata alla diagnosi di migliaia di tumori e altre patologie.

Qual è il vantaggio dell’estensione della vaccinazione anti-HPV ad entrambi i sessi, prevista dal Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale?
Esistono più di 120 tipi di HPV, che si differenziano a seconda del tessuto che colpiscono e per la gravità degli effetti. La maggior parte delle infezioni da HPV è transitoria, perché il virus viene limitato dal sistema immunitario prima che sviluppi un effetto patogeno. I virus HPV più importanti sono quattro, etichettati con numeri: 6, 11, 16 e 18. I primi due, a basso rischio, causano il 90% dei condilomi: lesioni estremamente contagiose e molto dolorose, che interessano gli organi genitali e altre mucose. Gli altri sono responsabili del 75% di tutti i tumori del collo dell’utero e di altre neoplasie come quelle della vulva, della vagina, dell’ano, del pene e di alcune zone della testa e del collo (lingua, tonsille e gola) che possono interessare anche gli uomini. L’estensione della vaccinazione anche agli uomini è quindi una decisione molto importante perché un terzo del totale delle infezioni si registra proprio nei maschi che hanno una probabilità 5 volte superiore rispetto alla donna di infettarsi e, spesso, non sono consapevoli di essere portatori del virus. Come stabilito nel Piano Nazionale Prevenzione Vaccinale 2017-2019 (approvato in Conferenza Stato-Regioni il 19 gennaio 2017 e pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 18 febbraio 2017), “il dodicesimo anno di vita è l’età preferibile per l’offerta attiva della vaccinazione anti-HPV a tutta la popolazione (femmine e maschi)”. È importante proteggersi al più presto, quindi prima di entrare in contatto con il virus, la cui principale via di trasmissione è quella sessuale. L’efficacia dell’immunizzazione è massima proprio nel periodo che precede l’inizio dei rapporti sessuali, perché l’organismo non è ancora venuto a contatto con il virus.

Cosa è possibile fare per migliorare il deficit di comunicazione nella popolazione e sensibilizzare ulteriormente alla prevenzione?
Il vaccino anti HPV è stato sperimentato negli anni su più di 25.000 adolescenti e donne, dimostrando un’ottima tollerabilità. E la sicurezza è stata valutata in numerosi studi dopo l’immissione in commercio, che hanno coinvolto oltre 200.000 persone. è necessario promuovere campagna nazionali di sensibilizzazione rivolte non solo ai cittadini ma anche ai clinici per abbattere le barriere culturali ancora presenti. Il vaccino rappresenta un vero e proprio strumento di prevenzione primaria contro i tumori. Per promuovere la cultura delle vaccinazioni, l’AIOM ha realizzato una campagna educazionale con la campionessa di tennis Flavia Pennetta come testimonial. Abbiamo realizzato un video con Flavia Pennetta diffuso in oltre 600 sale cinematografiche, in TV e sui canali social. La campagna dell’AIOM gode del sostegno della Federazione Italiana Medici Pediatri (FIMP), della Società Italiana Igiene Medicina Preventiva e Sanità Pubblica (SITI) e della Fondazione AIOM.



www.repubblica.it/oncologia/prevenzione/2018/04/24/news/vaccinazioni_utili_anche_per_la_prevenzione_dei_tumori-19...
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Tumore del fegato, quanto conta quello che mangiamoTumore del fegato, quanto conta quello che mangiamo
Secondo uno studio americano condotto su oltre 125mila persone e pubblicato su Jama Oncology, una dieta ricca di cereali integrali e fibre alimentari può ridurre il rischio anche di questa neoplasia

di SARA PERO
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11 marzo 2019
CEREALI integrali, fibre e crusca potrebbero ridurre il rischio di tumore del fegato? È questa la domanda alla quale ha cercato di rispondere uno studio osservazionale americano, appena pubblicato su Jama Oncology, dopo aver seguito le abitudini alimentari di oltre 125mila individui per 24 anni. E stando alle conclusioni della ricerca una dieta ricca di cereali integrali potrebbe essere d’aiuto nella prevenzione primaria di questa neoplasia, perché l’assunzione di questo tipo di alimenti potrebbe mitigare alcuni dei fattori che spianano la strada a questa malattia oncologica, come l’infiammazione e l’iperinsulinemia.

L’importanza della dieta
Per lo studio i ricercatori hanno analizzato caratteristiche e stili di vita di oltre 77 mila donne e 48 mila uomini di età media pari a 63 anni, come attività fisica, indice di massa corporea (BMI), abitudine al fumo, assunzione di alcool e diabete di tipo 2. E hanno focalizzato la loro attenzione in particolare sull’assunzione di alcuni alimenti come cereali, crusca, frutta e verdura, effettuando lungo tutta la durata della ricerca dei controlli ogni quattro anni. Di tutto il campione preso in esame, il carcinoma epatocellulare – la forma più comune di tumore del fegato – è stato riscontrato in 141 persone (70 donne e 71 uomini). In particolare quello che è emerso dalla ricerca è che un maggior apporto di cereali integrali potrebbe essere associato a un minor rischio di sviluppare questo tipo di tumore, associazione che invece i ricercatori non hanno osservato nel caso di una maggiore assunzione di frutta e verdura.

“L’associazione tra l’aumento dell’apporto di cereali integrali o fibre nella dieta alimentare e il minor rischio di sviluppare il carcinoma epatocellulare è un’informazione inaspettata e nuova – spiega Bruno Daniele, direttore dell'U.O.C. di Oncologia dell’Ospedale del Mare di Napoli -, che dovrà essere ulteriormente studiata per evidenziare un’effettiva relazione di causa ed effetto. Questo perché nello studio epidemiologico in questione non vengono presi in considerazione altri fattori di rischio, ad esempio l’incidenza dell’epatite B e C negli individui analizzati, dati che in un’analisi come questa potrebbero fornire informazioni importanti per capire quanto effettivamente pesi il consumo di questo tipo di alimenti nella prevenzione di tale neoplasia”. Per il carcinoma del colon “questa relazione è stata in parte già indagata in diversi studi epidemiologici – aggiunge l'esperto – ed è abbastanza ragionevole se pensiamo al fatto che il consumo di fibre determini una maggiore velocità del transito intestinale e quindi un minor contatto delle eventuali sostanze cancerogene presenti nei cibi con l’intestino.

Sindrome metabolica e cancro
Quello che si può certamente dire nel caso dell’epatocarcinoma è che lo stile di vita alimentare non deve essere sottovalutato perché, spiega Daniele, “fattori come l’obesità, ma anche il sovrappeso e il colesterolo alto possono aumentare il rischio di accumulo di grasso nel fegato, portando molti pazienti a soffrire di steatosi epatica e in alcuni casi steatoepatite, la forma più grave, che è riconosciuta come uno dei principali fattori di rischio dell’epatocarcinoma”.

Inoltre, sebbene sia ormai noto che l’obesità è associata all’aumento di incidenza di diverse malattie oncologiche, “nel caso dell’epatocarcinoma questo fattore di rischio così come la sindrome metabolica (cioè l’associazione di obesità, diabete e ipercolesterolemia, ndr.) stanno diventando sempre più importanti”, aggiunge Daniele, che conclude: “Mentre un paziente affetto da epatite è riconosciuto formalmente come paziente a rischio di carcinoma del fegato ed è quindi soggetto a una sorveglianza periodica dell’organo, in molti casi i pazienti obesi o diabetici sfuggono a questi controlli e la diagnosi del tumore al fegato avviene più tardivamente”.



www.repubblica.it/oncologia/prevenzione/2019/03/11/news/tumore_del_fegato_quanto_conta_quello_che_mangiamo-221236892/?ref=RHRS-BH-I0-C6-P15...
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È la conclusione di uno studio italiano su Nature Genetics. L'importanza dell'ambiente esterno alla cellula

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20 maggio 2019
No, di cancro non ci si ammala per sfortuna
ROMA - Alcuni studi sull'argomento avevano fatto discutere. Ci si ammala di alcuni tumori per sfortuna? Secondo autorevoli studi pubblicati nel 2015, 2016 e 2017 la risposta era sì. Ma ora un ulteriore lavoro ribalta il tutto di nuovo.

"Non ci si ammala di cancro per caso o per sfortuna", è difatti la conclusione alla quale è arrivato un gruppo di scienziati dell'Istituto Europeo di Oncologia, che ha pubblicato i risultati del lavoro sulla rivista Nature Genetics. I ricercatori, guidati da Piergiuseppe Pelicci, Direttore della Ricerca IEO e Professore di Patologia Generale all'Università di Milano, e Gaetano Ivan Dellino, ricercatore IEO e di Patologia Generale dell'Università di Milano, in collaborazione con il gruppo diretto da Mario Nicodemi, professore all'Università di Napoli Federico II, hanno scoperto che una delle alterazioni geniche più frequenti e importanti per lo sviluppo del cancro, le "traslocazioni cromosomiche", non avvengono casualmente nel genoma, ma sono prevedibili e sono provocate dall'ambiente esterno alla cellula.

"Nel corso della vita, un uomo su 2 e una donna su 3 si ammalano di cancro - spiega Pelicci - Perché? Un tumore si sviluppa quando una singola cellula accumula 6 o 7 alterazioni del Dna a carico di particolari geni: i geni del cancro. La domanda diventa quindi cosa causa quelle alterazioni. La ricerca di una risposta ha creato due scuole di pensiero: una che identifica la causa principale nell'ambiente in cui viviamo e nel nostro stile di vita, e l'altra che ne attribuisce l'origine alla casualità e dunque, in ultima analisi, alla sfortuna".

I tumori contengono due tipi di alterazioni a carico dei cosiddetti geni del cancro (oncogeni): le mutazioni, che causano piccoli cambiamenti della struttura di un gene, e le traslocazioni cromosomiche, che causano addirittura la fusione di due geni. La rivista Science ha recentemente pubblicato tre lavori (nel 2016, 2017 e 2018) firmati da Bert Vogelstein, uno degli scienziati contemporanei più autorevoli, che dimostrano in maniera inequivocabile che due terzi delle mutazioni trovate nei tumori si forma durante la normale vita dei nostri tessuti, quando le cellule duplicano il proprio DNA per moltiplicarsi. Siccome queste mutazioni sono considerate inevitabili, perché dovute a errori casuali, Vogelstein ha dovuto concludere che le stesse avverrebbero in ogni caso, anche se il nostro fosse un pianeta perfetto, e i nostri stili di vita irreprensibili. Quindi non possiamo fare nulla per evitare di ammalarci di cancro, e possiamo solo sperare che non tocchi a noi, contando sulla fortuna.

Tre lavori pubblicati da Science, scientificamente solidi, hanno stimolato un grande dibattito sia nella comunità scientifica che nella società, finendo sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Se la maggioranza delle mutazioni che causano il cancro sono casuali, quanti e quali sono i tumori che possiamo evitare? Qualsiasi sia la risposta, la possibilità di determinare la nostra salute mediante le nostre scelte ne esce compromessa. In particolare, quanto è ancora importante la prevenzione dei tumori dopo la pubblicazione di questi lavori?

"Nel numero di oggi della rivista scientifica Nature Genetics - dice Dellino - pubblichiamo un lavoro che mette in discussione la casualità delle traslocazioni cromosomiche, uno dei due tipi di alterazioni geniche trovate nei tumori. Le traslocazioni sono la conseguenza di un particolare tipo di danno a carico del Dna, ossia la rottura della doppia elica. Come per le mutazioni, pensavamo che questo tipo di danno avvenisse casualmente nel genoma, ad esempio durante la divisione cellulare, come ipotizzato da Vogelstein. Al contrario, studiando le cellule normali e tumorali del seno, abbiamo scoperto che né il danno al DNA né le traslocazioni avvengono casualmente nel genoma. Il danno avviene all'interno di geni con particolari caratteristiche ed in momenti precisi della loro attività. Si tratta di geni più lunghi della media e che, pur essendo spenti (non stanno cioè producendo le molecole che trasferiscono la loro informazione: l'Rna), sono perfettamente attrezzati per accendersi (hanno cioè tutte le molecole necessarie, ma sono in pausa). La rottura del Dna avviene nel momento in cui arriva un segnale che li fa accendere, ed è indispensabile perché possano "srotolarsi" e produrre l'RNA. Studiando queste caratteristiche, possiamo prevedere quali geni si romperanno e quali no, con una precisione superiore all'85%.

Tuttavia, non tutti i geni che normalmente si rompono daranno poi origine a traslocazioni (cioè alla fusione di due geni rotti), ma solo una piccola parte di essi, cioè quelli che sono più frequentemente a stretto contatto tra loro per coordinare la loro attività di accensione o spegnimento, all'interno di strutture particolarmente "appiccicose" del genoma (i cosiddetti Domini di Associazione Topologica). La questione centrale, che cambia la prospettiva della casualità del cancro, è che l'attività di quei geni è controllata da segnali specifici che provengono dall'ambiente nel quale si trovano le nostre cellule, e che a sua volta è influenzato dall'ambiente in cui viviamo e dai nostri comportamenti (per esempio dall'apporto di energia, dal tipo di microbi con cui conviviamo, dalle sostanze che ingeriamo, ecc.), non certo dalla sfortuna".

"Questa scoperta - continua Pelicci - ci insegna che la sfortuna non svolge alcun ruolo nella genesi delle traslocazioni e che, di conseguenza, non esiste base scientifica che ci autorizzi a sperare nella fortuna per evitare di ammalarci di tumore. Anzi, abbiamo ora un motivo scientifico in più per non allentare la presa sulla prevenzione dei tumori: nei nostri stili di vita, nel tipo di mondo che pretendiamo, nei programmi di salute che vogliamo dal nostro servizio sanitario. Anche nel tipo di ricerca scientifica che vogliamo promuovere: ad oggi, i fondi per la ricerca in prevenzione sono solo il 5-10% del finanziamento totale alla ricerca sul cancro. Inoltre, abbiamo aperto una finestra sul meccanismo molecolare che è alla base di una delle alterazioni che causa il cancro, le traslocazioni, e che forse potremo usare in futuro come marcatore per identificare il rischio di sviluppare la malattia, o come bersaglio per disegnare farmaci che aiutino a prevenire il cancro. Per ora non abbiamo capito quale sia esattamente il segnale che induce la formazione delle traslocazioni, ma abbiamo capito che proviene dall'ambiente, pur ignorando ancora luoghi e circostanze. È possibile, infine, che il medesimo meccanismo, o uno simile, possa essere anche alla base delle mutazioni studiate da Vogelstein. Ci stiamo lavorando".

A oggi conosciamo con certezza alcuni dei fattori ambientali che causano il cancro: fumo, alcol, obesità, inattività fisica, eccessiva esposizione al sole, una dieta ad alto contenuto in zuccheri e carni rosse o processate, e a basso contenuto di frutta, legumi e vegetali. La comunità scientifica concorda sul fatto che se tutti questi fattori fossero eliminati - e ciascuno è eliminabile - potremmo prevenire il 40% dei tumori. Conosciamo inoltre alcuni virus e batteri che causano cancro: il virus Hpv causa il cancro della cervice e della faringe, il virus Hbv quello del fegato, il batterio Helicobacter pylori quello dello stomaco. La vaccinazione contro quei virus e l'uso degli antibiotici contro quel batterio hanno dato risultati straordinari nella riduzione dell'incidenza dei tumori, e hanno il potenziale di evitare, da soli, il 15% dei tumori nel mondo. Anche l'esposizione ad agenti inquinanti ambientali, occupazionali o industriali è causa di una frazione dei tumori. Purtroppo, però, a parte alcune eccezioni, come ad esempio l'amianto, non abbiamo ancora ben capito quali siano esattamente e quanto incidano.

"Un pianeta più pulito, e ambienti di lavoro più sani, intuibilmente, non possono che farci bene - conclude Pelicci- e, per quanto oggi sappiamo, ciascuno di noi può scegliere se prevenire il 40% dei tumori, con pochi e precisi cambiamenti del modo in cui viviamo. La comunità scientifica lavorerà sul restante 60%. A patto che ci siano fondi sufficienti per la ricerca".


www.repubblica.it/salute/medicina-e-ricerca/2019/05/20/news/di_cancro_ci_si_ammala_per_sfortuna_un_nuovo_lavoro_ribalta_la_tesi-226739681/?ref=RHPPLF-BH-I226750522-C4-P8...
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Tumore del pancreas: colpire la mutazione Jolie per rallentare la malattia
La mutazione resa famosa da Angelina è responsabile anche di molte neoplasie del pancreas. La terapia mirata contro questa anomalia genetica, usata anche per il seno e l’ovaio, offre nuove speranze

di Letizia Gabaglio
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01 giugno 2019
Tumore del pancreas: colpire la mutazione Jolie per rallentare la malattia
LA MUTAZIONE killer famosa perché coinvolta nei tumori del seno e dell’ovaio è responsabile anche di molti tumori del pancreas. Può quindi un farmaco che colpisce l’alterazione del gene Jolie, così come è spesso chiamato BRCA, essere usato anche nel trattamento del tumore del pancreas? Da Chicago, dove si sta svolgendo il congresso della Società americana di Oncologia Clinica, arrivano notizie positive: rispetto al placebo, la terapia di mantenimento con olaparib riduce del 47% il rischio di progressione della malattia. Sebbene non si tratti di dati di sopravvivenza, i risultati presentati a Chicago sono significativi perché "l’attuale standard di terapia nella malattia metastatica offre una mediana di sopravvivenza libera da progressione di malattia di soli 6 mesi", spiega Giampaolo Tortora, ordinario di Oncologia Medica all’Università Cattolica di Roma, direttore del Comprehensive Cancer della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e coautore dello studio POLO. "Fino a oggi, nessun trattamento di mantenimento nel tumore del pancreas aveva migliorato la sopravvivenza libera da progressione. POLO è quindi il primo studio che, nei tumori del pancreas, stabilisce un vantaggio con un nuovo farmaco biologico sulla base di una mutazione genetica-molecolare".
Lo studio
Lo studio POLO ha preso in considerazione pazienti in stadio avanzato di malattia precedentemente trattati con chemioterapia: dopo due anni di trattamento con olaparib il 22,1% non mostrava segni di progressione della malattia rispetto al 9,6% dei pazienti che avevano ricevuto placebo. Olaparib è una terapia target che blocca gli enzimi PARP, fondamentali per la riparazione del DNA, processo che nelle persone con mutazione BRCA risulta alterato.
“POLO è il primo studio randomizzato di fase 3 che stabilisce una strategia di trattamento del tumore metastatico del pancreas che si basa su un biomarcatore, e apre la porta a una nuova era di personalizzazione di questo tumore così difficile da trattare”, ha commentato Hedy L. Kindler, University of Chicago Medicine, autore dello studio.

Inoltre, si stanno, studiando altre alterazioni molecolari in piccoli sottogruppi di pazienti. "Si apre così, finalmente anche in questa malattia, una strada già percorsa con successo in altri tipi di
neoplasie come quelle del polmone, mammella, colon e melanoma, in cui i pazienti ricevono terapie in base alle rispettive mutazioni nel profilo genico-molecolare del tumore”, dice Tortora. Nel 2018, in Italia, sono stati stimati 13.300 nuovi casi di tumore del pancreas, con una sopravvivenza a 5 anni pari all’8,1%.


www.repubblica.it/oncologia/news/2019/06/01/news/tumore_del_pancreas_colpire_la_mutazione_jolie_per_rallentare_la_malattia-227760656/?ref=RHPPLF-BH-I227802277-C8-P8...
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